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2012 Alzheimer Caffè: la ricchezza di una esperienza
2012
Alzheimer Caffè:
la ricchezza
di una
esperienza
2012
Alzheimer Caffè:
la ricchezza
di una
esperienza
Il volume è stato redatto da
Marco Trabucchi
Professore ordinario presso il
Dipartimento di Medicina dei Sistemi
dell’Università Tor Vergata.
Direttore scientifico del Gruppo di Ricerca
Geriatrica di Brescia.
I capitoli 2 e 3 sono stati curati da
Stefania Amico
Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia
Il Gruppo di Ricerca Geriatrica (GRG) è
una libera associazione con personalità
giuridica senza fini di lucro costituitasi
il 27 luglio 1988. Nasce dall’intenzione
di alcuni laureati, operanti da tempo
nell’area della gerontologia e della
geriatria, di dare impulso a studi,
ricerche ed attività rivolte ai problemi
epidemiologici, clinici e socioassistenziali nella terza età.
Sommario
Introduzione
La demenza:
un futuro di speranza?
pag. 07
Capitolo 1
L’organizzazione dei servizi per le
persone affette da deficit cognitivo
pag. 19
Capitolo 2
L’Alzheimer Caffè
Prospettive di lavoro: dimensioni,
organizzazione, operatori,
programmi e costi
pag. 39
Capitolo 3
L’Alzheimer Caffè
Benefici per la persona affetta da
demenza e la sua famiglia
pag. 57
Capitolo 4
Un modello di servizio a basso
costo e ad elevata utilità sociale
pag. 67
Conclusioni 6
Per una sussidiarietà
frugale
pag. 83
pagine 2_3
introduzione
Maurizio
Carrara
Presidente
UniCredit
Foundation
N
ello scenario attuale la fragilità sociale si fa più vicina, le problematiche
legate all’inclusione e alla partecipazione nel territorio non sono più
esclusive delle aree in via di sviluppo, ma toccano direttamente le nostre
comunità. A causa del disgregarsi dei vecchi modelli assistenziali, infatti,
emergono nuovi gruppi a rischio di esclusione, fra i quali gli anziani.
Coniugando le esigenze reali a modelli teorici di successo, UniCredit
Foundation ha promosso varie formule di intervento, al fine di accompagnare
la persona anziana nella quotidianità e creare le premesse per una migliore
qualità di vita. Per questo motivo, l’impegno della Fondazione pone al centro
i bisogni concreti della Terza Età, quali la disponibilità di cure adeguate per
le cosiddette malattie della longevità e la creazione di reti di servizio per
l’anziano e la sua famiglia.
La pubblicazione “Alzheimer Caffè: la ricchezza di una esperienza” è l’esito
di un percorso biennale, dedicato allo sviluppo e alla diffusione di spazi
terapeutici innovativi – gli Alzheimer Caffè - basati sull’incontro e lo scambio
di esperienze tra le persone affette dalla patologia, familiari ed esperti.
Oltre a garantire un sostegno socio-economico ad alcuni dei centri già
operativi, il progetto ha supportato l’attività del Gruppo di Ricerca Geriatrica
di Brescia, coordinato dal professor Marco Trabucchi, nella definizione delle
linee-guida per la costituzione di Alzheimer Caffè. Oggi, questo modello è
disponibile per gli enti locali e le associazioni di volontariato che intendono
replicare le best-practice a livello locale.
La lettura di questo testo, che raccoglie esperienze dirette tratte dal
territorio, offre spunti concreti su come attivare forme di auto-aiuto efficaci a
partire da un impegno generoso e volontario.
Buona lettura,
Maurizio Carrara
Presidente UniCredit Foundation
Lo scenario
10
Le ricerche e il futuro
14
Lo studio sugli Alzheimer Caffè
15
Introduzione
La demenza:
un futuro di speranza?
pagine 7_7
alzheimer caffÈ:
la ricchezza di una esperienza
INTRODUZIONE
La demenza:
un futuro di speranza?
ALZHEIMER
“È dolcissima” dicevi
Sfidando la nostra incredulità
Della compagna di una vita
Che supina nel suo giaciglio
Volgeva lenta alla meta
Del suo impenetrabile esilio.
Poi, lei avviata all’eternità,
Al sommesso: “È la fine di un calvario”
Rispondevi: “Non è che l’inizio”.
Anche tu, ora,
Condividi quell’amaro destino
Ricurvo su una sedia addossata al muro,
Come a proteggere il tuo scrigno
Di glorie esibite e ripudiate miserie
Affondate nell’insondabile mistero
Di un incessante presente
Di cui non conservi memorie
Né più coltivi progetti.
Eppure ...
Ancora un profilo amico
T’illumina di un disarmante sorriso
E la carezza di amorevoli parole
Intessute del pane dei ricordi
Risveglia l’eco di perdute emozioni
A inumidirti l’occhio e farti dire,
Scompaginando le nostre certezze,
“Grazie per una giornata diversa”.
Amaro destino
INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
Abbiamo scelto di iniziare questa pubblicazione su nuove modalità per aiutare
la vita delle persone affette da demenza e delle loro famiglie con la poesia di
Alceo Gianani, perché nella parte conclusiva del testo la persona ammalata
inaspettatamente esprime un sentimento di riconoscenza verso chi gli è vicino
(“grazie per una giornata diversa”). Potremmo affermare - senza timore di
retorica - che i versi sono la più bella, implicita conferma del ruolo degli Alzheimer Caffè. Questi infatti fanno crescere momenti di “amorevoli parole”, che
“possono far risuonare una risposta anche dalla voragine misteriosa della mente
di chi è chiuso nel proprio enigma e che non ha più la capacità o la speranza di
poter realizzare una relazione”. Queste ultime sono considerazioni prese dal
commento di Franca Grisoni alla poesia di Gianani e pubblicate sul n.1 del 2011
di Psicogeriatria. Infatti ogni fascicolo della rivista dell’Associazione Italiana di
Psicogeriatria si conclude con una pagina poetica, per riaffermare che talvolta
(spesso) la realtà della sofferenza può essere meglio compresa se vicino alla
scienza e alle sue certezze si colloca anche una visione del mondo che tende
ad unificare la realtà e a mostrarne nel profondo tutte le diverse dimensioni. In
quest’ottica si colloca il volume che analizza le attività degli Alzheimer Caffè;
la loro utilità non può infatti essere dimostrata solo con i numeri, ma anche - e
soprattutto - attraverso l’esperienza che diviene impegno realizzato.
“A massive amount of personalized care”. Questa dichiarazione - che tradotta
in italiano perde un po’ della sua incisività (“una grande quantità di cure personalizzate”) - è stata lanciata da un famoso medico al fine di spiegare l’atmosfera generale nella quale si dovrà svolgere nei prossimi anni la cura delle
persone anziane, in particolare quelle affette da alterazioni della cognitività.
L’affermazione vuole essere allo stesso tempo un atto di realismo (le persone
da assistere saranno sempre di più, come indicato dalla demografia e dall’epidemiologia) ed un impegno a favore degli anziani fragili. Nonostante tutte le
oggettive difficoltà culturali, organizzative, economiche, sono la medicina e i
sistemi assistenziali ad assumersi la responsabilità di fornire un servizio adeguato agli specifici bisogni della singola persona.
Assumiamo questa frase, assieme alla poesia di Gianani, come leitmotiv del
libro, perché l’accostamento tra realismo, impegno e valutazione complessiva
della persona umana che soffre è un aspetto centrale per il futuro dell’assistenza a chi invecchia. Infatti risponde ad un preciso invito che è stato fatto tante
volte da più parti e recentemente confermato sulla prima pagina della rivista
medica Lancet (“sarebbe un grave errore continuare ad interpretare il prolungamento della vita umana avvenuto in questi anni come un evento negativo,
mentre deve essere vissuto positivamente, anche perché è la dimostrazione
significativa delle potenzialità della natura”). Sarà un preciso dovere di chi ha
responsabilità di leadership culturale far comprendere diffusamente la portata
di queste affermazioni e le loro ricadute sui comportamenti individuali e col-
pagine 8_9
lettivi; non è operazione facile, perché in questo campo la retorica negativa è
sempre viva, ma è irrinunciabile. Però la tendenza dei nostri giorni a rispettare
l’autonomia di chi riceve le cure è irreversibile (nel caso delle demenze l’autonomia è esercitata prevalentemente dal caregiver, a nome della diade curata);
quindi i servizi devono porre l’ammalato nel ruolo di attore primario, come
avviene negli Alzheimer Caffè.
Sulla stessa lunghezza d’onda, quando ci si avvicina alle demenze è necessario
abbandonare le espressioni negative che solitamente accompagnano la descrizione della malattia; è invece importante riaffermare che l’identità umana
dell’ammalato non si perde fino alla morte e che il lavoro di cura è importante
perché impedisce che alla fine muoia un fantasma. L’assistenza capace e amorevole dà senso alla vita dell’altro, attraverso una sorta di trasferimento di
umanità tra chi dona tempo e cure e chi è curato. Ma anche i primi in questo
modo realizzano la propria vita e le danno senso. L’atto di donazione non è mai
a senso unico.
Lo scenario
Un’analisi realistica dello scenario che accompagna la vita delle persone affette da demenza si deve fondare anche su considerazioni rispetto al momento attuale, caratterizzato da una forte crisi economica, che si riflette soprattutto sui
servizi alle persone fragili. Nei prossimi anni avverranno dei cambiamenti che
oggi non riusciamo nemmeno a prevedere nelle loro dimensioni e che pongono
continue domande senza risposta. La crisi del welfare fino a dove colpirà? Vi
saranno alcuni settori privilegiati, perché caratterizzati da una maggiore quantità di sofferenza e di difficoltà, che saranno almeno in parte risparmiati dai
tagli? Come potrebbero essere organizzati servizi low cost, senza rinunciare alla
qualità assistenziale? Quali alternative vi saranno alla copertura dei servizi da
parte della collettività come avviene oggi? Si ritornerà ad istituzioni finanziate
dalla generosità collettiva come nell’Ottocento? I cambiamenti negli stili di vita
degli ultimi decenni, che valorizzano l’individualismo e riducono l’importanza
della pietas sociale, saranno compatibili con una ripresa delle responsabilità
verso le persone meno fortunate? La tematica è seria e ampia, perché coinvolge
dinamiche che interagiscono tra di loro in maniera più complessa rispetto ad
un passato che sarebbe banale cercare di far rivivere; è indispensabile quindi
affrontarla in una prospettiva radicalmente diversa da quella abituale.
È, però, anche necessario pensare anche a soluzioni nell’immediato, perché
la crisi non permette tempi lunghi; ipotizzare percorsi che da una parte diano
la possibilità di risparmiare e dall’altra di organizzare servizi a basso costo è
quindi un dovere per evitare che proposte di valore siano prive di fondamento
concreto a causa della mancanza di adeguati finanziamenti e che quindi appaiano irrilevanti. La significativa riduzione avvenuta nel 2011 delle prestazioni
ambulatoriali e diagnostiche dopo l’introduzione di nuovi ticket può essere let-
INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
ta sia come campanello d’allarme rispetto al dubbio che il cittadino rinunci per
ragioni economiche a curarsi, sia come una riduzione di prestazioni inutili. In
ogni modo, qualsiasi sia l’interpretazione del fenomeno è in sintonia con il sempre maggiore ricorso a soluzioni a basso costo e ad alto valore aggiunto come
quelle offerte dagli Alzheimer Caffè. Ad esempio, è doveroso in questa prospettiva compiere un’analisi critica dei costi che oggi sono generati dall’assistenza
ospedaliera, per identificare possibili aree di risparmio da indirizzare verso l’assistenza continuativa alle persone anziane colpite da malattie croniche come la
demenza. Una seria spending review in questo ambito potrebbe permettere di
risparmiare in tempi relativamente brevi almeno il 10% della spesa totale, per
un ammontare a circa 5-6 miliardi di euro. Fino ad ora in questo campo non è
stato fatto nulla di realmente incisivo; anche dove si è decisa la chiusura dei
piccoli ospedali non si è avuto il coraggio di compiere atti di vero cambiamento,
per cui sono rimasti in vita servizi di scarsa qualificazione, senza un reale vantaggio per l’assistenza nel territorio. Ma non è solo la problematica dei piccoli
nosocomi che va considerata; infatti nell’organizzazione complessiva dell’assistenza ospedaliera sarebbe necessario intervenire per ridurre doppioni, proliferazioni di centri di costo, in particolare rispetto alle tecnologie più moderne,
veri e propri sprechi indotti spesso da esigenze clientelari. Qualcuno sostiene
che la pressione sociale sui grandi ospedali e sulle tecnologie - spesso pubblicizzate come miracolose - impedirebbe una diversa distribuzione della spesa.
A questo riguardo è importante ricordare il ruolo della politica, che non deve
essere trainata da scelte più o meno irrazionali, ma dovrebbe assumere la guida
dei cambiamenti per indirizzarli e raccogliere attorno ad essi il consenso democratico. Un esempio emblematico a questo proposito è costituito dalla spesa
per farmaci ospedalieri che è cresciuta moltissimo in questi ultimi anni; attorno
a questa tematica si sviluppano motivazioni di carattere scientifico, clinico,
economico, organizzativo, etico. Solo una guida politica forte sarebbe in grado
di indicare un percorso, che sia allo stesso tempo rispettoso delle esigenze
del singolo e della collettività, senza piegarsi a pressioni non sempre limpide.
Per fare un esempio - che mi auguro sia interpretato correttamente dal lettore - alcuni trattamenti antitumorali condotti in ambito ospedaliero costano
30-40.000 € all’anno e inducono un incremento della sopravvivenza di qualche
mese; la permanenza di un anziano non autosufficiente in una residenza per
un anno costa una cifra simile (ed è frequentemente l’unica risposta valida per
garantire una sopravvivenza dignitosa, spesso la sopravvivenza stessa). Ripetiamo: potrebbe sembrare disumano porre queste alternative, però è opportuno
che la problematica venga affrontata con lucidità senza preconcetti da una
politica in grado di interpretare i veri bisogni della collettività, piuttosto che
venga “slabbrata” da interessi difficilmente conciliabili. Neppure è opportuno
creare antagonismi tra la spesa per i giovani o adulti e quella per i vecchi, ma
è necessario seguire con attenzione l’evoluzione dei fenomeni per fare scelte
pagine 10_11
razionali. D’altra parte, sempre più frequentemente compaiono in letteratura
modelli di organizzazione ospedaliera low cost, che si sono dimostrati capaci
di produrre risultati a livello degli ospedali tradizionali. Ovviamente si tratta di
“rivoluzioni” che richiederanno tempo per svilupparsi (ma meno di quanto pensiamo), ma non vi è dubbio che è l’unica vera e realistica risposta all’attuale
continuo ed insostenibile aumento dei costi sanitari. Ciò sarà raggiunto con un
forte investimento nell’ICT (ad esempio, il pre-ricovero si attua a distanza attraverso Skype), con una riorganizzazione fordista del lavoro che permetta una
forte specializzazione dell’équipe con riduzione dei tempi di lavoro in ambito
sia diagnostico che chirurgico e un controllo rigido dell’evoluzione clinica, il
tutto in ambienti architettonicamente adeguati per il massimo risparmio energetico e nei movimenti.
Quanto sopra riportato potrebbe sembrare argomento troppo specifico rispetto
alla tematica del volume; è stato invece sottoposto all’attenzione del lettore
perché indica come nella società complessa vi sono moltissime interazioni anche tra argomenti apparentemente lontani. È però necessaria una guida strategica delle dinamiche sociali, in particolare per proteggere la condizione di chi
è più debole. Ovviamente la guida non deve essere oppressiva, ma rispettare e
valorizzare quanto di ricco e spontaneo vive nella collettività (il modello degli
Alzheimer Caffè ne è un esempio significativo). E nell’attesa che il programmatore si accorga delle vivacità spontanee di una società non ancora del tutto
assopita su motivazioni deboli della stessa convivenza, il lavoro presentato in
questo volume rappresenta un contributo per valorizzare un ambito specifico
della ricchezza di modelli e di lavoro costruttivo che è presente nelle nostre
città. L’insieme rappresenta un esempio di come la ricerca di nuove possibilità
per inserire progetti utili all’interno del sistema delle cure rifletta l’impegno
più grande che accompagna chi lavora in questi ambiti e che potrebbe essere
riassunto nella famosa frase del presidente Clinton: “Non lasciate che l’economia spenga i vostri sogni!”
Come si può capire da queste poche righe, la tematica del “massive amount of
care” è molto seria ed ancora in continua evoluzione, ma proprio per questo
motivo diventa importantissima la seconda parte della frase: l’anziano bisognoso non deve avere timore per il suo futuro, perché i medici, gli altri componenti
delle équipe di assistenza, i volontari si impegnano per una cura individualizzata. Insistiamo sull’aspetto delle paure per il futuro, perché sono sempre più
frequenti nella mente delle persone anziane. Si incominciano a vedere i primi
segni, ad esempio, nel fatto che alcune famiglie ritirano i propri congiunti dalla
residenza per risparmiare sulle rette. La vistosa riduzione di alcune pensioni
indotta dai recenti provvedimenti governativi potrebbe rendere più difficile per
le famiglie, peraltro spesso gravate da componenti che hanno perso il lavoro,
mantenere il proprio caro in una residenza. È certamente vero che la disponi-
INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
bilità del singolo operatore ed il suo impegno non possono incidere su queste
dinamiche spesso drammatiche; rappresentano però un aspetto positivo in uno
scenario per molti versi oscuro. Una luce sempre utile, anche se da sola non
sufficiente a rischiarare l’intero percorso.
Ma cosa vuol dire una cura individualizzata? Il significato della parola è duplice: da una parte indica un rapporto intenso tra chi presta un servizio e chi lo
riceve, rapporto che deve essere improntato alla gentilezza, all’ascolto attento, alla risposta adeguata a richieste anche quando possano sembrare non
opportune. Ma il termine indica soprattutto che l’impostazione tecnico-clinica
della cura è fatta analizzando la situazione del singolo individuo, qualsiasi sia
la gravità della sua condizione di malattia, di compromissione dell’autonomia
funzionale e cognitiva. Questa è la garanzia più forte per l’efficacia delle cure
e per il raggiungimento di un risultato; l’età non è un indicatore del bisogno né
lo è l’ambito di vita. Infatti a 80-90 anni vi possono essere profili di malattia
e di salute completamente diversi l’uno dall’altro, che richiedono un’analisi
della storia, un esame accurato della condizione attuale, il ricorso ad indagini
strumentali per arrivare a conclusioni che permettano terapie adeguate. Lo
stesso dicasi per il luogo di residenza: il vivere in una casa di riposo (o altra
istituzione permanente) non significa nulla sul piano della condizione individuale di salute e non può essere aprioristicamente assunto come indicatore
per le decisioni terapeutiche (anzi, spesso, deve rappresentare per il medico
un campanello d’allarme per il rischio di trattamenti inadeguati nella storia
precedente dell’ospite).
Attorno al binomio massa-individuo del quale si è discusso precedentemente
si svilupperanno le dinamiche più importanti per il futuro dell’assistenza alle
persone anziane non autosufficienti. Il fatto che la tematica sia stata apertamente dichiarata in ambito medico può essere allo stesso tempo un vantaggio
(per l’impegno preso da chi ha responsabilità dirette) e un limite (perché i
bisogni della persona non autosufficiente non sono solo clinici); però è il segno
di un percorso che deve essere accompagnato con attenzione da chi sente il
peso della responsabilità verso l’evento più rilevante della nostra epoca, cioè
l’invecchiamento della popolazione e la vecchiaia della persona.
La personalizzazione dell’assistenza è la modalità di lavoro che caratterizza
servizi innovativi come gli Alzheimer Caffè. Il confine tra essere “contenitori
di sofferenza” o “ambiti di cura” è molto sottile; il contenitore può essere
chiuso, la cura invece richiede apertura, rispetto, relazione. In questo modo
si garantisce al fruitore una prospettiva normale, nel cui ambito si cerca di
leggere il bisogno per darvi risposte adeguate. Talvolta la costruzione di servizi
chiusi è un riflesso di difesa in mancanza della capacità di capire le reali esigenze dell’anziano, che, per quanto fragile e limitato nelle proprie espressioni
psicofisiche, è sempre portatore di una domanda di senso. Anche la persona
con compromissione delle funzioni cognitive pone a chi lo assiste continue do-
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mande - implicite o verbalizzate - su dove si vuole arrivare con gli atti di cura.
Talvolta una risposta complessiva è difficile, anche perché di fatto la cura è un
continuo rinnovarsi di atti che assumono di volta in volta significato. Solo un
forte collegamento con l’esterno rispetto al luogo delle cure (qualsiasi esso sia,
la casa, un ospedale, un’istituzione) permette di costruire progetti realmente
significativi.
Le ricerche e il futuro
Recentemente Obama ha deciso di destinare un forte investimento economico
e organizzativo all’area della demenza di Alzheimer, ipotizzando di costruire
una serie di progetti il cui risultato finale sia prevenire e curare efficacemente
questa malattia entro il 2025. Nel mondo della scienza e della ricerca qualcuno
ha accusato di pessimismo il Presidente degli Stati Uniti, altri invece sono stati
più prudenti e non si sono esposti in rischiose previsioni. Chi scrive queste note
è impegnato negli studi sulle malattie neurodegenerative da almeno 30 anni e
non ritiene di poter fare ipotesi sui tempi.
In questo scenario di incertezza oggi sono prevalenti due posizioni allo scopo di
dare una speranza per l’umanità che vive con angoscia i timori di una vecchiaia
accompagnata dalla demenza.
La prima è caratterizzata da attenzione e impegno perché la ricerca possa proseguire con finanziamenti adeguati, ma anche con un largo consenso sociale.
Infatti il pessimismo è sempre negativo, sia perché rischia di influenzare le decisioni di chi alloca fondi pubblici e privati, sia perché fa sentire soli gli studiosi.
Fortunatamente negli ultimi mesi si è riacceso in tutto il mondo l’interesse
sull’Alzheimer: alcune ricerche incominciano a dare risultati promettenti e come sempre avviene in questi casi - i dati positivi suscitano un giusto entusiasmo, che si riflette sull’intero ambito di studio. Vi è la speranza che bloccando
la diffusione di una sostanza tossica nel cervello sia possibile controllare il danno neuronale e quindi evitare la comparsa di demenza. Questi risultati si collocano bene nel quadro dei progressi fino ad ora compiuti, che hanno dimostrato
una lenta evoluzione della malattia, che può durare diversi anni, ed i cui segni
sono identificabili nel cervello attraverso le moderne tecnologie di imaging o
nel liquor anche molto tempo prima che compaiano i segni clinici, cioè sintomi
come la perdita di memoria o alterazioni del comportamento. Il futuro è quindi
connotato da dati positivi dal punto di vista scientifico-biologico.
La seconda posizione - altrettanto importante sul piano della ricerca del benessere - mira a garantire le migliori condizioni di vita per le persone che sono già
colpite dalle varie forme di demenza. Infatti, anche se ancora non sono stati
identificati gli strumenti per una cura definitiva, è possibile mettere in atto
interventi per difendere spazi di qualità, pur nel corso di una vita molto difficile. Questa difesa - che si fonda prima di tutto sul riconoscimento della dignità
della persona, indipendentemente dalle condizioni di salute fisica o psichica - si
INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
attua in vari modi sul piano clinico e dell’organizzazione dei servizi. In ambito
clinico il compito principale delle cure è garantire che la persona non soffra di
un eccesso di disabilità, oltre a quella indotta dalla malattia (quindi conservare
il massimo possibile di relazioni, non relegare, attivare, non sostituire impropriamente nelle attività di base), e allo stesso tempo curare sintomi disturbanti
(ad esempio, nonostante le difficoltà, capire il dolore fisico in una persona che
ha perso la memoria e che non sa riferirne la collocazione e le caratteristiche).
Anche sul piano dei servizi è possibile fare molto per accompagnare l’ammalato
e la sua famiglia nei lunghi anni di storia naturale della demenza. Infatti nelle
malattie croniche, delle quali la demenza è prototipale, i servizi svolgono una
funzione plurima sempre indispensabile, dal tempo della diagnosi, allo staging
ripetuto, all’impostazione e all’adeguamento delle terapie, all’impegno riabilitativo. Gli attori dei servizi sono molti e differenziati, ciascuno con un proprio ruolo, ma anche una propria specificità pratica e culturale. Così le Unità
di Valutazione Alzheimer svolgono un ruolo diverso da quello dell’assistenza
domiciliare, dall’ospedale, dai centri fondati sul volontariato. Quest’ultimo è
l’ambito nel quale si è fortemente impegnata negli ultimi tempi la UniCredit
Foundation: dare attenzione a iniziative che sorgono dalla società civile ed in
particolare dal volontariato vuol dire sostenere chi si impegna a rendere meno
difficile la vita degli ammalati, in attesa - come sopra indicato - che si possano
identificare cure specifiche e risolutive per prevenire e curare. Ma anche significa assistere sul piano tecnico le generosità diffuse perché possano costruire
servizi qualificati, a costi ridotti e spesso con un plus di relazione e vicinanza
particolarmente significativo.
Lo studio sugli Alzheimer Caffè
La ricerca dedicata all’Alzheimer Caffè presentata in questo volume si inserisce
nella logica di favorire la crescita di servizi innovativi ed ha lo scopo di suggerire
modalità per migliorare le prestazioni fornite in Italia da gruppi di volontariato
o di auto-aiuto, in modo che le energie dedicate con generosità e intelligenza
ad accompagnare la vita delle persone affette da demenza, e quella delle loro
famiglie, possano ottenere il massimo risultato possibile.
L’impegno di UniCredit Foundation e del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia ha permesso di analizzare criticamente alcune esperienze e di estrarre
da queste gli aspetti più efficaci per definire una sorta di “buona pratica”, a
disposizione dei gruppi che nei prossimi mesi vorranno impegnarsi in questo lavoro assistenziale di grande significato. Ovviamente il numero delle esperienze
esaminate è limitato a causa delle condizioni economico-organizzative dello
studio, che hanno impedito l’allargamento del campione alle molte decine di
realtà attive in questo campo in Italia. La scelta è stata dettata anche dall’esigenza di presentare in tempi brevi un’analisi qualitativa che potesse indurre il
lettore ad entrare nel campo, più che un’analisi statistica, peraltro difficile da
pagine 14_15
sviluppare vista la disomogeneità del campione.
