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2012 Alzheimer Caffè: la ricchezza di una esperienza
2012 Alzheimer Caffè: la ricchezza di una esperienza 2012 Alzheimer Caffè: la ricchezza di una esperienza Il volume è stato redatto da Marco Trabucchi Professore ordinario presso il Dipartimento di Medicina dei Sistemi dell’Università Tor Vergata. Direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia. I capitoli 2 e 3 sono stati curati da Stefania Amico Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia Il Gruppo di Ricerca Geriatrica (GRG) è una libera associazione con personalità giuridica senza fini di lucro costituitasi il 27 luglio 1988. Nasce dall’intenzione di alcuni laureati, operanti da tempo nell’area della gerontologia e della geriatria, di dare impulso a studi, ricerche ed attività rivolte ai problemi epidemiologici, clinici e socioassistenziali nella terza età. Sommario Introduzione La demenza: un futuro di speranza? pag. 07 Capitolo 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo pag. 19 Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi pag. 39 Capitolo 3 L’Alzheimer Caffè Benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia pag. 57 Capitolo 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale pag. 67 Conclusioni 6 Per una sussidiarietà frugale pag. 83 pagine 2_3 introduzione Maurizio Carrara Presidente UniCredit Foundation N ello scenario attuale la fragilità sociale si fa più vicina, le problematiche legate all’inclusione e alla partecipazione nel territorio non sono più esclusive delle aree in via di sviluppo, ma toccano direttamente le nostre comunità. A causa del disgregarsi dei vecchi modelli assistenziali, infatti, emergono nuovi gruppi a rischio di esclusione, fra i quali gli anziani. Coniugando le esigenze reali a modelli teorici di successo, UniCredit Foundation ha promosso varie formule di intervento, al fine di accompagnare la persona anziana nella quotidianità e creare le premesse per una migliore qualità di vita. Per questo motivo, l’impegno della Fondazione pone al centro i bisogni concreti della Terza Età, quali la disponibilità di cure adeguate per le cosiddette malattie della longevità e la creazione di reti di servizio per l’anziano e la sua famiglia. La pubblicazione “Alzheimer Caffè: la ricchezza di una esperienza” è l’esito di un percorso biennale, dedicato allo sviluppo e alla diffusione di spazi terapeutici innovativi – gli Alzheimer Caffè - basati sull’incontro e lo scambio di esperienze tra le persone affette dalla patologia, familiari ed esperti. Oltre a garantire un sostegno socio-economico ad alcuni dei centri già operativi, il progetto ha supportato l’attività del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia, coordinato dal professor Marco Trabucchi, nella definizione delle linee-guida per la costituzione di Alzheimer Caffè. Oggi, questo modello è disponibile per gli enti locali e le associazioni di volontariato che intendono replicare le best-practice a livello locale. La lettura di questo testo, che raccoglie esperienze dirette tratte dal territorio, offre spunti concreti su come attivare forme di auto-aiuto efficaci a partire da un impegno generoso e volontario. Buona lettura, Maurizio Carrara Presidente UniCredit Foundation Lo scenario 10 Le ricerche e il futuro 14 Lo studio sugli Alzheimer Caffè 15 Introduzione La demenza: un futuro di speranza? pagine 7_7 alzheimer caffÈ: la ricchezza di una esperienza INTRODUZIONE La demenza: un futuro di speranza? ALZHEIMER “È dolcissima” dicevi Sfidando la nostra incredulità Della compagna di una vita Che supina nel suo giaciglio Volgeva lenta alla meta Del suo impenetrabile esilio. Poi, lei avviata all’eternità, Al sommesso: “È la fine di un calvario” Rispondevi: “Non è che l’inizio”. Anche tu, ora, Condividi quell’amaro destino Ricurvo su una sedia addossata al muro, Come a proteggere il tuo scrigno Di glorie esibite e ripudiate miserie Affondate nell’insondabile mistero Di un incessante presente Di cui non conservi memorie Né più coltivi progetti. Eppure ... Ancora un profilo amico T’illumina di un disarmante sorriso E la carezza di amorevoli parole Intessute del pane dei ricordi Risveglia l’eco di perdute emozioni A inumidirti l’occhio e farti dire, Scompaginando le nostre certezze, “Grazie per una giornata diversa”. Amaro destino INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? Abbiamo scelto di iniziare questa pubblicazione su nuove modalità per aiutare la vita delle persone affette da demenza e delle loro famiglie con la poesia di Alceo Gianani, perché nella parte conclusiva del testo la persona ammalata inaspettatamente esprime un sentimento di riconoscenza verso chi gli è vicino (“grazie per una giornata diversa”). Potremmo affermare - senza timore di retorica - che i versi sono la più bella, implicita conferma del ruolo degli Alzheimer Caffè. Questi infatti fanno crescere momenti di “amorevoli parole”, che “possono far risuonare una risposta anche dalla voragine misteriosa della mente di chi è chiuso nel proprio enigma e che non ha più la capacità o la speranza di poter realizzare una relazione”. Queste ultime sono considerazioni prese dal commento di Franca Grisoni alla poesia di Gianani e pubblicate sul n.1 del 2011 di Psicogeriatria. Infatti ogni fascicolo della rivista dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria si conclude con una pagina poetica, per riaffermare che talvolta (spesso) la realtà della sofferenza può essere meglio compresa se vicino alla scienza e alle sue certezze si colloca anche una visione del mondo che tende ad unificare la realtà e a mostrarne nel profondo tutte le diverse dimensioni. In quest’ottica si colloca il volume che analizza le attività degli Alzheimer Caffè; la loro utilità non può infatti essere dimostrata solo con i numeri, ma anche - e soprattutto - attraverso l’esperienza che diviene impegno realizzato. “A massive amount of personalized care”. Questa dichiarazione - che tradotta in italiano perde un po’ della sua incisività (“una grande quantità di cure personalizzate”) - è stata lanciata da un famoso medico al fine di spiegare l’atmosfera generale nella quale si dovrà svolgere nei prossimi anni la cura delle persone anziane, in particolare quelle affette da alterazioni della cognitività. L’affermazione vuole essere allo stesso tempo un atto di realismo (le persone da assistere saranno sempre di più, come indicato dalla demografia e dall’epidemiologia) ed un impegno a favore degli anziani fragili. Nonostante tutte le oggettive difficoltà culturali, organizzative, economiche, sono la medicina e i sistemi assistenziali ad assumersi la responsabilità di fornire un servizio adeguato agli specifici bisogni della singola persona. Assumiamo questa frase, assieme alla poesia di Gianani, come leitmotiv del libro, perché l’accostamento tra realismo, impegno e valutazione complessiva della persona umana che soffre è un aspetto centrale per il futuro dell’assistenza a chi invecchia. Infatti risponde ad un preciso invito che è stato fatto tante volte da più parti e recentemente confermato sulla prima pagina della rivista medica Lancet (“sarebbe un grave errore continuare ad interpretare il prolungamento della vita umana avvenuto in questi anni come un evento negativo, mentre deve essere vissuto positivamente, anche perché è la dimostrazione significativa delle potenzialità della natura”). Sarà un preciso dovere di chi ha responsabilità di leadership culturale far comprendere diffusamente la portata di queste affermazioni e le loro ricadute sui comportamenti individuali e col- pagine 8_9 lettivi; non è operazione facile, perché in questo campo la retorica negativa è sempre viva, ma è irrinunciabile. Però la tendenza dei nostri giorni a rispettare l’autonomia di chi riceve le cure è irreversibile (nel caso delle demenze l’autonomia è esercitata prevalentemente dal caregiver, a nome della diade curata); quindi i servizi devono porre l’ammalato nel ruolo di attore primario, come avviene negli Alzheimer Caffè. Sulla stessa lunghezza d’onda, quando ci si avvicina alle demenze è necessario abbandonare le espressioni negative che solitamente accompagnano la descrizione della malattia; è invece importante riaffermare che l’identità umana dell’ammalato non si perde fino alla morte e che il lavoro di cura è importante perché impedisce che alla fine muoia un fantasma. L’assistenza capace e amorevole dà senso alla vita dell’altro, attraverso una sorta di trasferimento di umanità tra chi dona tempo e cure e chi è curato. Ma anche i primi in questo modo realizzano la propria vita e le danno senso. L’atto di donazione non è mai a senso unico. Lo scenario Un’analisi realistica dello scenario che accompagna la vita delle persone affette da demenza si deve fondare anche su considerazioni rispetto al momento attuale, caratterizzato da una forte crisi economica, che si riflette soprattutto sui servizi alle persone fragili. Nei prossimi anni avverranno dei cambiamenti che oggi non riusciamo nemmeno a prevedere nelle loro dimensioni e che pongono continue domande senza risposta. La crisi del welfare fino a dove colpirà? Vi saranno alcuni settori privilegiati, perché caratterizzati da una maggiore quantità di sofferenza e di difficoltà, che saranno almeno in parte risparmiati dai tagli? Come potrebbero essere organizzati servizi low cost, senza rinunciare alla qualità assistenziale? Quali alternative vi saranno alla copertura dei servizi da parte della collettività come avviene oggi? Si ritornerà ad istituzioni finanziate dalla generosità collettiva come nell’Ottocento? I cambiamenti negli stili di vita degli ultimi decenni, che valorizzano l’individualismo e riducono l’importanza della pietas sociale, saranno compatibili con una ripresa delle responsabilità verso le persone meno fortunate? La tematica è seria e ampia, perché coinvolge dinamiche che interagiscono tra di loro in maniera più complessa rispetto ad un passato che sarebbe banale cercare di far rivivere; è indispensabile quindi affrontarla in una prospettiva radicalmente diversa da quella abituale. È, però, anche necessario pensare anche a soluzioni nell’immediato, perché la crisi non permette tempi lunghi; ipotizzare percorsi che da una parte diano la possibilità di risparmiare e dall’altra di organizzare servizi a basso costo è quindi un dovere per evitare che proposte di valore siano prive di fondamento concreto a causa della mancanza di adeguati finanziamenti e che quindi appaiano irrilevanti. La significativa riduzione avvenuta nel 2011 delle prestazioni ambulatoriali e diagnostiche dopo l’introduzione di nuovi ticket può essere let- INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? ta sia come campanello d’allarme rispetto al dubbio che il cittadino rinunci per ragioni economiche a curarsi, sia come una riduzione di prestazioni inutili. In ogni modo, qualsiasi sia l’interpretazione del fenomeno è in sintonia con il sempre maggiore ricorso a soluzioni a basso costo e ad alto valore aggiunto come quelle offerte dagli Alzheimer Caffè. Ad esempio, è doveroso in questa prospettiva compiere un’analisi critica dei costi che oggi sono generati dall’assistenza ospedaliera, per identificare possibili aree di risparmio da indirizzare verso l’assistenza continuativa alle persone anziane colpite da malattie croniche come la demenza. Una seria spending review in questo ambito potrebbe permettere di risparmiare in tempi relativamente brevi almeno il 10% della spesa totale, per un ammontare a circa 5-6 miliardi di euro. Fino ad ora in questo campo non è stato fatto nulla di realmente incisivo; anche dove si è decisa la chiusura dei piccoli ospedali non si è avuto il coraggio di compiere atti di vero cambiamento, per cui sono rimasti in vita servizi di scarsa qualificazione, senza un reale vantaggio per l’assistenza nel territorio. Ma non è solo la problematica dei piccoli nosocomi che va considerata; infatti nell’organizzazione complessiva dell’assistenza ospedaliera sarebbe necessario intervenire per ridurre doppioni, proliferazioni di centri di costo, in particolare rispetto alle tecnologie più moderne, veri e propri sprechi indotti spesso da esigenze clientelari. Qualcuno sostiene che la pressione sociale sui grandi ospedali e sulle tecnologie - spesso pubblicizzate come miracolose - impedirebbe una diversa distribuzione della spesa. A questo riguardo è importante ricordare il ruolo della politica, che non deve essere trainata da scelte più o meno irrazionali, ma dovrebbe assumere la guida dei cambiamenti per indirizzarli e raccogliere attorno ad essi il consenso democratico. Un esempio emblematico a questo proposito è costituito dalla spesa per farmaci ospedalieri che è cresciuta moltissimo in questi ultimi anni; attorno a questa tematica si sviluppano motivazioni di carattere scientifico, clinico, economico, organizzativo, etico. Solo una guida politica forte sarebbe in grado di indicare un percorso, che sia allo stesso tempo rispettoso delle esigenze del singolo e della collettività, senza piegarsi a pressioni non sempre limpide. Per fare un esempio - che mi auguro sia interpretato correttamente dal lettore - alcuni trattamenti antitumorali condotti in ambito ospedaliero costano 30-40.000 € all’anno e inducono un incremento della sopravvivenza di qualche mese; la permanenza di un anziano non autosufficiente in una residenza per un anno costa una cifra simile (ed è frequentemente l’unica risposta valida per garantire una sopravvivenza dignitosa, spesso la sopravvivenza stessa). Ripetiamo: potrebbe sembrare disumano porre queste alternative, però è opportuno che la problematica venga affrontata con lucidità senza preconcetti da una politica in grado di interpretare i veri bisogni della collettività, piuttosto che venga “slabbrata” da interessi difficilmente conciliabili. Neppure è opportuno creare antagonismi tra la spesa per i giovani o adulti e quella per i vecchi, ma è necessario seguire con attenzione l’evoluzione dei fenomeni per fare scelte pagine 10_11 razionali. D’altra parte, sempre più frequentemente compaiono in letteratura modelli di organizzazione ospedaliera low cost, che si sono dimostrati capaci di produrre risultati a livello degli ospedali tradizionali. Ovviamente si tratta di “rivoluzioni” che richiederanno tempo per svilupparsi (ma meno di quanto pensiamo), ma non vi è dubbio che è l’unica vera e realistica risposta all’attuale continuo ed insostenibile aumento dei costi sanitari. Ciò sarà raggiunto con un forte investimento nell’ICT (ad esempio, il pre-ricovero si attua a distanza attraverso Skype), con una riorganizzazione fordista del lavoro che permetta una forte specializzazione dell’équipe con riduzione dei tempi di lavoro in ambito sia diagnostico che chirurgico e un controllo rigido dell’evoluzione clinica, il tutto in ambienti architettonicamente adeguati per il massimo risparmio energetico e nei movimenti. Quanto sopra riportato potrebbe sembrare argomento troppo specifico rispetto alla tematica del volume; è stato invece sottoposto all’attenzione del lettore perché indica come nella società complessa vi sono moltissime interazioni anche tra argomenti apparentemente lontani. È però necessaria una guida strategica delle dinamiche sociali, in particolare per proteggere la condizione di chi è più debole. Ovviamente la guida non deve essere oppressiva, ma rispettare e valorizzare quanto di ricco e spontaneo vive nella collettività (il modello degli Alzheimer Caffè ne è un esempio significativo). E nell’attesa che il programmatore si accorga delle vivacità spontanee di una società non ancora del tutto assopita su motivazioni deboli della stessa convivenza, il lavoro presentato in questo volume rappresenta un contributo per valorizzare un ambito specifico della ricchezza di modelli e di lavoro costruttivo che è presente nelle nostre città. L’insieme rappresenta un esempio di come la ricerca di nuove possibilità per inserire progetti utili all’interno del sistema delle cure rifletta l’impegno più grande che accompagna chi lavora in questi ambiti e che potrebbe essere riassunto nella famosa frase del presidente Clinton: “Non lasciate che l’economia spenga i vostri sogni!” Come si può capire da queste poche righe, la tematica del “massive amount of care” è molto seria ed ancora in continua evoluzione, ma proprio per questo motivo diventa importantissima la seconda parte della frase: l’anziano bisognoso non deve avere timore per il suo futuro, perché i medici, gli altri componenti delle équipe di assistenza, i volontari si impegnano per una cura individualizzata. Insistiamo sull’aspetto delle paure per il futuro, perché sono sempre più frequenti nella mente delle persone anziane. Si incominciano a vedere i primi segni, ad esempio, nel fatto che alcune famiglie ritirano i propri congiunti dalla residenza per risparmiare sulle rette. La vistosa riduzione di alcune pensioni indotta dai recenti provvedimenti governativi potrebbe rendere più difficile per le famiglie, peraltro spesso gravate da componenti che hanno perso il lavoro, mantenere il proprio caro in una residenza. È certamente vero che la disponi- INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? bilità del singolo operatore ed il suo impegno non possono incidere su queste dinamiche spesso drammatiche; rappresentano però un aspetto positivo in uno scenario per molti versi oscuro. Una luce sempre utile, anche se da sola non sufficiente a rischiarare l’intero percorso. Ma cosa vuol dire una cura individualizzata? Il significato della parola è duplice: da una parte indica un rapporto intenso tra chi presta un servizio e chi lo riceve, rapporto che deve essere improntato alla