Nel momento di crisi come quello che stiamo vivendo affrontare tale tematica
è allo stesso tempo un segnale di ottimismo, perché crediamo nelle potenzialità della generosità collettiva, ed un atto di realismo, perché sono sempre più
frequenti le richieste di supporti qualificati alle persone che soffrono. D’altra
parte, sempre sul piano di andare alla ricerca di modi innovativi per intervenire
a favore di chi è fragile, è significativo quanto scritto recentemente dal sociologo Ilvo Diamanti a proposito della capacità che dovremmo avere -noi addetti
alla messa a punto di cure efficaci- di indagare anche in circuiti fuori di quelli
alti (accademici e di potere), per identificare nelle prassi minime indicazioni
importanti per il lavoro di cura. Scrive Diamanti: “Il buon senso ci spingerebbe a interrogarci maggiormente su quel che avviene a livello locale e microsociale, nella sfera personale e interpersonale. A esplorare altre teorie e altri
orientamenti metodologici. Ma il senso comune degli specialisti (…) ci induce a
far finta di nulla. A negare la realtà per non cambiare gli occhiali con cui la osserviamo. Dall’alto e di lontano”. Questo approccio al quale ci ispiriamo porta
a valorizzare il mondo di tante persone che si curano delle demenze, che pensano, progettano e sperimentano; non abbiamo idea di quanta ricchezza si può
trovare in questi mondi, apparentemente periferici, ricchezze che facilmente
potrebbero essere valutate e messe alla prova, purché conosciute e analizzate
con attenzione. Questo volume è un segno seppur piccolo in questa direzione,
perché esamina modelli cresciuti spontaneamente, guidati da intuizioni originali collocate a livello locale, per trarne indicazioni di carattere generale. È
una modalità innovativa non banale, che si va sempre più diffondendo come
strumento per analizzare criticamente alcune realtà e proporle come modelli
replicabili.
Nel campo dell’innovazione originale fuori dai circuiti “alti” (come indicato da
Diamanti), e come tale di grande interesse, un esempio significativo tra i molti
che si potrebbero fare, oltre a quello dei Caffè, è rappresentato dal progetto di un imprenditore francese di creare una cittadina adatta ad ospitare le
persone affette da demenza, costruendo ambienti di vita individuali e comuni
che si rifanno agli anni Cinquanta, cioè quelli che sono nella memoria delle
persone anziane ammalate. L’idea è stata criticata da molti, ma attendiamo
la realizzazione del progetto per esprimere un giudizio. Però, al di là di alcune
pur interessanti battute su questa “Dementiaville”, resta l’incertezza di come
meglio proteggere le persone più fragili (per vari motivi, cognitivi o non), cioè
se adottare o meno modelli come quello predisposto in Francia. D’altra parte
anche il termine “caffè” per indicare i luoghi di ritrovo delle persone affette da
demenza e delle loro famiglie ha un certo livello di intelligente originalità, che
qualcuno potrebbe non capire. Recentemente Zygmunt Bauman, lo studioso più
INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
acuto della modernità, ha scritto: “Il mondo abitato viene strutturato in modo
da essere ospitale - conveniente e confortevole - per i suoi abitanti normali, le
persone che costituiscono la maggioranza. Le automobili devono essere equipaggiate con luci e trombe che avvisano del loro arrivo, strumenti di nessuna
utilità per i ciechi e i sordi. Le scale non sono di alcun aiuto per le persone relegate su sedie a rotelle. Io stesso, nella mia età avanzata, avendo ormai perso
la maggior parte del mio udito, non posso più essere allertato dai telefoni o dal
campanello di chi suoni alla mia porta”. Non voglio costruire un’antitesi tra chi
critica Dementiaville e le affermazioni di Bauman, ma anche su queste antinomie (protezione in ambienti dedicati o mantenimento nei luoghi naturali di
vita) si deve sviluppare un dibattito sereno, ma serio. Aperto a tutti quelli che
sentono la responsabilità di costruire un mondo allargato di cure sempre più
adatte al bisogno, ma anche sempre più compiutamente accettate dalla società
che vive attorno alle persone fragili. Gli Alzheimer Caffè vivono all’interno di
queste dialettiche; chi vi opera è mediamente coscio di conflitti, inadeguatezza, difficoltà. Però l’esperienza del lavoro compiuto e l’interpretazione del suo
significato è motivo per andare avanti, senza eccessi autoreferenziali, ma con
la tranquilla coscienza che sono stati compiuti atti importanti per un relativo
benessere di chi è assistito.
L’insieme delle osservazioni fino ad ora riportate delinea una condizione della
cura delle demenze in forte evoluzione, dalla quale possono comparire i segni
di una speranza possibile. Non si tratta di garantire la guarigione, ma certamente oggi un insieme di fattori ha radicalmente modificato la prospettiva delle
persone affette da demenza. Purtroppo gli angoli bui esistono ancora e sono
caratterizzati da stigma, timori, dolore non espresso, o, ancor più non ascoltato e lenito; però lo scenario è cambiato da alcuni anni. Il contenuto di questo
volumetto ne è una testimonianza concreta e viva: lo scopo dei curatori è appunto quello di facilitare, soprattutto tra le persone che non sono strettamente addette ai lavori, come in particolare i volontari impegnati nell’assistenza
all’anziano, la crescita di un sentire positivo. Occuparsi della “situazione drammatica” delle persone colpite da demenza non è un “dramma senza futuro”,
perché si possono trovare mille spazi che rendono importante e significativo un
intervento di cura e di accompagnamento. Cioè un futuro per chi è curato, ma
anche per l’impegno generoso di chi si prende cura delle persone affette da demenza. Il tutto in una logica di ricerca della normalità. Benché difficile, questo
stile di cura previene comportamenti non corretti; infatti la tecnica clinicoassistenziale deve realizzarsi in un ambiente che mira a creare condizioni di
vita che sono di tutti, malati e sani.
Si potrebbe concludere che nell’Alzheimer Caffè si realizza una sintesi tra l’impegno personale generoso e volontario e il desiderio di migliorare attraverso
questo lavoro la nostra società. È la visione personalistica per la quale coloro
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che compiono e che ricevono un atto di cura sono strettamente legati, non
solo sul piano della relazione, ma soprattutto del reciproco miglioramento, che
progressivamente assume dimensioni comunitarie.
Un particolare ringraziamento ai colleghi Giuseppe Bellelli, Nicola Berruti, Angelo Bianchetti, Stefano Boffelli, Renzo Rozzini, Sara Tironi del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia che hanno rivisto parti del manoscritto suggerendo
spunti significativi.
La dottoressa Enrica Cerantola di UniCredit Foundation ha curato i contatti con
le varie realtà che hanno partecipato allo studio, tenendo con mano ferma un
coordinamento non sempre facile. Infine un vivissimo ringraziamento agli attori
primari dello studio, cioè ai coordinatori e ai collaboratori degli Alzheimer Caffè. Hanno capito rapidamente gli scopi della nostra indagine ed hanno fornito
dati e indicazioni sempre adeguati allo scopo; se il libro servirà a riprodurre le
esperienze più significative e quindi a costruire nuovi servizi utili per le persone
affette da demenza è merito soprattutto di questa disponibilità intelligente.
Abbiamo iniziato questa introduzione con un poeta contemporaneo, che ringraziava per “una giornata diversa”, un momento lieve, che passa; la concludiamo
con i versi eterni di Virgilio che canta il rapporto filiale, che attraversa tutti i
tempi, tra Enea e Anchise:
“Su dunque, diletto padre, salimi sul collo;
ti sosterrò con le spalle, e il peso non mi sarà grave;
dovunque cadranno le sorti, uno e comune sarà
il pericolo, una per ambedue la salvezza”.
Le poesie, così diverse, si adattano bene all’ispirazione che sottende il lavoro
generoso svolto da molti negli Alzheimer Caffè; in particolare sottolineano che
nelle difficoltà l’aiuto dato a chi è debole porta alla salvezza comune.
INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
1.A La rete
20
1.B I servizi
26
1.C I supporti informali
33
1.D Un futuro possibile e sostenibile 36
Capitolo 1
L’organizzazione
dei servizi per
le persone affette
da deficit cognitivo
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alzheimer caffÈ:
la ricchezza di una esperienza
CAPITOLO 1
L’organizzazione dei servizi
per le persone affette da deficit cognitivo
1.a La rete
In poche aree dell’organizzazione sanitaria si sono consumate parole così
numerose come in quella della continuità terapeutica da costruire attorno
al paziente anziano ammalato e non più autosufficiente anche a causa di
una compromissione delle funzioni cognitive. Sono molti gli aspetti critici
che interferiscono con la possibile costruzione di un sistema di supporto che
si adatti alle dinamiche complesse prodotte dall’intrecciarsi della crisi dei
rapporti familiari, dal rarefarsi delle dinamiche di vicinato, dalle difficoltà
economiche, dal processo stesso di invecchiamento che avviene in modo assolutamente individuale, accompagnato da attese e speranze che non sono
racchiudibili in schemi precostituiti.
Nel passato anche recente si sono utilizzati modelli organizzativi rigidi, funzionalistici, con sistemi di governo dei servizi pianificati in modo schematico,
all’interno dei quali la persona affetta da malattie croniche invalidanti come
la demenza doveva muoversi. Si potrebbe dire che nessuno di questi sistemi
ha avuto successo, e ancor meno ha avuto la possibilità di evolversi a fronte
delle dinamiche demografiche ed epidemiologiche. Non si può escludere da
questa visione l’insieme degli interventi che vengono messi in atto dalla società per rispondere ai bisogni degli ammalati; i servizi di cura e assistenza
devono quindi essere caratterizzati da un alto livello di integrazione tra di
loro e con il resto dei servizi alla persona di un determinato territorio, evitando semplificazioni e schematizzazioni funzionalistiche. La loro organizzazione
secondo questi principi è difficile e - di conseguenza - sono pochi gli esempi
che possono essere portati di servizi adeguati ad un bisogno crescente, sia sul
piano quantitativo che qualitativo. Infatti, come già ampiamente riportato in
questo volume, l’aumento del numero delle persone anziane trascina con se
automaticamente anche l’aumento del numero di quelle affette da demenza.
Inoltre, il progresso sociale e culturale ha accresciuto la coscienza sul diritto
del cittadino ad avere risposte adeguate nel momento delle difficoltà, anzi a
vedere riconosciuti proprio gli aspetti più critici come quelli che maggiormente meritano interventi di alto livello.
Le problematiche presentate dalla demenza richiedono una visione complessiva dei problemi, anche perché l’evoluzione è così rapida, con un continuo
cambiamento dei quadri clinici, che il paziente (e chi lo assiste) deve disporre
di interventi a suo favore in grado di adeguarsi continuamente, evitando sfasamenti, ritardi o addirittura l’assenza di risposte. In un arco temporale relativamente breve (la malattia di Alzheimer ha infatti una durata media di 5-10
anni) il paziente sperimenta il passaggio da una condizione caratterizzata da
lievi deficit mnesici e difficoltà nello svolgimento delle attività più complesse,
al progressivo sgretolarsi delle competenze cognitive, alla modificazione radicale della personalità (quasi invariabilmente accompagnata da modificazioni
del comportamento), con un deterioramento via via sempre più marcato dello
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
stato funzionale, fino alla disabilità completa e alla comparsa di gravi complicanze neurologiche e somatiche. In questo percorso vi è il coinvolgimento
profondo e spesso drammatico della famiglia, che vive dapprima l’angoscia
della diagnosi e della prospettiva di un’evoluzione inarrestabile della malattia, poi la difficoltà della gestione dei problemi comportamentali e cognitivi,
nonché del carico derivante dalle necessità assistenziali sempre in aumento.
Alla luce di quanto sopra affermato, l’organizzazione dei servizi, così come
la cura della singola persona, dovrà compiere nei prossimi anni un notevole
passo avanti sul piano culturale, rispetto alle tematiche di oggi, per uscire
dalle logiche di modelli che prevedono una organizzazione rigida, dove tutto
si muove in modo consequenziale, come se ogni evento umano fosse sempre predicibile e rispondente alla logica causa-effetto. È necessario invece
accogliere un approccio dinamico della vita, aperto all’inatteso, capace di
comprendere le relazioni che si sviluppano tra le persone in modo talvolta non
tradizionale. Alla base di questa visione vi è una lettura degli eventi biologici
(e quindi clinici) aperta alla realtà del vivente al di fuori delle schematizzazioni rigide, per cui un evento può derivare dall’interazione di molti altri
e dare a sua volta origine a nuovi equilibri. Non è una strada facile, perché
il percorrere itinerari prevedibili è certamente più rassicurante; però, nel
prossimo futuro potremo sperare di superare le difficoltà economiche, organizzative e umane solo accettando un modello che rispecchi nel profondo le
caratteristiche della vita, ponendo il progresso tecnologico al servizio di una
visione dinamica, secondo la quale vi sono ricchezze e variabilità nel mondo
che non possono essere racchiuse all’interno dei meccanismi delle macchine.
Chi vuole semplificare, imponendo tappe schematiche alla varietà e alla libertà dei comportamenti individuali può sembrare di possedere la risposta e
forse verrà approvato da qualche osservatore miope, ma alla fine non ottiene
risultati utili, perché l’incontro tra la rigidità di un sistema di risposta e un
bisogno per definizione articolato, che varia nel tempo, ed è influenzato da
condizioni psicosociali, oltre che somatiche, non è mai efficace.
La tematica è di interesse generale e riguarda molti ambiti della vita organizzata oltre a quelli della medicina e dell’assistenza; si pensi alla diffusione
della medicina basata sull’evidenza come strumento operativo fondato su linee guida e protocolli e allo scontro con la realtà clinica della persona affetta
da demenza, difficilmente schematizzabile entro confini rigidi. Questa situazione richiede equilibrio e apertura, alla ricerca di un punto mediano che si
deve identificare nelle varie realtà di intervento. Parimenti, anche la ricerca
di una modalità per far incontrare la variabilità individuale con l’esigenza di
organizzare servizi che devono seguire standard e comportamenti prefissati
non è facile; è infatti una delle scommesse più rilevanti che la post-modernità
deve affrontare. Tra rigidità e anarchia dove si colloca l’organizzazione dei
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servizi? Non dobbiamo forse accettare un certo livello di conflitto, caratteristica irrinunciabile del tempo di oggi e del progresso che viviamo e che ci
auguriamo? Il conflitto impedisce il ripiegamento della collettività su se stessa
e la scomparsa delle ricchezze che nella diversità abitano la nostra epoca. La
storia - anche le piccole storie costruite dalle persone fragili - non è finita,
ma aperta alla nostra capacità di innovare, partendo dal riconoscimento del
binomio complessità-conflitto e delle dinamiche che ne conseguono.
Oggi viviamo un momento di crisi perché intuiamo che il modello tradizionale
dei servizi per le persone fragili è in difficoltà, ma non disponiamo di modelli
alternativi e maturi. Questa situazione, se da un lato è motivo di preoccupazione, dall’altro stimola e impegna ogni persona di buona volontà (operatore,
cittadino, decisore) a trovare strade nuove e più adeguate. Molti sono incoraggiati dal profondo senso etico che è indicato come “senso di responsabilità
verso il fratello”, una regola umana che da sempre ha caratterizzato la crescita civile. Se l’atteggiamento di conservazione è praticamente e moralmente
negativo, anche l’innovazione deve seguire regole precise, non può essere il
prodotto di idee particolari e non verificate. Soprattutto è importante che si
ponga sempre l’obiettivo di misurare i risultati; sebbene sia impresa difficile,
soprattutto quando sono in gioco diverse dinamiche, non ha rilievo l’innovazione che non porti a risultati in termini di salute somatica, di qualità della
vita psichica o pratica, di miglioramento delle relazioni comunitarie, ecc. Su
queste tematiche nel nostro Paese bisogna procedere con grande prudenza,
perché è troppo facile distruggere servizi magari parziali, ma che hanno un
certo ruolo, mentre è difficilissimo costruire alternative realmente operanti
in modo efficace.
I bisogni del paziente e della famiglia
Il primo elemento necessario per una razionale organizzazione delle risposte
ai bisogni del paziente è il riconoscimento della malattia e della sua natura.
Soltanto in un terzo dei casi le persone colpite dalla malattia ricevono una
diagnosi nelle fasi iniziali, mentre più frequentemente è con la comparsa dei
sintomi più eclatanti o delle complicanze che viene riconosciuta la presenza di una sindrome dementigena. Il tardivo riconoscimento della natura dei
sintomi provoca sofferenza nel paziente, disagio nella famiglia, ritarda l’inizio dei trattamenti, impedisce una corretta pianificazione degli interventi di
supporto e di prevenzione dei rischi (gestione delle finanze, guida dell’auto,
ecc.) e differisce l’assunzione di decisioni legali.
Dopo la fase diagnostica, il paziente richiede cure mirate per le diverse manifestazioni cliniche della malattia di Alzheimer e delle altre demenze. Sebbene non vi siano trattamenti farmacologici risolutivi, un insieme integrato
di interventi condotti in modo continuativo può indurre un sostanziale miglioramento della qualità di vita del paziente e dei suoi familiari e, spesso,
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
può rallentare la progressione dei sintomi. È necessario il coinvolgimento di
più figure professionali (medico di medicina generale, specialista, psicologo, assistente sociale, infermiere, terapista della riabilitazione, ecc.) che,
in tempi diversi e luoghi diversi (domicilio, centri di diagnosi specializzati,
centri diurni e day hospital, nuclei specifici in residenze protette, reparti di
riabilitazione, ecc.), collaborano per fornire i trattamenti appropriati. Anche
negli stadi più avanzati della demenza è possibile intervenire sfruttando le
capacità residue del paziente e le risorse della famiglia, nonché limitando gli
effetti di comorbilità, deficit sensoriali, ostacoli e stress ambientali.
I bisogni devono trovare risposta nella rete dei servizi sanitari e socio-sanitari
che comprendono un sistema integrato di centri per la diagnosi e la gestione
della terapia, di servizi per l’assistenza domiciliare (incluse strutture semiresidenziali quali centri diurni) e per il sostegno ed educazione dei caregiver,
servizi di riabilitazione di varie tipologie e servizi di cura a lungo termine.
L’aspetto centrale è la relazione fra i centri che devono garantire da un lato
la specificità dei servizi e dall’altro il collegamento fra i vari livelli, per permettere al paziente il passaggio da uno all’altro in ragione delle specifiche
necessità.
Un punto cruciale di discussione è se la demenza sia una condizione che richiede una rete autonoma di servizi oppure le risposte possano essere ricercate nel percorso ordinario dei servizi. Numerose esperienze nazionali ed
internazionali hanno dimostrato che attraverso servizi dedicati e specializzati
è possibile rispondere in modo più puntuale ed appropriato alle complesse
problematiche; nonostante ciò, la realtà italiana si presenta estremamente
variegata, con alcune aree dove non è stato fatto quasi nulla, per colpevoli
assenze della politica e dell’amministrazione e per il prevalere di interessi
che non sono quelli della popolazione, in particolare di quella parte afflitta
da gravi problemi di salute.
Verranno di seguito analizzati alcuni nodi centrali della rete dei servizi. Si
deve però premettere che nessuna organizzazione, nemmeno la più avanzata
e ricca, potrà mai offrire risposte completamente soddisfacenti alla famiglia,
che resta l’interprete principale delle necessità del paziente di fronte alla
progressiva perdita di capacità cognitive. Ad esempio, anche quando il paziente viene ricoverato in un’istituzione, e quindi la famiglia viene scaricata
dai compiti gestionali, restano drammatici alcuni aspetti psicologici, che i
servizi devono affrontare con attenzione e prudenza. Peraltro, se l’ammalato
resta a casa, vi sono aspetti dell’assistenza, come la sua durata (qualcuno ha
definito l’impegno delle famiglie come parametrabile su “una giornata di 36
ore”), il carico di fatica e organizzativo, il carico psicologico (la solitudine
che accompagna chi dona assistenza), che sono solo parzialmente leniti anche
dalla migliore organizzazione dei servizi.
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Uno degli aspetti cruciali che attraversa tutta la problematica dei servizi è
rappresentato dalla capacità della famiglia di reggere la centralità rispetto
ai diversi interventi, che, anche quando sono coordinatiti in modo adeguato,
hanno pur sempre bisogno del fulcro-famiglia. Vi sono situazioni nelle quali
ciò non si realizza ed è quindi il tempo del ricovero dell’ammalato in un’istituzione; vi sono però tempi e condizioni nelle quali è possibile aiutare la famiglia a svolgere la propria funzione centrale, permettendo così al complesso
sistema assistenziale di funzionare al meglio. Sulle modalità pratiche per realizzare questo obiettivo si sono aperte molte discussioni, senza però arrivare
a conclusioni significative. In particolare, si è molto dibattuto sul ruolo dei
supporti economici dati direttamente alla famiglia come strumento per facilitarne l’autonomia e la capacità di affrontare le difficoltà, anche attraverso
una diretta capacità contrattuale nei riguardi di chi presta un servizio, con
un più elevato e non burocratico controllo sulla qualità e la quantità. Non è
questa la sede per esprimere un giudizio definitivo su queste tematiche; è
però importante riaffermare la necessità di trovare strumenti operativi che
permettano di sconfiggere i rischi purtroppo sempre diffusi di autorefenzialità
dei servizi. Ma ancor più importante è creare le condizioni per cui l’assistenza
alla persona colpita da malattia di lunga durata, che quindi interagiscono
con le dinamiche vitali di uomini e donne che convivono con questi problemi, divenga un motivo di attenzione da parte della comunità, stimolando le
energie naturali che essa conserva al proprio interno. Per troppo tempo, infatti, la delega acritica ai servizi, anche quando non erano di elevata qualità,
ha impedito la crescita di generosità diffuse, che difficilmente riuscivano ad
esprimersi in contesti burocratizzati, incapaci di ascolto. Ora il mutare delle
sensibilità ha aperto nuove prospettive; è però necessaria molta elasticità
per integrare nel sistema delle cure - a parità di dignità - la famiglia, il vicinato, il volontariato e i servizi prestati da attori che accettano la logica della
centralità di chi viene servito. L’esperienza degli Alzheimer Caffè si colloca
pienamente in questo contesto. Senza retorica, è doveroso riaffermare che
in situazioni particolari come le malattie croniche, che sconvolgono la vita
dell’ammalato e della sua famiglia, l’intervento di cura deve avere la connotazione dell’ascolto e della compassione, non come aggiunte al lavoro tecnico
di cura, ma come componente irrinunciabile di questo.
Per dare significato ai vari spunti sopraindicati, è necessario che il sistema sia
in grado di costruire una forte cultura innovativa degli operatori. Infatti le
nuove aree di impegno rischiano di produrre frustrazione in chi vi lavora, con
conseguente pessimismo e cinismo, se non viene messa in atto una formazione incisiva, che trasmette le motivazioni del servizio e allo stesso tempo aiuta
a capire l’efficacia degli interventi ed i mezzi più appropriati a questo scopo.
L’impresa formativa tuttavia non è semplice: l’attuale sistema vigente in Ita-
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
lia è poco più di una bardatura economico-burocratica per quanto riguarda
la formazione continua, mentre l’università non è sempre stata in grado di
formare una classe adeguata di formatori, capaci di coniugare le informazioni tecniche con indicazioni sulla processualità del lavoro, sull’esigenza di
collaborazione tra culture e sensibilità diverse, sulla necessità di misurare i
risultati ottenuti parametrandoli con quelli attesi. Spetta quindi alla ricchezza delle individualità che naturalmente si collocano nel territorio trovare soluzioni adeguate, che non devono essere considerate attività di lusso (e quindi
espletate solo quando si hanno grandi disponibilità economiche), ma momenti
strutturali alla vita dei servizi. Una formazione adeguata è anche indispensabile per permettere un efficace lavoro di équipe. Deve essere compreso
dagli addetti che questa modalità non è una condizione accessoria, legata a
peculiari sensibilità, ma l’unica condizione per ottenere risultati in situazioni
complesse. La realtà invece dimostra quanto sia difficile indurre alla collaborazione professionalità diverse attorno ad un problema clinico-assistenziale,
sia all’interno dello stesso servizio, sia nei punti di contatto e di integrazione.
Per affrontare concretamente il problema della gestione della rete di servizi
per le persone affette da demenza si deve rilevare che in tutto il mondo, ma
soprattutto in Italia, vi sono pochissime ricerche in grado di guidare le scelte
programmatorie. Ci si deve quindi affidare ad osservazioni soggettive o ad
analisi di gruppi che però non hanno realizzato studi controllati in grado di offrire risposte definitive. Ci si può però domandare a questo proposito: è davvero realistica la possibilità di impostare queste ricerche in una condizione di
complessità come quella che caratterizza la condizione clinica, psicologica,
relazionale e sociale nell’anziano ammalato abitante in una società avanzata?
La prima modalità - e spesso purtroppo la più frequente - per affrontare la gestione dei servizi per la persona anziana affetta da demenza è quella rinunciataria; il sistema deve aggiustarsi da solo, i cittadini affluiscono direttamente
ai vari segmenti della rete senza essere filtrati se non da condizioni quali la
vicinanza, la disponibilità di posti, l’adeguatezza dei finanziamenti, la volontà di un coinvolgimento personale sul piano economico e organizzativo, ecc.
Questa soluzione non sarà mai apertamente accettata da nessuno, ma nella
realtà è la più diffusa. Il limite più grave è esporre le persone più fragili e le
loro famiglie alla ricerca di soluzioni che esse non sono in grado di identificare
e di raggiungere a causa delle circostanze poste dalle povertà economiche,
culturali, di relazioni, ecc.
La seconda possibile risposta si colloca all’estremo opposto, ed è quella del
funzionalismo assoluto, secondo un modello a rete dove tutto si muove sotto
controllo, ogni spostamento è precostituito, accompagnato e vagliato nella
sua efficacia. Qualche anno fa questo modello era molto diffuso sul piano
teorico e molti ricordano le interminabili lezioni di chi si riteneva portatore di
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un modello rigido, dove la persona entrava ad un certo momento per l’inizio
di un bisogno e poi veniva guidata per il resto della vita.
Una terza soluzione è ovviamente di mediazione, che però per non essere un
banale compromesso necessita di alcuni punti fermi: quando l’anziano entra
nella rete viene studiato in modo analitico attraverso l’assessment multidimensionale, che mediante una valutazione somatica, psicologica, funzionale
e relazionale è in grado di indicare e definire un certo grado di bisogno.
Dall’altra parte, il programmatore si impegna, nel momento in cui apre un
nuovo servizio, a chiarire un profilo preciso dell’utente che dovrebbe afferirvi
e, seppure in modo più elastico, anche la collocazione nella rete rispetto agli
altri segmenti. Partendo da questi due punti fissi, il cittadino può “navigare”
e avvicinarsi ora all’uno ora all’altro.
1.b I servizi
Le autorità sanitarie ed assistenziali in questi anni hanno proposto i più svariati
“formati” di unità di valutazione per governare il sistema; però sono troppo
spesso realtà burocratico-prescrittive, che non svolgono azioni di difesa del benessere del cittadino (ovviamente queste considerazioni salvano realtà particolarmente meritorie). Diverso sarebbe se si potesse contare sull’attività di un
distretto efficiente, attivo sulle 24 ore, in grado di regolare senza orpelli i vari
livelli di assistenza, con un controllo di appropriatezza, valutazione degli esiti,
costi. All’interno di un distretto funzionante, anche quando cambia il livello di
intensità dell’intervento richiesto, non vi sarebbe bisogno di tanti diversi servizi; ne basterebbero pochi, purché in grado di accogliere attività differenziate
per qualità e quantità da parte di équipe particolarmente preparate. Una volta
superata la fase valutativa, il cittadino ammalato entra nel sistema dei servizi.
Di questi vengono di seguito descritti tre aspetti rilevanti per le persone affette
da demenza; riguardano la presa in carico (Unità di Valutazione Alzheimer), la
gestione della patologia somatica intercorrente (il ricovero negli ospedali per
acuti), le fasi avanzate della demenza (i nuclei dedicati nelle residenze).
Le Unità di Valutazione Alzheimer
I centri specializzati per la diagnosi delle demenze (variamente denominati:
Memory Clinics, Ambulatori per le demenze, Unità Valutazione Alzheimer),
attraverso l’implementazione di protocolli di valutazione diagnostica e di programmi di cura specifici, sono in grado, rispetto ai servizi tradizionali, di identificare precocemente la malattia, differenziare in modo accurato le malattie
che determinano la demenza, migliorare la qualità della vita dei pazienti e
dei caregiver, assicurare un trattamento accurato.
Gli elementi determinanti nella definizione della qualità del servizio offerto
dai centri specializzati sono: una diffusione capillare ed una elevata accessibilità, la presenza di multi professionalità (geriatri, neurologi, psichiatri,
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
psicologi) e il collegamento con i servizi di approfondimento diagnostico (neuropsicologia, neuroradiologia), la possibilità di fornire interventi non farmacologici e riabilitativi, il collegamento con i servizi territoriali e residenziali.
Nel 2000 è iniziato in Italia un progetto nazionale di organizzazione della rete
dei servizi per la diagnosi e il trattamento della malattia di Alzheimer denominato “Progetto CRONOS”, con l’obiettivo di standardizzare la prescrizione
di farmaci e di valutare l’effetto del trattamento. Circa 500 centri specializzati (denominati Unità di Valutazione Alzheimer - UVA) sono stati istituiti in
tutto il territorio nazionale, con una distribuzione capillare anche se disomogenea. La definizione dei criteri organizzativi delle UVA è stata lasciata alle
Regioni senza un reale coordinamento; si è perciò assistito ad una difformità
sia nella distribuzione dei centri che nella loro organizzazione (centri territoriali, ospedalieri, neurologici, psichiatrici e geriatrici, con o senza servizi
di supporto, ecc.). Pur essendo evidente la disomogeneità delle UVA, sia per
composizione del personale che per attività svolte, nella maggior parte dei
casi queste non si limitano ad essere centri “prescrittori” dei farmaci, ma
svolgono un vero e proprio ruolo di presa in carico del paziente. Le strutture
collegate a servizi di ricovero e di diagnosi e quelle con competenze multiprofessionali riescono meglio a garantire il soddisfacimento dei complessi bisogni dei pazienti con malattia di Alzheimer. Purtroppo la mancanza di linee
guida condivise (che riguardino i compiti specifici e l’organizzazione e la distribuzione) e di adeguati supporti, anche culturali, rischia in alcuni casi di
vanificare l’impegno degli operati di questi centri che rappresentano, anche
a livello internazionale, un modello unico di rete di servizi per la gestione
territoriale del paziente con demenza.
Il ruolo principale delle UVA è accompagnare il paziente e la sua famiglia; vi
sono infatti momenti particolari di crisi nei quali una vicinanza mirata, intelligente e tecnicamente qualificata può modificare il vissuto di chi è a disagio.
Uno di questi è rappresentato dalle prime fasi della malattia, spesso caratterizzate dalla solitudine del paziente e della sua famiglia. Chi è in difficoltà
non trova le risposte pronte e rassicuranti di cui avrebbe bisogno per capire
la propria condizione, per poterla analizzare con serenità e quindi prendere
le necessarie decisioni, accompagnato dai consigli di chi ha le conoscenze
adeguate per indicare un percorso di cura e di vita.
Attorno alle problematiche più delicate riguardo ad alcuni momenti della relazione del paziente e della sua famiglia con la malattia, recentemente è
stato condotto al Censis uno studio su persone affette da sclerosi multipla che
ha messo in luce come il 48% degli ammalati ha dovuto ricorrere a vari medici
specialisti per arrivare ad una diagnosi; inoltre il 40% ha dovuto impegnarsi,
spesso con disagio, per convincere i medici stessi dei suoi sintomi. Infine, il
29% ha ricevuto vari trattamenti per patologie diverse dalla sclerosi multipla. L’indagine prosegue analizzando la risposta soggettiva del paziente alla
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comparsa dei primi sintomi, risposta che tende a nascondere a sé e agli altri i
sintomi stessi. La disabilità in agguato è difficile da accettare, anche perché
- pur nella generosità diffusa - vi è sempre una quota di familiari (30%) che
non comprende la sofferenza del paziente e tende a minimizzarla. Peraltro la
famiglia esercita un ruolo assolutamente predominante sia nel controllo che
nell’esecuzione delle cure; essa però chiede con insistenza che funzionino
centri di cura ai quali sia possibile appoggiarsi non solo per la prescrizione
delle terapie, ma per un accompagnamento nel tempo che permetta di trovare le risposte al momento giusto a tante domande che rendono incerta,
e quindi più gravosa, la prestazione assistenziale. È interessante su questa
linea osservare che nelle fasi avanzate della malattia, quando il bisogno di
counselling è più accentuato, l’accesso ai servizi specifici si riduce; in altre
parole, quando il farmaco non è più utile, cessa anche la funzione dei centri,
perché concentrati sulla prescrizione, invece che su una complessiva gestione
della condizione di malattia, fino al momento di adottare procedure di tipo
palliativo.
Questi dati, pur derivati da un’indagine che riguarda un’altra malattia cronica
gravemente invalidante, assumono una rilevanza particolare, perché sono per
molti aspetti simili a quelli che si rilevano nelle vicende che devono affrontare le persone affette da demenza e le loro famiglie. In quest’ottica hanno un
ruolo significativo le UVA, che spesso rispondono adeguatamente alle criticità
più rilevanti, tra le quali:
a. le difficoltà di arrivare alla diagnosi con il supporto di una medicina del
territorio non sempre sensibile e spesso non adeguatamente informata,
per cui chi si trova a disagio deve percorrere molte strade per ricevere risposte adeguate alla propria sofferenza. Manca nell’organizzazione sociosanitaria chi sia in grado di costruire “ponti” sui quali possa transitare il
paziente, trasferendosi dalla precedente condizione di salute all’attuale
di malattia, che impone radicali cambiamenti dei paradigmi vitali;
b. la difficoltà nel far comprendere la soggettività del disagio agli operatori
sanitari e ai familiari; nel momento di maggior dolore e di incertezza la
solitudine si accentua a causa dell’incomprensione. Si pensi, ad esempio,
alla crisi che deve affrontare chi per la prima volta vive una condizione
personale e intima di inadeguatezza a causa di una alterazione delle funzioni cognitive;
c. anche come conseguenza indiretta della condizione precedente, la persona tende a nascondere le proprie crisi, aggravando così ancor più la
condizione di solitudine. Si instaura così un circolo vizioso che è difficile
rompere e che, alla fine, produce anche danni alla salute, dopo aver devastato la qualità della vita degli ammalati;
d. alla solitudine del paziente si accompagna quella delle famiglie, che devono affrontare da sole l’assistenza (cioè senza o con inadeguati supporti
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
pratico-organizzativi, ma soprattutto senza un appoggio per interpretare
il presente e ipotizzare un futuro possibile). Però la gran parte delle UVA
è in grado di rispondere alle richieste di ordine clinico e psicosociale dei
pazienti e delle famiglie; pur essendo prive di finanziamenti specifici e
quindi spesso con gravi problemi di personale, coprono un ruolo insostituibile. Sorte inizialmente come luoghi deputati alla prescrizione di farmaci,
sono progressivamente divenuti centri vitali, ai quali afferiscono le persone con deficit cognitivo per ricevere risposte nei vari ambiti ed una guida
nei difficili percorsi della malattia.
La persona affetta da demenza nell’ospedale per acuti
Circa il 20-30% dei pazienti con età superiore a 65 anni, ricoverati in reparti medici, presenta un quadro di demenza clinicamente manifesta e nel 60% dei casi
è possibile rilevare un declino cognitivo. La demenza rappresenta per il paziente ospedalizzato un predittore indipendente di aumento della durata della degenza, di perdita funzionale, di rischio di complicanze (infezioni, cadute, danni
iatrogeni), di mortalità e di più elevata frequenza di istituzionalizzazione.
Il ricovero in ospedale per un paziente con malattia di Alzheimer rappresenta
un evento cruciale per la sopravvivenza e per la funzione; richiede un approccio specialistico, in grado di fornire, in base alla prognosi del paziente,
il livello più adeguato di cure che può essere talvolta altamente intensivo,
talaltra limitato agli interventi palliativi, con attenzione alle problematiche
sociali e familiari.
L’outcome di molte patologie acute (polmonite, infarto del miocardio, frattura di femore) è peggiore nel paziente demente, indipendentemente dalla
gravità specifica della malattia di base. Per queste ragioni gli ospedali dovrebbero essere in grado di riconoscere il paziente con demenza fin dall’accesso
in pronto soccorso, prevedendo percorsi di assistenza specifici per la gestione
della fase acuta, e specializzare alcuni reparti per acuti (geriatrie, medicine),
in grado di avere collegamenti funzionali con le aree chirurgiche (ortopedia,
chirurgia, terapia intensiva) e con l’area critica. È peraltro indispensabile
attivare percorsi di dimissione protetta, per evitare degenze inappropriate e
lo scarico del paziente in un ambiente non preparato.
Tra gli aspetti più delicati per la persona affetta da demenza vi è l’accesso al
pronto soccorso, cioè l’anello di congiunzione nel momento dell’emergenza
tra le attività svolte nel territorio e l’ospedale, che vede un costante aumento degli accessi da parte di persone anziane, in particolare ultraottantenni. Il
pronto soccorso è il luogo sicuro dove chi è in difficoltà e la sua famiglia trova
sempre una risposta al bisogno, in qualsiasi momento e condizione. È quindi
il luogo dove devono concentrarsi risposte efficaci sul piano clinico e capaci
di comprendere in tempi rapidi la complessità e la gravità delle condizioni di
sofferenza. In questa prospettiva la costruzione di un reparto di Osservazione
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Breve Intensiva (OBI) a forte caratterizzazione geriatrica potrebbe permettere
all’anziano affetto da demenza di ricevere il massimo di attenzione e contemporaneamente di evitare - quando possibile - il ricovero, se non strettamente
necessario. È importante a questo proposito che i cittadini sappiano che la
preoccupazione primaria degli operatori sanitari a tutti i livelli non è quella di
rispettare l’indice di ospedalizzazione, ma prevenire le conseguenze negative
per l’anziano di un ricovero in ospedale, quando i pericoli superano i vantaggi
ipotizzabili, soprattutto riguardo al rischio di disorientamento e alla comparsa
di paure indotte dall’improvviso e profondo cambiamento di ambiente. L’OBI
svolge un ruolo importante anche per quanto riguarda i rapporti con le case di
riposo, evitando da una parte un ricovero sempre motivo di stress per gli ospiti
delle residenze, in particolare se affetti da demenza, dall’altra un’osservazione troppo breve, con il rischio di non corrispondere alle esigenze cliniche
dell’anziano fragile.
Tra le attività ospedaliere che rivestono un intervento particolarmente delicato
e complesso vi è l’ortogeriatria, cioè un sistema per la messa in rete di interventi integrati attuati sulla persona anziana dopo una frattura. Si tratta di un
modello sempre più diffuso a livello internazionale, che ha prodotto risultati
importanti rispetto alla sopravvivenza della persona infortunata e alla ripresa
funzionale. Si basa su una forte integrazione tra l’attività chirurgica e geriatrica, per accompagnare il paziente attraverso le varie fasi della cura, dal periodo
preintervento - da ridurre al massimo - fino alla fase riabilitativa. La sua fragilità clinica impone un’osservazione continua, per evitare la comparsa di eventi
clinici avversi che incidono pesantemente sull’outcome finale.
Un altro aspetto particolarmente critico è rappresentato da un servizio che si
colloca all’estremo opposto dell’attività ospedaliera rispetto al pronto soccorso
e cioè le cure post-acute. Sono ben note le criticità connesse con questo ambito, anche perché mancano sperimentazioni che indichino percorsi univoci.
Nel prossimo futuro dovrà essere meglio definita la tipologia di paziente che
maggiormente si giova di questo intervento, chiarendo in particolare i confini
da una parte con la riabilitazione e dall’altra con gli interventi che sono programmabili nel territorio attraverso le attività domiciliari. A questo proposito
si deve analizzare con attenzione il possibile ruolo di questi servizi innovativi
nei riguardi delle persone affette da demenza e alla possibilità concreta che
facilitino il ritorno a casa dopo un periodo di ospedalizzazione, diminuendo nel
contempo il numero delle persone che devono essere istituzionalizzate.
Le unità speciali nelle residenze
Il ricovero delle persone con demenza in nuclei speciali in residenze per anziani (Nuclei Alzheimer) si è dimostrato in grado di ridurre la frequenza e
l’intensità dei disturbi comportamentali senza (o con limitato) uso di farmaci
psicotropi e contenzioni fisiche, di rallentare la perdita funzionale, di pre-
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
venire alcune complicanze (cadute, malnutrizione, sindrome da immobilità,
delirium), di migliorare la qualità della vita del paziente, dei familiari e del
personale di assistenza.
La decisione di ricoverare una persona affetta da demenza in una residenza
è quasi invariabilmente dettata dalla presenza di elevati livelli di disturbi
comportamentali. Infatti, mentre al domicilio il 40% dei pazienti è in una fase
lieve, il 40% in una fase moderata ed il restante 20% in una fase severa della
malattia, tra gli istituzionalizzati l’80% è in una fase severa o molto severa.
Si calcola che il 60-70% dei residenti in istituzione mostra un declino cognitivo; circa il 40% presenta una demenza di grado severo e il 50-60% rilevanti
disturbi comportamentali.
I nuclei specializzati per le demenze fondano la loro specificità su alcuni elementi centrali:
a. il personale, che deve essere specificamente formato per essere in grado
sul piano dei contenuti operativi e della capacità psicologica di affrontare
la gestione di pazienti gravemente disturbanti, ed in numero adeguato;
b. l’ambiente, adatto alle necessità dei pazienti, con una attenzione particolare alla dimensione architettonica, all’organizzazione degli spazi e all’uso
degli ausili. Lo spazio vitale della persona con demenza va considerato
come un sistema integrato, che comprende aspetti architettonici e componenti legate all’organizzazione e al contesto sociale;
c. i programmi di attività adatti alla specifica condizione della persona con
demenza, in grado ad un tempo di avere valore di stimolo e significato protesico;
d. i familiari, che vanno coinvolti attivamente, sia come fonte di informazioni
relative alla storia clinica dei pazienti, alle abitudini di vita al domicilio e
alle possibilità di comunicare nel miglior modo possibile con i malati, sia
come parte attiva delle attività di gruppo e come supporto nelle attività
assistenziali quotidiane.
Nell’ambito delle attività dei Nuclei Alzheimer sono state sperimentate varie
modalità originali di trattamento dei pazienti con demenza in stadio severo (musicoterapia, terapia occupazionale, terapia di validazione, ecc.), che
hanno mostrato efficacia sulla sintomatologia comportamentale e sul declino
funzionale e possono essere applicati anche in residenze tradizionali.
L’assistenza domiciliare
Le pagine che seguono sono dedicate ad una revisione del ruolo dell’Assistenza Domiciliare nell’ambito dei servizi per la persona affetta da demenza; anche gli Alzheimer Caffè si collocano in questa logica, come supporto
all’impegno che varie realtà assistenziali rivolgono all’ammalato che vive nel
proprio domicilio.
Il Progetto Obiettivo tutela degli Anziani del 1995 poneva come obiettivo, al
pagine 30_31
termine di un quinquennio, di attivare o potenziare i servizi di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) in modo da assistere almeno il 2% degli anziani ultrasessantacinquenni non autosufficienti o parzialmente autosufficienti o a grave
rischio di invalidità. I principali obiettivi dell’ADI sono orientati alla soddisfazione di bisogni plurimi correlati ad una condizione di non autosufficienza parziale o totale, attraverso la continuità e l’integrazione assistenziale, con una
particolare attenzione alla qualità di vita del paziente, perseguita attraverso il
mantenimento nel suo ambiente di vita e delle sue relazioni significative.
I servizi deputati alla gestione dell’assistenza domiciliare sono variamente denominati nelle diverse regioni italiane: Centri di Assistenza Domiciliare (CAD),
Servizi domiciliari, Cure Primarie, etc. per arrivare alle più recenti definizioni
di Cure Domiciliari erogate dal Distretto Sanitario o Sociosanitario.
Schematicamente, un corretto utilizzo dell’assistenza domiciliare soddisfa le
seguenti condizioni:
a. fondare la presa in carico sulla verifica di criteri di eleggibilità predefiniti
dei pazienti da assistere;
b. garantire una gestione esauriente e coordinata degli interventi;
c. valutare concretamente gli interventi attuati.
La scelta corretta e appropriata degli assistiti ed uno stabile collegamento con i
comparti ospedalieri o le strutture semiresidenziali e residenziali extraospedaliere (Istituti/Centri di riabilitazione, RSA, Residenze Protette, Hospice, Centri
diurni, etc.) permette di rispondere con celerità ed efficacia alla domanda
assistenziale e soprattutto di garantire la continuità assistenziale, obiettivo
primario nell’area della non autosufficienza. L’esperienza dell’assistenza domiciliare però non si è mai concentrata sulle persone affette da demenza; questo
aspetto resta uno dei più critici nell’insieme della rete e quello sul quale si
dovrebbero concentrare i maggiori sforzi sul piano della modellistica e della
relativa sperimentazione.
Nell’ambito dei servizi territoriali uno spazio particolare spetta ai Centri Diurni
(CD), rappresentano un supporto per le famiglie ed arricchiscono le opportunità
e la flessibilità della rete quando dotati di specifiche caratteristiche:
a. una specifica connotazione socio-sanitaria in un ambiente adeguato: il ruolo
dell’ambiente per la gestione del paziente con demenza è fondamentale;
allo stesso tempo il CD deve essere in grado di affrontare anche le esigenze
sanitarie;
b. buona collocazione urbanistica: il CD non deve essere isolato dal contesto di
vita del paziente e deve favorire le relazioni con il tessuto sociale;
c. dotazione adeguata di personale qualificato e di programmi personalizzati di attività: le attività di socializzazione, di educazione, di riattivazione
richiedono programmi specifici per le persone con demenza e il personale
deve essere perciò preparato alla relazione con questi pazienti;
d. flessibilità nella gestione e negli orari di apertura: deve essere possibile
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
la copertura di un’ampia fascia oraria (fino a 10/12 ore) e per almeno sei
giorni alla settimana;
e. disponibilità di un servizio di trasporto attrezzato, per favorire l’accesso
e ridurre il carico familiare.
I Centri Diurni possono essere dedicati specificamente ai pazienti affetti da
demenza, oppure di tipo misto. Nei centri demenza-specifici, oltre alle attività di base della vita quotidiana, vengono garantite alcune attività riabilitative
sia cognitive sia motorie, oltre all’osservazione clinica ed alla somministrazione dei farmaci. Il Centro Diurno offre varie prestazioni: servizio di ristorazione, ritrovo, segretariato sociale, consulenza, attività ricreative e culturali,
attività sanitarie prevalentemente di tipo riabilitativo. In alcuni casi i centri
diurni sviluppano relazioni con gli Alzheimer Caffè, che possono rappresentare un’utile integrazione delle loro attività.
In genere, i pazienti affetti da demenza che afferiscono al Centro Diurno
sono quelli più “difficili” per i familiari, perché presentano maggiore compromissione funzionale, più elevata frequenza di disturbi comportamentali e di
comorbilità somatica. I Centri Diurni sono ampiamente diffusi, anche se non
esistono stime precise. Secondo una recente indagine condotta in Lombardia,
il 25% circa dei pazienti con demenza che vivono al domicilio frequenta un
CDI. Ad esempio, in Regione Lombardia vi sono 232 CD accreditati, per un
totale di 5.143 posti (0,6% dei soggetti ultra 75enni); i CD dedicati in modo
esclusivo ai pazienti con demenza sono però solo 7, per un totale di 154 posti.
1.c I supporti informali
L’assistenza diretta all’anziano e alle persone di tutte le età non autosufficienti è un compito difficile sul piano umano, complesso sul piano organizzativo, che richiede competenza, “forza” fisica e psicologica, disponibilità di
tempo, spesso anche disponibilità economiche. Come fare per rendere sempre più efficace l’impegno generoso di molte centinaia di migliaia di cittadini
che destinano il loro tempo a favore di chi è stato colpito da forti compromissioni dell’autonomia (con ricadute pesanti sulla qualità della vita)? È un mondo di generosità spesso nascoste e scarsamente riconosciute, che deve uscire
dalla marginalità nella quale è stato relegato. Non è accettabile, infatti, che
una componente così importante dell’organizzazione sociale sia formalmente
irriconoscibile.
Il caregiving è essenziale per il mantenimento della persona non autosufficiente, spesso affetta da polipatologia che si riflette direttamente sull’autosufficienza, nel proprio domicilio; rappresenta quindi una funzione che si
avvicina a quella di un servizio di valenza istituzionale, assieme a quelle più
strettamente cliniche (delle quali peraltro rappresenta il braccio operativo,
perché nessuna prescrizione farmacologica, riabilitativa o sul piano degli stili
di vita è destinata al successo se non è sostenuta dal sistema di caregiving).
pagine 32_33
A fronte di questo bisogno che cresce e presenta dinamiche sempre diverse
oggi si assiste ad una progressiva difficoltà nell’espletamento della funzione
di caregiving, perché è aumentato il numero e la gravità clinico-assistenziale
delle persone bisognose di cura (fenomeno conseguente alla modificazione
strutturale dell’intervento medico, tendente a cronicizzare le malattie) e allo
stesso tempo è cambiata la struttura della famiglia (che fino a qualche anno
fa vedeva una pluralità di attori dell’assistenza, poi la riduzione del loro numero, ma con una sempre elevata attenzione per la persona principalmente
responsabile, fino alla condizione di oggi, caratterizzata da una sostanziale
solitudine della diade curante-curato).
Più recentemente il sistema di caregiving ha subito la riduzione - avvenuta
in molti settori - dei servizi pubblici di supporto, come conseguenza delle
restrizioni economiche. Quelli che prestano assistenza si ritrovano spesso a
svolgere funzioni di competenza tecnica che non spetterebbero a loro, compiti ai quali però le circostanze non permettono di sottrarsi. La recente crisi ha
indotto tra l’altro un cambiamento - seppur ancora limitato - nella tipologia
dei caregiver, perché si assiste al ritorno a casa di donne espulse dal mercato
del lavoro, che trovano nell’ambito famigliare allargato una nuova possibile
fonte di sostentamento.
Parallelamente al sistema dei servizi vi è l’area delle cure affidata alle assitenti familiari. La crisi economica sta inserendo fattori di cambiamento anche in questo ambito, perché si inizia a documentare un ritorno al lavoro
domestico di donne italiane. In questa prospettiva va rivalutata l’importanza
dell’assegno di accompagnamento, che con la riduzione degli introiti delle famiglie ha assunto un ruolo sempre più significativo. In passato qualche
commentatore superficiale ha giudicato eccessiva la quota del 9.5% degli
ultra-sessantacinquenni fruitori dell’assegno; oggi si ritiene adeguata questa
percentuale, ma soprattutto il contributo alle persone non autosufficienti è
divenuto centrale per l’equilibrio umano ed economico di molte famiglie. Rispetto al problema, l’area delle demenze è particolarmente delicata, perché
da tempo si discute sul significato di invalidità con interpretazioni puramente
“motorie”, che penalizzano le persone affette da alterazioni cognitive e le
loro famiglie, costrette ad un accompagnamento spesso pesantissimo, che
però non viene riconosciuto e quindi non viene retribuito. È un’ulteriore testimonianza di come sia ancora difficile far comprendere al sistema dei servizi le
problematiche che accompagnano la vita di chi è affetto da demenza e sulla
sua esigenza di ricevere supporti adeguati sul piano clinico, assistenziale ed
economico.
L’evoluzione sopradescritta del sistema di caregiving ha dei limiti, perché è
stata subita e non scelta liberamente; ciò induce all’interno della famiglia
condizioni sempre più rilevanti di stress e lo sviluppo di forti tensioni; di
conseguenza, tra l’altro, il lavoro di cura perde una parte del proprio valore
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
sul piano dell’organizzazione della comunità e quindi la possibilità di formare
capitale sociale.