gentilezza, all’ascolto attento, alla risposta adeguata a richieste anche quando possano sembrare non opportune. Ma il termine indica soprattutto che l’impostazione tecnico-clinica della cura è fatta analizzando la situazione del singolo individuo, qualsiasi sia la gravità della sua condizione di malattia, di compromissione dell’autonomia funzionale e cognitiva. Questa è la garanzia più forte per l’efficacia delle cure e per il raggiungimento di un risultato; l’età non è un indicatore del bisogno né lo è l’ambito di vita. Infatti a 80-90 anni vi possono essere profili di malattia e di salute completamente diversi l’uno dall’altro, che richiedono un’analisi della storia, un esame accurato della condizione attuale, il ricorso ad indagini strumentali per arrivare a conclusioni che permettano terapie adeguate. Lo stesso dicasi per il luogo di residenza: il vivere in una casa di riposo (o altra istituzione permanente) non significa nulla sul piano della condizione individuale di salute e non può essere aprioristicamente assunto come indicatore per le decisioni terapeutiche (anzi, spesso, deve rappresentare per il medico un campanello d’allarme per il rischio di trattamenti inadeguati nella storia precedente dell’ospite). Attorno al binomio massa-individuo del quale si è discusso precedentemente si svilupperanno le dinamiche più importanti per il futuro dell’assistenza alle persone anziane non autosufficienti. Il fatto che la tematica sia stata apertamente dichiarata in ambito medico può essere allo stesso tempo un vantaggio (per l’impegno preso da chi ha responsabilità dirette) e un limite (perché i bisogni della persona non autosufficiente non sono solo clinici); però è il segno di un percorso che deve essere accompagnato con attenzione da chi sente il peso della responsabilità verso l’evento più rilevante della nostra epoca, cioè l’invecchiamento della popolazione e la vecchiaia della persona. La personalizzazione dell’assistenza è la modalità di lavoro che caratterizza servizi innovativi come gli Alzheimer Caffè. Il confine tra essere “contenitori di sofferenza” o “ambiti di cura” è molto sottile; il contenitore può essere chiuso, la cura invece richiede apertura, rispetto, relazione. In questo modo si garantisce al fruitore una prospettiva normale, nel cui ambito si cerca di leggere il bisogno per darvi risposte adeguate. Talvolta la costruzione di servizi chiusi è un riflesso di difesa in mancanza della capacità di capire le reali esigenze dell’anziano, che, per quanto fragile e limitato nelle proprie espressioni psicofisiche, è sempre portatore di una domanda di senso. Anche la persona con compromissione delle funzioni cognitive pone a chi lo assiste continue do- pagine 12_13 mande - implicite o verbalizzate - su dove si vuole arrivare con gli atti di cura. Talvolta una risposta complessiva è difficile, anche perché di fatto la cura è un continuo rinnovarsi di atti che assumono di volta in volta significato. Solo un forte collegamento con l’esterno rispetto al luogo delle cure (qualsiasi esso sia, la casa, un ospedale, un’istituzione) permette di costruire progetti realmente significativi. Le ricerche e il futuro Recentemente Obama ha deciso di destinare un forte investimento economico e organizzativo all’area della demenza di Alzheimer, ipotizzando di costruire una serie di progetti il cui risultato finale sia prevenire e curare efficacemente questa malattia entro il 2025. Nel mondo della scienza e della ricerca qualcuno ha accusato di pessimismo il Presidente degli Stati Uniti, altri invece sono stati più prudenti e non si sono esposti in rischiose previsioni. Chi scrive queste note è impegnato negli studi sulle malattie neurodegenerative da almeno 30 anni e non ritiene di poter fare ipotesi sui tempi. In questo scenario di incertezza oggi sono prevalenti due posizioni allo scopo di dare una speranza per l’umanità che vive con angoscia i timori di una vecchiaia accompagnata dalla demenza. La prima è caratterizzata da attenzione e impegno perché la ricerca possa proseguire con finanziamenti adeguati, ma anche con un largo consenso sociale. Infatti il pessimismo è sempre negativo, sia perché rischia di influenzare le decisioni di chi alloca fondi pubblici e privati, sia perché fa sentire soli gli studiosi. Fortunatamente negli ultimi mesi si è riacceso in tutto il mondo l’interesse sull’Alzheimer: alcune ricerche incominciano a dare risultati promettenti e come sempre avviene in questi casi - i dati positivi suscitano un giusto entusiasmo, che si riflette sull’intero ambito di studio. Vi è la speranza che bloccando la diffusione di una sostanza tossica nel cervello sia possibile controllare il danno neuronale e quindi evitare la comparsa di demenza. Questi risultati si collocano bene nel quadro dei progressi fino ad ora compiuti, che hanno dimostrato una lenta evoluzione della malattia, che può durare diversi anni, ed i cui segni sono identificabili nel cervello attraverso le moderne tecnologie di imaging o nel liquor anche molto tempo prima che compaiano i segni clinici, cioè sintomi come la perdita di memoria o alterazioni del comportamento. Il futuro è quindi connotato da dati positivi dal punto di vista scientifico-biologico. La seconda posizione - altrettanto importante sul piano della ricerca del benessere - mira a garantire le migliori condizioni di vita per le persone che sono già colpite dalle varie forme di demenza. Infatti, anche se ancora non sono stati identificati gli strumenti per una cura definitiva, è possibile mettere in atto interventi per difendere spazi di qualità, pur nel corso di una vita molto difficile. Questa difesa - che si fonda prima di tutto sul riconoscimento della dignità della persona, indipendentemente dalle condizioni di salute fisica o psichica - si INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? attua in vari modi sul piano clinico e dell’organizzazione dei servizi. In ambito clinico il compito principale delle cure è garantire che la persona non soffra di un eccesso di disabilità, oltre a quella indotta dalla malattia (quindi conservare il massimo possibile di relazioni, non relegare, attivare, non sostituire impropriamente nelle attività di base), e allo stesso tempo curare sintomi disturbanti (ad esempio, nonostante le difficoltà, capire il dolore fisico in una persona che ha perso la memoria e che non sa riferirne la collocazione e le caratteristiche). Anche sul piano dei servizi è possibile fare molto per accompagnare l’ammalato e la sua famiglia nei lunghi anni di storia naturale della demenza. Infatti nelle malattie croniche, delle quali la demenza è prototipale, i servizi svolgono una funzione plurima sempre indispensabile, dal tempo della diagnosi, allo staging ripetuto, all’impostazione e all’adeguamento delle terapie, all’impegno riabilitativo. Gli attori dei servizi sono molti e differenziati, ciascuno con un proprio ruolo, ma anche una propria specificità pratica e culturale. Così le Unità di Valutazione Alzheimer svolgono un ruolo diverso da quello dell’assistenza domiciliare, dall’ospedale, dai centri fondati sul volontariato. Quest’ultimo è l’ambito nel quale si è fortemente impegnata negli ultimi tempi la UniCredit Foundation: dare attenzione a iniziative che sorgono dalla società civile ed in particolare dal volontariato vuol dire sostenere chi si impegna a rendere meno difficile la vita degli ammalati, in attesa - come sopra indicato - che si possano identificare cure specifiche e risolutive per prevenire e curare. Ma anche significa assistere sul piano tecnico le generosità diffuse perché possano costruire servizi qualificati, a costi ridotti e spesso con un plus di relazione e vicinanza particolarmente significativo. Lo studio sugli Alzheimer Caffè La ricerca dedicata all’Alzheimer Caffè presentata in questo volume si inserisce nella logica di favorire la crescita di servizi innovativi ed ha lo scopo di suggerire modalità per migliorare le prestazioni fornite in Italia da gruppi di volontariato o di auto-aiuto, in modo che le energie dedicate con generosità e intelligenza ad accompagnare la vita delle persone affette da demenza, e quella delle loro famiglie, possano ottenere il massimo risultato possibile. L’impegno di UniCredit Foundation e del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia ha permesso di analizzare criticamente alcune esperienze e di estrarre da queste gli aspetti più efficaci per definire una sorta di “buona pratica”, a disposizione dei gruppi che nei prossimi mesi vorranno impegnarsi in questo lavoro assistenziale di grande significato. Ovviamente il numero delle esperienze esaminate è limitato a causa delle condizioni economico-organizzative dello studio, che hanno impedito l’allargamento del campione alle molte decine di realtà attive in questo campo in Italia. La scelta è stata dettata anche dall’esigenza di presentare in tempi brevi un’analisi qualitativa che potesse indurre il lettore ad entrare nel campo, più che un’analisi statistica, peraltro difficile da pagine 14_15 sviluppare vista la disomogeneità del campione. Nel momento di crisi come quello che stiamo vivendo affrontare tale tematica è allo stesso tempo un segnale di ottimismo, perché crediamo nelle potenzialità della generosità collettiva, ed un atto di realismo, perché sono sempre più frequenti le richieste di supporti qualificati alle persone che soffrono. D’altra parte, sempre sul piano di andare alla ricerca di modi innovativi per intervenire a favore di chi è fragile, è significativo quanto scritto recentemente dal sociologo Ilvo Diamanti a proposito della capacità che dovremmo avere -noi addetti alla messa a punto di cure efficaci- di indagare anche in circuiti fuori di quelli alti (accademici e di potere), per identificare nelle prassi minime indicazioni importanti per il lavoro di cura. Scrive Diamanti: “Il buon senso ci spingerebbe a interrogarci maggiormente su quel che avviene a livello locale e microsociale, nella sfera personale e interpersonale. A esplorare altre teorie e altri orientamenti metodologici. Ma il senso comune degli specialisti (…) ci induce a far finta di nulla. A negare la realtà per non cambiare gli occhiali con cui la osserviamo. Dall’alto e di lontano”. Questo approccio al quale ci ispiriamo porta a valorizzare il mondo di tante persone che si curano delle demenze, che pensano, progettano e sperimentano; non abbiamo idea di quanta ricchezza si può trovare in questi mondi, apparentemente periferici, ricchezze che facilmente potrebbero essere valutate e messe alla prova, purché conosciute e analizzate con attenzione. Questo volume è un segno seppur piccolo in questa direzione, perché esamina modelli cresciuti spontaneamente, guidati da intuizioni originali collocate a livello locale, per trarne indicazioni di carattere generale. È una modalità innovativa non banale, che si va sempre più diffondendo come strumento per analizzare criticamente alcune realtà e proporle come modelli replicabili. Nel campo dell’innovazione originale fuori dai circuiti “alti” (come indicato da Diamanti), e come tale di grande interesse, un esempio significativo tra i molti che si potrebbero fare, oltre a quello dei Caffè, è rappresentato dal progetto di un imprenditore francese di creare una cittadina adatta ad ospitare le persone affette da demenza, costruendo ambienti di vita individuali e comuni che si rifanno agli anni Cinquanta, cioè quelli che sono nella memoria delle persone anziane ammalate. L’idea è stata criticata da molti, ma attendiamo la realizzazione del progetto per esprimere un giudizio. Però, al di là di alcune pur interessanti battute su questa “Dementiaville”, resta l’incertezza di come meglio proteggere le persone più fragili (per vari motivi, cognitivi o non), cioè se adottare o meno modelli come quello predisposto in Francia. D’altra parte anche il termine “caffè” per indicare i luoghi di ritrovo delle persone affette da demenza e delle loro famiglie ha un certo livello di intelligente originalità, che qualcuno potrebbe non capire. Recentemente Zygmunt Bauman, lo studioso più INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? acuto della modernità, ha scritto: “Il mondo abitato viene strutturato in modo da essere ospitale - conveniente e confortevole - per i suoi abitanti normali, le persone che costituiscono la maggioranza. Le automobili devono essere equipaggiate con luci e trombe che avvisano del loro arrivo, strumenti di nessuna utilità per i ciechi e i sordi. Le scale non sono di alcun aiuto per le persone relegate su sedie a rotelle. Io stesso, nella mia età avanzata, avendo ormai perso la maggior parte del mio udito, non posso più essere allertato dai telefoni o dal campanello di chi suoni alla mia porta”. Non voglio costruire un’antitesi tra chi critica Dementiaville e le affermazioni di Bauman, ma anche su queste antinomie (protezione in ambienti dedicati o mantenimento nei luoghi naturali di vita) si deve sviluppare un dibattito sereno, ma serio. Aperto a tutti quelli che sentono la responsabilità di costruire un mondo allargato di cure sempre più adatte al bisogno, ma anche sempre più compiutamente accettate dalla società che vive attorno alle persone fragili. Gli Alzheimer Caffè vivono all’interno di queste dialettiche; chi vi opera è mediamente coscio di conflitti, inadeguatezza, difficoltà. Però l’esperienza del lavoro compiuto e l’interpretazione del suo significato è motivo per andare avanti, senza eccessi autoreferenziali, ma con la tranquilla coscienza che sono stati compiuti atti importanti per un relativo benessere di chi è assistito. L’insieme delle osservazioni fino ad ora riportate delinea una condizione della cura delle demenze in forte evoluzione, dalla quale possono comparire i segni di una speranza possibile. Non si tratta di garantire la guarigione, ma certamente oggi un insieme di fattori ha radicalmente modificato la prospettiva delle persone affette da demenza. Purtroppo gli angoli bui esistono ancora e sono caratterizzati da stigma, timori, dolore non espresso, o, ancor più non ascoltato e lenito; però lo scenario è cambiato da alcuni anni. Il contenuto di questo volumetto ne è una testimonianza concreta e viva: lo scopo dei curatori è appunto quello di facilitare, soprattutto tra le persone che non sono strettamente addette ai lavori, come in particolare i volontari impegnati nell’assistenza all’anziano, la crescita di un sentire positivo. Occuparsi della “situazione drammatica” delle persone colpite da demenza non è un “dramma senza futuro”, perché si possono trovare mille spazi che rendono importante e significativo un intervento di cura e di accompagnamento. Cioè un futuro per chi è curato, ma anche per l’impegno generoso di chi si prende cura delle persone affette da demenza. Il tutto in una logica di ricerca della normalità. Benché difficile, questo stile di cura previene comportamenti non corretti; infatti la tecnica clinicoassistenziale deve realizzarsi in un ambiente che mira a creare condizioni di vita che sono di tutti, malati e sani. Si potrebbe concludere che nell’Alzheimer Caffè si realizza una sintesi tra l’impegno personale generoso e volontario e il desiderio di migliorare attraverso questo lavoro la nostra società. È la visione personalistica per la quale coloro pagine 16_17 che compiono e che ricevono un atto di cura sono strettamente legati, non solo sul piano della relazione, ma soprattutto del reciproco miglioramento, che progressivamente assume dimensioni comunitarie. Un particolare ringraziamento ai colleghi Giuseppe Bellelli, Nicola Berruti, Angelo Bianchetti, Stefano Boffelli, Renzo Rozzini, Sara Tironi del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia che hanno rivisto parti del manoscritto suggerendo spunti significativi. La dottoressa Enrica Cerantola di UniCredit Foundation ha curato i contatti con le varie realtà che hanno partecipato allo studio, tenendo con mano ferma un coordinamento non sempre facile. Infine un vivissimo ringraziamento agli attori primari dello studio, cioè ai coordinatori e ai collaboratori degli Alzheimer Caffè. Hanno capito rapidamente gli scopi della nostra indagine ed hanno fornito dati e indicazioni sempre adeguati allo scopo; se il libro servirà a riprodurre le esperienze più significative e quindi a costruire nuovi servizi utili per le persone affette da demenza è merito soprattutto di questa disponibilità intelligente. Abbiamo iniziato questa introduzione con un poeta contemporaneo, che ringraziava per “una giornata diversa”, un momento lieve, che passa; la concludiamo con i versi eterni di Virgilio che canta il rapporto filiale, che attraversa tutti i tempi, tra Enea e Anchise: “Su dunque, diletto padre, salimi sul collo; ti sosterrò con le spalle, e il peso non mi sarà grave; dovunque cadranno le sorti, uno e comune sarà il pericolo, una per ambedue la salvezza”. Le poesie, così diverse, si adattano bene all’ispirazione che sottende il lavoro generoso svolto da molti negli Alzheimer Caffè; in particolare sottolineano che nelle difficoltà l’aiuto dato a chi è debole porta alla salvezza comune. INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? 