Lo scenario del caregiving mette in luce la sostanziale fragilità del comparto,
nel quale agiscono realtà diverse, molto spesso prive di protezione e esterne
a qualsiasi organizzazione. Di conseguenza i singoli attori - sia appartenenti
alla famiglia sia personale prevalentemente straniero - sono esposti a mille
difficoltà, sul piano psicologico (la solitudine, l’incertezza sul futuro, il contatto con una sofferenza prolungata e spesso molto grave), sul piano tecnico
(la mancanza di informazioni sulle principali metodologie di nursing geriatrico e non, a fronte di condizioni che richiederebbero interventi di una certa
specificità), sul piano normativo (modalità di assunzione, tempi di lavoro,
assicurazioni, ecc.). La sofferenza del caregiver famigliare assume aspetti diversi nel lungo itinerario della malattia: dall’attesa della diagnosi, al momento della sua comunicazione, alla difficile quotidianità, all’accompagnamento
nelle fasi avanzate e terminali della demenza, al momento delle decisioni più
drammatiche (l’istituzionalizzazione, le scelte sull’alimentazione artificiale,
sul ricorso a trattamenti particolari, ecc.), infine di fronte alla morte del
proprio caro. Rispetto a queste tematiche il caregiving delle persone affette
da demenza non dispone di modelli formalizzati di intervento; la risposta
deve essere costruita ogni giorno, attraverso crisi, successi, dolore, incertezze. Sempre più quindi si palesa la necessità di strutturare meccanismi di
riconoscimento del lavoro svolto e di supporto alle figure di assistente-organizzatore-infermiere-psicologo sui vari piani del bisogno, cioè quello praticotecnico, quello relazionale, quello dell’organizzazione del tempo ed infine
normativo-previdenziale-economico. Al contrario, nello scenario della nostra
società oggi non si identificano interventi che si facciano carico in modo coordinato di bisogni così complessi. Per rispondere a questa esigenza sarebbe di
grande rilievo umano e pratico che il ruolo dei caregiver venisse riconosciuto
a livello istituzionale prevedendo:
a. un riconoscimento sul piano culturale e sociale dell’importanza del caregiving, in modo da raggiungere a livello nazionale un’omogeneità di fondo
rispetto alla valutazione di questa importante funzione umana e assistenziale. Si deve definire il ruolo di sussidiarietà della famiglia rispetto al
servizio pubblico non come una concessione, ma come centrale per lo
sviluppo civile;
b. il riconoscimento pieno da parte del Governo, delle Regioni e degli Enti
Locali della famiglia come realtà di servizio alle persone non autosufficienti. Tale riconoscimento deve portare a modificare le norme vigenti
non premianti e ad istituire benefici economici omogenei ed adeguati rispetto al “peso” assistenziale. Uno dei primi interventi da attuare è una
revisione della legge 104/92 che da la possibilità di fruire di permessi
lavorativi; infatti si sono registrati abusi che hanno suggerito un inaspri-
pagine 34_35
c.
d.
e.
f.
mento dei controlli, mentre allo stesso tempo molte situazioni di reale
bisogno non hanno trovato adeguata risposta;
una definizione di compiti e doveri dei caregiver; ovviamente all’interno
di un piano strategico volto a valorizzare formalmente una funzione è
necessario indicarne limiti e confini, anche se è da evitare qualsiasi irrigidimento entro schemi burocratici di una funzione che ha sempre una rilevante componente volontaristica e quindi di auto-organizzazione. L’assistenza a casa è strutturalmente connessa al riconoscimento di un elevato
grado di libertà da parte dei vari attori delle cure. Un aspetto particolare
è rappresentato dal rapporto del caregiver con l’eventuale amministratore di sostegno; spesso le due figure non coincidono, con il rischio di
conflitti negativi per proseguire con serenità un progetto assistenziale;
il diritto e dovere ad una formazione adeguata sul piano tecnico e della
relazione. In molte realtà locali si stanno diffondendo “scuole delle famiglie”, dove attraverso l’uso di adeguati strumenti didattici si insegnano le
tecniche di nursing delle persone non autosufficienti, assieme a modalità
per affrontare e gestire lo stress, nonché le dinamiche intrafamiliari e
verso i servizi;
la strutturazione da parte delle Aziende sanitarie di piani assistenziali che
prevedano l’inserimento organico dei caregiver. In questa prospettiva si
deve considerare sia il livello domiciliare sia quello ospedaliero sia quello
delle residenze; in ogni luogo si devono riconoscere in modo formale i
diritti dei caregiver, favorendo il loro lavoro e sgravandolo da oneri impropri sul piano pratico (si pensi, ad esempio, alle limitazioni di accesso dei
caregiver in alcune strutture residenziali, negli ospedali, ecc.). Attraverso
i piani di assistenza si devono definire i compiti del caregiver, diversificandone l’impegno e di conseguenza gli interventi rispetto alle esigenze della
persona non autosufficiente;
l’organizzazione di servizi adeguati di supporto al lavoro della famiglia
all’interno del domicilio (centri diurni, ricoveri di sollievo, ecc.). In una
prospettiva sistemica questi servizi devono essere parametrati rispetto al
bisogno reale e quindi essere in rete con le esigenze di un determinato
territorio.
1.d Un futuro possibile e sostenibile
In conclusione è utile delineare alcune caratteristiche degli interventi organizzati a favore delle persone affette da demenza.
La prima è il coordinamento del lavoro compiuto in diversi ambiti, sotto una
precisa guida strategica e tecnica. Gli interventi devono essere compiuti
all’interno di una logica unitaria, che si è esplicata in diversi filoni coerenti
fra loro. Ciò non deve comportare alcun aumento di strutture burocratiche,
con i relativi costi e lentezze; ogni attore di interventi è però conscio di agire
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
in una rete che ne valorizza il contributo. Questo aspetto è importante, perché aumenta sia il valore dei risultati, sia la soddisfazione del singolo operatore delle cure rispetto al lavoro compiuto.
Una seconda caratteristica dei servizi in favore di chi è fragile, come i cittadini affetti da demenza, è di essere costituiti da tante piccole imprese che nel
loro insieme diventano importanti. Le piccole cose possono diventare “gigantesche” se vengono messe assieme a formare una rete sulla quale la persona
si può appoggiare nei momenti di difficoltà.
Una terza caratteristica dei servizi è di affrontare i problemi delle persone
anziane tenendo presente la multidimensionalità del loro bisogno e quindi
l’esigenza che da qualsiasi punto di osservazione specifica si inizi ad operare non si dimentichi che la persona esprime la sua fragilità a causa di un
insieme fortemente intricato di condizioni somatiche, psicologiche e sociorelazionali. L’intervento che serve davvero è quello che rinuncia alla sola
prospettiva della quale è portatore il singolo operatore (o sistema organizzato) per inserirsi nella logica del lavoro collaborativo, senza forzature e senza
prevaricazioni. Per chi non dimentica le discussioni senza fine del passato se
nel prendersi cura dei vecchi fossero più importanti gli aspetti clinici, quelli assistenziali o quelli relazionali, è motivo di soddisfazione verificare che
queste barriere, che impedivano il raggiungimento dei migliori risultati, sono
via via scomparse. Anche la dialettica tra ospedale e territorio, che ha recentemente occupato le pagine della pubblicistica spesso con scarsi risultati, è
stata superata, così come altre “parole chiave”, che troppo spesso rischiano
di diventare “parole vuote”, quali “continuità terapeutica”, “porte uniche di
accesso”. Spesso una forte idea di fondo condivisa permette di superare negli
atti concreti di tutti i giorni le difficoltà che normalmente vengono descritte
attorno a queste tematiche. Un po’ più di “mondo reale” rispetto alle costruzioni teoriche che tutto prevedono e tutto governano è la ricetta che ha dato
i frutti migliori.
Un’ulteriore caratteristica dei sistemi organizzati deve essere l’impegno a
misurare sempre i risultati ottenuti, in modo da uscire dall’autoreferenzialità
che ha caratterizzato in passato i settori più deboli, sia in ambito sanitario
che assistenziale. Oggi affermare che “quello che non si misura non esiste”
è la premessa alla costruzione di un bilancio costo-beneficio, sempre più necessario in un contesto di restrizioni economiche; ma, soprattutto, la misura
dei risultati è un segno di rispetto civile ed umano verso la persona che riceve
un intervento, perché ha diritto a conoscere quali sono i risultati degli atti
compiuti a suo favore. L’atteggiamento di chi non ritiene necessario impegnarsi in questo ambito riflette o pessimismo, per cui tutto sarebbe inutile,
o la presunzione che l’intervento compiuto deve necessariamente portare ad
un risultato; in entrambi i casi la persona fragile non viene valorizzata come
portatrice di un diritto che impegna ad ottenere il massimo possibile in una
pagine 36_37
determinata circostanza.
A conclusione di queste pagine sull’importanza dei servizi per la qualità della
vita degli ammalati riportiamo un frammento da una poesia del grande poeta
Andrea Zanzotto; esprime la forza della luce (la solidarietà umana?) anche
di fronte alle più terribili condizioni. Come il sole combatte l’Alzheimer, così
speriamo che l’impegno di tanti a favore del benessere degli anziani possa
rappresentare una luce sulla strada di chi soffre, una luce caratterizzata dalla
generosità dell’impegno umano e dalla sapienza della medicina: “panchine
stupefatte/nel reggere al sole due vecchi ancora saldi. Al sole/con la viola in
mano della memoria/antialzheimeriano sole”.
CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo
2.a Gli enti fondatori e gli attuali partner
40
2.b L’ambiente
43
2.c Il personale
47
2.d I frequentatori
49
2.e Attività per i pazienti e per i caregiver
51
2.f Il budget
53
2.G La comunicazione
54
Capitolo 2
L’Alzheimer Caffè.
Prospettive di lavoro: dimensioni,
organizzazione, operatori,
programmi e costi
pagine 39_39
L’alzheimer caffÈ:
la ricchezza di un’esperienza
CAPITOLO 2
L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro:
dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi
In questo capitolo vengono presentati i dati raccolti da sette Alzheimer Caffè,
il cui elenco è riportato nella Tabella 1, ritenuti significavi per i rispettivi territori, sia per tipologia di attività sia per numero di utenti coinvolti. L’analisi
dei Caffè ha permesso una efficace contestualizzazione dei modelli teorici rilevandone i pregi e, talvolta, i limiti. Nel complesso, infatti, nonostante le varie realtà abbiano adottato una struttura generale ispirata a quella
proposta da Miesen per la costituzione di un Alzheimer Caffè, hanno saputo
adattarsi alle esigenze emerse dalla propria utenza. I dati sono stati raccolti
sulla base di un protocollo al quale si sono attenuti gli organizzatori dei Caffè
partecipanti allo studio.
Tabella 1. Elenco degli Alzheimer Caffè partecipanti allo studio
Caffè
Sede
Amarcord al Caffè
Cesena
Alzheimer Caffè
Cremona
Alzhauser Caffè
Saronno
Casa Guidi Caffè
Sesto Fiorentino
Alzheimer Caffè
Roma
Alzheimer Caffè
Oderzo
Alzheimer Caffè
Treviso
Talvolta i Caffè sono inseriti nella rete di servizi assistenziali provinciali o
regionali, assieme ad altri Alzheimer Caffè o enti che si occupano di demenze. I Caffè di Roma, di Treviso e Oderzo sono delle strutture complesse che
presentano al loro interno ulteriori suddivisioni:
- l’Alzheimer Uniti Roma Onlus gestisce gli Alzheimer Caffè in tre quartieri
della Capitale: Monteverde, Prenestino e Bologna. I tre centri presentano
alcune variazioni nell’organizzazione e nella gestione delle attività.
- I Caffè di Oderzo e Treviso presentano una suddivisione in base alle tipologie di intervento, determinate dal grado di compromissione cognitiva
delle persone con demenza e dalle esigenze informative ed educazionali
dei cargivers. In base a tali criteri esistono due gruppi per ogni Caffè: il
Gruppo ACM (Alzheimer Caffè Malati) e il Gruppo ACF (Alzheimer Caffè
Familiari).
2.a Gli enti fondatori e gli attuali partner
L’Alzheimer Caffè nasce spesso in risposta ad una mancanza di informazioni e
di servizi adeguati in materia di sostegno ai familiari dei pazienti. Vari studi
hanno indicato che i caregiver delle persone affette da demenza non sono
sufficientemente informati riguardo alle problematiche assistenziali cui può
andare incontro il malato e all’iter burocratico per ottenere eventuali supporti esterni; una parte rilevante di loro chiede, quindi, di avere ulteriori infor-
Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi
mazioni su programmi di prevenzione e sulle caratteristiche della malattia.
Alcune istituzioni ed enti, per rispondere ad un crescente bisogno di sapere
e di saper gestire le demenze, hanno promosso la fondazione di un Alzheimer
Caffè. Gli anni di attività testimoniano non solo il successo dell’idea iniziale,
ma anche della collaborazione fra i diversi attori della cura e dell’assistenza
all’anziano di un territorio (Tabella 2).
Tabella 2. Gli anni di attività degli Alzheimer Caffè
Caffè
Anni di attività
Amarcord al Caffè
Cesena
4
Alzheimer Caffè
Cremona
6
Casa Guidi Caffè
Sesto Fiorentino
3
Alzheimer Caffè Q.re Monteverde
Alzheimer Caffè Q.re Prenestino
Alzheimer Caffè Q.re Bologna
Roma
Alzhauser Caffè
Saronno
ACM Alzheimer Caffè Malati
ACF Alzheimer Caffè Familiari
ACM Alzheimer Caffè Malati
ACF Alzheimer Caffè Familiari
2
2
5
Oderzo
Treviso
5
3
6
4
4
Ogni Alzheimer Caffè, infatti, è il risultato della sinergia di diversi soggetti
particolarmente sensibili alle esigenze dei pazienti affetti da demenza e dei
loro familiari.
Ripercorrendo la storia della nascita di ogni Caffè vi si trovano, quali promotori, soggetti già coinvolti nell’assistenza agli anziani. In particolare, gli enti
fondatori dei centri analizzati sono stati: per il Caffè Amarcord di Cesena la
Fondazione Opera Don Baronio; per il Caffè di Cremona l’Associazione AIMA,
Associazione Italiana Malati di Alzheimer; il soggetto iniziatore del Casa Guidi
Caffè è stato la Cooperativa Sociale Elleuno. I Caffè di Roma si fondano su
un progetto proposto dall’associazione Onlus Alzheimer Uniti. A Saronno il
Caffè ha preso avvio grazie alla Onlus Auser Volontariato, mentre per Oderzo
e Treviso l’iniziatore degli Alzheimer Caffè è stato l’Ente ISRAA, Istituto di
Ricovero ed Assistenza agli Anziani, una Istituzione Pubblica di Assistenza e
Beneficenza, che nel 2008, ideò e finanziò il progetto pilota Alzheimer Caffè
per malati.
Per sviluppare l’idea iniziale, alcuni centri hanno coinvolto ulteriori realtà,
elencate nella Tabella 3.
I modelli sono molteplici: il Caffè di Cesena, ad esempio, vede fra i partner
iniziali una decina di enti, fra i quali, unico caso, un Ateneo, l’Università di
Bologna, mentre altri Caffè sono stati promossi da un’unica struttura.
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Tabella 3. Gli enti fondatori degli Alzheimer Caffè
Caffè
Enti fondatori
Amarcord al Caffè
Cesena
AUSL di Cesena; Fondazione Opera
Don Baronio; Università di Bologna;
ASP Distretto di Cesena-Valle Savio;
Associazione “Amici di Casa Insieme”;
Associazione CAIMA; Associazione
GAIA; Associazione AUSER Territoriale
di Cesena; Comune di Cesena
Alzheimer Caffè
Cremona
AIMA
Casa Guidi Caffè
Sesto Fiorentino
Cooperativa Sociale Elleuno; Associazione AIMA; Società della salute della
zona Fiorentina Nord-Ovest
Alzheimer Caffè
Q.re Monteverde
Alzheimer Caffè
Q.re Prenestino
Roma
Alzheimer Caffè
Q.re Bologna
Associazione Alzheimer Uniti Roma,
con il patrocinio del XVI Municipio e
della Coop Sociale “Medici di medicina generale 16 Onlus”
Associazione Alzheimer Uniti Roma
con il patrocinio del VI Municipio
Associazione Alzheimer Uniti Roma
Alzhauser Caffè
Saronno
AUSER
ACM e ACF
Oderzo
ISRAA- Istituto di Ricovero ed Assistenza agli Anziani
ACM e ACF
Treviso
ISRAA- Istituto di Ricovero ed Assistenza agli Anziani
Come già indicato, le soluzioni trovate per l’avvio di un Alzheimer Caffè sono
state diverse, sia per numero sia per tipologia di soggetti coinvolti; in media le
associazioni su base volontaristica costituiscono la maggioranza degli enti cofondatori; in altri casi figurano cooperative, in particolare quelle che, già prima
dell’avvio del Caffè, gestivano servizi per gli anziani. Dopo l’avvio iniziale delle
proprie attività i Caffè hanno saputo creare e ottimizzare ulteriori contatti, sia
con strutture pubbliche sia con altre realtà, al fine di sviluppare al meglio le
proprie potenzialità. La ricerca di nuovi attori, per l’organizzazione, la gestione
e il finanziamento del Caffè, è un processo sempre aperto ad ulteriori interlocutori. Nella Tabella 4 sono riportati, oltre ai soggetti fondatori, gli enti che hanno
iniziato a collaborare dopo l’avvio. È altresì significativo rilevare che tutti gli enti
promotori sono attualmente partner del progetto dell’Alzheimer Caffè, anche se,
in alcuni casi essi, rivestono un ruolo diverso rispetto agli esordi.
Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi
Tabella 4. Enti attualmente partner degli Alzheimer Caffè
Caffè
Partner attualmente coinvolti
nella gestione dell’AC
Amarcord al
Caffè
Cesena
AUSL di Cesena; Fondazione Opera Don Baronio;
Università di Bologna; ASP distretto di CesenaValle Savio; Associazione “Amici di Casa Insieme”; Associazione CAIMA; Associazione GAIA;
Associazione AUSER Territoriale di Cesena; Comune di Cesena; Centro Servizi per il Volontariato Ass.I. prov.V; CAD Società Cooperativa ONLUS
Alzheimer
Caffè
Cremona
AIMA, collaborazioni con: CISVOL-Centro Servizi
per il Volontariato; Forum del Terzo Settore per
Cremona; Associazione “Donatori del tempo libero”; Associzione “Nido dei nonni”
Casa Guidi
Caffè
Sesto
Fiorentino
Cooperativa Sociale Elleuno; Associazione AIMA;
Società della salute della Zona Fiorentina NordOvest; Associazione Comunale Anziani di Sesto
Alzheimer
Caffè Q.re
Monteverde
Alzheimer
Caffè Q.re
Prenestino
Associazione Alzheimer Uniti Roma, con il patrocinio del XVI Municipio e della Coop Sociale
“Medici di medicina generale 16 Onlus”
Roma
Alzheimer
Caffè Q.re
Bologna
Alzhauser
Caffè
Associazione Alzheimer Uniti Roma, con il patrocinio del VI Municipio
Associazione Alzheimer Uniti Roma
Saronno
AUSER, collaborazione con Associazioni locali
ISRAA; Associazione Perdut’amente; Azienda Sanitaria ULSS 9; Residenza Anziani Oderzo
ACM
Oderzo
ACF
ISRAA; Associazione Perdut’amente; Azienda Sanitaria ULSS 9; Casa di Riposo di Motta Livenza;
Comune di Oderzo; Comune di Motta di Livenza
ACM
ISRAA; Associazione Perdut’amente; Azienda Sanitaria ULSS 9
Treviso
ACF
Sono sottolineati
i nuovi enti partner.
ISRAA; Associazione Perdut’amente; Azienda Sanitaria ULSS 9; Comune di Treviso
2.b L’ambiente
La collocazione del Caffè rispetto alla città e il suo setting sono fattori importanti che permettono di stabilire quale sarà la tipologia di utenti e in
pagine 42_43
quale quantità, quali saranno le attività che si possono proporre e quali, per
mancanza di spazio, è opportuno evitare. Le sedi degli Alzheimer Caffè sono
spesso ambienti messi a disposizione o in condivisione con altre realtà operanti sul territorio (Tabella 5).
Tabella 5. La collocazione
Caffè
Collocazione
Amarcord al Caffè
Cesena
Locale solitamente
adibito a Centro
Ricreativo Culturale, in
uno stabile destinato ad
alloggi per anziani
Alzheimer Caffè
Cremona
Centro diurno privato per
anziani
Casa Guidi Caffè
Sesto Fiorentino
Centro civico, dove
ha sede anche
l’Associazione comunale
per anziani
Alzheimer Caffè
Monteverde
Roma
Sede di una Associazione
equo solidale
Alzheimer Caffè
Q.re Prenestino
Casa Famiglia per anziani
fragili
Alzheimer Caffè
Q.re Bologna
Parrocchia del Quartiere
Alzhauser Caffè
Saronno
Sede della Cooperativa
AUSER, all’interno di
un edificio destinato ad
attività di libera aggregazione
ACM
Oderzo
Residenza per anziani
Struttura appartenente
all’associazione Alpini
ACF
ACM
ACF
Treviso
Residenza per anziani
Centro diurno
La localizzazione all’interno di un ambito sociale favorisce il coinvolgimento
di un numero maggiore di utenti; in alcuni casi i Caffè si trovano in strutture
che già si occupano di anziani (RSA, Centri diurni, Associazioni). Se da un lato
questo facilita il contatto con pazienti e familiari che potrebbero diventare
futuri utenti, dall’altro il Caffè corre il rischio di essere considerato come una
estensione delle prime e non come una realtà autonoma.
Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi
Inoltre, per aumentare la propria visibilità nel tessuto urbano, la maggior
parte dei Caffè ha ubicato la sede in un contesto conosciuto, al centro del Comune, prevalentemente capoluoghi di provincia o realtà più piccole. Questa
collocazione garantisce una maggiore considerazione da parte di tutti i cittadini, fruitori o possibili fruitori dei servizi dell’Alzheimer Caffè. Per metropoli
come Roma, la definizione di periferia e centro è limitativa: l’Alzheimer Caffè
diventa un servizio per una circoscrizione o per un quartiere (Tabella 6).
Tabella 6. La collocazione degli Alzheimer Caffè nelle città
Caffè
Collocazione nella città
Amarcord al Caffè
Cesena
Centro
Alzheimer Caffè
Cremona
Centro
Casa Guidi Caffè
Sesto Fiorentino
Centro
Alzheimer Caffè
Q.re Monteverde
Alzheimer Caffè
Q.re Prenestino
Centro
Roma
Alzheimer Caffè
Q.re Bologna
Alzhauser Caffè
ACM
ACF
ACM
ACF
Periferia
Periferia
Saronno
Oderzo
Treviso
Centro
Centro
Periferia
Centro
Periferia
Anche l’organizzazione e la suddivisione dello spazio influisce notevolmente
sulla vita del Caffè. Le superfici vanno da un minimo di 40 mq ad un massimo di 250 mq (Tabella 7). Gli ambienti a disposizione sono prevalentemente
destinati alle attività con i pazienti e i familiari: in ogni Caffè, infatti, è presente una sala per gli incontri. Non sempre è possibile dividere i familiari dai
pazienti, destinando a ciascuno di loro un locale separato. In alcuni Caffè vi
è uno spazio per la segreteria; in altri è casi vi è una cucina in supporto alla
preparazione del momento conviviale. Per i propri incontri nella bella stagione, alcuni Caffè usufruiscono di giardini e di balconi.
pagine 44_45
Tabella 7. Le caratteristiche dei locali
Caffè
Amarcord al Caffè
Alzheimer Caffè
Casa Guidi Caffè
Alzheimer Caffè
Q.re Monteverde
Alzheimer Caffè
Q.re Prenestino
Alzheimer Caffè Q.re
Bologna
Alzhauser Caffè
ACM
ACF
ACM
ACF
Cesena
Cremona
Sesto Fiorentino
Roma
Saronno
Oderzo
Treviso
mq.
nr. stanze
nr. servizi
igienici
40
106
63
1
2
1
2
3
4
nr. servizi
igienici
accessibili ai
disabili
1
1
1
40
2
2
1
si
60
1
1
-
si
100
1
1
-
si
250
106
76,42
125
90
5
2
3
2
2
3
2
2
2
2
1
1
1
1
1
si
si
si
si
si
parcheggio
vicino alla
struttura
si
si
si
Un aspetto da non sottovalutare è l’accessibilità della struttura a pazienti che
abbiano difficoltà motorie, con la presenza di ascensori e ingressi facilitati e
di servizi igienici appositi, presenti praticamente in ogni Caffè. Inoltre, soprattutto se il trasporto deve essere gestito dal caregiver, un altro elemento
da considerare è la possibilità di parcheggio nei pressi della struttura. Tutti i
Caffè analizzati sono collocati in prossimità di parcheggi, e, soprattutto nelle
città di medie dimensioni, sono anche raggiungibili con i mezzi di trasporto
pubblico.
Il trasporto dei pazienti e caregiver, dove richiesto, dovrebbe essere un servizio sempre garantito e gratuito, come avviene nei tre Caffè che lo hanno
attivato, sebbene rappresenti una voce di spesa onerosa, sia in termini di
spese per mezzi, benzina e assicurazione, sia per l’impiego di volontari o
personale retribuito. La possibilità di usufruire di mezzi di trasporto messi a
disposizione dal Caffè favorisce le presenze agli incontri anche di utenti che,
diversamente, non vi potrebbero partecipare.
Un’ultima considerazione riguarda l’arredamento dei Caffè, informale ed accogliente, molto diverso dagli ambienti di ospedali e cliniche. La scelta e
la disposizione dei mobili ricordano quelle di un bar o di un vero e proprio
caffè, o, ancora, a seconda della struttura, quelle di una casa. All’interno del
Caffè è possibile trovare, a volte, dei “corner informativi” con materiale a
disposizione degli utenti sulla malattia di Alzheimer e sui servizi offerti dal
territorio. Gli orari di apertura al pubblico dei Caffè vengono incontro alle
esigenze dei caregiver e dei pazienti e sono fissati in base alla tipologia di
Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi
intervento previsto. Ad esempio, gli incontri programmati durante la mattina
o nel pomeriggio favoriscono i caregiver che non lavorano, mentre per gli
incontri di carattere informativo sulla gestione del paziente, viene scelto
un momento diverso della giornata. I Caffè sono tendenzialmente aperti a
cadenza settimanale (Tabella 8).