1.A La rete 20 1.B I servizi 26 1.C I supporti informali 33 1.D Un futuro possibile e sostenibile 36 Capitolo 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo pagine 19_19 alzheimer caffÈ: la ricchezza di una esperienza CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo 1.a La rete In poche aree dell’organizzazione sanitaria si sono consumate parole così numerose come in quella della continuità terapeutica da costruire attorno al paziente anziano ammalato e non più autosufficiente anche a causa di una compromissione delle funzioni cognitive. Sono molti gli aspetti critici che interferiscono con la possibile costruzione di un sistema di supporto che si adatti alle dinamiche complesse prodotte dall’intrecciarsi della crisi dei rapporti familiari, dal rarefarsi delle dinamiche di vicinato, dalle difficoltà economiche, dal processo stesso di invecchiamento che avviene in modo assolutamente individuale, accompagnato da attese e speranze che non sono racchiudibili in schemi precostituiti. Nel passato anche recente si sono utilizzati modelli organizzativi rigidi, funzionalistici, con sistemi di governo dei servizi pianificati in modo schematico, all’interno dei quali la persona affetta da malattie croniche invalidanti come la demenza doveva muoversi. Si potrebbe dire che nessuno di questi sistemi ha avuto successo, e ancor meno ha avuto la possibilità di evolversi a fronte delle dinamiche demografiche ed epidemiologiche. Non si può escludere da questa visione l’insieme degli interventi che vengono messi in atto dalla società per rispondere ai bisogni degli ammalati; i servizi di cura e assistenza devono quindi essere caratterizzati da un alto livello di integrazione tra di loro e con il resto dei servizi alla persona di un determinato territorio, evitando semplificazioni e schematizzazioni funzionalistiche. La loro organizzazione secondo questi principi è difficile e - di conseguenza - sono pochi gli esempi che possono essere portati di servizi adeguati ad un bisogno crescente, sia sul piano quantitativo che qualitativo. Infatti, come già ampiamente riportato in questo volume, l’aumento del numero delle persone anziane trascina con se automaticamente anche l’aumento del numero di quelle affette da demenza. Inoltre, il progresso sociale e culturale ha accresciuto la coscienza sul diritto del cittadino ad avere risposte adeguate nel momento delle difficoltà, anzi a vedere riconosciuti proprio gli aspetti più critici come quelli che maggiormente meritano interventi di alto livello. Le problematiche presentate dalla demenza richiedono una visione complessiva dei problemi, anche perché l’evoluzione è così rapida, con un continuo cambiamento dei quadri clinici, che il paziente (e chi lo assiste) deve disporre di interventi a suo favore in grado di adeguarsi continuamente, evitando sfasamenti, ritardi o addirittura l’assenza di risposte. In un arco temporale relativamente breve (la malattia di Alzheimer ha infatti una durata media di 5-10 anni) il paziente sperimenta il passaggio da una condizione caratterizzata da lievi deficit mnesici e difficoltà nello svolgimento delle attività più complesse, al progressivo sgretolarsi delle competenze cognitive, alla modificazione radicale della personalità (quasi invariabilmente accompagnata da modificazioni del comportamento), con un deterioramento via via sempre più marcato dello CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo stato funzionale, fino alla disabilità completa e alla comparsa di gravi complicanze neurologiche e somatiche. In questo percorso vi è il coinvolgimento profondo e spesso drammatico della famiglia, che vive dapprima l’angoscia della diagnosi e della prospettiva di un’evoluzione inarrestabile della malattia, poi la difficoltà della gestione dei problemi comportamentali e cognitivi, nonché del carico derivante dalle necessità assistenziali sempre in aumento. Alla luce di quanto sopra affermato, l’organizzazione dei servizi, così come la cura della singola persona, dovrà compiere nei prossimi anni un notevole passo avanti sul piano culturale, rispetto alle tematiche di oggi, per uscire dalle logiche di modelli che prevedono una organizzazione rigida, dove tutto si muove in modo consequenziale, come se ogni evento umano fosse sempre predicibile e rispondente alla logica causa-effetto. È necessario invece accogliere un approccio dinamico della vita, aperto all’inatteso, capace di comprendere le relazioni che si sviluppano tra le persone in modo talvolta non tradizionale. Alla base di questa visione vi è una lettura degli eventi biologici (e quindi clinici) aperta alla realtà del vivente al di fuori delle schematizzazioni rigide, per cui un evento può derivare dall’interazione di molti altri e dare a sua volta origine a nuovi equilibri. Non è una strada facile, perché il percorrere itinerari prevedibili è certamente più rassicurante; però, nel prossimo futuro potremo sperare di superare le difficoltà economiche, organizzative e umane solo accettando un modello che rispecchi nel profondo le caratteristiche della vita, ponendo il progresso tecnologico al servizio di una visione dinamica, secondo la quale vi sono ricchezze e variabilità nel mondo che non possono essere racchiuse all’interno dei meccanismi delle macchine. Chi vuole semplificare, imponendo tappe schematiche alla varietà e alla libertà dei comportamenti individuali può sembrare di possedere la risposta e forse verrà approvato da qualche osservatore miope, ma alla fine non ottiene risultati utili, perché l’incontro tra la rigidità di un sistema di risposta e un bisogno per definizione articolato, che varia nel tempo, ed è influenzato da condizioni psicosociali, oltre che somatiche, non è mai efficace. La tematica è di interesse generale e riguarda molti ambiti della vita organizzata oltre a quelli della medicina e dell’assistenza; si pensi alla diffusione della medicina basata sull’evidenza come strumento operativo fondato su linee guida e protocolli e allo scontro con la realtà clinica della persona affetta da demenza, difficilmente schematizzabile entro confini rigidi. Questa situazione richiede equilibrio e apertura, alla ricerca di un punto mediano che si deve identificare nelle varie realtà di intervento. Parimenti, anche la ricerca di una modalità per far incontrare la variabilità individuale con l’esigenza di organizzare servizi che devono seguire standard e comportamenti prefissati non è facile; è infatti una delle scommesse più rilevanti che la post-modernità deve affrontare. Tra rigidità e anarchia dove si colloca l’organizzazione dei pagine 20_21 servizi? Non dobbiamo forse accettare un certo livello di conflitto, caratteristica irrinunciabile del tempo di oggi e del progresso che viviamo e che ci auguriamo? Il conflitto impedisce il ripiegamento della collettività su se stessa e la scomparsa delle ricchezze che nella diversità abitano la nostra epoca. La storia - anche le piccole storie costruite dalle persone fragili - non è finita, ma aperta alla nostra capacità di innovare, partendo dal riconoscimento del binomio complessità-conflitto e delle dinamiche che ne conseguono. Oggi viviamo un momento di crisi perché intuiamo che il modello tradizionale dei servizi per le persone fragili è in difficoltà, ma non disponiamo di modelli alternativi e maturi. Questa situazione, se da un lato è motivo di preoccupazione, dall’altro stimola e impegna ogni persona di buona volontà (operatore, cittadino, decisore) a trovare strade nuove e più adeguate. Molti sono incoraggiati dal profondo senso etico che è indicato come “senso di responsabilità verso il fratello”, una regola umana che da sempre ha caratterizzato la crescita civile. Se l’atteggiamento di conservazione è praticamente e moralmente negativo, anche l’innovazione deve seguire regole precise, non può essere il prodotto di idee particolari e non verificate. Soprattutto è importante che si ponga sempre l’obiettivo di misurare i risultati; sebbene sia impresa difficile, soprattutto quando sono in gioco diverse dinamiche, non ha rilievo l’innovazione che non porti a risultati in termini di salute somatica, di qualità della vita psichica o pratica, di miglioramento delle relazioni comunitarie, ecc. Su queste tematiche nel nostro Paese bisogna procedere con grande prudenza, perché è troppo facile distruggere servizi magari parziali, ma che hanno un certo ruolo, mentre è difficilissimo costruire alternative realmente operanti in modo efficace. I bisogni del paziente e della famiglia Il primo elemento necessario per una razionale organizzazione delle risposte ai bisogni del paziente è il riconoscimento della malattia e della sua natura. Soltanto in un terzo dei casi le persone colpite dalla malattia ricevono una diagnosi nelle fasi iniziali, mentre più frequentemente è con la comparsa dei sintomi più eclatanti o delle complicanze che viene riconosciuta la presenza di una sindrome dementigena. Il tardivo riconoscimento della natura dei sintomi provoca sofferenza nel paziente, disagio nella famiglia, ritarda l’inizio dei trattamenti, impedisce una corretta pianificazione degli interventi di supporto e di prevenzione dei rischi (gestione delle finanze, guida dell’auto, ecc.) e differisce l’assunzione di decisioni legali. Dopo la fase diagnostica, il paziente richiede cure mirate per le diverse manifestazioni cliniche della malattia di Alzheimer e delle altre demenze. Sebbene non vi siano trattamenti farmacologici risolutivi, un insieme integrato di interventi condotti in modo continuativo può indurre un sostanziale miglioramento della qualità di vita del paziente e dei suoi familiari e, spesso, CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo può rallentare la progressione dei sintomi. È necessario il coinvolgimento di più figure professionali (medico di medicina generale, specialista, psicologo, assistente sociale, infermiere, terapista della riabilitazione, ecc.) che, in tempi diversi e luoghi diversi (domicilio, centri di diagnosi specializzati, centri diurni e day hospital, nuclei specifici in residenze protette, reparti di riabilitazione, ecc.), collaborano per fornire i trattamenti appropriati. Anche negli stadi più avanzati della demenza è possibile intervenire sfruttando le capacità residue del paziente e le risorse della famiglia, nonché limitando gli effetti di comorbilità, deficit sensoriali, ostacoli e stress ambientali. I bisogni devono trovare risposta nella rete dei servizi sanitari e socio-sanitari che comprendono un sistema integrato di centri per la diagnosi e la gestione della terapia, di servizi per l’assistenza domiciliare (incluse strutture semiresidenziali quali centri diurni) e per il sostegno ed educazione dei caregiver, servizi di riabilitazione di varie tipologie e servizi di cura a lungo termine. L’aspetto centrale è la relazione fra i centri che devono garantire da un lato la specificità dei servizi e dall’altro il collegamento fra i vari livelli, per permettere al paziente il passaggio da uno all’altro in ragione delle specifiche necessità. Un punto cruciale di discussione è se la demenza sia una condizione che richiede una rete autonoma di servizi oppure le risposte possano essere ricercate nel percorso ordinario dei servizi. Numerose esperienze nazionali ed internazionali hanno dimostrato che attraverso servizi dedicati e specializzati è possibile rispondere in modo più puntuale ed appropriato alle complesse problematiche; nonostante ciò, la realtà italiana si presenta estremamente variegata, con alcune aree dove non è stato fatto quasi nulla, per colpevoli assenze della politica e dell’amministrazione e per il prevalere di interessi che non sono quelli della popolazione, in particolare di quella parte afflitta da gravi problemi di salute. Verranno di seguito analizzati alcuni nodi centrali della rete dei servizi. Si deve però premettere che nessuna organizzazione, nemmeno la più avanzata e ricca, potrà mai offrire risposte completamente soddisfacenti alla famiglia, che resta l’interprete principale delle necessità del paziente di fronte alla progressiva perdita di capacità cognitive. Ad esempio, anche quando il paziente viene ricoverato in un’istituzione, e quindi la famiglia viene scaricata dai compiti gestionali, restano drammatici alcuni aspetti psicologici, che i servizi devono affrontare con attenzione e prudenza. Peraltro, se l’ammalato resta a casa, vi sono aspetti dell’assistenza, come la sua durata (qualcuno ha definito l’impegno delle famiglie come parametrabile su “una giornata di 36 ore”), il carico di fatica e organizzativo, il carico psicologico (la solitudine che accompagna chi dona assistenza), che sono solo parzialmente leniti anche dalla migliore organizzazione dei servizi. pagine 22_23 Uno degli aspetti cruciali che attraversa tutta la problematica dei servizi è rappresentato dalla capacità della famiglia di reggere la centralità rispetto ai diversi interventi, che, anche quando sono coordinatiti in modo adeguato, hanno pur sempre bisogno del fulcro-famiglia. Vi sono situazioni nelle quali ciò non si realizza ed è quindi il tempo del ricovero dell’ammalato in un’istituzione; vi sono però tempi e condizioni nelle quali è possibile aiutare la famiglia a svolgere la propria funzione centrale, permettendo così al complesso sistema assistenziale di funzionare al meglio. Sulle modalità pratiche per realizzare questo obiettivo si sono aperte molte discussioni, senza però arrivare a conclusioni significative. In particolare, si è molto dibattuto sul ruolo dei supporti economici dati direttamente alla famiglia come strumento per facilitarne l’autonomia e la capacità di affrontare le difficoltà, anche attraverso una diretta capacità contrattuale nei riguardi di chi presta un servizio, con un più elevato e non burocratico controllo sulla qualità e la quantità. Non è questa la sede per esprimere un giudizio definitivo su queste tematiche; è però importante riaffermare la necessità di trovare strumenti operativi che permettano di sconfiggere i rischi purtroppo sempre diffusi di autorefenzialità dei servizi. Ma ancor più importante è creare le condizioni per cui l’assistenza alla persona colpita da malattia di lunga durata, che quindi interagiscono con le dinamiche vitali di uomini e donne che convivono con questi problemi, divenga un motivo di attenzione da parte della comunità, stimolando le energie naturali che essa conserva al proprio interno. Per troppo tempo, infatti, la delega acritica ai servizi, anche quando non erano di elevata qualità, ha impedito la crescita di generosità diffuse, che difficilmente riuscivano ad esprimersi in contesti burocratizzati, incapaci di ascolto. Ora il mutare delle sensibilità ha aperto nuove prospettive; è però necessaria molta elasticità per integrare nel sistema delle cure - a parità di dignità - la famiglia, il vicinato, il volontariato e i servizi prestati da attori che accettano la logica della centralità di chi viene servito. L’esperienza degli Alzheimer Caffè si colloca pienamente in questo contesto. Senza retorica, è doveroso riaffermare che in situazioni particolari come le malattie croniche, che sconvolgono la vita dell’ammalato e della sua famiglia, l’intervento di cura deve avere la connotazione dell’ascolto e della compassione, non come aggiunte al lavoro tecnico di cura, ma come componente irrinunciabile di questo. Per dare significato ai vari spunti sopraindicati, è necessario che il sistema sia in grado di costruire una forte cultura innovativa degli operatori. Infatti le nuove aree di impegno rischiano di produrre frustrazione in chi vi lavora, con conseguente pessimismo e cinismo, se non viene messa in atto una formazione incisiva, che trasmette le motivazioni del servizio e allo stesso tempo aiuta a capire l’efficacia degli interventi ed i mezzi più appropriati a questo scopo. L’impresa formativa tuttavia non è semplice: l’attuale sistema vigente in Ita- CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo lia è poco più di una bardatura economico-burocratica per quanto riguarda la formazione continua, mentre l’università non è sempre stata in grado di formare una classe adeguata di formatori, capaci di coniugare le informazioni tecniche con indicazioni sulla processualità del lavoro, sull’esigenza di collaborazione tra culture e sensibilità diverse, sulla necessità di misurare i risultati ottenuti parametrandoli con quelli attesi. Spetta quindi alla ricchezza delle individualità che naturalmente si collocano nel territorio trovare soluzioni adeguate, che non devono essere considerate attività di lusso (e quindi espletate solo quando si hanno grandi disponibilità economiche), ma momenti strutturali alla vita dei servizi. Una formazione adeguata è anche indispensabile per permettere un efficace lavoro di équipe. Deve essere compreso dagli addetti che questa modalità non è una condizione accessoria, legata a peculiari sensibilità, ma l’unica condizione per ottenere risultati in situazioni complesse. La realtà invece dimostra quanto sia difficile indurre alla collaborazione professionalità diverse attorno ad un problema clinico-assistenziale, sia all’interno dello stesso servizio, sia nei punti di contatto e di integrazione. Per affrontare concretamente il problema della gestione della rete di servizi per le persone affette da demenza si deve rilevare che in tutto il mondo, ma soprattutto in Italia, vi sono pochissime ricerche in grado di guidare le scelte programmatorie. Ci si deve quindi affidare ad osservazioni soggettive o ad analisi di gruppi che però non hanno realizzato studi controllati in grado di offrire risposte definitive. Ci si può però domandare a questo proposito: è davvero realistica la possibilità di impostare queste ricerche in una condizione di complessità come quella che caratterizza la condizione clinica, psicologica, relazionale e sociale nell’anziano ammalato abitante in una società avanzata? La prima modalità - e spesso purtroppo la più frequente - per affrontare la gestione dei servizi per la persona anziana affetta da demenza è quella rinunciataria; il sistema deve aggiustarsi da solo, i cittadini affluiscono direttamente ai vari segmenti della rete senza essere filtrati se non da condizioni quali la vicinanza, la disponibilità di posti, l’adeguatezza dei finanziamenti, la volontà di un coinvolgimento personale sul piano economico e organizzativo, ecc. Questa soluzione non sarà mai apertamente accettata da nessuno, ma nella realtà è la più diffusa. Il limite più grave è esporre le persone più fragili e le loro famiglie alla ricerca di soluzioni che esse non sono in grado di identificare e di raggiungere a causa delle circostanze poste dalle povertà economiche, culturali, di relazioni, ecc. La seconda possibile risposta si colloca all’estremo opposto, ed è quella del funzionalismo assoluto, secondo un modello a rete dove tutto si muove sotto controllo, ogni spostamento è precostituito, accompagnato e vagliato nella sua efficacia. Qualche anno fa questo modello era molto diffuso sul piano teorico e molti ricordano le interminabili lezioni di chi si riteneva portatore di pagine 24_25 un modello rigido, dove la persona entrava ad un certo momento per l’inizio di un bisogno e poi veniva guidata per il resto della vita. Una terza soluzione è ovviamente di mediazione, che però per non essere un banale compromesso necessita di alcuni punti fermi: quando l’anziano entra nella rete viene studiato in modo analitico attraverso l’assessment multidimensionale, che mediante una valutazione somatica, psicologica, funzionale e relazionale è in grado di indicare e definire un certo grado di bisogno. Dall’altra parte, il programmatore si impegna, nel momento in cui apre un nuovo servizio, a chiarire un profilo preciso dell’utente che dovrebbe afferirvi e, seppure in modo più elastico, anche la collocazione nella rete rispetto agli altri segmenti. Partendo da questi due punti fissi, il cittadino può “navigare” e avvicinarsi ora all’uno ora all’altro. 1.b I servizi Le autorità sanitarie ed assistenziali in questi anni hanno proposto i più svariati “formati” di unità di valutazione per governare il sistema; però sono troppo spesso realtà burocratico-prescrittive, che non svolgono azioni di difesa del benessere del cittadino (ovviamente queste considerazioni salvano realtà particolarmente meritorie). Diverso sarebbe se si potesse contare sull’attività di un distretto efficiente, attivo sulle 24 ore, in grado di regolare senza orpelli i vari livelli di assistenza, con un controllo di appropriatezza, valutazione degli esiti, costi. All’interno di un distretto funzionante, anche quando cambia il livello di intensità dell’intervento richiesto, non vi sarebbe bisogno di tanti diversi servizi; ne basterebbero pochi, purché in grado di accogliere attività differenziate per qualità e quantità da parte di équipe particolarmente preparate. Una volta superata la fase valutativa, il cittadino ammalato entra nel sistema dei servizi. Di questi vengono di seguito descritti tre aspetti rilevanti per le persone affette da demenza; riguardano la presa in carico (Unità di Valutazione Alzheimer), la gestione della patologia somatica intercorrente (il ricovero negli ospedali per acuti), le fasi avanzate della demenza (i nuclei dedicati nelle residenze). Le Unità di Valutazione Alzheimer I centri specializzati per la diagnosi delle demenze (variamente denominati: Memory Clinics, Ambulatori per le demenze, Unità Valutazione Alzheimer), attraverso l’implementazione di protocolli di valutazione diagnostica e di programmi di cura specifici, sono in grado, rispetto ai servizi tradizionali, di identificare precocemente la malattia, differenziare in modo accurato le malattie che determinano la demenza, migliorare la qualità della vita dei pazienti e dei caregiver, assicurare un trattamento accurato. Gli elementi determinanti nella definizione della qualità del servizio offerto dai centri specializzati sono: una diffusione capillare ed una elevata accessibilità, la presenza di multi professionalità (geriatri, neurologi, psichiatri, CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo psicologi) e il collegamento con i servizi di approfondimento diagnostico (neuropsicologia, neuroradiologia), la possibilità di fornire interventi non farmacologici e riabilitativi, il collegamento con i servizi territoriali e residenziali. Nel 2000 è iniziato in Italia un progetto nazionale di organizzazione della rete dei servizi per la diagnosi e il trattamento della malattia di Alzheimer denominato “Progetto CRONOS”, con l’obiettivo di standardizzare la prescrizione di farmaci e di valutare l’effetto del trattamento. Circa 500 centri specializzati (denominati Unità di Valutazione Alzheimer - UVA) sono stati istituiti in tutto il territorio nazionale, con una distribuzione capillare anche se disomogenea. La definizione dei criteri organizzativi delle UVA è stata lasciata alle Regioni senza un reale coordinamento; si è perciò assistito ad una difformità sia nella distribuzione dei centri che nella loro organizzazione (centri territoriali, ospedalieri, neurologici, psichiatrici e geriatrici, con o senza servizi di supporto, ecc.). Pur essendo evidente la disomogeneità delle UVA, sia per composizione del personale che per attività svolte, nella maggior parte dei casi queste non si limitano ad essere centri “prescrittori” dei farmaci, ma svolgono un vero e proprio ruolo di presa in carico del paziente. Le strutture collegate a servizi di ricovero e di diagnosi e quelle con competenze multiprofessionali riescono meglio a garantire il soddisfacimento dei complessi bisogni dei pazienti con malattia di Alzheimer. Purtroppo la mancanza di linee guida condivise (che riguardino i compiti specifici e l’organizzazione e la distribuzione) e di adeguati supporti, anche culturali, rischia in alcuni casi di vanificare l’impegno degli operati di questi centri che rappresentano, anche a livello internazionale, un modello unico di rete di servizi per la gestione territoriale del paziente con demenza. Il ruolo principale delle UVA è accompagnare il paziente e la sua famiglia; vi sono infatti momenti particolari di crisi nei quali una vicinanza mirata, intelligente e tecnicamente qualificata può modificare il vissuto di chi è a disagio. Uno di questi è rappresentato dalle prime fasi della malattia, spesso caratterizzate dalla solitudine del paziente e della sua famiglia. Chi è in difficoltà non trova le risposte pronte e rassicuranti di cui avrebbe bisogno per capire la propria condizione, per poterla analizzare con serenità e quindi prendere le necessarie decisioni, accompagnato dai consigli di chi ha le conoscenze adeguate per indicare un percorso di cura e di vita. Attorno alle problematiche più delicate riguardo ad alcuni momenti della relazione del paziente e della sua famiglia con la malattia, recentemente è stato condotto al Censis uno studio su persone affette da sclerosi multipla che ha messo in luce come il 48% degli ammalati ha dovuto ricorrere a vari medici specialisti per arrivare ad una diagnosi; inoltre il 40% ha dovuto impegnarsi, spesso con disagio, per convincere i medici stessi dei suoi sintomi. Infine, il 29% ha ricevuto vari trattamenti per patologie diverse dalla sclerosi multipla. L’indagine prosegue analizzando la risposta soggettiva del paziente alla pagine 26_27 comparsa dei primi sintomi, risposta che tende a nascondere a sé e agli altri i sintomi stessi. La disabilità in agguato è difficile da accettare, anche perché - pur nella generosità diffusa - vi è sempre una quota di familiari (30%) che non comprende la sofferenza del paziente e tende a minimizzarla. Peraltro la famiglia esercita un ruolo assolutamente predominante sia nel controllo che nell’esecuzione delle cure; essa però chiede con insistenza che funzionino centri di cura ai quali sia possibile appoggiarsi non solo per la prescrizione delle terapie, ma per un accompagnamento nel tempo che permetta di trovare le risposte al momento giusto a tante domande che rendono incerta, e quindi più gravosa, la prestazione assistenziale. È interessante su questa linea osservare che nelle fasi avanzate della malattia, quando il bisogno di counselling è più accentuato, l’accesso ai servizi specifici si riduce; in altre parole, quando il farmaco non è più utile, cessa anche la funzione dei centri, perché concentrati sulla prescrizione, invece che su una complessiva gestione della condizione di malattia, fino al momento di adottare procedure di tipo palliativo. Questi dati, pur derivati da un’indagine che riguarda un’altra malattia cronica gravemente invalidante, assumono una rilevanza particolare, perché sono per molti aspetti simili a quelli che si rilevano nelle vicende che devono affrontare le persone affette da demenza e le loro famiglie. In quest’ottica hanno un ruolo significativo le UVA, che spesso rispondono adeguatamente alle criticità più rilevanti, tra le quali: a. le difficoltà di arrivare alla diagnosi con il supporto di una medicina del territorio non sempre sensibile e spesso non adeguatamente informata, per cui chi si trova a disagio deve percorrere molte strade per ricevere risposte adeguate alla propria sofferenza. Manca nell’organizzazione sociosanitaria chi sia in grado di costruire “ponti” sui quali possa transitare il paziente, trasferendosi dalla precedente condizione di salute all’attuale di malattia, che impone radicali cambiamenti dei paradigmi vitali; b. la difficoltà nel far comprendere la soggettività del disagio agli operatori sanitari e ai familiari; nel momento di maggior dolore e di incertezza la solitudine si accentua a causa dell’incomprensione. Si pensi, ad esempio, alla crisi che deve affrontare chi per la prima volta vive una condizione personale e intima di inadeguatezza a causa di una alterazione delle funzioni cognitive; c. anche come conseguenza indiretta della condizione precedente, la persona tende a nascondere le proprie crisi, aggravando così ancor più la condizione di solitudine. Si instaura così un circolo vizioso che è difficile rompere e che, alla fine, produce anche danni alla salute, dopo aver devastato la qualità della vita degli ammalati; d. alla solitudine del paziente si accompagna quella delle famiglie, che devono affrontare da sole l’assistenza (cioè senza o con inadeguati supporti CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo pratico-organizzativi, ma soprattutto senza un appoggio per interpretare il presente e ipotizzare un futuro possibile). Però la gran parte delle UVA è in grado di rispondere alle richieste di ordine clinico e psicosociale dei pazienti e delle famiglie; pur essendo prive di finanziamenti specifici e quindi spesso con gravi problemi di personale, coprono un ruolo insostituibile. Sorte inizialmente come luoghi deputati alla prescrizione di farmaci, sono progressivamente divenuti centri vitali, ai quali afferiscono le persone con deficit cognitivo per ricevere risposte nei vari ambiti ed una guida nei difficili percorsi della malattia. La persona affetta da demenza nell’ospedale per acuti Circa il 20-30% dei pazienti con età superiore a 65 anni, ricoverati in reparti medici, presenta un quadro di demenza clinicamente manifesta e nel 60% dei casi è possibile rilevare un declino cognitivo. La demenza rappresenta per il paziente ospedalizzato un predittore indipendente di aumento della durata della degenza, di perdita funzionale, di rischio di complicanze (infezioni, cadute, danni iatrogeni), di mortalità e di più elevata frequenza di istituzionalizzazione. Il ricovero in ospedale per un paziente con malattia di Alzheimer rappresenta un evento cruciale per la sopravvivenza e per la funzione; richiede un approccio specialistico, in grado di fornire, in base alla prognosi del paziente, il livello più adeguato di cure che può essere talvolta altamente intensivo, talaltra limitato agli interventi palliativi, con attenzione alle problematiche sociali e familiari. L’outcome di molte patologie acute (polmonite, infarto del miocardio, frattura di femore) è peggiore nel paziente demente, indipendentemente dalla gravità specifica della malattia di base. Per queste ragioni gli ospedali dovrebbero essere in grado di riconoscere il paziente con demenza fin dall’accesso in pronto soccorso, prevedendo percorsi di assistenza specifici per la gestione della fase acuta, e specializzare alcuni reparti per acuti (geriatrie, medicine), in grado di avere collegamenti funzionali con le aree chirurgiche (ortopedia, chirurgia, terapia intensiva) e con l’area critica. È peraltro indispensabile attivare percorsi di dimissione protetta, per evitare degenze inappropriate e lo scarico del paziente in un ambiente non preparato. Tra gli aspetti più delicati per la persona affetta da demenza vi è l’accesso al pronto soccorso, cioè l’anello di congiunzione nel momento dell’emergenza tra le attività svolte nel territorio e l’ospedale, che vede un costante aumento degli accessi da parte di persone anziane, in particolare ultraottantenni. Il pronto soccorso è il luogo sicuro dove chi è in difficoltà e la sua famiglia trova sempre una risposta al bisogno, in qualsiasi momento e condizione. È quindi il luogo dove devono concentrarsi risposte efficaci sul piano clinico e capaci di comprendere in tempi rapidi la complessità e la gravità delle condizioni di sofferenza. In questa prospettiva la costruzione di un reparto di Osservazione pagine 28_29 Breve Intensiva (OBI) a forte caratterizzazione geriatrica potrebbe permettere all’anziano affetto da demenza di ricevere il massimo di attenzione e contemporaneamente di evitare - quando possibile - il ricovero, se non strettamente necessario. È importante a questo proposito che i cittadini sappiano che la preoccupazione primaria degli operatori sanitari a tutti i livelli non è quella di rispettare l’indice di ospedalizzazione, ma prevenire le conseguenze negative per l’anziano di un ricovero in ospedale, quando i pericoli superano i vantaggi ipotizzabili, soprattutto riguardo al rischio di disorientamento e alla comparsa di paure indotte dall’improvviso e profondo cambiamento di ambiente. L’OBI svolge un ruolo importante anche per quanto riguarda i rapporti con le case di riposo, evitando da una parte un ricovero sempre motivo di stress per gli ospiti delle residenze, in particolare se affetti da demenza, dall’altra un’osservazione troppo breve, con il rischio di non corrispondere alle esigenze cliniche dell’anziano fragile. Tra le attività ospedaliere che rivestono un intervento particolarmente delicato e complesso vi è l’ortogeriatria, cioè un sistema per la messa in rete di interventi integrati attuati sulla persona anziana dopo una frattura. Si tratta di un modello sempre più diffuso a livello internazionale, che ha prodotto risultati importanti rispetto alla sopravvivenza della persona infortunata e alla ripresa funzionale. Si basa su una forte integrazione tra l’attività chirurgica e geriatrica, per accompagnare il paziente attraverso le varie fasi della cura, dal periodo preintervento - da ridurre al massimo - fino alla fase riabilitativa. La sua fragilità clinica impone un’osservazione continua, per evitare la comparsa di eventi clinici avversi che incidono pesantemente sull’outcome finale. Un altro aspetto particolarmente critico è rappresentato da un servizio che si colloca all’estremo opposto dell’attività ospedaliera rispetto al pronto soccorso e cioè le cure post-acute. Sono ben note le criticità connesse con questo ambito, anche perché mancano sperimentazioni che indichino percorsi univoci. Nel prossimo futuro dovrà essere meglio definita la tipologia di paziente che maggiormente si giova di questo intervento, chiarendo in particolare i confini da una parte con la riabilitazione e dall’altra con gli interventi che sono programmabili nel territorio attraverso le attività domiciliari. A questo proposito si deve analizzare con attenzione il possibile ruolo di questi servizi innovativi nei riguardi delle persone affette da demenza e alla possibilità concreta che facilitino il ritorno a casa dopo un periodo di ospedalizzazione, diminuendo nel contempo il numero delle persone che devono essere istituzionalizzate. Le unità speciali nelle residenze Il ricovero delle persone con demenza in nuclei speciali in residenze per anziani (Nuclei Alzheimer) si è dimostrato in grado di ridurre la frequenza e l’intensità dei disturbi comportamentali senza (o con limitato) uso di farmaci psicotropi e contenzioni fisiche, di rallentare la perdita funzionale, di pre- CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo venire alcune complicanze (cadute, malnutrizione, sindrome da immobilità, delirium), di migliorare la qualità della vita del paziente, dei familiari e del personale di assistenza. La decisione di ricoverare una persona affetta da demenza in una residenza è quasi invariabilmente dettata dalla presenza di elevati livelli di disturbi comportamentali. Infatti, mentre al domicilio il 40% dei pazienti è in una fase lieve, il 40% in una fase moderata ed il restante 20% in una fase severa della malattia, tra gli istituzionalizzati l’80% è in una fase severa o molto severa. Si calcola che il 60-70% dei residenti in istituzione mostra un declino cognitivo; circa il 40% presenta una demenza di grado severo e il 50-60% rilevanti disturbi comportamentali. I nuclei specializzati per le demenze fondano la loro specificità su alcuni elementi centrali: a. il personale, che deve essere specificamente formato per essere in grado sul piano dei contenuti operativi e della capacità psicologica di affrontare la gestione di pazienti gravemente disturbanti, ed in numero adeguato; b. l’ambiente, adatto alle necessità dei pazienti, con una attenzione particolare alla dimensione architettonica, all’organizzazione degli spazi e all’uso degli ausili. Lo spazio vitale della persona con demenza va considerato come un sistema integrato, che comprende