Tabella 8. Gli orari di apertura
Caffè
Ore di apertura
alla settimana
Ore di apertura
al mese
Amarcord al Caffè
Cesena
3
12
Alzheimer Caffè
Cremona
6
26
Casa Guidi Caffè
Sesto Fiorentino
6
Alzheimer Caffè
Q.re Monteverde
Alzheimer Caffè
Q.re Prenestino
5
Roma
3
Alzheimer Caffè
Q.re Bologna
Alzhauser Caffè
ACM
ACF
ACM
ACF
6
Saronno
Oderzo
Treviso
41,5
4
182
16
2
4
4
16
Solo un Caffè ha segnalato orari diversificati in base all’ora legale e solare,
per venire incontro alle esigenze dei pazienti che, al “calar del sole”, sembrano più irrequieti. In merito al periodo di chiusura, è da notare, infine, che
la maggior parte degli Alzheimer Caffè sospende gli incontri per il periodo
estivo, normalmente solo per alcune settimane.
2.c Il personale
Una molteplicità di figure professionali concorre alla formazione degli staff
degli Alzheimer Caffè. Complessivamente negli 11 Caffè collaborano 123 persone. Confrontando i dati per ogni Centro si riscontrano differenze significative: alcune strutture impegnano oltre una trentina di persone, mentre
altre poche unità. L’organizzazione delle attività dipende, ovviamente, dalla
quantità delle risorse umane a disposizione, dal loro profilo e dalle loro competenze. In dettaglio le figure che collaborano con gli 11 Caffè sono:
• 53 Volontari
• 23 Tirocinanti
pagine 46_47
• 15 Psicologi
• 11 Tecnici per le attività dei pazienti
(musicoterapista, insegnante di arte, terapista della riabilitazione, ecc)
• 4 Infermieri
• 4 Educatori Professionali
• 3 Medici
• 2 Coordinatori
• 8 Altre figure
Sui 123 addetti, il 65% lavora in qualità di volontario; il personale retribuito
comprende, solitamente, psicologi e medici specialisti, nonché gli addetti
alle attività di laboratorio per i pazienti.
I volontari, ivi inclusi i tirocinanti sia universitari sia degli Istituti superiori,
ricoprono varie mansioni: aiutano nella gestione del gruppo e nelle attività,
svolgono lavori di segreteria, si occupano degli acquisti, ecc. Per partecipare alle attività, soprattutto per rispondere alle richieste informative dei
caregiver, gli Alzheimer Caffè organizzano corsi per la loro formazione.
Fra le figure specializzate nel trattamento delle problematiche delle demenze, lo psicologo è sicuramente la figura più presente nei Caffè, con la
duplice funzione di supporto alle attività dei pazienti e di aiuto psicologico
ai familiari. L’approccio al paziente si realizza attraverso la valutazione
cognitiva, la valutazione affettivo-comportamentale e gli aspetti relazionali
e di comunicazione, mentre per quanto concerne gli interventi, gli psicologi
si focalizzano in particolar modo sugli aspetti affettivi e cognitivi del malato
e come supporto agli operatori.
Il personale del Caffè è composto anche dai terapisti che si occupano delle
attività rivolte ai pazienti. Si tratta di specialisti in musicoterapia, l’attività
più diffusa dopo la stimolazione cognitiva, arteterapia, pet-therapy, ginnastica orientale.
Gli Alzheimer Caffè richiedono spesso anche la presenza di un educatore
professionale che collabora con lo psicologo e gli altri attori della cura nella
gestione degli incontri e nelle diverse attività.
Medici ed infermieri partecipano prevalentemente alle riunioni rivolte ai
caregiver, in qualità di consulenti per i familiari e gli assistenti informali che
devono acquisire informazioni utili circa il decorso della malattia del loro
caro e circa alla gestione del paziente a casa.
Il personale e i volontari vengono guidati nelle loro diverse attività e specificità da una figura incaricata ufficialmente con il ruolo di coordinatore. Solo
in due Caffè questa figura è bene distinta dalle altre, mentre normalmente
viene incaricato un collaboratore che, oltre alla sua funzione, svolge anche
quella di supervisore.
Al fine di condurre le diverse attività e stabilire gli indirizzi del Caffè sono
Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi
previste riunioni a cadenza mensile o bimestrale, con i diversi componenti
del team. In quasi tutti i Caffè è stata rilevata l’importanza dell’immediato
feedback degli operatori dopo l’incontro, per poter lavorare, fin dall’incontro successivo, ad eventuali nuovi problemi emersi.
2.d I frequentatori
I pazienti che frequentano l’Alzheimer Caffè sono prevalentemente donne,
circa il 60 %, di età compresa fra gli 80 e i 90 anni, con una diagnosi di demenza effettuata, nella maggior parte dei casi, presso un ambulatorio UVA
o da un medico specialista.
Complessivamente, nel periodo di osservazione hanno seguito gli incontri
presso gli undici Caffè 170 pazienti e 190 caregiver. Come per altri dati rilevati, le differenze da Caffè a Caffè sono elevate: si passa da centri con una
media di 6-7 utenti, ad altri con una frequenza di 30-35 persone.
Il turn-over, fra pazienti e caregiver, è di circa 12 unità all’anno, per diverse
motivazioni: dall’istituzionalizzazione dell’ammalato, all’impossibilità del
caregiver di poter continuare gli incontri, al peggioramento dello stato di
salute. I dati sono tuttavia estremamente variabili, anche in base alla tipologia di attività proposte, a volte strutturate per cicli, che permettono al
caregiver di seguire parte degli incontri, interrompendoli per un periodo,
per poi riprenderne la frequentazione.
I ricoveri in RSA segnalati da ogni Caffè coinvolgono un numero limitato di
pazienti: solo un Centro registra 6 istituzionalizzazioni all’anno, il più alto
dato pervenuto, mentre in tre centri non si segnala alcun ricovero.
Se si considera anche la media di frequenza per utente, 12 mesi circa, si
delinea la figura di core guest, di abituale frequentatore del Caffè: è un indicatore del successo dell’iniziativa, confermata, peraltro, anche dai buoni
risultati sulla qualità del servizio espressa dai fruitori. Infatti, sebbene solo
tre Centri utilizzino una rilevazione di customer satisfaction, durante gli
incontri gli operatori ricevono direttamente dai frequentatori un feedback
informale, utile a stabilire gli obiettivi futuri del centro.
Tutti gli Alzheimer Caffè promuovono la loro attività con varie strategie di
comunicazione. Oltre ai canali di comunicazione standard, pazienti e familiari arrivano a conoscenza degli Alzheimer Caffè soprattutto attraverso
le strutture sanitarie che si occupano di demenza, oppure su indicazioni di
medici specialisti, geriatri e neurologi (Tabella 9).
pagine 48_49
Tabella 9. Da chi sono segnalati i pazienti
Tipologia enti/figure professionali che
segnalano i pazienti ai Caffè
Nr. Caffè in cui viene
fatta la segnalazione
Organizzazioni di familiari
(AIMA, Linealzheimer, ecc.)
3
Centri UVA
3
Medici specialisti
5
Assistenti sociali dei Comuni
4
Enti fondatori del Caffè
2
Istituzioni pubbliche (Comune, ASL, ecc.)
3
RSA del territorio
3
Altro
2
Anche le Associazioni di volontariato, come pure le linee telefoniche dedicate ai problemi delle demenze, segnalano i Caffè come centri di ritrovo.
Significativa è la collaborazione con gli assistenti sociali del territorio e, in
generale, con le Istituzioni pubbliche. Infine è da riportare come, per un
Caffè, la promozione passi anche dal “passaparola” in collaborazione con le
farmacie locali.
Per quanto riguarda le segnalazioni da parte delle UVA, va sottolineato che
seppure vi sia una proficua collaborazione per la cura del paziente, non vi sono
convenzioni o protocolli che formalizzino i rapporti. In alcuni casi l’esistenza
dei Caffè è stata notificata tramite una comunicazione ufficiale dell’ASL competente, indirizzata a tutti gli “addetti ai lavori”.
Gli Alzheimer Caffè nascono con l’obiettivo di essere luoghi ad accesso libero.
Solo due Centri, quelli di Oderzo e Treviso, selezionano i pazienti in entrata,
consigliando la frequentazione dell’Alzheimer Caffè Malati o dell’Alzheimer
Caffè Familiari in base alla tipologia di intervento e alla compromissione cognitiva del paziente e alle esigenze informative ed educazionali dei caregiver.
L’Alzheimer Caffè Malati (ACM) è rivolto ai malati di demenza con decadimento cognitivo lieve o di media entità, con la possibilità, per i loro caregiver di
partecipare ad incontri psicoattitudinali sul tema delle demenze. I pazienti
vengono coinvolti, durante gli incontri, in attività di stimolazione cognitiva
aspecifica; invece, l’Alzheimer Caffè Familiari (ACF) si occupa soprattutto dei
caregiver, con la possibilità di coinvolgere i congiunti malati in attività occupazionali ricreative. L’obiettivo è creare uno spazio accogliente e sicuro dove
i familiari possano ricevere un adeguato supporto. Il caregiver non è obbligato
a seguire il gruppo che gli viene indicato: se per varie ragioni preferisce una
scelta diversa non viene precluso dalle attività del Caffè.
È da segnalare altresì che in un Caffè non si selezionano i partecipanti, ma
ogni familiare con malato che ne faccia richiesta viene accettato per un pe-
Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi
riodo di prova, all’interno del quale viene attuata una prima valutazione osservazionale e testistica.
2.e Le attività per i pazienti e per i caregiver
La durata di ogni incontro presso gli Alzheimer Caffè è di circa 2 ore e mezza.
I volontari e gli operatori allestiscono le sale circa mezz’ora prima dell’arrivo
degli ospiti e si preparano per accoglierli. Tutti i Caffè adottano generalmente
una divisione dei propri incontri in tre momenti:
- l’accoglienza
- il momento delle attività per i pazienti e, per alcuni,
di consulenza ai caregiver
- il saluto finale.
L’accoglienza riveste un ruolo fondamentale per la gestione di tutto l’incontro, poiché determina il clima del gruppo: può avere una durata che varia dai
15 ai 30 minuti.
Le attività proposte ai pazienti possono durare dall’ora all’ora e mezza, spesso intervallate da momenti di ballo e di animazione. Nel frattempo il caregiver può usufruire dei servizi messi a sua disposizione, oppure, anche se non
in tutti i Caffè, può lasciare il proprio congiunto fino alla fine dei laboratori.
Gli interventi indirizzati al paziente affetto da demenza hanno come obiettivo principale la stimolazione e il mantenimento delle capacità cognitive e
motorie e sono volte a favorire le abilità relazionali e comunicative, deteriorate dal decorrere della malattia. L’offerta sviluppata per i pazienti è molto
ricca e comprende oltre alla stimolazione cognitiva informale e ROT 1, interventi di fisioterapia, di danzaterapia o, ancora, di pet teraphy. Le attività
proposte dai Caffè, elencate nella Tabella 10, sollecitano diverse funzioni: la
stimolazione cognitiva, ad esempio, avviene soprattutto in modo informale ed
è sostanzialmente trasversale ad ogni attività proposta; altre attività, quali
la musicoterapia, la danzaterapia, l’arteterapia sono utilizzate anche come
strumenti per coinvolgere un paziente da un punto di vista comunicativo e
relazionale. La fisioterapia e il tai-chi aiutano il malato a mantenere le sue
funzioni motorie.
Un momento conviviale e un momento di animazione sono previsti in tutti
i Centri. Il momento conviviale, che favorisce anche la socializzazione fra i
diversi caregiver, coincide spesso con il ricongiungimento fra i pazienti e i loro
accompagnatori, il momento finale prima dei saluti.
1
La ROT ( Reality Orientation Theraphy- teoria di orientamento alla realtà) si prefigge di
orientare il paziente confuso rispetto all’ambiente, al tempo e alla propria storia personale. Esistono due principali modalità: la ROT
informale prevede un processo di stimolazione continua da parte di familiari e operatori
sanitari che, nel corso della giornata, forniscono ripetutamente al paziente informazioni
circa l’orientamento temporale e spaziale; la
ROT formale consiste in sedute condotte con
gruppi di 4-6 persone, omogenee per grado
di deterioramento cognitivo, durante le quali
un operatore impiega una metodologia di stimolazione standardizzata.
pagine 50_51
Tabella 10- Le attività proposte ai pazienti
Attività
Nr. Caffè in cui viene praticata
ROT
3
Stimolazione Cognitiva
11
Fisioterapia
3
Pet-Therapy
1
Danza
2
Musicoterapia
4
Tai-Chi
1
Arteterapia
3
Animazione
11
Momento Conviviale
11
Come già indicato due Centri, al momento della presentazione dei servizi
offerti, dividono i pazienti in gruppi omogenei per grado di deterioramento
cognitivo, mentre altri effettuano tale divisione solo al momento delle attività ed in modo informale, al fine di garantire una migliore gestione dei malati.
In alcuni Caffè, così come avviene per i caregiver, gli esercizi rivolti ai pazienti sono suddivisi in cicli, volti a stimolare, di volta in volta, diverse funzioni.
Gli Alzheimer Caffè non forniscono solo un aiuto nella gestione del paziente
affetto da demenza, ma rappresentano anche uno strumento per dare al caregiver un supporto e preservarlo dall’isolamento sociale. Per perseguire questo
obiettivo generale vengono offerte una serie di attività rivolte ai familiari dei
pazienti (Tabella 11).
Tabella 11. Le attività rivolte ai caregiver
Tipologia di intervento
Nr. Caffè dove viene promosso
Colloqui con lo psicologo
11
Informazioni per la ricerca di badanti/
aiuto domestico
4
Incontri con specialisti
(medici, psicologi, infermieri, ecc.)
3
Memory training
2
Gruppo di auto-mutuo-aiuto
4
Altro
2
Il servizio più diffuso è il colloquio con lo psicologo. In alcuni Caffè l’attività
per i familiari prevede, oltre alla proposta di un lavoro di auto-mutuo-aiuto,
l’inserimento in un percorso di tipo terapeutico-formativo di gruppo sotto
la guida di uno psicoterapeuta. Queste attività si svolgono prevalentemente
Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi
per cicli annuali o semestrali. Quattro Caffè hanno specificato fra i servizi
offerti ai caregiver anche il contatto con cooperative ed associazioni per la
selezione di personale che svolge assistenza domiciliare, una preoccupazione
non secondaria per i familiari soprattutto al manifestarsi dei primi disturbi
comportamentali. Sempre alle figure degli assistenti familiari sono dedicate,
in alcuni Caffè, incontri di formazione con specialisti. Talvolta i servizi offerti
dal Caffè comprendono una linea telefonica dedicata alle informazioni sulla
malattia di Alzheimer. Anche la possibilità di lasciare il proprio congiunto per
qualche ora, affidandolo al Caffè, riveste una grande importanza: permette al
caregiver di essere libero, almeno per qualche ora, dalla responsabilità della
gestione del proprio familiare. Infine è da sottolineare che gli stessi familiari
chiedono consigli anche su come individuare precocemente i sintomi della
malattia di Alzheimer e come esercitare la memoria. Nessuno degli Alzheimer
Caffè segnala attività di sostegno ai caregiver dopo la perdita del proprio
caro. Oltre alle attività rivolte a caregiver e pazienti, i Caffè promuovono
spesso iniziative rivolte ad altri utenti, quali seminari per le professioni sanitarie, incontri informativi con la cittadinanza, incontri con le scuole superiori, al fine di rendere partecipe ed informata l’intera cittadinanza.
2.f Il budget
Il bilancio a disposizione del Caffè è il frutto, solitamente, di contributi stanziati da diversi soggetti. Spesso sono le Istituzioni pubbliche, quali Comuni,
ASL, Province, a destinare ai Caffè parti delle sovvenzioni rivolte al miglioramento dell’assistenza ai pazienti anziani; in altri casi sono gli stessi Caffè a
partecipare a bandi pubblici per l’erogazione di finanziamenti.
Anche gli enti privati e i cittadini contribuiscono con le proprie donazioni alle
necessità dei Caffè.
A volte i finanziamenti agli Alzheimer Caffè possono avvenire anche in maniera indiretta, ad esempio fornendo gratuitamente personale già collaboratore
di un ente finanziatore, facendosi carico dei rimborsi viaggio dei volontari,
con la donazione del materiale necessario per le attività con gli ospiti o, ancora, offrendo la sede per gli incontri a titolo gratuito.
I budget annuali a disposizione sono compresi in una forbice molto ampia: dai
circa 600 € ai quasi 27.000 € (Tabella 12).
Tabella 12. I budget a disposizione
Budget
Nr. Caffè
Caffè con budget fino a 5.000 €
5
Caffè con budget da 5.000 a 10.000 €
3
Caffè con budget da 10.000 a 20.000 €
2
Caffè con budget da 20.000 a25.000 €
1
pagine 52_53
Diversi fattori influiscono sul profilo economico dei Caffè: il numero di personale retribuito e quello volontario; la possibilità di usufruire di servizi messi
a disposizione da altre realtà che, quindi, non incidono direttamente sulle
voci di spesa del Caffè; l’affitto e la gestione degli spazi non direttamente
imputati al centro. Da questi elementi si evince che ogni Caffè ha predisposto
e predispone un proprio piano di spese annuali, composto da diverse voci.
Le principali possono essere ricondotte a:
- Affitto annuale
Solo tre centri devono inserire nel proprio budget annuale le spese di affitto
per la sede, in media 2.000 € all’anno. Nella maggior parte dei casi la sala o
la struttura vengono concesse a titolo gratuito.
- Spese Generali
Le spese per la sede e per la gestione delle attività coinvolgono, invece, tutti
i centri. Per sette Caffè le spese generali sono inferiori ai 1.000 €, per altri
tre le spese generali vanno dai 1.000 ai 3.000 €. Solo un Caffè spende, per
l’acquisto dei vari materiali, più di 3.000 €.
Nelle spese generali sono incluse diverse voci: dalla segreteria, all’acquisto
di materiali per le attività dei laboratori, per le utenze del Centro e per i
momenti conviviali. Incidono, indicativamente, per il 10% sul budget totale.
- Compensi del personale
Rappresentano per diversi Centri la maggior parte della spesa che il Caffè
deve sostenere. Anche in questo caso le differenze sono innumerevoli e risulta difficile attribuire un valore significativo ad una media. I Caffè spendono
per il proprio personale cifre comprese fra i 2.600 ai 17.000 €. Il budget stanziato dipende dal numero di attività proposte, dal personale utilizzato, dalla
tipologia di professioni messe in campo, dalle ore di apertura del Caffè. Come
già rilevato, per alcuni casi, tutto il personale effettua il proprio servizio a
titolo gratuito.
- Servizio di trasporto
I Caffè che hanno indicato quale voce di spesa il servizio di trasporto sono tre:
mediamente in un anno le spese per tale servizio sono di 1.500 €. In altri 2
Caffè il servizio si attiva in base alle richieste delle famiglie.
- Assicurazione
Solo due Centri hanno specificato questa voce, che costituisce una spesa annua di circa 550 €.
2.g La comunicazione
Gli Alzheimer Caffè promuovono le loro attività attraverso una strategia on
line, prevalentemente con un sito Internet o almeno una pagina informativa
su altri siti istituzionali, e off line, con la stampa di pieghevoli e materiale
divulgativo.
Nell’era dei social network anche i Caffè hanno aperto un proprio profilo,
Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi
volto non tanto allo scambio di informazioni, ma alla condivisione degli “stati” emotivi dei caregiver. Aspetto non secondario, Facebook sta diventando il
veicolo principale per la promozione di eventi ed iniziative.
Il materiale cartaceo è distribuito attraverso vari canali, dai soggetti che si
occupano di malattia di Alzheimer, ai vari partner che collaborano con i Caffè,
agli esercenti del quartiere, alle parrocchie: ogni Caffè ha saputo coinvolgere
diversi attori della propria comunità.
In merito alle informazioni per i familiari, i mezzi più utilizzati sono una linea
telefonica dedicata ai problemi dei pazienti Alzheimer e gli incontri con specialisti. Queste tipologie di intervento da un lato supportano i caregiver nella
gestione del loro caro, dall’altro favoriscono una diffusione delle informazioni
sulle demenze.
Alcuni Caffè svolgono anche interventi formativi più mirati, rivolti alle professioni sanitarie, per le quali sono organizzati, in collaborazione con altre
strutture, seminari e corsi di aggiornamento. Altre attività di carattere scientifico-divulgativo sono la partecipazione a congressi e convegni, la pubblicazione di articoli su riviste di settore, lo svolgimento di studi sulla malattia di
Alzheimer.
Vengono inoltre realizzati incontri aperti a tutta la cittadinanza, agli studenti
delle scuole superiori, ai potenziali assistenti informali, con l’obiettivo di
diffondere la conoscenza della malattia di Alzheimer e delle altre demenze.
La divulgazione delle informazioni e una visibilità periodica sui mezzi di informazione locali aiutano a mantenere un rapporto non solo con la rete, intesa
come utenti e strutture che collaborano con il Caffè, ma anche con tutta la
cittadinanza. Questo passaggio è fondamentale anche per l’acquisizione di
nuovi volontari che lavorino presso il Caffè: solo un Centro prevede infatti
incontri annuali per il loro “reclutamento”. In qualche realtà si adotta una
strategia di confronto e di scambio di progetti ed idee con altri Alzheimer
Caffè: potrebbe diventare un incubatore interessante di nuove idee.
pagine 54_55
INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
3.a I metodi di valutazione
58
3.b Le caratteristiche degli ospiti
61
3.c Gli esiti
63
Capitolo 3
L’Alzheimer Caffè:
benefici per la persona
affetta da demenza
e la sua famiglia
pagine 57_57
alzheimer caffÈ:
la ricchezza di una esperienza
CAPITOLO 3
L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona
affetta da demenza e la sua famiglia
In questo capitolo vengono presentate le caratteristiche delle persone che
frequentano gli Alzheimer Caffè esaminate nel corso dello studio. In un sottogruppo di soggetti è stato anche possibile analizzare le modificazioni dei
parametri clinici e funzionali dopo tre mesi di frequenza al Caffè.
Lo studio è stato condotto nel periodo fra dicembre 2011 e marzo 2012 e per
la raccolta dei dati sono state utilizzate scale di valutazione ampiamente
validate.
Il campione considerato è composto da 116 pazienti, con i relativi caregiver;
di questi 62 sono nuovi utenti dei Caffè ai quali le scale di valutazione sono
state somministrate all’inizio della frequentazione e a distanza di tre mesi, al
fine di determinare eventuali effetti benefici degli incontri.
3.a I metodi di valutazione
Gli strumenti per la valutazione multidimensionale nell’anziano permettono
di costruire un’immagine della condizione vitale della persona e di seguirne
nel tempo l’evoluzione. Nello studio sui Caffè sono stati presi in considerazione i seguenti domini:
- Funzioni cognitive (attraverso la somministrazione ai pazienti del Mini
Mental State Examination - MMSE).
- Tono dell’umore (con l’utilizzo della Geriatric Depression Scale - GDS).
- Lo stato di salute somatica globale (con l’utilizzo di uno strumento che
raccoglie le informazioni cliniche disponibili dal paziente, dai familiari o
dagli operatori, la Cumulative Illness Rating Scale - CIRS).
- La presenza di disturbi del comportamento dovuti alla demenza (con uno
strumento che raccoglie in modo sistematico le informazioni fornite dai
familiari, il Neuro Psychiatric Inventory - NPI).
- La qualità della vita del paziente (con una scala, la Quality of Life AD-QoL,
che prevede una intervista sia del paziente che del caregiver. In considerazione dell’ampio range di deterioramento cognitivo del campione analizzato e della presenza di soggetti con deterioramento moderato-severo,
è stata utilizzata solo la parte della scala che prevede l’intervista del
caregiver).
- Il carico assistenziale (misurato con la Caregiver Burden Inventory - CBI,
una scala che viene autosomministrata ai caregiver).
Le funzioni cognitive (MMSE)
La valutazione delle capacità cognitive del paziente è stata effettuata tramite il Mini Mental State Examination (MMSE). È costituito da 11 item, suddivisi
in 5 sezioni tramite le quali vengono valutate in le varie funzioni cognitive,
in particolare l’orientamento temporale e spaziale, la memoria immediata
(memoria di fissazione o registrazione), l’attenzione e il calcolo, la memoria
episodica recente, il linguaggio (la denominazione, ripetizione, comprensio-
CAPITOLO 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia
ne dei messaggi sia orali sia scritti, scrittura di una frase), nonché la prassia
costruttiva. Il valore massimo del test è di 30/30; sono considerati normali i
punteggi uguali o superiori a 25/30.
Il campione è stato suddiviso in base ai seguenti punteggi:
- 25/30: processi cognitivi nell’ambito della normalità
(24 è il punteggio soglia)
- 18/24: deficit cognitivo lieve
- 10/17: deficit cognitivo moderato
- 9/0: deficit cognitivo grave.
Il tono dell’umore (GDS)
Il tono dell’umore è stato valutato con la Geriatric Depression Scale (GDS). La
GDS minimizza gli aspetti somatici della depressione, considerati confondenti
e poco specifici nell’anziano, mentre ne approfondisce l’aspetto affettivo. Il
punteggio massimo è di 30, corrispondente alla maggiore gravità di depressione. Non si tratta di una scala che permette di fare una diagnosi clinica, ma
di graduare i sintomi depressivi. I punteggi che si ottengono possono essere
così suddivisi:
- 0/10 = depressione assente;
- 11/17 = depressione lieve
- 18/30 = depressione grave.
La scala è stata somministrata solo ai soggetti con MMSE superiore a 10 per
limitare l’interferenza del deficit cognitivo.
Lo stato di salute somatico (CIRS)
Lo stato di salute generale del paziente è stato misurato con la scala CIRS Cumulative Illness Rating Scale. Proposta come valido indicatore della salute
globale, definisce la severità clinica e funzionale di 14 categorie di patologie
di più frequente riscontro: le patologie cardiache, l’ipertensione, le patologie
vascolari, le patologie respiratorie, i disturbi di occhi, orecchie, naso, gola,
laringe, l’apparato GI superiore (esofago, stomaco, duodeno, albero biliare,
pancreas), l’apparato GI inferiore (intestino, ernie), le patologie epatiche, le
patologie renali, le patologie genito-urinarie, il sistema muscolo-scheletrocute, le patologie del sistema nervoso, le patologie endocrine e metaboliche,
le patologie psichiatriche comportamentali.