aspetti architettonici e componenti legate all’organizzazione e al contesto sociale; c. i programmi di attività adatti alla specifica condizione della persona con demenza, in grado ad un tempo di avere valore di stimolo e significato protesico; d. i familiari, che vanno coinvolti attivamente, sia come fonte di informazioni relative alla storia clinica dei pazienti, alle abitudini di vita al domicilio e alle possibilità di comunicare nel miglior modo possibile con i malati, sia come parte attiva delle attività di gruppo e come supporto nelle attività assistenziali quotidiane. Nell’ambito delle attività dei Nuclei Alzheimer sono state sperimentate varie modalità originali di trattamento dei pazienti con demenza in stadio severo (musicoterapia, terapia occupazionale, terapia di validazione, ecc.), che hanno mostrato efficacia sulla sintomatologia comportamentale e sul declino funzionale e possono essere applicati anche in residenze tradizionali. L’assistenza domiciliare Le pagine che seguono sono dedicate ad una revisione del ruolo dell’Assistenza Domiciliare nell’ambito dei servizi per la persona affetta da demenza; anche gli Alzheimer Caffè si collocano in questa logica, come supporto all’impegno che varie realtà assistenziali rivolgono all’ammalato che vive nel proprio domicilio. Il Progetto Obiettivo tutela degli Anziani del 1995 poneva come obiettivo, al pagine 30_31 termine di un quinquennio, di attivare o potenziare i servizi di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) in modo da assistere almeno il 2% degli anziani ultrasessantacinquenni non autosufficienti o parzialmente autosufficienti o a grave rischio di invalidità. I principali obiettivi dell’ADI sono orientati alla soddisfazione di bisogni plurimi correlati ad una condizione di non autosufficienza parziale o totale, attraverso la continuità e l’integrazione assistenziale, con una particolare attenzione alla qualità di vita del paziente, perseguita attraverso il mantenimento nel suo ambiente di vita e delle sue relazioni significative. I servizi deputati alla gestione dell’assistenza domiciliare sono variamente denominati nelle diverse regioni italiane: Centri di Assistenza Domiciliare (CAD), Servizi domiciliari, Cure Primarie, etc. per arrivare alle più recenti definizioni di Cure Domiciliari erogate dal Distretto Sanitario o Sociosanitario. Schematicamente, un corretto utilizzo dell’assistenza domiciliare soddisfa le seguenti condizioni: a. fondare la presa in carico sulla verifica di criteri di eleggibilità predefiniti dei pazienti da assistere; b. garantire una gestione esauriente e coordinata degli interventi; c. valutare concretamente gli interventi attuati. La scelta corretta e appropriata degli assistiti ed uno stabile collegamento con i comparti ospedalieri o le strutture semiresidenziali e residenziali extraospedaliere (Istituti/Centri di riabilitazione, RSA, Residenze Protette, Hospice, Centri diurni, etc.) permette di rispondere con celerità ed efficacia alla domanda assistenziale e soprattutto di garantire la continuità assistenziale, obiettivo primario nell’area della non autosufficienza. L’esperienza dell’assistenza domiciliare però non si è mai concentrata sulle persone affette da demenza; questo aspetto resta uno dei più critici nell’insieme della rete e quello sul quale si dovrebbero concentrare i maggiori sforzi sul piano della modellistica e della relativa sperimentazione. Nell’ambito dei servizi territoriali uno spazio particolare spetta ai Centri Diurni (CD), rappresentano un supporto per le famiglie ed arricchiscono le opportunità e la flessibilità della rete quando dotati di specifiche caratteristiche: a. una specifica connotazione socio-sanitaria in un ambiente adeguato: il ruolo dell’ambiente per la gestione del paziente con demenza è fondamentale; allo stesso tempo il CD deve essere in grado di affrontare anche le esigenze sanitarie; b. buona collocazione urbanistica: il CD non deve essere isolato dal contesto di vita del paziente e deve favorire le relazioni con il tessuto sociale; c. dotazione adeguata di personale qualificato e di programmi personalizzati di attività: le attività di socializzazione, di educazione, di riattivazione richiedono programmi specifici per le persone con demenza e il personale deve essere perciò preparato alla relazione con questi pazienti; d. flessibilità nella gestione e negli orari di apertura: deve essere possibile CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo la copertura di un’ampia fascia oraria (fino a 10/12 ore) e per almeno sei giorni alla settimana; e. disponibilità di un servizio di trasporto attrezzato, per favorire l’accesso e ridurre il carico familiare. I Centri Diurni possono essere dedicati specificamente ai pazienti affetti da demenza, oppure di tipo misto. Nei centri demenza-specifici, oltre alle attività di base della vita quotidiana, vengono garantite alcune attività riabilitative sia cognitive sia motorie, oltre all’osservazione clinica ed alla somministrazione dei farmaci. Il Centro Diurno offre varie prestazioni: servizio di ristorazione, ritrovo, segretariato sociale, consulenza, attività ricreative e culturali, attività sanitarie prevalentemente di tipo riabilitativo. In alcuni casi i centri diurni sviluppano relazioni con gli Alzheimer Caffè, che possono rappresentare un’utile integrazione delle loro attività. In genere, i pazienti affetti da demenza che afferiscono al Centro Diurno sono quelli più “difficili” per i familiari, perché presentano maggiore compromissione funzionale, più elevata frequenza di disturbi comportamentali e di comorbilità somatica. I Centri Diurni sono ampiamente diffusi, anche se non esistono stime precise. Secondo una recente indagine condotta in Lombardia, il 25% circa dei pazienti con demenza che vivono al domicilio frequenta un CDI. Ad esempio, in Regione Lombardia vi sono 232 CD accreditati, per un totale di 5.143 posti (0,6% dei soggetti ultra 75enni); i CD dedicati in modo esclusivo ai pazienti con demenza sono però solo 7, per un totale di 154 posti. 1.c I supporti informali L’assistenza diretta all’anziano e alle persone di tutte le età non autosufficienti è un compito difficile sul piano umano, complesso sul piano organizzativo, che richiede competenza, “forza” fisica e psicologica, disponibilità di tempo, spesso anche disponibilità economiche. Come fare per rendere sempre più efficace l’impegno generoso di molte centinaia di migliaia di cittadini che destinano il loro tempo a favore di chi è stato colpito da forti compromissioni dell’autonomia (con ricadute pesanti sulla qualità della vita)? È un mondo di generosità spesso nascoste e scarsamente riconosciute, che deve uscire dalla marginalità nella quale è stato relegato. Non è accettabile, infatti, che una componente così importante dell’organizzazione sociale sia formalmente irriconoscibile. Il caregiving è essenziale per il mantenimento della persona non autosufficiente, spesso affetta da polipatologia che si riflette direttamente sull’autosufficienza, nel proprio domicilio; rappresenta quindi una funzione che si avvicina a quella di un servizio di valenza istituzionale, assieme a quelle più strettamente cliniche (delle quali peraltro rappresenta il braccio operativo, perché nessuna prescrizione farmacologica, riabilitativa o sul piano degli stili di vita è destinata al successo se non è sostenuta dal sistema di caregiving). pagine 32_33 A fronte di questo bisogno che cresce e presenta dinamiche sempre diverse oggi si assiste ad una progressiva difficoltà nell’espletamento della funzione di caregiving, perché è aumentato il numero e la gravità clinico-assistenziale delle persone bisognose di cura (fenomeno conseguente alla modificazione strutturale dell’intervento medico, tendente a cronicizzare le malattie) e allo stesso tempo è cambiata la struttura della famiglia (che fino a qualche anno fa vedeva una pluralità di attori dell’assistenza, poi la riduzione del loro numero, ma con una sempre elevata attenzione per la persona principalmente responsabile, fino alla condizione di oggi, caratterizzata da una sostanziale solitudine della diade curante-curato). Più recentemente il sistema di caregiving ha subito la riduzione - avvenuta in molti settori - dei servizi pubblici di supporto, come conseguenza delle restrizioni economiche. Quelli che prestano assistenza si ritrovano spesso a svolgere funzioni di competenza tecnica che non spetterebbero a loro, compiti ai quali però le circostanze non permettono di sottrarsi. La recente crisi ha indotto tra l’altro un cambiamento - seppur ancora limitato - nella tipologia dei caregiver, perché si assiste al ritorno a casa di donne espulse dal mercato del lavoro, che trovano nell’ambito famigliare allargato una nuova possibile fonte di sostentamento. Parallelamente al sistema dei servizi vi è l’area delle cure affidata alle assitenti familiari. La crisi economica sta inserendo fattori di cambiamento anche in questo ambito, perché si inizia a documentare un ritorno al lavoro domestico di donne italiane. In questa prospettiva va rivalutata l’importanza dell’assegno di accompagnamento, che con la riduzione degli introiti delle famiglie ha assunto un ruolo sempre più significativo. In passato qualche commentatore superficiale ha giudicato eccessiva la quota del 9.5% degli ultra-sessantacinquenni fruitori dell’assegno; oggi si ritiene adeguata questa percentuale, ma soprattutto il contributo alle persone non autosufficienti è divenuto centrale per l’equilibrio umano ed economico di molte famiglie. Rispetto al problema, l’area delle demenze è particolarmente delicata, perché da tempo si discute sul significato di invalidità con interpretazioni puramente “motorie”, che penalizzano le persone affette da alterazioni cognitive e le loro famiglie, costrette ad un accompagnamento spesso pesantissimo, che però non viene riconosciuto e quindi non viene retribuito. È un’ulteriore testimonianza di come sia ancora difficile far comprendere al sistema dei servizi le problematiche che accompagnano la vita di chi è affetto da demenza e sulla sua esigenza di ricevere supporti adeguati sul piano clinico, assistenziale ed economico. L’evoluzione sopradescritta del sistema di caregiving ha dei limiti, perché è stata subita e non scelta liberamente; ciò induce all’interno della famiglia condizioni sempre più rilevanti di stress e lo sviluppo di forti tensioni; di conseguenza, tra l’altro, il lavoro di cura perde una parte del proprio valore CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo sul piano dell’organizzazione della comunità e quindi la possibilità di formare capitale sociale. Lo scenario del caregiving mette in luce la sostanziale fragilità del comparto, nel quale agiscono realtà diverse, molto spesso prive di protezione e esterne a qualsiasi organizzazione. Di conseguenza i singoli attori - sia appartenenti alla famiglia sia personale prevalentemente straniero - sono esposti a mille difficoltà, sul piano psicologico (la solitudine, l’incertezza sul futuro, il contatto con una sofferenza prolungata e spesso molto grave), sul piano tecnico (la mancanza di informazioni sulle principali metodologie di nursing geriatrico e non, a fronte di condizioni che richiederebbero interventi di una certa specificità), sul piano normativo (modalità di assunzione, tempi di lavoro, assicurazioni, ecc.). La sofferenza del caregiver famigliare assume aspetti diversi nel lungo itinerario della malattia: dall’attesa della diagnosi, al momento della sua comunicazione, alla difficile quotidianità, all’accompagnamento nelle fasi avanzate e terminali della demenza, al momento delle decisioni più drammatiche (l’istituzionalizzazione, le scelte sull’alimentazione artificiale, sul ricorso a trattamenti particolari, ecc.), infine di fronte alla morte del proprio caro. Rispetto a queste tematiche il caregiving delle persone affette da demenza non dispone di modelli formalizzati di intervento; la risposta deve essere costruita ogni giorno, attraverso crisi, successi, dolore, incertezze. Sempre più quindi si palesa la necessità di strutturare meccanismi di riconoscimento del lavoro svolto e di supporto alle figure di assistente-organizzatore-infermiere-psicologo sui vari piani del bisogno, cioè quello praticotecnico, quello relazionale, quello dell’organizzazione del tempo ed infine normativo-previdenziale-economico. Al contrario, nello scenario della nostra società oggi non si identificano interventi che si facciano carico in modo coordinato di bisogni così complessi. Per rispondere a questa esigenza sarebbe di grande rilievo umano e pratico che il ruolo dei caregiver venisse riconosciuto a livello istituzionale prevedendo: a. un riconoscimento sul piano culturale e sociale dell’importanza del caregiving, in modo da raggiungere a livello nazionale un’omogeneità di fondo rispetto alla valutazione di questa importante funzione umana e assistenziale. Si deve definire il ruolo di sussidiarietà della famiglia rispetto al servizio pubblico non come una concessione, ma come centrale per lo sviluppo civile; b. il riconoscimento pieno da parte del Governo, delle Regioni e degli Enti Locali della famiglia come realtà di servizio alle persone non autosufficienti. Tale riconoscimento deve portare a modificare le norme vigenti non premianti e ad istituire benefici economici omogenei ed adeguati rispetto al “peso” assistenziale. Uno dei primi interventi da attuare è una revisione della legge 104/92 che da la possibilità di fruire di permessi lavorativi; infatti si sono registrati abusi che hanno suggerito un inaspri- pagine 34_35 c. d. e. f. mento dei controlli, mentre allo stesso tempo molte situazioni di reale bisogno non hanno trovato adeguata risposta; una definizione di compiti e doveri dei caregiver; ovviamente all’interno di un piano strategico volto a valorizzare formalmente una funzione è necessario indicarne limiti e confini, anche se è da evitare qualsiasi irrigidimento entro schemi burocratici di una funzione che ha sempre una rilevante componente volontaristica e quindi di auto-organizzazione. L’assistenza a casa è strutturalmente connessa al riconoscimento di un elevato grado di libertà da parte dei vari attori delle cure. Un aspetto particolare è rappresentato dal rapporto del caregiver con l’eventuale amministratore di sostegno; spesso le due figure non coincidono, con il rischio di conflitti negativi per proseguire con serenità un progetto assistenziale; il diritto e dovere ad una formazione adeguata sul piano tecnico e della relazione. In molte realtà locali si stanno diffondendo “scuole delle famiglie”, dove attraverso l’uso di adeguati strumenti didattici si insegnano le tecniche di nursing delle persone non autosufficienti, assieme a modalità per affrontare e gestire lo stress, nonché le dinamiche intrafamiliari e verso i servizi; la strutturazione da parte delle Aziende sanitarie di piani assistenziali che prevedano l’inserimento organico dei caregiver. In questa prospettiva si deve considerare sia il livello domiciliare sia quello ospedaliero sia quello delle residenze; in ogni luogo si devono riconoscere in modo formale i diritti dei caregiver, favorendo il loro lavoro e sgravandolo da oneri impropri sul piano pratico (si pensi, ad esempio, alle limitazioni di accesso dei caregiver in alcune strutture residenziali, negli ospedali, ecc.). Attraverso i piani di assistenza si devono definire i compiti del caregiver, diversificandone l’impegno e di conseguenza gli interventi rispetto alle esigenze della persona non autosufficiente; l’organizzazione di servizi adeguati di supporto al lavoro della famiglia all’interno del domicilio (centri diurni, ricoveri di sollievo, ecc.). In una prospettiva sistemica questi servizi devono essere parametrati rispetto al bisogno reale e quindi essere in rete con le esigenze di un determinato territorio. 1.d Un futuro possibile e sostenibile In conclusione è utile delineare alcune caratteristiche degli interventi organizzati a favore delle persone affette da demenza. La prima è il coordinamento del lavoro compiuto in diversi ambiti, sotto una precisa guida strategica e tecnica. Gli interventi devono essere compiuti all’interno di una logica unitaria, che si è esplicata in diversi filoni coerenti fra loro. Ciò non deve comportare alcun aumento di strutture burocratiche, con i relativi costi e lentezze; ogni attore di interventi è però conscio di agire CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo in una rete che ne valorizza il contributo. Questo aspetto è importante, perché aumenta sia il valore dei risultati, sia la soddisfazione del singolo operatore delle cure rispetto al lavoro compiuto. Una seconda caratteristica dei servizi in favore di chi è fragile, come i cittadini affetti da demenza, è di essere costituiti da tante piccole imprese che nel loro insieme diventano importanti. Le piccole cose possono diventare “gigantesche” se vengono messe assieme a formare una rete sulla quale la persona si può appoggiare nei momenti di difficoltà. Una terza caratteristica dei servizi è di affrontare i problemi delle persone anziane tenendo presente la multidimensionalità del loro bisogno e quindi l’esigenza che da qualsiasi punto di osservazione specifica si inizi ad operare non si dimentichi che la persona esprime la sua fragilità a causa di un insieme fortemente intricato di condizioni somatiche, psicologiche e sociorelazionali. L’intervento che serve davvero è quello che rinuncia alla sola prospettiva della quale è portatore il singolo operatore (o sistema organizzato) per inserirsi nella logica del lavoro collaborativo, senza forzature e senza prevaricazioni. Per chi non dimentica le discussioni senza fine del passato se nel prendersi cura dei vecchi fossero più importanti gli aspetti clinici, quelli assistenziali o quelli relazionali, è motivo di soddisfazione verificare che queste barriere, che impedivano il raggiungimento dei migliori risultati, sono via via scomparse. Anche la dialettica tra ospedale e territorio, che ha recentemente occupato le pagine della pubblicistica spesso con scarsi risultati, è stata superata, così come altre “parole chiave”, che troppo spesso rischiano di diventare “parole vuote”, quali “continuità terapeutica”, “porte uniche di accesso”. Spesso una forte idea di fondo condivisa permette di superare negli atti concreti di tutti i giorni le difficoltà che normalmente vengono descritte attorno a queste tematiche. Un po’ più di “mondo reale” rispetto alle costruzioni teoriche che tutto prevedono e tutto governano è la ricetta che ha dato i frutti migliori. Un’ulteriore caratteristica dei sistemi organizzati deve essere l’impegno a misurare sempre i risultati ottenuti, in modo da uscire dall’autoreferenzialità che ha caratterizzato in passato i settori più deboli, sia in ambito sanitario che assistenziale. Oggi affermare che “quello che non si misura non esiste” è la premessa alla costruzione di un bilancio costo-beneficio, sempre più necessario in un contesto di restrizioni economiche; ma, soprattutto, la misura dei risultati è un segno di rispetto civile ed umano verso la persona che riceve un intervento, perché ha diritto a conoscere quali sono i risultati degli atti compiuti a suo favore. L’atteggiamento di chi non ritiene necessario impegnarsi in questo ambito riflette o pessimismo, per cui tutto sarebbe inutile, o la presunzione che l’intervento compiuto deve necessariamente portare ad un risultato; in entrambi i casi la persona fragile non viene valorizzata come portatrice di un diritto che impegna ad ottenere il massimo possibile in una pagine 36_37 determinata circostanza. A conclusione di queste pagine sull’importanza dei servizi per la qualità della vita degli ammalati riportiamo un frammento da una poesia del grande poeta Andrea Zanzotto; esprime la forza della luce (la solidarietà umana?) anche di fronte alle più terribili condizioni. Come il sole combatte l’Alzheimer, così speriamo che l’impegno di tanti a favore del benessere degli anziani possa rappresentare una luce sulla strada di chi soffre, una luce caratterizzata dalla generosità dell’impegno umano e dalla sapienza della medicina: “panchine stupefatte/nel reggere al sole due vecchi ancora saldi. Al sole/con la viola in mano della memoria/antialzheimeriano sole”. CAPITOLO 1 L’organizzazione dei servizi per le persone affette da deficit cognitivo 2.a Gli enti fondatori e gli attuali partner 40 2.b L’ambiente 43 2.c Il personale 47 2.d I frequentatori 49 2.e Attività per i pazienti e per i caregiver 51 2.f Il budget 53 2.G La comunicazione 54 Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi pagine 39_39 L’alzheimer caffÈ: la ricchezza di un’esperienza CAPITOLO 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi In questo capitolo vengono presentati i dati raccolti da sette Alzheimer Caffè, il cui elenco è riportato nella Tabella 1, ritenuti significavi per i rispettivi territori, sia per tipologia di attività sia per numero di utenti coinvolti. L’analisi dei Caffè ha permesso una efficace contestualizzazione dei modelli teorici rilevandone i pregi e, talvolta, i limiti. Nel complesso, infatti, nonostante le varie realtà abbiano adottato una struttura generale ispirata a quella proposta da Miesen per la costituzione di un Alzheimer Caffè, hanno saputo adattarsi alle esigenze emerse dalla propria utenza. I dati sono stati raccolti sulla base di un protocollo al quale si sono attenuti gli organizzatori dei Caffè partecipanti allo studio. Tabella 1. Elenco degli Alzheimer Caffè partecipanti allo studio Caffè Sede Amarcord al Caffè Cesena Alzheimer Caffè Cremona Alzhauser Caffè Saronno Casa Guidi Caffè Sesto Fiorentino Alzheimer Caffè Roma Alzheimer Caffè Oderzo Alzheimer Caffè Treviso Talvolta i Caffè sono inseriti nella rete di servizi assistenziali provinciali o regionali, assieme ad altri Alzheimer Caffè o enti che si occupano di demenze. I Caffè di Roma, di Treviso e Oderzo sono delle strutture complesse che presentano al loro interno ulteriori suddivisioni: - l’Alzheimer Uniti Roma Onlus gestisce gli Alzheimer Caffè in tre quartieri della Capitale: Monteverde, Prenestino e Bologna. I tre centri presentano alcune variazioni nell’organizzazione e nella gestione delle attività. - I Caffè di Oderzo e Treviso presentano una suddivisione in base alle tipologie di intervento, determinate dal grado di compromissione cognitiva delle persone con demenza e dalle esigenze informative ed educazionali dei cargivers. In base a tali criteri esistono due gruppi per ogni Caffè: il Gruppo ACM (Alzheimer Caffè Malati) e il Gruppo ACF (Alzheimer Caffè Familiari). 2.a Gli enti fondatori e gli attuali partner L’Alzheimer Caffè nasce spesso in risposta ad una mancanza di informazioni e di servizi adeguati in materia di sostegno ai familiari dei pazienti. Vari studi hanno indicato che i caregiver delle persone affette da demenza non sono sufficientemente informati riguardo alle problematiche assistenziali cui può andare incontro il malato e all’iter burocratico per ottenere eventuali supporti esterni; una parte rilevante di loro chiede, quindi, di avere ulteriori infor- Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi mazioni su programmi di prevenzione e sulle caratteristiche della malattia. Alcune istituzioni ed enti, per rispondere ad un crescente bisogno di sapere e di saper gestire le demenze, hanno promosso la fondazione di un Alzheimer Caffè. Gli anni di attività testimoniano non solo il successo dell’idea iniziale, ma anche della collaborazione fra i diversi attori della cura e dell’assistenza all’anziano di un territorio (Tabella 2). Tabella 2. Gli anni di attività degli Alzheimer Caffè Caffè Anni di attività Amarcord al Caffè Cesena 4 Alzheimer Caffè Cremona 6 Casa Guidi Caffè Sesto Fiorentino 3 Alzheimer Caffè Q.re Monteverde Alzheimer Caffè Q.re Prenestino Alzheimer Caffè Q.re Bologna Roma Alzhauser Caffè Saronno ACM Alzheimer Caffè Malati ACF Alzheimer Caffè Familiari ACM Alzheimer Caffè Malati ACF Alzheimer Caffè Familiari 2 2 5 Oderzo Treviso 5 3 6 4 4 Ogni Alzheimer Caffè, infatti, è il risultato della sinergia di diversi soggetti particolarmente sensibili alle esigenze dei pazienti affetti da demenza e dei loro familiari. Ripercorrendo la storia della nascita di ogni Caffè vi si trovano, quali promotori, soggetti già coinvolti nell’assistenza agli anziani. In particolare, gli enti fondatori dei centri analizzati sono stati: per il Caffè Amarcord di Cesena la Fondazione Opera Don Baronio; per il Caffè di Cremona l’Associazione AIMA, Associazione Italiana Malati di Alzheimer; il soggetto iniziatore del Casa Guidi Caffè è stato la Cooperativa Sociale Elleuno. I Caffè di Roma si fondano su un progetto proposto dall’associazione Onlus Alzheimer Uniti. A Saronno il Caffè ha preso avvio grazie alla Onlus Auser Volontariato, mentre per Oderzo e Treviso l’iniziatore degli Alzheimer Caffè è stato l’Ente ISRAA, Istituto di Ricovero ed Assistenza agli Anziani, una Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficenza, che nel 2008, ideò e finanziò il progetto pilota Alzheimer Caffè per malati. Per sviluppare l’idea iniziale, alcuni centri hanno coinvolto ulteriori realtà, elencate nella Tabella 3. I modelli sono molteplici: il Caffè di Cesena, ad esempio, vede fra i partner iniziali una decina di enti, fra i quali, unico caso, un Ateneo, l’Università di Bologna, mentre altri Caffè sono stati promossi da un’unica struttura. pagine 40_41 Tabella 3. Gli enti fondatori degli Alzheimer Caffè Caffè Enti fondatori Amarcord al Caffè Cesena AUSL di Cesena; Fondazione Opera Don Baronio; Università di Bologna; ASP Distretto di Cesena-Valle Savio; Associazione “Amici di Casa Insieme”; Associazione CAIMA; Associazione GAIA; Associazione AUSER Territoriale di Cesena; Comune di Cesena Alzheimer Caffè Cremona AIMA Casa Guidi Caffè Sesto Fiorentino Cooperativa Sociale Elleuno; Associazione AIMA; Società della salute della zona Fiorentina Nord-Ovest Alzheimer Caffè Q.re Monteverde Alzheimer Caffè Q.re Prenestino Roma Alzheimer Caffè Q.re Bologna Associazione Alzheimer Uniti Roma, con il patrocinio del XVI Municipio e della Coop Sociale “Medici di medicina generale 16 Onlus” Associazione Alzheimer Uniti Roma con il patrocinio del VI Municipio Associazione Alzheimer Uniti Roma Alzhauser Caffè Saronno AUSER ACM e ACF Oderzo ISRAA- Istituto di Ricovero ed Assistenza agli Anziani ACM e ACF Treviso ISRAA- Istituto di Ricovero ed Assistenza agli Anziani Come già indicato, le soluzioni trovate per l’avvio di un Alzheimer Caffè sono state diverse, sia per numero sia per tipologia di soggetti coinvolti; in media le associazioni su base volontaristica costituiscono la maggioranza degli enti cofondatori; in altri casi figurano cooperative, in particolare quelle che, già prima dell’avvio del Caffè, gestivano servizi per gli anziani. Dopo l’avvio iniziale delle proprie attività i Caffè hanno saputo creare e ottimizzare ulteriori contatti, sia con strutture pubbliche sia con altre realtà, al fine di sviluppare al meglio le proprie potenzialità. La ricerca di nuovi attori, per l’organizzazione, la gestione e il finanziamento del Caffè, è un processo sempre aperto ad ulteriori interlocutori. Nella Tabella 4 sono riportati, oltre ai soggetti fondatori, gli enti che hanno iniziato a collaborare dopo l’avvio. È altresì significativo rilevare che tutti gli enti promotori sono attualmente partner del progetto dell’Alzheimer Caffè, anche se, in alcuni casi essi, rivestono un ruolo diverso rispetto agli esordi. Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi Tabella 4. Enti attualmente partner degli Alzheimer Caffè Caffè Partner attualmente coinvolti nella gestione dell’AC Amarcord al Caffè Cesena AUSL di Cesena; Fondazione Opera Don Baronio; Università di Bologna; ASP distretto di CesenaValle Savio; Associazione “Amici di Casa Insieme”; Associazione CAIMA; Associazione GAIA; Associazione AUSER Territoriale di Cesena; Comune di Cesena; Centro Servizi per il Volontariato Ass.I. prov.V; CAD Società Cooperativa ONLUS Alzheimer Caffè Cremona AIMA, collaborazioni con: CISVOL-Centro Servizi per il Volontariato; Forum del Terzo Settore per Cremona; Associazione “Donatori del tempo libero”; Associzione “Nido dei nonni” Casa Guidi Caffè Sesto Fiorentino Cooperativa Sociale Elleuno; Associazione AIMA; Società della salute della Zona Fiorentina NordOvest; Associazione Comunale Anziani di Sesto Alzheimer Caffè Q.re Monteverde Alzheimer Caffè Q.re Prenestino Associazione Alzheimer Uniti Roma, con il patrocinio del XVI Municipio e della Coop Sociale “Medici di medicina generale 16 Onlus” Roma Alzheimer Caffè Q.re Bologna Alzhauser Caffè Associazione Alzheimer Uniti Roma, con il patrocinio del VI Municipio Associazione Alzheimer Uniti Roma Saronno AUSER, collaborazione con Associazioni locali ISRAA; Associazione Perdut’amente; Azienda Sanitaria ULSS 9; Residenza Anziani Oderzo ACM Oderzo ACF ISRAA; Associazione Perdut’amente; Azienda Sanitaria ULSS 9; Casa di Riposo di Motta Livenza; Comune di Oderzo; Comune di Motta di Livenza ACM ISRAA; Associazione Perdut’amente; Azienda Sanitaria ULSS 9 Treviso ACF Sono sottolineati i nuovi enti partner. ISRAA; Associazione Perdut’amente; Azienda Sanitaria ULSS 9; Comune di Treviso 2.b L’ambiente La collocazione del Caffè rispetto alla città e il suo setting sono fattori importanti che permettono di stabilire quale sarà la tipologia di utenti e in pagine 42_43 quale quantità, quali saranno le attività che si possono proporre e quali, per mancanza di spazio, è opportuno evitare. Le sedi degli Alzheimer Caffè sono spesso ambienti messi a disposizione o in condivisione con altre realtà operanti sul territorio (Tabella 5). Tabella 5. La collocazione Caffè Collocazione Amarcord al Caffè Cesena Locale solitamente adibito a Centro Ricreativo Culturale, in uno stabile destinato ad alloggi per anziani Alzheimer Caffè Cremona Centro diurno privato per anziani Casa Guidi Caffè Sesto Fiorentino Centro civico, dove ha sede anche l’Associazione comunale per anziani Alzheimer Caffè Monteverde Roma Sede di una Associazione equo solidale Alzheimer Caffè Q.re Prenestino Casa Famiglia per anziani fragili Alzheimer Caffè Q.re Bologna Parrocchia del Quartiere Alzhauser Caffè Saronno Sede della Cooperativa AUSER, all’interno di un edificio destinato ad attività di libera aggregazione ACM Oderzo Residenza per anziani Struttura appartenente all’associazione Alpini ACF ACM ACF Treviso Residenza per anziani Centro diurno La localizzazione all’interno di un ambito sociale favorisce il coinvolgimento di un numero maggiore di utenti; in alcuni casi i Caffè si trovano in strutture che già si occupano di anziani (RSA, Centri diurni, Associazioni). Se da un lato questo facilita il contatto con pazienti e familiari che potrebbero diventare futuri utenti, dall’altro il Caffè corre il rischio di essere considerato come una estensione delle prime e non come una realtà autonoma. Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi Inoltre, per aumentare la propria visibilità nel tessuto urbano, la maggior parte dei Caffè ha ubicato la sede in un contesto conosciuto, al centro del Comune, prevalentemente capoluoghi di provincia o realtà più piccole. Questa collocazione garantisce una maggiore considerazione da parte di tutti i cittadini, fruitori o possibili fruitori dei servizi dell’Alzheimer Caffè. Per metropoli come Roma, la definizione di periferia e centro è limitativa: l’Alzheimer Caffè diventa un servizio per una circoscrizione o per un quartiere (Tabella 6). Tabella 6. La collocazione degli Alzheimer Caffè nelle città Caffè Collocazione nella città Amarcord al Caffè Cesena Centro Alzheimer Caffè Cremona Centro Casa Guidi Caffè Sesto Fiorentino Centro Alzheimer Caffè Q.re Monteverde Alzheimer Caffè Q.re Prenestino Centro Roma Alzheimer Caffè Q.re Bologna Alzhauser Caffè ACM ACF ACM ACF Periferia Periferia Saronno Oderzo Treviso Centro Centro Periferia Centro Periferia Anche l’organizzazione e la suddivisione dello spazio influisce notevolmente sulla vita del Caffè. Le superfici vanno da un minimo di 40 mq ad un massimo di 250 mq (Tabella 7). Gli ambienti a disposizione sono prevalentemente destinati alle attività con i pazienti e i familiari: in ogni Caffè, infatti, è presente una sala per gli incontri. Non sempre è possibile dividere i familiari dai pazienti, destinando a ciascuno di loro un locale separato. In alcuni Caffè vi è uno spazio per la segreteria; in altri è casi vi è una cucina in supporto alla preparazione del momento conviviale. Per i propri incontri nella bella stagione, alcuni Caffè usufruiscono di giardini e di balconi. pagine 44_45 Tabella 7. Le caratteristiche dei locali Caffè Amarcord al Caffè Alzheimer Caffè Casa Guidi Caffè Alzheimer Caffè Q.re Monteverde Alzheimer Caffè Q.re Prenestino Alzheimer Caffè Q.re Bologna Alzhauser Caffè ACM ACF ACM ACF Cesena Cremona Sesto Fiorentino Roma Saronno Oderzo Treviso mq. nr. stanze nr. servizi igienici 40 106 63 1 2 1 2 3 4 nr. servizi igienici accessibili ai disabili 1 1 1 40 2 2 1 si 60 1 1 - si 100 1 1 - si 250 106 76,42 125 90 5 2 3 2 2 3 2 2 2 2 1 1 1 1 1 si si si si si parcheggio vicino alla struttura si si si Un aspetto da non sottovalutare è l’accessibilità della struttura a pazienti che abbiano difficoltà motorie, con la presenza di ascensori e ingressi facilitati e di servizi igienici appositi, presenti praticamente in ogni Caffè. Inoltre, soprattutto se il trasporto deve essere gestito dal caregiver, un altro elemento da considerare è la possibilità di parcheggio nei pressi della struttura. Tutti i Caffè analizzati sono collocati in prossimità di parcheggi, e, soprattutto nelle città di medie dimensioni, sono anche raggiungibili con i mezzi di trasporto pubblico. Il trasporto dei pazienti e caregiver, dove richiesto, dovrebbe essere un servizio sempre garantito e gratuito, come avviene nei tre Caffè che lo hanno attivato, sebbene rappresenti una voce di spesa onerosa, sia in termini di spese per mezzi, benzina e assicurazione, sia per l’impiego di volontari o personale retribuito. La possibilità di usufruire di mezzi di trasporto messi a disposizione dal Caffè favorisce le presenze agli incontri anche di utenti che, diversamente, non vi potrebbero partecipare. Un’ultima considerazione riguarda l’arredamento dei Caffè, informale ed accogliente, molto diverso dagli ambienti di ospedali e cliniche. La scelta e la disposizione dei mobili ricordano quelle di un bar o di un vero e proprio caffè, o, ancora, a seconda della struttura, quelle di una casa. All’interno del Caffè è possibile trovare, a volte, dei “corner informativi” con materiale a disposizione degli utenti sulla malattia di Alzheimer e sui servizi offerti dal territorio. Gli orari di apertura al pubblico dei Caffè vengono incontro alle esigenze dei caregiver e dei pazienti e sono fissati in base alla tipologia di Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi intervento previsto. Ad esempio, gli incontri programmati durante la mattina o nel pomeriggio favoriscono i caregiver che non lavorano, mentre per gli incontri di carattere informativo sulla gestione del paziente, viene scelto un momento diverso della giornata. I Caffè sono tendenzialmente aperti a cadenza settimanale (Tabella 8). Tabella 8. Gli orari di apertura Caffè Ore di apertura alla settimana Ore di apertura al mese Amarcord al Caffè Cesena 3 12 Alzheimer Caffè Cremona 6 26 Casa Guidi Caffè Sesto Fiorentino 6 Alzheimer Caffè Q.re Monteverde Alzheimer Caffè Q.re Prenestino 5 Roma 3 Alzheimer Caffè Q.re Bologna Alzhauser Caffè ACM ACF ACM ACF 6 Saronno Oderzo Treviso 41,5 4 182 16 2 4 4 16 Solo un Caffè ha segnalato orari diversificati in base all’ora legale e solare, per venire incontro alle esigenze dei pazienti che, al “calar del sole”, sembrano più irrequieti. In merito al periodo di chiusura, è da notare, infine, che la maggior parte degli Alzheimer Caffè sospende gli incontri per il periodo estivo, normalmente solo per alcune settimane. 