Si ottengono due indici:
- l’Indice di severità, che risulta dalla media dei punteggi delle prime 13
patologie (escludendo la categoria patologie psichiatriche/comportamentali);
- l’Indice di comorbidità, che rappresenta il numero delle patologie nelle
quali si ottiene un punteggio superiore o uguale a 3 (escludendo la categoria patologie psichiatriche/comportamentali).
pagine 58_59
I disturbi del comportamento (NPI)
Il Neuro Psychiatric Inventory (NPI) è uno strumento in grado di valutare,
sulla base delle informazioni ottenute dal caregiver, la frequenza e la gravità
di un’ampia gamma di disturbi comportamentali, quali: deliri, allucinazioni,
agitazione-aggressività, disforia-depressione, ansia, euforia, apatia, disinibizione, irritabilità-labilità, comportamento motorio aberrante, disturbi del
sonno, disturbi del comportamento alimentare. Il punteggio va da 0 a 144.
I singoli disturbi comportamentali vengono esplorati mediante un questionario che permette, oltre a rilevarne la presenza, anche di ottenere informazioni dettagliate sulle modalità di espressione. Le domande si riferiscono
alla situazione del paziente nelle 4-6 settimane precedenti l’intervista; la
valutazione viene fatta in base a informazioni fornite da un familiare o da una
persona che conosce il paziente.
La qualità della vita (QoL)
La scala somministrata al caregiver è la Quality of Life AD, composta da 13
quesiti che indagano diversi aspetti, quali la vita sociale o le relazioni familiari, per ognuno dei quali il caregiver deve attribuire un punteggio da 1 a 4.
Lo score massimo è 52.
Il carico assistenziale (CBI)
La Caregiver Burden Inventory - CBI, è uno strumento di valutazione del carico
assistenziale, in grado di analizzarne l’aspetto multidimensionale, elaborato
per i caregiver di pazienti affetti da malattia di Alzheimer e demenze correlate.
È uno strumento self-report, compilato dal caregiver principale, ossia il familiare o l’operatore che maggiormente sostiene il carico dell’assistenza.
La valutazione dei diversi fattori di stress è divisa in 5 sezioni:
1. il burden (item 1-5), descrive il carico associato alla restrizione di tempo
per il caregiver;
2. il burden evolutivo (item 6-10), inteso come la percezione del caregiver
di sentirsi tagliato fuori rispetto alle aspettative e alle opportunità dei
propri coetanei;
3. il burden fisico (item 11-14), che descrive le sensazioni di fatica cronica e
problemi di salute somatica;
4. il burden sociale (item 15-19), che descrive la percezione di un conflitto
nel lavoro e nella famiglia;
5. il burden emotivo (item 20-24), che descrive i sentimenti verso il paziente, che possono essere indotti da comportamenti imprevedibili e bizzarri.
Il punteggio massimo per questa scala è di 96.
CAPITOLO 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia
3.b Le caratteristiche degli ospiti
Gli Alzheimer Caffè, come già illustrato nei capitoli precedenti, sono luoghi
dedicati soprattutto ad anziani affetti da demenza e ai loro assistenti, formali
ed informali. Sulla base dei dati ottenuti nello studio è possibile delineare un
identikit del fruitore medio di questo servizio. La Tabella 1 descrive le caratteristiche principali del campione. Gli ospiti hanno mediamente 80 anni (con
un ampio range da 64 fino a 92 anni) e sono prevalentemente donne: su 116
frequentatori 69 sono di sesso femminile. Le donne, come atteso, presentano
una età media significativamente più elevata dei soggetti di sesso maschile.
Tabella 1. Caratteristiche dei pazienti partecipanti all’Alzheimer Caffè
Campione
Totale
Maschi
Femmine
p
<0,01
Età
80,7±7,1
78,8±5,9
82,1±7,6
Sesso (n %)
116
47 (41%)
69 (59%)
Scolarità
6±2,6
6,1±2,3
5,6±2,1
Ns
MMSE
11,4±8,9
12,3±7,7
10,9 ±9,7
Ns
GDS
3,8±3,4
3,9±4,5
3,4±3,1
Ns
CIRS severità
1,3±0,5
1,5±0,4
1,6±0,4
Ns
CIRS
comorbidità
1,9±1,5
1,7±1,4
2,7±1,4
<0,01
NPI totale
31,7±29,0
31,7±20,9
31,6±19,9
Ns
QoL
18,6±11,8
17,4±11,1
12,9±9,7
<0,05
I dati sono presentati come media ± DS
p= signifcatività statistica calcolata con t-test
a due code per campioni indipendenti (per le
medie)
Una ulteriore suddivisione in base alle fasce di età descrive meglio le caratteristiche dell’utente dell’Alzheimer Caffè (Figura 1).
6,4 %
11,6 %
9,5 %
Oltre i 90 anni
80 - 90 anni
70 - 80 anni
50,7 %
44,8 %
30,2 %
Figura 1
Distribuzione dei pazienti
partecipanti agli Alzheimer
Caffè in relazione all’età e al
sesso
60 - 70 anni
55,3 %
40,5 %
30,4 %
7,2 %
femmine
2,1 %
maschi
5,2 %
totale
pagine 60_61
Gli Alzheimer Caffè sono frequentati prevalentemente da persone di età compresa fra gli 80 e i 90 anni, che rappresentano il 50,7% dell’utenza, per lo più
donne (67% dei casi). Seguono le persone fra 70 e 80 anni, il 30,4% del campione; vi è una lieve prevalenza del sesso maschile, il 55% dei soggetti. Infine un
altro dato significativo è la presenza di persone ultranovantenni, l’11,6% del
totale, in prevalenza femmine.La maggior parte degli utenti degli Alzheimer
Caffè, circa il 60%, ha frequentato le scuole elementari, il 21% anche le scuole
medie inferiori, mentre solo il 10% ha frequentato un istututo superiore.
Il punteggio medio del MMSE ottenuto dai soggetti alla baseline è di 11,4 ±8,9
(Tabella 1); non vi sono differenze significative in relazione al sesso.
Vista l’ampiezza del range, da 1 a 28, è stata effettuata un’analisi dei dati
suddivisi per livello del deficit cognitivo (Figura 2).
Figura 2
Distribuzione della
popolazione in base al
punteggio del MMSE e al
sesso
MMSE da 0 a 9
36,2%
34 %
35,3 %
MMSE da 10 a 17
MMSE da 18 a 24
MMSE da 25 a 30
31,9 %
40,4 %
35,3 %
24,6 %
23,4 %
24,1 %
7,2 %
femmine
2,1 %
maschi
5,2 %
totale
Il 35,3% dei pazienti dei Caffè presenta un deficit cognitivo grave, il 35,3%
moderato e il 24,1% lieve. I pazienti maschi hanno prevalentemente un deficit
cognitivo moderato, mentre le femmine uno grave. I soggetti femminili con un
punteggio al di sopra di 25 sono, in percentuale, maggiori di quelli maschili.
Nella Tabella 2 vengono riportati i punteggi MMSE suddivisi per Caffè: le differenze sono limitate e questo indica che i frequentatori sono sostanzialmente
omogenei per gravità del deficit cognitivo.
I dati sono presentati
come media ± DS
Tabella 2. Punteggio MMSE alla baseline nei diversi Alzheimer Caffè
Caffè
MMSE
Cesena
10,2±9,3
Cremona
14,3±8,1
Sesto Fiorentino
13,2±10,8
Roma
13,8±7,0
Saronno
11,9±5,7
Treviso/Oderzo
10,2±10,1
CAPITOLO 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia
I punteggi della scala per la depressione (GDS) indicano valori sostanzialmente simili per maschi e femmine e punteggi bassi, indicativi di un numero limitato di sintomi depressivi (Tabella 1): il 93% del campione ha valori che
rientrano nei limiti della normalità, mentre il restante 7% presenta una forma
di depressione lieve. Per ciò che riguarda la salute somatica i dati indicano
elevati livelli di comorbidità; il 32% dei campioni, infatti, è affetto da 3 o più
patologie croniche di grado moderato-severo, e il 44% da una sola patologia
cronica moderata-severa. I dati della CIRS comorbidità (Tabella 1) indicano punteggi più elevati nei soggetti di sesso femminile, in linea con i dati
dell’epidemiologia di questa età.
In merito ai disturbi del comportamento i punteggi del NPI totale sono piuttosto elevati (31,7±29) senza significative differenze fra maschi e femmine
(Tabella 1). Per ciò che riguarda la scala che rileva il carico assistenziale del
caregiver (CBI), il punteggio medio totale è di 31,6 ± 19,1. L’analisi dei singoli item indica gli aspetti ritenuti maggiormente stressanti per il caregiver
(Tabella 3).
Tabella 3. Distribuzione dei punteggi medi della CBI al baseline
Sub scala CBI
Media±DS
Carico oggettivo
9,0±3,6
Carico evolutivo
6,3±6,7
Carico fisico
3,3±4,4
Carico sociale
2,4±3,4
Carico emotivo
2,1±3,1
CBI Totale
31,6±19,1
I caregiver riscontrano nel carico oggettivo la maggiore fonte di stress: in tale
item viene richiesto al familiare quanto il paziente debba essere aiutato nello
svolgimento delle attività quotidiane, quanto tempo libero resta al caregiver,
quanto il paziente deve essere sorvegliato. Altra fonte di stress è rappresentata dal carico evolutivo, che indaga come l’assistenza ad un paziente
influisca sulla vita presente e futura del familiare. Il carico fisico presenta
uno score non particolarmente significativo: esso analizza in che modo, e in
quale entità, l’occuparsi di un paziente condizioni lo stato di salute del caregiver. Anche i dati per il carico sociale e il carico emotivo, che considerano
rispettivamente quale peso rivesta nella vita familiare e lavorativa occuparsi
di un malato affetto da demenza e se il caregiver sviluppi del risentimento nei
confronti dell’assistito, non sono rilevanti.
3.c Gli esiti
Vengono presentati i dati relativi a 62 pazienti che hanno iniziato al momento
dell’indagine la frequenza all’Alzheimer Caffè e per i quali è stato quindi
pagine 62_63
possibile ottenere i dati di follow-up a tre mesi, con lo scopo di valutare gli
esiti dell’intervento sui sintomi psicologici e comportamentali associati alla
demenza.
I dati sono presentati come media +/- DS.
La significatività è stata calcolata con il
t-test di Student a due code per campioni
appaiati
Tabella 4. Confronto delle caratteristiche cliniche dei pazienti
afferenti all’Alzheimer Caffè alla baseline e al follow up a tre mesi
Baseline
Follow up
p
MMSE
11,4±8,9
11,7 ±10,2
Ns
GDS
3,6±2,5
3,5±2,1
Ns
NPI totale
28,8±19,3
23,5±18,6
<0,001
NPI distress
13,8±12,3
11,1±11,4
<0,001
QoL
18,6±11,8
22,8±12,4
<0,001
Il punteggio medio del MMSE e della GDS sono rimasti sostanzialmente stabili
(Tabella 4); anche l’analisi della distribuzione dei soggetti in base al punteggio di MMSE (Figura 3) non ha mostrato significative variazioni.
Figura 3
Punteggio dell’MMSE per
livelli di compromissione
cognitiva fra baseline e
follow up
MMSE da 0 a 9
35,3 %
34 %
MMSE da 10 a 17
MMSE da 18 a 24
MMSE da 25 a 30
35,3 %
40,4 %
24,1 %
23,4 %
2,1 %
5,2 %
baseline
folLow up
Sebbene le modificazioni osservate non raggiungano il livello di significatività
statistica, al follow up si evidenzia un aumento in percentuale dei pazienti
con compromissione grave (+3%) e con punteggio normale (+5%). Diminuiscono
i gruppi con uno score lieve o moderato; si evidenzia come 43 soggetti, il 69%
del campione, mantiene le modificazioni del punteggio del MMSE entro il range di +/- 1 rispetto alla baseline, mentre il 17% registra un miglioramento di 2
o più punti al follow up. Il restante 12% peggiora il proprio punteggio rispetto
alla baseline di 2 o più punti.
Per ciò che riguarda l’NPI si osserva una riduzione statisticamente significativa dei punteggi medi al follow-up (Tabella 4); i disturbi del comportamento
diminuiscono nel 53,2% dei soggetti analizzati, restano invariati nel 14,5%
ed aumentano nel restante 32,2%. Risulta anche diminuito il punteggio della
CAPITOLO 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia
scala NPI distress, che valuta l’impatto dei disturbi del comportamento sullo
stress dei caregiver.
La percezione della qualità della vita è considerevolmente migliorata nell’arco dei tre mesi (Tabella 4), passando da 18,6 ±11,8 a 22,8 ±12,4: l’incremento
del dato rappresenta un cambiamento statisticamente significativo, con una
forte valenza umana, considerando l’aspetto che la scala si propone di analizzare.
Nella Tabella 5 vengono presentati i dati delle subscale della CBI alla baseline
e al follow-up; mostrano una significativa riduzione del punteggio totale, al
quale contribuiscono in modo diverso le varie subscale; in particolare risulta
significativa la riduzione del burden emotivo e sociale. Il caregiver ha meno
difficoltà nell’accettare il suo ruolo e riesce a meglio gestire emotivamente
la malattia del proprio congiunto. Sebbene la media del punteggio totale CBI
al follow up sia diminuita, lo score suggerisce che l’Alzheimer Caffè svolge
una funzione importante, ma che sono necessari anche altri interventi per
supportare i caregiver nell’assistenza.
Tabella 5. Punteggi delle subscale della cbi alla baseline e al follow up
Sub scala CBI
Baseline
Follow up
P
Carico oggettivo
11,3±6,3
12,0±7,0
Ns
Carico evolutivo
8,6±6,7
7,8±6,5
Ns
Carico fisico
4,6±4,9
4,4±4,3
Ns
Carico sociale
3,5±2,6
2,5±2,6
<0,08
Carico emotivo
2,8±2,6
1,6 ±2,3
<0,001
Media
32,7±20,5
29,01±17,3
<0,04
I dati sono presentati come media ± DS.
La significatività è stata calcolata con il
t-test di Student a due code per campioni
appaiati.
pagine 64_65
INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
4.a Gli inizi e i partner
69
4.b Gli spazi e l’ambiente
70
4.c L’organizzazione e il personale 71
4.d Gli ospiti
72
4.e Le attività
74
4.f I costi
77
4.G I risultati
78
Capitolo 4
Un modello di servizio
a basso costo e ad elevata
utilità sociale
pagine 67_67
alzheimer caffÈ:
la ricchezza di una esperienza
CAPITOLO 4
Un modello di servizio a basso costo
e ad elevata utilità sociale
I dati derivati dall’indagine sui Caffè prospettano un modello di servizio originale e utile. Originale perché è una tipologia assistenziale diversa da molte altre, utile perché permette di prendersi cura dell’ammalato e della sua
famiglia in modo efficace, ma allo stesso tempo senza l’esigenza di rilevanti
investimenti. È un esempio convincente di interventi ad alta intensità umana,
adeguati in tempo di crisi economica a supportare i servizi formali che rischiano una progressiva riduzione. Supporto non significa, però, sostituzione;
sarebbe una pretesa velleitaria, che peraltro rischierebbe di far assumere a
questa esperienza un’immagine fuorviante.
L’enorme sviluppo del numero dei Caffè avvenuto negli ultimi anni è la testimonianza di fatto del loro ruolo nell’ambito della ricchezza delle dinamiche
di protezione delle fragilità che caratterizza il nostro Paese e del gradimento
che hanno ricevuto da parte delle famiglie delle persone colpite da demenza.
Non è quindi la risposta ad un “vuoto assistenziale” che verrebbe percepito
e quindi riempito, ma l’apertura serena di nuovi spazi per la cura, facendo
in modo che l’ammalato possa trovare luoghi dove trascorrere il tempo, in
un ambiente protetto, sereno, adeguato alla specificità delle sue esigenze e
quindi sostanzialmente terapeutico.
Una recente revisione della letteratura ha dimostrato che la maggior parte
delle linee guida che si occupano di demenza non trattano l’argomento degli
interventi psico-sociali. Questo lavoro vuole porsi quindi nella prospettiva
di offrire materiale a chi dovrà stendere le prossime linee guida italiane ed
europee perché gli Alzheimer Caffè siano presi in considerazione tra le tipologie di intervento che hanno un rilevante significato. Siamo ben consci che
la raccolta dei dati, sia riguardo al funzionamento sia ai risultati, è stata condotta su un campione limitato; il risultato merita ulteriori approfondimenti
su numeri più ampi e con metodologie ancora più raffinate di quelle utilizzate. Però ci auguriamo che - anche grazie a questo nostro lavoro - in futuro
sarà irrinunciabile considerare gli Alzheimer Caffè all’interno di un progetto
articolato di cura all’ammalato di demenza, senza limitare la carica di spontaneità e innovazione che ha caratterizzato la gran parte di questi servizi nei
vent’anni della loro vita.
Non è questa la sede per ripercorrere la storia dei Caffè, che inizia nel 1997 a
Leida in Olanda e che poi si sono diffusi in altri Paesi europei ed extraeuropei
e da oltre un decennio anche in Italia, dove l’esperienza si è progressivamente allargata. Oggi lo scenario è caratterizzato da realtà spesso difformi
tra loro; le differenze in parte si riflettono anche nei dati riportati in questo
studio, ma non per questo dovrebbero essere interpretate come un segnale di
inefficacia né tanto meno di inadeguatezza del lavoro compiuto.
Le considerazioni di seguito riportate non vogliono essere indicazioni rigide,
ma supporti per chi volesse aprire un nuovo Caffè o rianalizzare il lavoro fino
ad ora compiuto, al fine di raggiungere, ciascuno nel proprio territorio, il
CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale
massimo livello qualitativo ed il massimo dei risultati. Allo stesso tempo però
i dati indicano che vi sono alcune caratteristiche del servizio che non possono
essere trascurate. La spontaneità non viene sminuita dall’appoggiarsi ad indicazioni di carattere generale; anzi, ne viene valorizzata, perché si facilitano
alcune decisioni operative e si evitano inutili errori. In questa logica ci auguriamo che vengano lette queste pagine; un contributo tra pari per un progresso di tante piccole imprese che nel loro insieme costituiscono un modello che
ha dato risultati importanti e potrà continuare a svolgere una funzione utile.
Quindi un contributo per la costruzione di tante piccole, libere imprese. Un
mondo di generosità mirata che ci auguriamo possa ancor più svilupparsi nei
prossimi anni.
4.a Gli inizi e i partner
Le realtà esaminate sono uno specchio della ricchezza della nostra società,
ancora in grado di esprimere impegno e innovazione a favore delle persone meno fortunate. È interessante notare che gli iniziatori appartengono al
mondo del volontariato nelle sue varie espressioni ed ancor più quanto sia in
grande crescita il coinvolgimento delle associazioni di familiari, come risposta
ad un bisogno acutamente sentito e ad una domanda che arriva direttamente. Le associazioni che rappresentano gli interessi di gruppi di persone fragili
costituiscono una rete di interessi e di competenze che dovrebbero trovare
sempre maggiore spazio in un welfare moderno e responsabile; infatti sono
efficaci nella specifica funzione, ma nella grande maggioranza agiscono senza
particolarismi o egoismi.
È inoltre interessante notare che nel corso della loro vita i Caffè hanno trovato nuovi supporti, anche tra i Comuni e le Aziende sanitarie; è il riconoscimento di fatto dell’utilità dell’impresa e del suo rilievo sociale, anche se
talvolta si devono rilevare resistenze da parte di chi non riconosce la diversità
e specificità dei ruoli, e l’esigenza di creare reti.
Alcuni Caffè crescono appoggiandosi a strutture più grandi come le residenze
per anziani; questa contiguità presenta vantaggi sul piano pratico (a cominciare dalla facile disponibilità di professionalità qualificate). È però importante tenere separate le due realtà, per evitare l’identificazione del Caffè con
un ambiente spesso triste e segregante e come tale vissuto dalla popolazione.
Al contrario, gli Alzheimer Caffè combatte qualsiasi rischio di segregazione,
a cominciare da quello di una famiglia che, appesantita dai propri compiti,
tende a chiudersi, riducendo al minimo i contatti con l’esterno.
In conclusione, chiunque dovesse pensare oggi ad una nuova impresa in questo
campo, in particolare se un’associazione di familiari, è necessario si assicuri
l’appoggio di un volontariato forte (ad esempio il sindacato dei pensionati
dispone di strutture solide, spesso di valore simile a quelle professionalizzate)
e di una cooperativa affidabile per la fornitura delle necessarie prestazioni di
pagine 68_69
rilievo economico (la vocazione realmente sociale di una certa cooperativa
è garanzia di un buon livello di omogeneità rispetto all’impresa comune). Su
questa base si deve partire e “rischiare” con generosità e coraggio (i dati
riportati, ed altre informazioni raccolte in vari ambienti, indicano che non vi
sono stati fallimenti di Caffè una volta iniziati). Ovviamente è necessario che
dietro al coraggio vi sia un’idea, un progetto che colleghi le esigenze specifiche di un territorio, di un gruppo di persone, alla finalità “grande” di replicare un modello che ha avuto successo in ambiti diversi. Così si arriva progressivamente ad un radicamento dei Caffè, silenzioso ma fondato su solide basi.
Un altro dato non apertamente dichiarato, ma intuibile da varie indicazioni,
è la funzione di leadership esercitata da una persona (oppure due-tre fortemente sintoniche) che fin dall’inizio si pone come perno dell’impresa; questa
riesce a collegare le istanze di varia origine e a trasformarle in programmi
concreti di lavoro. La leadership deve però essere “delicata”, per evitare che
chi volesse avvicinarsi all’esperienza trovi barriere di fatto, anche se fondate
su buone intenzioni, alla sua integrazione. La questione della leadership è una
delle più delicate in tutti Caffè; infatti spesso la provenienza di chi è stato
l’iniziatore dell’impresa (un volontario, un operatore sociale, un famigliare)
dà un indirizzo forte all’insieme. E ciò deve essere mitigato dalla capacità di
porsi obiettivi di collaborazione, il più possibile generali ed aperti alla continua innovazione.
4.b Gli spazi e L’ ambiente
Gli ambienti nei quali si svolge l’attività dei Caffè sono ricavati da ambiti diversi, frequentemente messi a disposizione di enti che appoggiano l’iniziativa
o ne sono i promotori. Un aspetto critico è la collocazione; oggi il trasporto
da parte dei familiari avviene nella grande maggioranza dei casi in automobile; sembra quindi più importante l’accessibilità di un parcheggio che non
la collocazione nel centro della città. In alcuni Caffè il trasporto viene effettuato a pagamento, in altri attraverso il contributo di volontari organizzati;
ovviamente la scelta deve esser compiuta in modo oculato, per evitare carichi
pesanti sulle famiglie (sia dal punto di vista organizzativo che economico).
Non occorrono grandi spazi (la dimensione di 100-120 mq appare adeguata);
sono però necessari un buon riscaldamento e la possibilità in estate di mantenere una temperatura vivibile, anche tenendo conto che le case dei malati
spesso sono molto calde e quindi la permanenza al Caffè rappresenta un momento di refrigerio.
I locali possono essere resi piacevoli dal lavoro dei volontari, con fotografie e
elementi di ornamento. Non vi sono regole rigide circa l’ambiente; deve però
essere curato, anche se talvolta l’edificio non è ben conservato e richiede qualche intervento eseguibile a basso costo; ciò non significa che debba essere rigidamente ordinato, ma un luogo dove la caratteristica fondamentale ed imme-
CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale
diatamente percepibile sia quella di una piacevole accoglienza. L’informalità
e la stessa denominazione di “Caffè” caratterizzano l’ambiente, che non deve
avere nulla di simile ad un luogo istituzionale (consultorio o ambulatorio), ma
dare l’immagine di un luogo adatto per un momento di incontro senza compiti
predefiniti, una pausa nel ritmo di una “giornata di 36 ore” sempre scandita da
doveri e compiti ineludibili.
È necessario un bagno attrezzato, facilmente accessibile. È preferibile l’organizzazione degli spazi su due locali separati per permettere, ad esempio, in
alcuni momenti la suddivisione tra ammalati e familiari, per rendere possibile
l’esecuzione di interventi diversi. Un angolo per riscaldare le bevande ed i cibi
è molto utile.
Un aspetto particolare riguarda l’adozione di accorgimenti per ridurre la rumorosità dell’ambiente attraverso l’uso di pannelli fonoassorbenti o altri sistemi.
È necessario infatti evitare che la permanenza nel Caffè sia fonte di stress
per gli ammalati; ciò ha riflessi concreti sulla scelta dei frequentatori, perché
impone la separazione, ad esempio, di persone con rilevanti disturbi comportamentali dagli altri. Anche l’illuminazione deve essere curata, per evitare angoli
bui o eccessive differenze che possono creare ombre che preoccupano la persona con deficit cognitivo.
L’arredamento dovrà richiamare piacevolmente quello di un luogo informale e
nello stesso tempo garantire sicurezza (evitare mobili con angoli acuti, profili
sporgenti, soprammobili che possano cadere o rompersi, ecc.). Una particolare
cura dovrà essere data ai colori, per mantenere la serenità dell’ospite e facilitare il riconoscimento e la fruibilità degli spazi.
Un ambiente adeguato ha rilevante importanza nel permettere l’instaurarsi
di strategie compensatorie, che contribuiscono a rallentare l’evoluzione della malattia, ma soprattutto momenti di vita priva di stimolazioni ansiogene,
all’origine di molti disturbi comportamentali.
4.c L’organizzazione e il personale
L’organizzazione degli Alzheimer Caffè è mediamente “leggera”, così come il
personale. I dati dello studio indicano una notevole varietà riguardo al numero
degli incontri nella settimana e nel mese. Evidentemente questo dato dipende
dalla disponibilità degli operatori; tuttavia una frequenza troppo rarefatta non
consente di raggiungere risultati significativi. Una stretta relazione con le persone affette da demenza e le loro famiglie richiede infatti un certo livello di
periodicità (almeno una volta alla settimana, con un’apertura di 2-3 ore). Questi orari possono essere ridotti se lo scopo del Caffè è esclusivamente quello di
informare o di dare indicazioni pratiche, soprattutto rivolte ai familiari. Al contrario, in alcuni casi dall’esperienza dei Caffè sono sorti servizi più impegnativi,
con una apertura molto prolungata, che per alcuni aspetti si avvicina a quella
dei centri diurni (si tratta però di casi particolari, non un modello da replicare).