2.c Il personale Una molteplicità di figure professionali concorre alla formazione degli staff degli Alzheimer Caffè. Complessivamente negli 11 Caffè collaborano 123 persone. Confrontando i dati per ogni Centro si riscontrano differenze significative: alcune strutture impegnano oltre una trentina di persone, mentre altre poche unità. L’organizzazione delle attività dipende, ovviamente, dalla quantità delle risorse umane a disposizione, dal loro profilo e dalle loro competenze. In dettaglio le figure che collaborano con gli 11 Caffè sono: • 53 Volontari • 23 Tirocinanti pagine 46_47 • 15 Psicologi • 11 Tecnici per le attività dei pazienti (musicoterapista, insegnante di arte, terapista della riabilitazione, ecc) • 4 Infermieri • 4 Educatori Professionali • 3 Medici • 2 Coordinatori • 8 Altre figure Sui 123 addetti, il 65% lavora in qualità di volontario; il personale retribuito comprende, solitamente, psicologi e medici specialisti, nonché gli addetti alle attività di laboratorio per i pazienti. I volontari, ivi inclusi i tirocinanti sia universitari sia degli Istituti superiori, ricoprono varie mansioni: aiutano nella gestione del gruppo e nelle attività, svolgono lavori di segreteria, si occupano degli acquisti, ecc. Per partecipare alle attività, soprattutto per rispondere alle richieste informative dei caregiver, gli Alzheimer Caffè organizzano corsi per la loro formazione. Fra le figure specializzate nel trattamento delle problematiche delle demenze, lo psicologo è sicuramente la figura più presente nei Caffè, con la duplice funzione di supporto alle attività dei pazienti e di aiuto psicologico ai familiari. L’approccio al paziente si realizza attraverso la valutazione cognitiva, la valutazione affettivo-comportamentale e gli aspetti relazionali e di comunicazione, mentre per quanto concerne gli interventi, gli psicologi si focalizzano in particolar modo sugli aspetti affettivi e cognitivi del malato e come supporto agli operatori. Il personale del Caffè è composto anche dai terapisti che si occupano delle attività rivolte ai pazienti. Si tratta di specialisti in musicoterapia, l’attività più diffusa dopo la stimolazione cognitiva, arteterapia, pet-therapy, ginnastica orientale. Gli Alzheimer Caffè richiedono spesso anche la presenza di un educatore professionale che collabora con lo psicologo e gli altri attori della cura nella gestione degli incontri e nelle diverse attività. Medici ed infermieri partecipano prevalentemente alle riunioni rivolte ai caregiver, in qualità di consulenti per i familiari e gli assistenti informali che devono acquisire informazioni utili circa il decorso della malattia del loro caro e circa alla gestione del paziente a casa. Il personale e i volontari vengono guidati nelle loro diverse attività e specificità da una figura incaricata ufficialmente con il ruolo di coordinatore. Solo in due Caffè questa figura è bene distinta dalle altre, mentre normalmente viene incaricato un collaboratore che, oltre alla sua funzione, svolge anche quella di supervisore. Al fine di condurre le diverse attività e stabilire gli indirizzi del Caffè sono Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi previste riunioni a cadenza mensile o bimestrale, con i diversi componenti del team. In quasi tutti i Caffè è stata rilevata l’importanza dell’immediato feedback degli operatori dopo l’incontro, per poter lavorare, fin dall’incontro successivo, ad eventuali nuovi problemi emersi. 2.d I frequentatori I pazienti che frequentano l’Alzheimer Caffè sono prevalentemente donne, circa il 60 %, di età compresa fra gli 80 e i 90 anni, con una diagnosi di demenza effettuata, nella maggior parte dei casi, presso un ambulatorio UVA o da un medico specialista. Complessivamente, nel periodo di osservazione hanno seguito gli incontri presso gli undici Caffè 170 pazienti e 190 caregiver. Come per altri dati rilevati, le differenze da Caffè a Caffè sono elevate: si passa da centri con una media di 6-7 utenti, ad altri con una frequenza di 30-35 persone. Il turn-over, fra pazienti e caregiver, è di circa 12 unità all’anno, per diverse motivazioni: dall’istituzionalizzazione dell’ammalato, all’impossibilità del caregiver di poter continuare gli incontri, al peggioramento dello stato di salute. I dati sono tuttavia estremamente variabili, anche in base alla tipologia di attività proposte, a volte strutturate per cicli, che permettono al caregiver di seguire parte degli incontri, interrompendoli per un periodo, per poi riprenderne la frequentazione. I ricoveri in RSA segnalati da ogni Caffè coinvolgono un numero limitato di pazienti: solo un Centro registra 6 istituzionalizzazioni all’anno, il più alto dato pervenuto, mentre in tre centri non si segnala alcun ricovero. Se si considera anche la media di frequenza per utente, 12 mesi circa, si delinea la figura di core guest, di abituale frequentatore del Caffè: è un indicatore del successo dell’iniziativa, confermata, peraltro, anche dai buoni risultati sulla qualità del servizio espressa dai fruitori. Infatti, sebbene solo tre Centri utilizzino una rilevazione di customer satisfaction, durante gli incontri gli operatori ricevono direttamente dai frequentatori un feedback informale, utile a stabilire gli obiettivi futuri del centro. Tutti gli Alzheimer Caffè promuovono la loro attività con varie strategie di comunicazione. Oltre ai canali di comunicazione standard, pazienti e familiari arrivano a conoscenza degli Alzheimer Caffè soprattutto attraverso le strutture sanitarie che si occupano di demenza, oppure su indicazioni di medici specialisti, geriatri e neurologi (Tabella 9). pagine 48_49 Tabella 9. Da chi sono segnalati i pazienti Tipologia enti/figure professionali che segnalano i pazienti ai Caffè Nr. Caffè in cui viene fatta la segnalazione Organizzazioni di familiari (AIMA, Linealzheimer, ecc.) 3 Centri UVA 3 Medici specialisti 5 Assistenti sociali dei Comuni 4 Enti fondatori del Caffè 2 Istituzioni pubbliche (Comune, ASL, ecc.) 3 RSA del territorio 3 Altro 2 Anche le Associazioni di volontariato, come pure le linee telefoniche dedicate ai problemi delle demenze, segnalano i Caffè come centri di ritrovo. Significativa è la collaborazione con gli assistenti sociali del territorio e, in generale, con le Istituzioni pubbliche. Infine è da riportare come, per un Caffè, la promozione passi anche dal “passaparola” in collaborazione con le farmacie locali. Per quanto riguarda le segnalazioni da parte delle UVA, va sottolineato che seppure vi sia una proficua collaborazione per la cura del paziente, non vi sono convenzioni o protocolli che formalizzino i rapporti. In alcuni casi l’esistenza dei Caffè è stata notificata tramite una comunicazione ufficiale dell’ASL competente, indirizzata a tutti gli “addetti ai lavori”. Gli Alzheimer Caffè nascono con l’obiettivo di essere luoghi ad accesso libero. Solo due Centri, quelli di Oderzo e Treviso, selezionano i pazienti in entrata, consigliando la frequentazione dell’Alzheimer Caffè Malati o dell’Alzheimer Caffè Familiari in base alla tipologia di intervento e alla compromissione cognitiva del paziente e alle esigenze informative ed educazionali dei caregiver. L’Alzheimer Caffè Malati (ACM) è rivolto ai malati di demenza con decadimento cognitivo lieve o di media entità, con la possibilità, per i loro caregiver di partecipare ad incontri psicoattitudinali sul tema delle demenze. I pazienti vengono coinvolti, durante gli incontri, in attività di stimolazione cognitiva aspecifica; invece, l’Alzheimer Caffè Familiari (ACF) si occupa soprattutto dei caregiver, con la possibilità di coinvolgere i congiunti malati in attività occupazionali ricreative. L’obiettivo è creare uno spazio accogliente e sicuro dove i familiari possano ricevere un adeguato supporto. Il caregiver non è obbligato a seguire il gruppo che gli viene indicato: se per varie ragioni preferisce una scelta diversa non viene precluso dalle attività del Caffè. È da segnalare altresì che in un Caffè non si selezionano i partecipanti, ma ogni familiare con malato che ne faccia richiesta viene accettato per un pe- Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi riodo di prova, all’interno del quale viene attuata una prima valutazione osservazionale e testistica. 2.e Le attività per i pazienti e per i caregiver La durata di ogni incontro presso gli Alzheimer Caffè è di circa 2 ore e mezza. I volontari e gli operatori allestiscono le sale circa mezz’ora prima dell’arrivo degli ospiti e si preparano per accoglierli. Tutti i Caffè adottano generalmente una divisione dei propri incontri in tre momenti: - l’accoglienza - il momento delle attività per i pazienti e, per alcuni, di consulenza ai caregiver - il saluto finale. L’accoglienza riveste un ruolo fondamentale per la gestione di tutto l’incontro, poiché determina il clima del gruppo: può avere una durata che varia dai 15 ai 30 minuti. Le attività proposte ai pazienti possono durare dall’ora all’ora e mezza, spesso intervallate da momenti di ballo e di animazione. Nel frattempo il caregiver può usufruire dei servizi messi a sua disposizione, oppure, anche se non in tutti i Caffè, può lasciare il proprio congiunto fino alla fine dei laboratori. Gli interventi indirizzati al paziente affetto da demenza hanno come obiettivo principale la stimolazione e il mantenimento delle capacità cognitive e motorie e sono volte a favorire le abilità relazionali e comunicative, deteriorate dal decorrere della malattia. L’offerta sviluppata per i pazienti è molto ricca e comprende oltre alla stimolazione cognitiva informale e ROT 1, interventi di fisioterapia, di danzaterapia o, ancora, di pet teraphy. Le attività proposte dai Caffè, elencate nella Tabella 10, sollecitano diverse funzioni: la stimolazione cognitiva, ad esempio, avviene soprattutto in modo informale ed è sostanzialmente trasversale ad ogni attività proposta; altre attività, quali la musicoterapia, la danzaterapia, l’arteterapia sono utilizzate anche come strumenti per coinvolgere un paziente da un punto di vista comunicativo e relazionale. La fisioterapia e il tai-chi aiutano il malato a mantenere le sue funzioni motorie. Un momento conviviale e un momento di animazione sono previsti in tutti i Centri. Il momento conviviale, che favorisce anche la socializzazione fra i diversi caregiver, coincide spesso con il ricongiungimento fra i pazienti e i loro accompagnatori, il momento finale prima dei saluti. 1 La ROT ( Reality Orientation Theraphy- teoria di orientamento alla realtà) si prefigge di orientare il paziente confuso rispetto all’ambiente, al tempo e alla propria storia personale. Esistono due principali modalità: la ROT informale prevede un processo di stimolazione continua da parte di familiari e operatori sanitari che, nel corso della giornata, forniscono ripetutamente al paziente informazioni circa l’orientamento temporale e spaziale; la ROT formale consiste in sedute condotte con gruppi di 4-6 persone, omogenee per grado di deterioramento cognitivo, durante le quali un operatore impiega una metodologia di stimolazione standardizzata. pagine 50_51 Tabella 10- Le attività proposte ai pazienti Attività Nr. Caffè in cui viene praticata ROT 3 Stimolazione Cognitiva 11 Fisioterapia 3 Pet-Therapy 1 Danza 2 Musicoterapia 4 Tai-Chi 1 Arteterapia 3 Animazione 11 Momento Conviviale 11 Come già indicato due Centri, al momento della presentazione dei servizi offerti, dividono i pazienti in gruppi omogenei per grado di deterioramento cognitivo, mentre altri effettuano tale divisione solo al momento delle attività ed in modo informale, al fine di garantire una migliore gestione dei malati. In alcuni Caffè, così come avviene per i caregiver, gli esercizi rivolti ai pazienti sono suddivisi in cicli, volti a stimolare, di volta in volta, diverse funzioni. Gli Alzheimer Caffè non forniscono solo un aiuto nella gestione del paziente affetto da demenza, ma rappresentano anche uno strumento per dare al caregiver un supporto e preservarlo dall’isolamento sociale. Per perseguire questo obiettivo generale vengono offerte una serie di attività rivolte ai familiari dei pazienti (Tabella 11). Tabella 11. Le attività rivolte ai caregiver Tipologia di intervento Nr. Caffè dove viene promosso Colloqui con lo psicologo 11 Informazioni per la ricerca di badanti/ aiuto domestico 4 Incontri con specialisti (medici, psicologi, infermieri, ecc.) 3 Memory training 2 Gruppo di auto-mutuo-aiuto 4 Altro 2 Il servizio più diffuso è il colloquio con lo psicologo. In alcuni Caffè l’attività per i familiari prevede, oltre alla proposta di un lavoro di auto-mutuo-aiuto, l’inserimento in un percorso di tipo terapeutico-formativo di gruppo sotto la guida di uno psicoterapeuta. Queste attività si svolgono prevalentemente Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi per cicli annuali o semestrali. Quattro Caffè hanno specificato fra i servizi offerti ai caregiver anche il contatto con cooperative ed associazioni per la selezione di personale che svolge assistenza domiciliare, una preoccupazione non secondaria per i familiari soprattutto al manifestarsi dei primi disturbi comportamentali. Sempre alle figure degli assistenti familiari sono dedicate, in alcuni Caffè, incontri di formazione con specialisti. Talvolta i servizi offerti dal Caffè comprendono una linea telefonica dedicata alle informazioni sulla malattia di Alzheimer. Anche la possibilità di lasciare il proprio congiunto per qualche ora, affidandolo al Caffè, riveste una grande importanza: permette al caregiver di essere libero, almeno per qualche ora, dalla responsabilità della gestione del proprio familiare. Infine è da sottolineare che gli stessi familiari chiedono consigli anche su come individuare precocemente i sintomi della malattia di Alzheimer e come esercitare la memoria. Nessuno degli Alzheimer Caffè segnala attività di sostegno ai caregiver dopo la perdita del proprio caro. Oltre alle attività rivolte a caregiver e pazienti, i Caffè promuovono spesso iniziative rivolte ad altri utenti, quali seminari per le professioni sanitarie, incontri informativi con la cittadinanza, incontri con le scuole superiori, al fine di rendere partecipe ed informata l’intera cittadinanza. 2.f Il budget Il bilancio a disposizione del Caffè è il frutto, solitamente, di contributi stanziati da diversi soggetti. Spesso sono le Istituzioni pubbliche, quali Comuni, ASL, Province, a destinare ai Caffè parti delle sovvenzioni rivolte al miglioramento dell’assistenza ai pazienti anziani; in altri casi sono gli stessi Caffè a partecipare a bandi pubblici per l’erogazione di finanziamenti. Anche gli enti privati e i cittadini contribuiscono con le proprie donazioni alle necessità dei Caffè. A volte i finanziamenti agli Alzheimer Caffè possono avvenire anche in maniera indiretta, ad esempio fornendo gratuitamente personale già collaboratore di un ente finanziatore, facendosi carico dei rimborsi viaggio dei volontari, con la donazione del materiale necessario per le attività con gli ospiti o, ancora, offrendo la sede per gli incontri a titolo gratuito. I budget annuali a disposizione sono compresi in una forbice molto ampia: dai circa 600 € ai quasi 27.000 € (Tabella 12). Tabella 12. I budget a disposizione Budget Nr. Caffè Caffè con budget fino a 5.000 € 5 Caffè con budget da 5.000 a 10.000 € 3 Caffè con budget da 10.000 a 20.000 € 2 Caffè con budget da 20.000 a25.000 € 1 pagine 52_53 Diversi fattori influiscono sul profilo economico dei Caffè: il numero di personale retribuito e quello volontario; la possibilità di usufruire di servizi messi a disposizione da altre realtà che, quindi, non incidono direttamente sulle voci di spesa del Caffè; l’affitto e la gestione degli spazi non direttamente imputati al centro. Da questi elementi si evince che ogni Caffè ha predisposto e predispone un proprio piano di spese annuali, composto da diverse voci. Le principali possono essere ricondotte a: - Affitto annuale Solo tre centri devono inserire nel proprio budget annuale le spese di affitto per la sede, in media 2.000 € all’anno. Nella maggior parte dei casi la sala o la struttura vengono concesse a titolo gratuito. - Spese Generali Le spese per la sede e per la gestione delle attività coinvolgono, invece, tutti i centri. Per sette Caffè le spese generali sono inferiori ai 1.000 €, per altri tre le spese generali vanno dai 1.000 ai 3.000 €. Solo un Caffè spende, per l’acquisto dei vari materiali, più di 3.000 €. Nelle spese generali sono incluse diverse voci: dalla segreteria, all’acquisto di materiali per le attività dei laboratori, per le utenze del Centro e per i momenti conviviali. Incidono, indicativamente, per il 10% sul budget totale. - Compensi del personale Rappresentano per diversi Centri la maggior parte della spesa che il Caffè deve sostenere. Anche in questo caso le differenze sono innumerevoli e risulta difficile attribuire un valore significativo ad una media. I Caffè spendono per il proprio personale cifre comprese fra i 2.600 ai 17.000 €. Il budget stanziato dipende dal numero di attività proposte, dal personale utilizzato, dalla tipologia di professioni messe in campo, dalle ore di apertura del Caffè. Come già rilevato, per alcuni casi, tutto il personale effettua il proprio servizio a titolo gratuito. - Servizio di trasporto I Caffè che hanno indicato quale voce di spesa il servizio di trasporto sono tre: mediamente in un anno le spese per tale servizio sono di 1.500 €. In altri 2 Caffè il servizio si attiva in base alle richieste delle famiglie. - Assicurazione Solo due Centri hanno specificato questa voce, che costituisce una spesa annua di circa 550 €. 