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I dati dell’indagine indicano una forte presenza di personale volontario; circa
il 70% non riceve infatti alcun compenso. Si tratta spesso di persone preparate, con esperienze in altri servizi (in alcuni casi peraltro è stata fatta una
selezione psico-attitudinale, anche se questa procedura non è frequente). Tra
il personale retribuito vi sono i medici, gli infermieri (per un tempo ridotto,
dedicato prevalentemente alla consulenza, per evitare qualsiasi tentazione
concorrenziale con altri servizi) ed alcuni tecnici dedicati a specifiche attività, quali gli psicologi e gli educatori (si evidenza come il basso livello
delle retribuzioni indica implicitamente che anche queste figure professionali
vivono in modo umanamente coinvolgente la prestazione della propria opera). In alcuni casi accanto al Caffè agiscono autonomamente associazioni di
volontariato alle quali sono affidati specifici compiti (trasporto, pulizia dei
locali, manutenzioni, preparazione del cibo, ecc.). Questi contatti hanno un
grande valore, oltre a quello per il servizio reso, perché collegano il Caffè con
le realtà esterne, e ne amplificano il significato umano e tecnico (in molti ambienti l’Associazione Nazionale Alpini svolge con generosità e professionalità
questa funzione). La preparazione e la distribuzione di stampati come guide
per affrontare la demenza (ve ne sono ormai centinaia, mediamente di buona
qualità) rappresenta un altro strumento utile.
In alcuni casi sono stati sperimentati collegamenti via web con le famiglie
dei frequentatori per mantenere un contatto anche nei giorni in cui il Caffè
non opera; il mondo dell’information and communication technology è in
grande espansione anche in questo campo e nel prossimo futuro assisteremo
a modelli di care avanzati, utili per mantenere i contatti all’interno delle reti
spontanee che si formano, ad esempio, attorno ad un Caffè. I cellulari costituiscono uno strumento utile, aperto a molte applicazioni, quali continuare a
casa gli esercizi appresi durante la permanenza al Caffè o richiedere ulteriori
informazioni sulla linea di quelle condivise nei gruppi. I Caffè devono tenere
un’attenzione mirata alla tecnologia in forte evoluzione; a tal fine la presenza sistematica di giovani volontari con attitudine all’innovazione può essere
utile, anche per costruire e sperimentare piccoli avanzamenti sul piano organizzativo e della comunicazione.
4.d Gli ospiti
La selezione degli ospiti rappresenta un passaggio delicato. Alcuni Caffè scelgono pazienti all’interno di una certa finestra di gravità, altri no; alcuni ritengono che i pazienti più lievi rispetto alla compromissione cognitiva possano
giovarsi maggiormente di un intervento. Anche la provenienza dei pazienti
(chi ha suggerito il ricorso al Caffè) è molto differenziata; si sottolinea che in
un certo numero di casi il tramite avviene attraverso le Unità di Valutazione
Alzheimer, che costituiscono una rete diffusa in tutto il territorio nazionale
e svolgono funzioni di diagnosi, terapia, follow up e counselling. In alcuni
CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale
casi il rapporto con le UVA viene mantenuto, con rilevanti vantaggi sul piano
dello scambio di informazioni, ma anche su quello di indicazioni mirate per
gli interventi. Inoltre questo collegamento offre agli operatori la sensazione
di trovarsi all’interno di un sistema tecnicamente qualificato per la cura,
ovviamente con compiti diversi, ma con la stessa ispirazione di fondo; ciò è
particolarmente rilevante per contrastare la tentazione alla chiusura e all’autosufficienza sempre presente, e giustificata, in ambienti che hanno molto
sofferto per l’esclusione sociale indotta dalle comunità di appartenenza.
I fruitori dei Caffè sono spesso disomogenei fra loro da un punto di vista clinico, perché sono affetti da malattia di Alzheimer, da demenze vascolari o
miste, da altre demenze, da psicosi con compromissione delle funzioni cognitive. Anche i familiari non possono essere inseriti in gruppi omogenei, perché
variano per età, cultura, capacità di resilienza (e quindi capacità di gestire il
carico oggettivo), supporti dei quali dispongono.
L’età media dei fruitori dei Caffè analizzati è di 80 anni, per il 60% di genere
femminile; la buona rappresentanza di uomini testimonia, di fatto, l’interesse dei caregiver di genere femminile verso le attività del Caffè rivolte a
pazienti dell’altro sesso (sarebbe molto interessante a questo proposito in
future ricerche definire il profilo di attività che giovano maggiormente ad
un genere rispetto all’altro). Solo il 6% dei fruitori ha meno di 70 anni, come
avviene oggi per la maggior parte dei servizi, sempre più utilizzati da persone in età avanzata (quindi ogni valutazione epidemiologica condotta sugli
ultrasessantacinquenni è destinata a perdere valore). La scolarità media è
di 10 anni. Il dato analitico indica anche una condizione di salute somatica
non gravemente compromessa, in linea con altri studi condotti in Italia per le
stesse età. I punteggi di MMSE suggeriscono che la maggior parte dei frequentatori ha una compromissione di livello medio delle funzioni cognitive, mentre è elevato lo score che rileva la presenza di disturbi del comportamento.
Il Caffè costituisce quindi un’alternativa almeno parziale all’uso dei farmaci
neurolettici? Alla domanda che sempre più frequentemente viene posta come
conseguenza delle restrizioni all’uso di questi farmaci imposte dalle autorità
regolatorie, non vi è ancora una risposta precisa, anche se sono sempre più
numerosi gli studi che mirano ad aprire nuove prospettive di cura. Il punteggio
riscontrato alle scale di rilevazione dello stress del caregiver indica un peso
abbastanza elevato, che giustifica il ricorso al Caffè come momento di pausa
serena nella settimana di chi fornisce assistenza.
Come riportato nel capitolo 3, il turn-over degli utenti non è molto elevato,
ad indicare un legame forte tra il Caffè ed i suoi fruitori; d’altra parte una
quota non irrilevante sospende la frequenza perché viene trasferito in una
casa di riposo. In questi casi evidentemente la frequenza al Caffè rappresentava un supporto per le famiglie al limite della propria capacità organizzativa
e psicologica di offrire cure adeguate alla persona affetta da demenza.
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La quasi totalità frequenta il Caffè accompagnata da un famigliare o da un
caregiver (talvolta anche due, segno di particolare gradimento delle attività
svolte); si tratta infatti di malati non più in grado di svolgere in maniera autonoma alcune delle attività quotidiane di base, per i quali la vita è di fatto
fondata sulla realtà di coppia (è un aspetto che caratterizza molte malattie
croniche e che dovrebbe costituire uno degli obiettivi delle cure, peraltro mai
sperimentato fino ad ora).
Un’attenzione particolare viene data agli ospiti più poveri: infatti sono tendenzialmente isolati, hanno maggiori bisogni, vivono in case malsane e seguono diete inadeguate (peraltro la letteratura medico-scientifica è concorde
nel dimostrare un rapporto tra povertà e outcome negativi, quali l’aumentato
ricorso ai servizi sanitari, la morbilità e la mortalità). Questi si affezionano in
modo particolare al Caffè, perché trovano nei suoi locali e nell’accoglienza
un ambiente più caldo (in termini fisici e psicologici) di quello della loro casa.
L’aumento della diffusione della povertà tra le persone anziane indotto dalla
crisi porterà ad un’ulteriore valorizzazione di esperienze gratuite e ad alto
valore aggiunto.
Al momento dell’ingresso viene accuratamente raccolta la biografia di ogni
ospite: la conoscenza degli eventi che hanno segnato la loro vita e quella
delle famiglie rappresenta infatti una risorsa per comprendere alcuni atteggiamenti assunti dal paziente e la sua residua capacità di relazione, ma anche
per prevenire e tamponare eventuali disturbi comportamentali, oltre che per
organizzare attività mirate al singolo malato (ad esempio la musicoterapia
per chi ha una storia di passioni per il canto...).
4.e Le attività
Le attività svolte nei Caffè sono le più svariate e legate alla presenza di
competenze e sensibilità locali. Non è possibile quindi indicare una traccia
comune dei percorsi, né fa parte degli scopi di questo documento (d’altra
parte è stato rilevato come la scelta di una metodologia o di un’altra non segue indicazioni dettate da precise indicazioni scientifiche, ma dalla peculiare
formazione e informazione che caratterizza gli operatori, in particolare quelli
di preparazione psicologica che costituiscono una presenza irrinunciabile in
ogni Caffè). Si deve però sottolineare che le varie attività devono essere
strettamente cadenzate, per prevenire l’ansia e la frustrazione dell’attesa
da parte degli ospiti e le incertezze del personale, che rischiano di produrre
risposte banali.
Gli aspetti più rilevanti sono l’accoglienza, che deve essere molto curata e
a forte intensità umana per evitare al paziente lo stress indotto dal cambiamento di ambiente; il coinvolgimento dell’ospite nella preparazione dei locali
ha ricadute positive sulla sua partecipazione alle attività; la parte ludica conclusiva, con dolci e bevande, è sempre molto gradita. Alla fine gli ospiti par-
CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale
tecipano alla pulizia dell’ambiente ed al riordino. Ovviamente queste attività
sono tutte volontarie; se in alcune situazioni il paziente mostra scarsa disponibilità è necessario rispettare la sua condizione, senza esercitare pressioni.
Le attività più frequenti sono quelle di stimolazione cognitiva e riabilitativa,
come la ROT, il cui significato è terapeutico, ma è anche di creare un ambiente di interazione positiva. In quest’ottica si collocano la musicoterapia,
la danzaterapia, l’arteterapia, ecc. Sono anche fiorite numerose esperienze
fondate sulla possibilità di disegnare offerte al paziente. È interessante in
particolare la modalità per la riproduzione dei volti, che con il progredire
della malattia tende a perdere i dettagli, fino a lasciar intravvedere solo gli
occhi. Al di là degli aspetti scientifici di questa produzione, è utile ricordare
che queste manifestazioni di outsider art suscitano generale attenzione e
quindi rappresentano un importante contatto con il mondo esterno all’ambiente del Caffè.
Rispetto ai caregiver, i colloqui con lo psicologo rappresentano l’attività più
diffusa, sia attraverso un rapporto personale sia a piccoli gruppi. La condivisione di problematiche vissute è di per se un aspetto molto gradito; lo scambio di testimonianze ha un elevato valore aggiunto. Ovviamente si tratta di
interventi delicati che richiedono preparazione, sensibilità ed esperienza da
parte del conduttore dei gruppi. In alcuni casi la presenza del medico consiste
in un colloquio in risposta a precise domande da parte degli ammalati e delle
loro famiglie. Il complesso degli interventi di sostegno sia diretti sia all’interno dei gruppi non deve richiedere un eccesso di investimento di risorse
psicofisiche, per evitare che paradossalmente il caregiver sia gravato da un
carico difficilmente sopportabile. Le informazioni sulla salute della persona
affetta da demenza e sulle cose da fare vanno comunicate in modo sereno,
non impositivo; si deve trasmettere la sensazione che non tutti gli spazi vitali
sono occupati dalla malattia, ma che anche nelle situazioni più complesse restano ambiti per interventi preventivi, mirati a ridurre l’eccesso di disabilità.
In generale il sostegno psicologico e le informazioni pratiche hanno un obiettivo comune, cioè diminuire le ansie conseguenti ad interrogativi senza risposta, ad un futuro ignoto sia rispetto all’evoluzione sintomatologica della malattia dal punto di vista cognitivo, comportamentale, funzionale, clinico, sia
rispetto al ruolo dei caregiver e alle capacità di rispondere in modo adeguato
alle esigenze dell’assistenza. Non interessano informazioni generali, che oggi
molti sono in grado di reperire su internet, ma risposte specifiche che generano fiducia, attraverso un legame diretto, sicuro, confortante. Nei tradizionali
incontri di informazione - che pure continuano ad avere significato - non si
creano infatti intensi rapporti di fiducia, come invece avviene nel Caffè. Nel
tempo delle solitudini che non si incontrano, un luogo di incontro organizzato,
periodico, sicuro rappresenta un’oasi nella giornata durissima dei caregiver;
la condivisione tra simili toglie imbarazzo sociale o vergogna nell’affrontare
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qualsiasi tematica, anche la più privata e delicata. Peraltro la presenza del
malato nel Caffè allontana l’ansia di saperlo affidato ad altri. Nel complesso
è possibile contribuire alla serenità di chi dona assistenza evitando che si
senta anche lui un ammalato, ma al contrario accompagnato nel trovare una
routine quotidiana di cura e affetto. A questo proposito riportiamo quanto
scritto da un operatore, che così si è espresso per far comprendere il senso
del suo lavoro: “vedere quanto sia naturale per noi operatori condividere
momenti lieti e sereni con il loro congiunto malato, serve soprattutto a far
capire ai caregiver quanto sia ancora possibile ricevere da persone affette
da demenza. Insegniamo a guardare diversamente agli individui con i quali
ci relazioniamo. Insegniamo ad evitare di volerli ad ogni costo riorientare,
riequilibrare, risanare. Ecco che lo spazio relazionale del Caffè può diventare
spazio ludico, dove con fantasia creare situazioni di divertimento e di svago.
E quando magicamente il sano si confonde con il malato abbiamo raggiunto il
nostro obiettivo di qualità del tempo libero e della relazione interpersonale”.
È importante che gli organizzatori del Caffè tengano un diario, allo scopo
sia di documentare le attività svolte sia di analizzare le modificazioni delle
stesse nel tempo e, seppure in modo non strutturato, di rilevare l’utilità degli
incontri sui singoli ammalati e sulle loro famiglie. Il diario associato a riunioni
almeno mensili dell’équipe costituisce il fondamento del lavoro. Il monitoraggio continuo del livello di presenze e di partecipazione attiva permette
di correggere in tempo reale eventuali situazioni di criticità non volute, in
particolare se coinvolgono le persone maggiormente a rischio. Una documentazione “narrativa” diviene utile anche per la formazione di nuovi volontari
o operatori che entrano nel servizio. Questo aspetto è di particolare rilievo
perché consente un turnover degli operatori e la possibilità di fondare nuove
attività partendo da una base consolidata di conoscenze. Inoltre la presenza
di persone in formazione (come avviene in alcuni Caffè) arricchisce il gruppo
degli operatori, portando serenità e nuove esperienze.
In alcuni casi i Caffè hanno avviato corsi di formazione per addetti all’assistenza come, ad esempio, le badanti; pur non essendo un’attività fondamentale, testimonia il legame che si è creato con le situazioni difficili vissute
dalle famiglie dei pazienti e la stima che il Caffè ha acquisito. Ciò vale anche
per ogni altra attività progettuale rivolta al territorio; pur essendo nel complesso un segnale positivo, è necessario fare in modo che non snaturi l’attività
principale, cioè quella dell’accoglienza e della vita nel Caffè. Nel complesso,
però, la collaborazione tra i Caffè ed il territorio deve essere migliorata, per
abbattere pregiudizi e luoghi comuni. La popolazione troppo frequentemente
si sente estranea a quanto avviene nei Caffè: questa distanza psicologica e la
mancanza di adeguate informazioni provoca ritardi nel ricorso al servizio da
parte delle famiglie, che attendono fino a quando sono al limite delle proprie
forze.
CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale
Si sottolinea come in molte situazioni non vi siano rapporti strutturati tra il
Caffè ed i medici di medicina generale; ciò priva il servizio di un importante
punto di appoggio, ma anche il medico della possibilità di discutere con gli
operatori del Caffè interventi utili per il benessere del paziente ed anche di
capire quali sono le condizioni che maggiormente provocano sofferenza. Peraltro il collegamento sarebbe utile per appoggiare i frequentatori del Caffè
ad una competenza clinica quando si identificasse una situazione che necessiti di una cura specifica; il Caffè non deve nemmeno lontanamente assomigliare ad una struttura sanitaria, ma se la sensibilità degli operatori rileva un
bisogno clinico è necessario che sia identificabile un percorso di cure, in modo
da garantire un adeguato follow up.
Rispetto ai rapporti con gli ambienti esterni si sottolinea che solo un Caffè ha
rapporti con una realtà formativa, nello specifico l’Università di Bologna. Al
contrario, sarebbe estremamente vantaggioso un contatto diffuso con agenzie formative e di ricerca, al fine di migliorare la preparazione degli operatori
(vecchi e nuovi, volontari e professionisti), di formare nuove leve, ed anche di
predisporre originali modalità di lavoro con un rapporto di reciproco scambio
di informazioni e la loro conseguente elaborazione. I dipartimenti universitari
coinvolgibili in queste attività sono molti, afferenti all’area geriatrica, psicologica, riabilitativa, del nursing, dell’assistenza sociale, della sociologia,
e altri ancora. Una collaborazione sul piano metodologico e dell’interpretazione dei risultati sarebbe di grande utilità per i Caffè, e darebbe anche
all’università un ruolo nell’analisi dei processi di trasformazione dell’assistenza sotto la pressione opposta dell’aumento del bisogno e della riduzione
delle disponibilità.
Infine tra le attività è da ricordare la rilevazione della valutazione del servizio
da parte dell’utente. Nelle realtà studiate si è ritenuto che l’intenso rapporto
tra gli organizzatori e i frequentatori permetta di fatto un continuo reciproco
scambio di informazioni e di valutazione, che banalizzerebbe una rilevazione
formale. In questa prospettiva la problematica resta aperta: è invece sempre
necessario avere la coscienza che i rapporti possono modificarsi tra operatori
e fruitori e che nulla può essere considerato stabile nelle dinamiche interpersonali e di gruppo; talvolta l’abitudine impedisce di vedere le crisi e quindi di
intervenire adeguatamente.
4.f I costi
I costi delle attività dei Caffè sono mediamente ridotti. Si aggirano dai 5 ai
10.000 € per anno per un Caffè di 20 ospiti, anche se sono molto difformi. La
loro segmentazione indica che nella maggior parte dei casi si tratta di costi
incomprimibili, come, ad esempio, le assicurazioni; però in generale si può
affermare che l’appoggiarsi a servizi o strutture più pesanti sul piano economico permette rilevanti economie di scala.
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Particolare attenzione deve essere data al mantenimento dei costi sotto una
certa soglia; da questo punto di vista è da evitare ogni allargamento veloce
delle attività, ad esempio sotto la pressione dell’aumento dei volontari o di
una certa temporanea disponibilità finanziaria. Solo un’oculata programmazione può permettere - ove ritenuto opportuno - un lento allargamento del
lavoro. La frugalità deve caratterizzare le attività, evitando spese inutili,
riutilizzando quando possibile ogni materiale, incoraggiando gli ospiti e le
loro famiglie a partecipare alla vita del Caffè con contributi non economici
(cibi, in particolare). Quest’ultimo è un altro aspetto delicato: i Caffè non
chiedono mai denaro, perché si creerebbero difficoltà in alcune famiglie, già
sottoposte oggi alle conseguenze negative della crisi, e disparità spiacevoli;
si romperebbe l’atmosfera di scambio libero e gratuito che caratterizza la
maggior parte dei Caffè.
Le fonti di finanziamento possono essere le più varie; poiché le amministrazioni comunali hanno disponibilità in continua diminuzione, è opportuno ricorrere alla ricchezza e alla generosità della comunità civile, alle Fondazioni
bancarie e private, a contributi strutturati (il 5 per mille) e alla raccolta di
fondi mirata attivando specifiche attività di fund raising. L’attenzione sempre
più ampia verso le demenze da parte del grande pubblico certamente favorirà
anche le donazioni: è però importante a tal fine che il Caffè venga presentato
come un luogo “positivo”, che induce benessere e non come un’attività secondaria, pensata come “un’ultima spiaggia”, perché i donatori sono portati
a finanziare imprese che producono risultati.
4.g I risultati
L’indagine condotta ha permesso di documentare i risultati ottenuti nelle diverse realtà. Come indicato nei precedenti capitoli, non sono state compiute
solo valutazioni quantitative, perché le atmosfere, le capacità di adattamento, gli stimoli positivi, i cambiamenti di umore, la serenità riconquistata non
possono essere misurati, ma solamente percepiti da chi è coinvolto nell’impresa. Da questo punto di vista sarebbe utile per certi periodi videoregistrare
le attività, al fine di far cogliere e valutare da osservatori esterni le peculiarità del servizio. Ciò ha esposto queste valutazioni alla critica di autoreferenzialità; è però necessario ripetere che la ricchezza dei comportamenti umani
non può essere completamente riassunta nelle scale di valutazione, anche
se queste rappresentano elementi indispensabili per organizzare un servizio.
Il rapporto tra una serie di atti e le relative conseguenze sui comportamenti spesso non è comprensibile e quindi non si possono trarre leggi generali,
ma solo indicazioni empiriche, che però sono utili per proseguire il lavoro.
Sapere, ad esempio, che il MMSE di un certo ospite è 24/30 e non 14/30
costituisce un punto di partenza importante per sviluppare una relazione significativa; allo stesso modo rilevare che in un certo momento la popolazione
CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale
che frequenta il Caffè ha in media un livello lieve o moderato di compromissione cognitiva costituisce un’informazione facilmente condivisibile da tutto
il personale, sulla quale è possibile costruire un progetto di cura. Peraltro è
significativo il fatto che nel periodo di osservazione gli ospiti con un livello
più elevato di MMSE, e quindi con una compromissione cognitiva più lieve,
presentino un miglioramento. Se il dato venisse ulteriormente confermato in
altri studi indicherebbe che le persone meno compromesse si giovano di più
della frequenza del Caffè; questa osservazione però non tiene in conto che, al
contrario, sono i caregiver che devono sopportare maggiori pesi indotti dalle
necessità assistenziali a beneficiare delle attività svolte. Infatti il Caregiver
Burden Inventory ha uno score piuttosto basso, che migliora soprattutto nelle
componenti riguardanti la percezione di difficoltà soggettiva di chi offre assistenza. Su questa stessa linea si collocano i risultati positivi ottenuti attraverso la valutazione della frequenza e gravità dei disturbi comportamentali
che diminuiscono, riducendo il carico psicologico e pratico sulla vita di chi
fornisce assistenza. La presenza di questi disturbi è la causa più frequente di
aumento della disabilità e di istituzionalizzazione, nonché di gravi difficoltà
nell’assistenza (maggiore frequenza di interventi medici, di prescrizioni farmacologiche, maggiori costi di gestione della malattia, più elevato stress del
caregiver che induce di conseguenza un aumento dello stress dell’ammalato,
peggioramento del livello di autonomia nelle attività della vita quotidiana,
già compromessa dal deficit cognitivo). È certamente il dato più significativo
sul piano pratico, perché il disturbo comportamentale è l’aspetto che maggiormente interferisce con la vita della famiglia, provocando crisi difficilmente gestibili ed aumentando il rischio di istituzionalizzazione dell’ammalato.
Anche il miglioramento degli score della qualità della vita si colloca nella
prospettiva complessiva, indicata dallo studio, di un effetto non banale indotto dalla permanenza nell’Alzheimer Caffè rispetto alle difficoltà indotte dai
compiti di cura affidati ai familiari o ad altri caregiver. È interessante notare
che i punteggi sono lievemente più elevati nel sesso maschile rispetto a quello femminile, quasi vi fosse una maggiore autonomia psicologica dell’uomo
rispetto all’ambiente di vita. Nel complesso il livello basso è in linea con gli
elevati disturbi comportamentali, che identificano una popolazione con un
elevato livello di sofferenza soggettiva.
Ovviamente gli effetti positivi indotti dalla frequentazione del Caffè talvolta
non sono adeguati rispetto alla gravità, condizione di stress di chi fornisce
assistenza; in questi casi gli operatori possono facilitare l’appoggio ad altri
servizi, quali i ricoveri di sollievo o l’accesso ad un centro diurno per demenze. Nell’insieme però si osserva un netto aumento da parte dei familiari
nell’acquisire maggiori capacità di dare aiuto per un lungo periodo, senza che il
sopraggiungere di una crisi impedisca il mantenimento nel tempo di un servizio di
alta qualità. L’aumento dell’empowerment da parte di chi assiste non è sempre
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cosciente; si assiste però ad un progressivo, anche se lento, miglioramento della
loro condizione, specchio di un maggior controllo da parte del caregiver sulla
propria vita. Il servizio non è solo fonte di alienazione, ma di scelte che portano
a meglio gestire il proprio tempo ed a meglio controllare procedure e risultati.
La brevità del periodo di osservazione ha impedito di rilevare una eventuale
modificazione del tasso di istituzionalizzazione delle persone che frequentano
il Caffè; si è però osservata una stabilità della frequentazione, che indica un
forte legame con il servizio, certamente dipendente dai piccoli e grandi risultati
raggiunti.
L’insieme delle indicazioni soprariportate permette di concludere che l’esperienza degli Alzheimer Caffè, nelle sue diverse realizzazioni, è estremamente positiva. Si costruisce infatti un approccio nuovo alla conoscenza del malato e dei suoi
bisogni, facendo emergere una visione “sociale” delle demenze, che non nega
l’ambito biologico del disturbo, ma lo colloca in una dimensione quotidiana, nella
quale i sintomi si sviluppano ed esercitano un’influenza sulle dinamiche vitali.
Non è possibile dimostrare con questi dati una relazione diretta tra la frequentazione di un Caffè e i miglioramenti osservarti; è però indubbio che un intervento
a supporto dei familiari, che influenza positivamente non solo la loro qualità di
vita, ma allo stesso tempo i sintomi comportamentali dell’ammalato ed il mantenimento delle sue residue funzioni cognitive, assume una rilevante importanza
nel panorama degli strumenti per la care delle persone affette da malattia di
Alzheimer e da altre demenze.
I Caffè non sono né un luogo di ritrovo come un Centro Sociale, né un ufficio dei
servizi sociali del comune o del distretto, né luoghi di informazione sulle demenze, né punti per le prenotazioni di esami e visite; al contrario, se ben organizzati,
possono riassumere i punti di forza di ciascuno di questi per fornire al cittadino
un servizio utile e strutturato. In questa prospettiva, peraltro, l’evoluzione dei
Caffè è aperta all’iniziativa dei gestori ed alle possibilità/capacità di stendere
reti efficaci.
I vantaggi dei Caffè sono evidenti sia per i pazienti sia per chi li assiste; si conferma quindi l’ipotesi iniziale di questo capitolo, cioè che il servizio, a basso costo,
ma a forte intensità umana, è utile e quindi che la sua diffusione spontanea
avvenuta in questi anni va sostenuta ed appoggiata (come è negli scopi di queste
pagine).
Lo studio ha riportato luci ed ombre, ma gli aspetti che meritano attenzione
superano largamente quelli criticabili. Ciò permette una difesa efficace da chi
ritiene inadeguati alcuni Caffè a causa della mancanza di attività strutturate e
di collegamenti con i risultati attesi. Benché i Caffè analizzati nello studio non
appartengano a questa tipologia, è utile ricordare che un certo livello di autonomia e di creatività è necessario per arrivare a risultati significativi. In particolare
è importante che ogni Caffè sappia trovare un equilibrio tra aspetti strutturati
CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale
e spontanei, perché solo così si ottiene un’elevata qualità delle prestazioni assistenziali. L’esperienza delle forti differenze tra i frequentatori del Caffè impedisce l’adozione di comportamenti prefissati e richiede un elevato livello di informalità, che induce un progressivo miglioramento della comunicazione e quindi
delle ricadute che ne derivano sul piano della care.
È auspicabile che “l’impresa Alzheimer Caffè” possa svilupparsi sempre più e che
questo testo contribuisca a facilitare il compito di chi volesse intraprendere una
strada non facile, ma di rilevante significato umano e assistenziale. La diffusione dovrebbe peraltro identificare luoghi di contatto e collegamento tra le varie
realtà, per indurre scambi di informazioni pratiche e creare sinergie operative.
In questa prospettiva hanno un ruolo importante le Fondazioni, in particolare
quelle che si sono attribuite il mandato di affiancare il non profit per facilitare lo
scambio di informazioni e di modellistica, al fine di migliorare l’operatività ed i
risultati che possono essere raggiunti. La recente attenzione per le microrealizzazioni rappresenta un cambiamento di prospettiva estremamente significativo,
perché permette di intervenire nel luogo dove è minore la distanza tra il bisogno
e l’atto di cura, evitando sprechi, burocrazie, talvolta anche la costruzione di
imprese nel deserto.
Si è molto discusso in questi anni sul significato e le opportunità offerte dai trattamenti farmacologici e non delle persone ammalate di demenza; non vogliamo
entrare in una diatriba che esula dagli scopi di questo studio, anche perché al
centro collochiamo il termine “cura”, che ha un significato più ampio delle singole tecniche utilizzate.
Se costruire e gestire un Alzheimer Caffè è un atto di cura per qualcuno, come
è stato dimostrato in questo volume, è compito nostro come attori professionali
e, in generale, come membri della collettività sostenerli e mantenerli vivi. L’Alzheimer Caffè non è uno spazio avulso dalla realtà quotidiana, in cui si dà per
qualche tempo l’illusione dell’assenza di malattia, ma un passaggio importante
per inserire un momento di serenità nella vita difficile dell’ammalato e di chi si
prende carico di lui. È una serenità che discende dalla chiarezza dei ruoli e dei
compiti, dalla capacità di comunicare attraverso linguaggi diversi ma sempre
adeguati, dalla possibilità di prevenire e tamponare situazioni di disagio, dall’appartenere ad una cultura condivisa per la quale è sempre possibile migliorare la
vita di chi soffre, anche nelle condizioni più difficili. È una serenità che tende a
diffondersi al di fuori del Caffè, perché costruita su solidi rapporti tra le persone;
rappresenta un segnale positivo per chi deve affrontare un tempo di malattia
che altrimenti potrebbe sembrare senza speranza e senza fine.
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INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
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Conclusioni
Per una
sussidarietà
frugale
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alzheimer caffÈ:
la ricchezza di una esperienza
CONCLUSIONI
Per una sussidiarietà frugale
Le conclusioni di questo volume sono state tratte nel capitolo precedente,
dove è stato descritto il possibile ruolo degli Alzheimer Caffè nell’assistenza
alle persone affette da demenza ed alle loro famiglie. Sono state indicate
anche alcune modalità per ottimizzare il funzionamento di un servizio originale e innovativo, che può giovarsi del supporto di idee e di esperienze come
quelle riportate in queste pagine.
Di seguito ritorniamo invece su alcune caratteristiche di fondo alle quali dovrebbe ispirarsi chi progetta e realizza servizi per le persone anziane fragili
ed in particolare se affette da demenza. L’impresa è sempre difficile, qualsiasi sia il livello; per questo l’attenersi ad indicazioni di metodo permette di
percorrere le strade dell’impegno guidati da utili tracce.
La cura delle persone fragili si fonda culturalmente sul riconoscimento di
alcune caratteristiche strutturali della vita della persona che invecchia, già
ampiamente descritte in queste pagine, ma che è opportuno riassumere ulteriormente:
a. la multidimensionalità dei problemi umani e clinici e quindi l’esigenza di
una valutazione altrettanto multidimensionale, che tenga conto di piani
diversi clinici e funzionali;
b. la fragilità come condizione peculiare della sottopopolazione di anziani
che richiede maggiore protezione in senso globale ed interventi sanitari
mirati ed approfonditi;
c. la plasticità come caratteristica di fondo della vita (anche biologica) della
persona che invecchia; quindi un’ampia serie di interventi collegati anche
con lo stile di vita sono importanti per il controllo dello stato di salute e
possono ottenere risultati significativi, seppure in condizioni apparentemente immodificabili come quelle della persona affetta da demenza.
Nella prospettiva sopraindicata alcuni atteggiamenti da parte di chi presta
cura e assistenza garantiscono la possibilità di meglio esplicare servizi utili
per la persona che soffre per limitazioni della propria autonomia. Di seguito
vengono presentate alcune indicazioni al confine tra aspetti teorici e pratici,
per meglio affrontare i compiti che derivano dall’impegno di cura all’interno
di un sistema organizzato.
1. Evitare atteggiamenti conservatori. La frase ormai storica di Robert Kane:
“Dobbiamo adottare uno spirito collettivo di intolleranza creativa verso lo
status quo dell’assistenza alle malattie croniche dell’anziano” deve essere
assunta come regola generale. Dobbiamo mettere in atto un impegno forte di creatività, perché le esigenze cambiano in modo veloce e solo menti
particolarmente plastiche sanno reggere la sfida. Contemporaneamente
dobbiamo riconoscere la talvolta scarsa adeguatezza sul piano culturale e
pratico dei nostri atti di cura, che vanno per molti aspetti rivisti. Qualche
CONCLUSIONI Per una sussidiarietà frugale
tempo fa è stato di moda affermare che il nostro tempo sarebbe stato
caratterizzato dalla fine della storia. Teoria sconfitta dai macrofenomeni a
livello planetario, ma anche dalle nostre realtà più modeste, come quelle
caratterizzate dal bisogno di protezione delle persone fragili. “I poveri saranno sempre in mezzo a voi”: questa notissima affermazione evangelica
descrive una storia sempre in movimento, che assume ogni giorno aspetti
nuovi, in una dialettica senza fine tra impegno di cura e bisogno che cambia in conseguenza di culture, tecniche, generosità, egoismi.
Innovazione vuol dire anche coraggio ed entusiasmo, caratteristiche non
banali per chi voglia intraprendere atti di cura efficaci. L’ambiente degli
Alzheimer Caffè in questi anni ha mostrato doti di coraggio e di entusiasmo, senza di queste forse non sarebbero mai partiti né sopravvissuti a
lungo. Parte importante dell’evitare atteggiamenti conservatori è costituita anche dal cambiare lo stile di comunicazione attorno alle demenze.
Termini come “perdita del sé”, “morti viventi”, “vittime della malattia”,
“furto della memoria” dovrebbero essere abbandonati perché non aiutano
a capire la sofferenza dei malati e, al contrario, creano intorno a loro un
alone di pessimismo, una sorta di morte sociale che induce solo “carichi
pesanti per i caregiver” e scoraggia un atteggiamento volto alla cura. In
questa direzione si collocano opportunamente molti Caffè che utilizzano
un linguaggio nuovo, meno tradizionale, più “libero”, che discende direttamente dalla loro motivazione di fondo, cioè garantire la vita e non
attendere la morte.
2. Una moderna assistenza e cura dell’anziano con compromissione delle
funzioni cognitive non è compatibile né con l’essere rinunciatari paurosi,
quelli che vedono catastrofi senza rimedio nel nostro futuro, né ottimisti
superficiali e teorici, che ritengono di avere la ricetta per qualsiasi problema. L’evoluzione demografica ed epidemiologica è stata così veloce
da rendere difficile la maturazione di un pensiero adeguato ad affrontare
le molte e diverse dinamiche umane, cliniche, psicologiche, sociali ed
organizzative avvenute in pochissimi anni. Questa considerazione storica
permette di mantenere una visione equilibrata e fattiva sia nell’impegno
quotidiano sia nella progettazione di imprese importanti. Oggi siamo alla
soglia di grandi cambiamenti (secondo alcuni la terza rivoluzione industriale) che attraverso la robotica ridurrà drasticamente la forza lavoro.
Si libereranno quindi energie per professioni nuove, legate alla cura delle
persone fragili, il cui finanziamento verrà dall’aumento della produttività
nei vari settori dell’industria e dei servizi. Questa prospettiva presenta
alcuni lati oscuri, in particolare nell’ottica della giustizia sociale, ma allo
stesso tempo apre grandi spazi per imprese ancora ad alta intensità di
lavoro umano, come quello che viene prestato nell’Alzheimer Caffè, che
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in quest’ottica potrebbe godere di adeguati finanziamenti.
3. Non ridurre i problemi clinico-assistenziali ai loro aspetti economici, sottoponendo a questi ogni comportamento e riducendo ogni valutazione al
“costo di tutto” e al “valore di nulla”. Le dinamiche della vita, in particolari quelle connesse con la difesa delle persone fragili, fanno mettere
al centro valori indipendenti dalle “evoluzioni della fortuna”; la dignità
umana è un metro di valutazione superiore a qualsiasi altro. Ogni decisione, quindi, soprattutto nei momenti estremi, deve sottrarsi al dominio di
considerazioni di convenienza economica, organizzativa o anche psicologica. Si deve inoltre evitare di creare le condizioni per le quali la persona
ammalata cronica, e quindi oggettivamente forte consumatrice di risorse,
si senta responsabile di un peso eccessivo sulla collettività, con negative
ricadute sul piano del vissuto soggettivo. Questo disagio è particolarmente percepito dai familiari delle persone affette da demenza. L’Alzheimer
Caffè è invece, per definizione, un ambiente dove non si prova disagio per
la propria condizione né ci si sente di peso alla collettività; l’atmosfera
volontaristica induce infatti serenità, tolleranza, ascolto, lievità. In un
tempo di gravi difficoltà per le famiglie povere, che subiscono la drastica
riduzione dei fondi pubblici dedicati alle politiche sociali, interventi a
basso costo e di alto significato sia sul piano concreto che di supporto psicologico assumono progressivamente maggiore importanza. Questa considerazione legata allo specifico non toglie rilievo alla preoccupata valutazione dei piani per la lotta alla povertà, che in passato non stati al centro
degli interventi pubblici e che negli ultimi anni hanno visto decurtazioni
di notevolissima intensità.
4. L’assistenza all’anziano è fondata su interventi di alta e bassa tecnologia.
Si deve possedere l’abilità di utilizzare le macchine, perché la tecnologia
esercita una forte spinta al progresso di ogni settore della medicina (si
veda il ruolo svolto dall’ICT). Però si deve provare orgoglio anche per gli
aspetti meno misurabili degli atti di cura, cioè la capacità di trasformare in procedure terapeutiche quanto indicato dalla medicina basata sulle
evidenze, ma anche da quella “narrativa”: ambedue concorrono ad un
approccio adeguato alla multiformità del bisogno della persona anziana
colpita da malattia cronica. Il progresso scientifico non deve essere vanificato o banalizzato da una attuazione in ambiti assistenziali inadeguati a
cogliere la specificità della condizione clinica dell’anziano, a rilevarne i
dati in maniera multidimensionale e ad organizzare risposte terapeuticoassistenziali in modo allo stesso tempo “dolce” e incisivo. La rete dei servizi per le demenze, come premessa ad un metodo di continuità assistenziale, non è un modello teorico, ma un insieme di momenti, caratterizzati
CONCLUSIONI Per una sussidiarietà frugale
dalla stessa cultura, in grado di accompagnare l’anziano nelle lunghe strade della malattia cronica, adattando a specifiche esigenze quanto di più
moderno viene indicato dalla ricerca.
5. Impegnarsi a definire i risultati del lavoro di cura. La valutazione degli
outcome è essenziale anche in un’ottica di definizione del rapporto tra
costi e benefici. È necessario un preciso sforzo da parte di chi ha la responsabilità di definire i benefici ottenuti, altrimenti sarà difficile domandare alla generosità sociale di impegnarsi a favore dei più fragili. I risultati
non sempre possono essere raggiunti in breve tempo e spesso si limitano
al controllo di qualche sintomo o al rallentamento della storia naturale di
malattia. In questa prospettiva si collocano gli small gains, i piccoli vantaggi che possono essere indotti nell’anziano fragile da cure adeguate. Si
tratta di risultati che oggettivamente possono sembrare limitati, ma che
invece hanno valore per il singolo fortemente compromesso e anche per
la collettività, che così di fatto riconosce il proprio dovere di agire per il
bene dell’individuo, senza incentrare l’intervento su obiettivi lontani, che
il più delle volte sono teorici e irrealizzabili. È necessario dare valore a
qualsiasi segmento della cura, cercando di definire, raggiungere e misurare outcome adeguati - con realismo - alla situazione clinica di ogni anziano
ammalato. Altrettanto importante è evitare piccole perdite, cioè rallentare l’evoluzione del paziente quando viene esposto a difficoltà senza protezione. Le cure hanno quindi sempre questa duplice funzione, che si deve
valutare per quanto possibile anche sul piano quantitativo. Il realismo e
la sensibilità suggeriscono però che talvolta i contenuti umani della cura
possono essere più importanti della stessa definizione “scientifica” con la
quale si caratterizzano gli outcome. Nella prospettiva dell’etica della responsabilità la funzione della relazione di cura si esprime principalmente
come tentativo di salvaguardare il più possibile l’identità di persona nella
sua dimensione soggettiva ed ambientale. In tale prospettiva, se da un
lato non è in discussione la funzione prioritaria dell’evidenza scientifica,
sarebbe illusorio pensare che questa sia in grado di dare risposta a tutti i
problemi che la pratica clinica pone. Infine si deve riconoscere che la cura
del paziente si realizza non solo con interventi che si basano sullo stato
attuale delle conoscenze, ma anche su ragionevoli ipotesi di lavoro che
la scarsità delle conoscenze stesse impone, nell’interesse del malato, di
sottoporre a verifica clinica.
6. Non togliere libertà all’anziano ammalato, che è già sottoposto dagli
eventi ad una lenta privazione della capacità di disporre autonomamente
della propria vita, qualsiasi sia il livello di funzione cognitiva. Il rischio di
ridurre l’anziano (e la sua immagine) ad una serie di parametri in declino
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è sempre dietro l’angolo; lo slogan “invecchiare non è una malattia”, al
di là del realismo clinico, è di grande efficacia per non espropriare chi invecchia del proprio tempo di vita, riducendolo soltanto al tempo della malattia. Questo atteggiamento è particolarmente necessario di fronte alla
persona affetta da demenza, la cui libertà è affidata alle scelte di chi di
lui si cura (professionalmente o nel rapporto di caregiving). La città deve
essere aperta all’anziano con problemi cognitivi, favorendo la sua piccola
libertà possibile. I Caffè rappresentano isole, in un mare talvolta inospitale, sulla quale chi è ammalato e chi vive con lui può trovare un punto
di appoggio che, sebbene temporaneo, può aiutarlo a “restare a galla”.
E spetta alla collettività impedire che l’isola sia travolta dalla pressione
dell’acqua.
7. È necessario adottare un modello “prudente” di medicina degli anziani
cronici perché nessuna competenza o specializzazione dispone di tutte le
risposte; è però certo che vi sarà sempre bisogno di chi sa interpretare
e curare la sofferenza complessa del vecchio, adeguando la pratica alla
specificità delle tante diverse situazioni di vita. Fa parte della prudenza
in senso lato anche saper accettare i limiti dell’organizzazione dei servizi
come oggi si estrinseca in molte parti del nostro Paese. Le affermazioni
retoriche e onnipotenti sulla rete, intesa come costruzione perfetta che
tutto regola e tutto controlla, non hanno trovato concreta realizzazione in
nessuna area del mondo. La cultura della cura dei cronici dichiara invece
apertamente l’appartenenza ad una medicina non commerciale, che ha
alla base profondi valori di rispetto della dignità e della libertà e, quindi,
una logica di prudenza e di mitezza. In questa prospettiva la valutazione
della qualità espressa dall’utente rappresenta un’indicazione di come e
se il paziente percepisce la scelta strategica - operativa e relazionale - di
chi presta il servizio. Sebbene vi siano rilevanti problemi metodologici ed
interpretativi, soprattutto nel caso di persone con limitazioni cognitive,
resta fondamentale disporre della valutazione dei fruitori rispetto ad un
servizio ricevuto. Nelle patologie croniche è spesso difficile, perché possono coesistere deficit cognitivi, depressione del tono dell’umore, necessità
di coinvolgere il caregiver, con i limiti conseguenti in tema di affidabilità:
un sistema moderno di assistenza deve tuttavia tenere in conto il giudizio
di chi vive un lungo tempo della propria vita all’interno di un servizio
organizzato e di chi lo assiste con continuità. Nel caso delle demenze la
modalità di raccolta del giudizio di chi riceve un servizio varia nel tempo, perché si modifica la capacità di esprimere soddisfazione rispetto alla
qualità dell’assistenza ricevuta. Resta però sempre sullo sfondo l’esigenza
di creare condizioni per le quali una persona ritenga di poter controllare
gli eventi che riguarderanno la propria vita in futuro. È un sentire profon-
CONCLUSIONI Per una sussidiarietà frugale
do che gli operatori della cura non possono trascurare nelle sue diverse
espressioni, che riguardano la salute e le condizioni di benessere. Un rapporto intenso tra chi dona e chi riceve, come avviene nei Caffè, permette
di costruire assieme alcuni percorsi vitali e quindi di dare a chi è assistito
la percezione di essere partecipe attivo della costruzione del suo futuro.
8. Nelle aree apparentemente marginali, come quelle dell’assistenza alle
persone affette da demenza, è necessario adottare una forte propensione alla formazione, all’“esempio” ed alla sperimentazione; infatti è importante la presenza di luoghi dove la cura delle demenze possa essere
sperimentata concretamente, ogni giorno adattando le nuove affermazioni della biologia, della clinica, della tecnologia e della scienza dell’organizzazione alla prassi. È importante disporre di ambiti dove vengono
ad incontrarsi la pratica clinica, che è sempre frutto di mediazioni (e
talvolta anche di rilevanti compromessi), con le affermazioni della medicina basata sull’evidenza (ad esempio per l’uso di farmaci innovativi) e
con le proposte di nuove tecnologie in ambito diagnostico, terapeutico o
nell’ambito dell’informazione e della comunicazione. Ovviamente su questi temi deve avvenire la formazione degli operatori ad ogni livello. Non si
deve inoltre dimenticare la rapidità dell’evoluzione del costume e di altri
aspetti sociologicamente rilevanti (struttura della famiglia, modalità di
rapporto con i servizi, disponibilità alla cura informale, ecc.); questi hanno bisogno di ambiti di analisi e di valutazione attenta, al fine di proporre
nuovi contenuti formali e sperimentazioni di modelli assistenziali adatti
al mutare delle condizioni di vita della persona che invecchia. Si devono
evitare le sovrastrutture burocratiche, in passato talvolta privilegiate da
una certa medicina in grado solamente di imporre le proprie lentezze e
rigidità a bisogni in veloce cambiamento. Si devono anche evitare analisi
moralistiche rispetto all’evoluzione della condizione sociale dell’anziano:
dobbiamo porci con realismo all’interno del tempo presente, indicando le
caratteristiche di interventi che rispettano la persona, tanto più quanto
questa non trova nell’ambito dei supporti informali un’adeguata attenzione ai propri bisogni.
Questi punti costituiscono un fondamento forte per costruire qualsiasi progetto nelle aree più fragili della vita. In aggiunta a queste considerazioni
di carattere generale, l’analisi dell’esperienza degli Alzheimer Caffè induce
ad una valutazione complessiva che può schematicamente essere definita di
“sussidiarietà frugale”. Infatti il Caffè si colloca in uno spazio che rispetta ogni altro all’interno della rete dei servizi; non svolge attività sanitaria
diretta, ma solo interventi di supporto dove altri servizi non arrivano. Non
vuole (né può) sostituirsi alla famiglia ed alla sua organizzazione, anche se
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rappresenta un utile aiuto alla vita delle famiglie. Il lavoro degli Alzheimer
Caffè rispetta quindi le gerarchie che caratterizzano gli interventi a favore
delle persone colpite da demenza, valorizzando così il proprio ruolo, senza
interferire con quello di altri e quindi senza creare danni anche se involontari.
Certamente chi progetta questi servizi non si pone problematiche teoriche
rispetto alla sussidiarietà; però una collocazione che di fatto rispetta questo
principio fondamentale dell’organizzazione sociale è indice di sensibilità e
intelligenza, tanto più rilevanti quanto più sono naturali e non indotte da
affermazioni teoriche.
D’altra parte la frugalità è anch’essa una caratteristica fondante di queste
imprese. Frugalità indotta dalla scelta di svolgere prevalentemente funzioni
volontaristiche, di utilizzare spazi a basso costo o gratuiti, di sviluppare attività che utilizzano anche supporti esterni. La frugalità in questo campo permette - come ripetutamente affermato - un positivo rapporto costi-benefici,
ma allo stesso tempo rappresenta un esempio significativo di come pochi soldi
utilizzati con intelligenza e dedizione possano produrre grandi risultati. La
frugalità diviene uno stile ed un insegnamento anche per gli altri attori della
rete, abituati a non dare attenzione ad aspetti ritenuti irrilevanti nel tempo
dell’opulenza, ma che ora nel tempo della crisi sono divenuti essenziali per
permettere la sopravvivenza di particolari servizi. Il termine frugalità è stato
da taluno accostato a quello di razionamento: vi è, al contrario, una differenza fondamentale, perché nel primo caso vi è una partecipazione spontanea e
convinta alla comune scelta, nel secondo caso invece prevalgono le imposizioni dall’alto.
Questa considerazione non deve essere interpretata come un invito ad accontentarsi, ma a riconoscere che spesso non sono necessarie strutture ed
operatività fastose per ottenere buoni risultati e che in ogni modo oggi la
sopravvivenza di alcuni servizi è legata alla capacità di farli costare poco. Ma
allo stesso tempo senza vivere il risparmio come una sventura che induce al
pessimismo, alla rinuncia, all’auto-svalutazione. Peraltro chi lavora nel campo delle demenze ha, non da ieri, esperienza di mezzi limitati e di traguardi
ugualmente raggiunti. Questi ultimi talvolta sono indipendenti dalla quantità
del servizio (non dalla qualità) e fonte di soddisfazione che permette di andare avanti. Il denaro disponibile non può essere definito una variabile indipendente, ma certamente qualsiasi atto di cura collettiva o interpersonale non
può dipendere solo dai soldi!
La crisi che oggi accompagna anche l’impegno di cura impone risposte diverse
da quelle tradizionali. Sono sempre più necessarie imprese che producano
valore non solo economico, ma umano, attraverso la capacità di sintesi tra
tecnica e relazione, efficienza e valori, rispetto dell’individuo ed organizzazione. Ancora una volta è possibile affermare che gli Alzheimer Caffè rappresentano il piccolo esempio di una piccola rivoluzione, che si colloca al centro
CONCLUSIONI Per una sussidiarietà frugale
delle dinamiche di forte trasformazione dei sistemi organizzati, in particolare
quelli rivolti a garantire benessere alle persone fragili. Sarà interessante seguirne l’evoluzione come esempio di un modo nuovo di offrire cure in tempi
apparentemente poco sensibili all’apertura verso i deboli.
Alla fine di queste pagine esprimiamo l’augurio che il lettore possa trarne
indicazioni per affrontare più serenamente le problematiche poste dalle persone affette da demenza. Nello specifico chi è coinvolto nei vari interventi
potrà trovare utili e riproducibili modelli di comportamento; il libretto in
quest’ottica apporta un rilevante plus-valore.
Nel complesso gli Alzheimer Caffè rappresentano un’ipotesi operativa per migliorare la qualità della vita delle persone ammalate, che può essere realizzata con risorse limitate. La speranza di chi ha svolto lo studio e di chi ha messo
a disposizione i dati è che le indicazioni possano facilitare il compito di chi
volesse far crescere nuove esperienze in questo filone o in altri affini. L’assistenza alle persone affette da demenza ne riceverebbe un grande impulso e
le persone ammalate un significativo miglioramento della propria condizione.
Ma, alla fine “la ragione può solo parlare, è l’amore che canta!”. Questa frase
dello scrittore Joseph de Maistre viene spesso utilizzata con i giovani che si
apprestano ad affrontare una professione di cura. Lavorare per gli anziani
fragili non può prescindere da ragionamenti tecnico-scientifici, fondati sulle
scoperte della ricerca, ma deve essere caratterizzato anche dall’impegno a
comprendere la persona ammalata nelle sue diverse prospettive, complesse e
difficili da identificare, una sorta di “canto” che va intuito, perché la ragione
e la scienza devono essere accompagnate dall’amore che permette di capire
l’altro per poterlo meglio curare. Se l’incontro tra queste due realtà non avviene, la cura non esprime le sue potenzialità e l’ammalato non potrà godere
dei progressi oggi possibili. Gli Alzheimer Caffè non sarebbero oggi una realtà
così viva senza l’amore di tanti volontari ed operatori che hanno tradotto
nella concretezza del lavoro di cura le grandi scoperte della scienza.
pagine 90_91
INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA?
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pagine 93_93
alzheimer caffÈ:
la ricchezza di una esperienza
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