2.g La comunicazione Gli Alzheimer Caffè promuovono le loro attività attraverso una strategia on line, prevalentemente con un sito Internet o almeno una pagina informativa su altri siti istituzionali, e off line, con la stampa di pieghevoli e materiale divulgativo. Nell’era dei social network anche i Caffè hanno aperto un proprio profilo, Capitolo 2 L’Alzheimer Caffè. Prospettive di lavoro: dimensioni, organizzazione, operatori, programmi e costi volto non tanto allo scambio di informazioni, ma alla condivisione degli “stati” emotivi dei caregiver. Aspetto non secondario, Facebook sta diventando il veicolo principale per la promozione di eventi ed iniziative. Il materiale cartaceo è distribuito attraverso vari canali, dai soggetti che si occupano di malattia di Alzheimer, ai vari partner che collaborano con i Caffè, agli esercenti del quartiere, alle parrocchie: ogni Caffè ha saputo coinvolgere diversi attori della propria comunità. In merito alle informazioni per i familiari, i mezzi più utilizzati sono una linea telefonica dedicata ai problemi dei pazienti Alzheimer e gli incontri con specialisti. Queste tipologie di intervento da un lato supportano i caregiver nella gestione del loro caro, dall’altro favoriscono una diffusione delle informazioni sulle demenze. Alcuni Caffè svolgono anche interventi formativi più mirati, rivolti alle professioni sanitarie, per le quali sono organizzati, in collaborazione con altre strutture, seminari e corsi di aggiornamento. Altre attività di carattere scientifico-divulgativo sono la partecipazione a congressi e convegni, la pubblicazione di articoli su riviste di settore, lo svolgimento di studi sulla malattia di Alzheimer. Vengono inoltre realizzati incontri aperti a tutta la cittadinanza, agli studenti delle scuole superiori, ai potenziali assistenti informali, con l’obiettivo di diffondere la conoscenza della malattia di Alzheimer e delle altre demenze. La divulgazione delle informazioni e una visibilità periodica sui mezzi di informazione locali aiutano a mantenere un rapporto non solo con la rete, intesa come utenti e strutture che collaborano con il Caffè, ma anche con tutta la cittadinanza. Questo passaggio è fondamentale anche per l’acquisizione di nuovi volontari che lavorino presso il Caffè: solo un Centro prevede infatti incontri annuali per il loro “reclutamento”. In qualche realtà si adotta una strategia di confronto e di scambio di progetti ed idee con altri Alzheimer Caffè: potrebbe diventare un incubatore interessante di nuove idee. pagine 54_55 INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? 3.a I metodi di valutazione 58 3.b Le caratteristiche degli ospiti 61 3.c Gli esiti 63 Capitolo 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia pagine 57_57 alzheimer caffÈ: la ricchezza di una esperienza CAPITOLO 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia In questo capitolo vengono presentate le caratteristiche delle persone che frequentano gli Alzheimer Caffè esaminate nel corso dello studio. In un sottogruppo di soggetti è stato anche possibile analizzare le modificazioni dei parametri clinici e funzionali dopo tre mesi di frequenza al Caffè. Lo studio è stato condotto nel periodo fra dicembre 2011 e marzo 2012 e per la raccolta dei dati sono state utilizzate scale di valutazione ampiamente validate. Il campione considerato è composto da 116 pazienti, con i relativi caregiver; di questi 62 sono nuovi utenti dei Caffè ai quali le scale di valutazione sono state somministrate all’inizio della frequentazione e a distanza di tre mesi, al fine di determinare eventuali effetti benefici degli incontri. 3.a I metodi di valutazione Gli strumenti per la valutazione multidimensionale nell’anziano permettono di costruire un’immagine della condizione vitale della persona e di seguirne nel tempo l’evoluzione. Nello studio sui Caffè sono stati presi in considerazione i seguenti domini: - Funzioni cognitive (attraverso la somministrazione ai pazienti del Mini Mental State Examination - MMSE). - Tono dell’umore (con l’utilizzo della Geriatric Depression Scale - GDS). - Lo stato di salute somatica globale (con l’utilizzo di uno strumento che raccoglie le informazioni cliniche disponibili dal paziente, dai familiari o dagli operatori, la Cumulative Illness Rating Scale - CIRS). - La presenza di disturbi del comportamento dovuti alla demenza (con uno strumento che raccoglie in modo sistematico le informazioni fornite dai familiari, il Neuro Psychiatric Inventory - NPI). - La qualità della vita del paziente (con una scala, la Quality of Life AD-QoL, che prevede una intervista sia del paziente che del caregiver. In considerazione dell’ampio range di deterioramento cognitivo del campione analizzato e della presenza di soggetti con deterioramento moderato-severo, è stata utilizzata solo la parte della scala che prevede l’intervista del caregiver). - Il carico assistenziale (misurato con la Caregiver Burden Inventory - CBI, una scala che viene autosomministrata ai caregiver). Le funzioni cognitive (MMSE) La valutazione delle capacità cognitive del paziente è stata effettuata tramite il Mini Mental State Examination (MMSE). È costituito da 11 item, suddivisi in 5 sezioni tramite le quali vengono valutate in le varie funzioni cognitive, in particolare l’orientamento temporale e spaziale, la memoria immediata (memoria di fissazione o registrazione), l’attenzione e il calcolo, la memoria episodica recente, il linguaggio (la denominazione, ripetizione, comprensio- CAPITOLO 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia ne dei messaggi sia orali sia scritti, scrittura di una frase), nonché la prassia costruttiva. Il valore massimo del test è di 30/30; sono considerati normali i punteggi uguali o superiori a 25/30. Il campione è stato suddiviso in base ai seguenti punteggi: - 25/30: processi cognitivi nell’ambito della normalità (24 è il punteggio soglia) - 18/24: deficit cognitivo lieve - 10/17: deficit cognitivo moderato - 9/0: deficit cognitivo grave. Il tono dell’umore (GDS) Il tono dell’umore è stato valutato con la Geriatric Depression Scale (GDS). La GDS minimizza gli aspetti somatici della depressione, considerati confondenti e poco specifici nell’anziano, mentre ne approfondisce l’aspetto affettivo. Il punteggio massimo è di 30, corrispondente alla maggiore gravità di depressione. Non si tratta di una scala che permette di fare una diagnosi clinica, ma di graduare i sintomi depressivi. I punteggi che si ottengono possono essere così suddivisi: - 0/10 = depressione assente; - 11/17 = depressione lieve - 18/30 = depressione grave. La scala è stata somministrata solo ai soggetti con MMSE superiore a 10 per limitare l’interferenza del deficit cognitivo. Lo stato di salute somatico (CIRS) Lo stato di salute generale del paziente è stato misurato con la scala CIRS Cumulative Illness Rating Scale. Proposta come valido indicatore della salute globale, definisce la severità clinica e funzionale di 14 categorie di patologie di più frequente riscontro: le patologie cardiache, l’ipertensione, le patologie vascolari, le patologie respiratorie, i disturbi di occhi, orecchie, naso, gola, laringe, l’apparato GI superiore (esofago, stomaco, duodeno, albero biliare, pancreas), l’apparato GI inferiore (intestino, ernie), le patologie epatiche, le patologie renali, le patologie genito-urinarie, il sistema muscolo-scheletrocute, le patologie del sistema nervoso, le patologie endocrine e metaboliche, le patologie psichiatriche comportamentali. Si ottengono due indici: - l’Indice di severità, che risulta dalla media dei punteggi delle prime 13 patologie (escludendo la categoria patologie psichiatriche/comportamentali); - l’Indice di comorbidità, che rappresenta il numero delle patologie nelle quali si ottiene un punteggio superiore o uguale a 3 (escludendo la categoria patologie psichiatriche/comportamentali). pagine 58_59 I disturbi del comportamento (NPI) Il Neuro Psychiatric Inventory (NPI) è uno strumento in grado di valutare, sulla base delle informazioni ottenute dal caregiver, la frequenza e la gravità di un’ampia gamma di disturbi comportamentali, quali: deliri, allucinazioni, agitazione-aggressività, disforia-depressione, ansia, euforia, apatia, disinibizione, irritabilità-labilità, comportamento motorio aberrante, disturbi del sonno, disturbi del comportamento alimentare. Il punteggio va da 0 a 144. I singoli disturbi comportamentali vengono esplorati mediante un questionario che permette, oltre a rilevarne la presenza, anche di ottenere informazioni dettagliate sulle modalità di espressione. Le domande si riferiscono alla situazione del paziente nelle 4-6 settimane precedenti l’intervista; la valutazione viene fatta in base a informazioni fornite da un familiare o da una persona che conosce il paziente. La qualità della vita (QoL) La scala somministrata al caregiver è la Quality of Life AD, composta da 13 quesiti che indagano diversi aspetti, quali la vita sociale o le relazioni familiari, per ognuno dei quali il caregiver deve attribuire un punteggio da 1 a 4. Lo score massimo è 52. Il carico assistenziale (CBI) La Caregiver Burden Inventory - CBI, è uno strumento di valutazione del carico assistenziale, in grado di analizzarne l’aspetto multidimensionale, elaborato per i caregiver di pazienti affetti da malattia di Alzheimer e demenze correlate. È uno strumento self-report, compilato dal caregiver principale, ossia il familiare o l’operatore che maggiormente sostiene il carico dell’assistenza. La valutazione dei diversi fattori di stress è divisa in 5 sezioni: 1. il burden (item 1-5), descrive il carico associato alla restrizione di tempo per il caregiver; 2. il burden evolutivo (item 6-10), inteso come la percezione del caregiver di sentirsi tagliato fuori rispetto alle aspettative e alle opportunità dei propri coetanei; 3. il burden fisico (item 11-14), che descrive le sensazioni di fatica cronica e problemi di salute somatica; 4. il burden sociale (item 15-19), che descrive la percezione di un conflitto nel lavoro e nella famiglia; 5. il burden emotivo (item 20-24), che descrive i sentimenti verso il paziente, che possono essere indotti da comportamenti imprevedibili e bizzarri. Il punteggio massimo per questa scala è di 96. CAPITOLO 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia 3.b Le caratteristiche degli ospiti Gli Alzheimer Caffè, come già illustrato nei capitoli precedenti, sono luoghi dedicati soprattutto ad anziani affetti da demenza e ai loro assistenti, formali ed informali. Sulla base dei dati ottenuti nello studio è possibile delineare un identikit del fruitore medio di questo servizio. La Tabella 1 descrive le caratteristiche principali del campione. Gli ospiti hanno mediamente 80 anni (con un ampio range da 64 fino a 92 anni) e sono prevalentemente donne: su 116 frequentatori 69 sono di sesso femminile. Le donne, come atteso, presentano una età media significativamente più elevata dei soggetti di sesso maschile. Tabella 1. Caratteristiche dei pazienti partecipanti all’Alzheimer Caffè Campione Totale Maschi Femmine p <0,01 Età 80,7±7,1 78,8±5,9 82,1±7,6 Sesso (n %) 116 47 (41%) 69 (59%) Scolarità 6±2,6 6,1±2,3 5,6±2,1 Ns MMSE 11,4±8,9 12,3±7,7 10,9 ±9,7 Ns GDS 3,8±3,4 3,9±4,5 3,4±3,1 Ns CIRS severità 1,3±0,5 1,5±0,4 1,6±0,4 Ns CIRS comorbidità 1,9±1,5 1,7±1,4 2,7±1,4 <0,01 NPI totale 31,7±29,0 31,7±20,9 31,6±19,9 Ns QoL 18,6±11,8 17,4±11,1 12,9±9,7 <0,05 I dati sono presentati come media ± DS p= signifcatività statistica calcolata con t-test a due code per campioni indipendenti (per le medie) Una ulteriore suddivisione in base alle fasce di età descrive meglio le caratteristiche dell’utente dell’Alzheimer Caffè (Figura 1). 6,4 % 11,6 % 9,5 % Oltre i 90 anni 80 - 90 anni 70 - 80 anni 50,7 % 44,8 % 30,2 % Figura 1 Distribuzione dei pazienti partecipanti agli Alzheimer Caffè in relazione all’età e al sesso 60 - 70 anni 55,3 % 40,5 % 30,4 % 7,2 % femmine 2,1 % maschi 5,2 % totale pagine 60_61 Gli Alzheimer Caffè sono frequentati prevalentemente da persone di età compresa fra gli 80 e i 90 anni, che rappresentano il 50,7% dell’utenza, per lo più donne (67% dei casi). Seguono le persone fra 70 e 80 anni, il 30,4% del campione; vi è una lieve prevalenza del sesso maschile, il 55% dei soggetti. Infine un altro dato significativo è la presenza di persone ultranovantenni, l’11,6% del totale, in prevalenza femmine.La maggior parte degli utenti degli Alzheimer Caffè, circa il 60%, ha frequentato le scuole elementari, il 21% anche le scuole medie inferiori, mentre solo il 10% ha frequentato un istututo superiore. Il punteggio medio del MMSE ottenuto dai soggetti alla baseline è di 11,4 ±8,9 (Tabella 1); non vi sono differenze significative in relazione al sesso. Vista l’ampiezza del range, da 1 a 28, è stata effettuata un’analisi dei dati suddivisi per livello del deficit cognitivo (Figura 2). Figura 2 Distribuzione della popolazione in base al punteggio del MMSE e al sesso MMSE da 0 a 9 36,2% 34 % 35,3 % MMSE da 10 a 17 MMSE da 18 a 24 MMSE da 25 a 30 31,9 % 40,4 % 35,3 % 24,6 % 23,4 % 24,1 % 7,2 % femmine 2,1 % maschi 5,2 % totale Il 35,3% dei pazienti dei Caffè presenta un deficit cognitivo grave, il 35,3% moderato e il 24,1% lieve. I pazienti maschi hanno prevalentemente un deficit cognitivo moderato, mentre le femmine uno grave. I soggetti femminili con un punteggio al di sopra di 25 sono, in percentuale, maggiori di quelli maschili. Nella Tabella 2 vengono riportati i punteggi MMSE suddivisi per Caffè: le differenze sono limitate e questo indica che i frequentatori sono sostanzialmente omogenei per gravità del deficit cognitivo. I dati sono presentati come media ± DS Tabella 2. Punteggio MMSE alla baseline nei diversi Alzheimer Caffè Caffè MMSE Cesena 10,2±9,3 Cremona 14,3±8,1 Sesto Fiorentino 13,2±10,8 Roma 13,8±7,0 Saronno 11,9±5,7 Treviso/Oderzo 10,2±10,1 CAPITOLO 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia I punteggi della scala per la depressione (GDS) indicano valori sostanzialmente simili per maschi e femmine e punteggi bassi, indicativi di un numero limitato di sintomi depressivi (Tabella 1): il 93% del campione ha valori che rientrano nei limiti della normalità, mentre il restante 7% presenta una forma di depressione lieve. Per ciò che riguarda la salute somatica i dati indicano elevati livelli di comorbidità; il 32% dei campioni, infatti, è affetto da 3 o più patologie croniche di grado moderato-severo, e il 44% da una sola patologia cronica moderata-severa. I dati della CIRS comorbidità (Tabella 1) indicano punteggi più elevati nei soggetti di sesso femminile, in linea con i dati dell’epidemiologia di questa età. In merito ai disturbi del comportamento i punteggi del NPI totale sono piuttosto elevati (31,7±29) senza significative differenze fra maschi e femmine (Tabella 1). Per ciò che riguarda la scala che rileva il carico assistenziale del caregiver (CBI), il punteggio medio totale è di 31,6 ± 19,1. L’analisi dei singoli item indica gli aspetti ritenuti maggiormente stressanti per il caregiver (Tabella 3). Tabella 3. Distribuzione dei punteggi medi della CBI al baseline Sub scala CBI Media±DS Carico oggettivo 9,0±3,6 Carico evolutivo 6,3±6,7 Carico fisico 3,3±4,4 Carico sociale 2,4±3,4 Carico emotivo 2,1±3,1 CBI Totale 31,6±19,1 I caregiver riscontrano nel carico oggettivo la maggiore fonte di stress: in tale item viene richiesto al familiare quanto il paziente debba essere aiutato nello svolgimento delle attività quotidiane, quanto tempo libero resta al caregiver, quanto il paziente deve essere sorvegliato. Altra fonte di stress è rappresentata dal carico evolutivo, che indaga come l’assistenza ad un paziente influisca sulla vita presente e futura del familiare. Il carico fisico presenta uno score non particolarmente significativo: esso analizza in che modo, e in quale entità, l’occuparsi di un paziente condizioni lo stato di salute del caregiver. Anche i dati per il carico sociale e il carico emotivo, che considerano rispettivamente quale peso rivesta nella vita familiare e lavorativa occuparsi di un malato affetto da demenza e se il caregiver sviluppi del risentimento nei confronti dell’assistito, non sono rilevanti. 3.c Gli esiti Vengono presentati i dati relativi a 62 pazienti che hanno iniziato al momento dell’indagine la frequenza all’Alzheimer Caffè e per i quali è stato quindi pagine 62_63 possibile ottenere i dati di follow-up a tre mesi, con lo scopo di valutare gli esiti dell’intervento sui sintomi psicologici e comportamentali associati alla demenza. I dati sono presentati come media +/- DS. La significatività è stata calcolata con il t-test di Student a due code per campioni appaiati Tabella 4. Confronto delle caratteristiche cliniche dei pazienti afferenti all’Alzheimer Caffè alla baseline e al follow up a tre mesi Baseline Follow up p MMSE 11,4±8,9 11,7 ±10,2 Ns GDS 3,6±2,5 3,5±2,1 Ns NPI totale 28,8±19,3 23,5±18,6 <0,001 NPI distress 13,8±12,3 11,1±11,4 <0,001 QoL 18,6±11,8 22,8±12,4 <0,001 Il punteggio medio del MMSE e della GDS sono rimasti sostanzialmente stabili (Tabella 4); anche l’analisi della distribuzione dei soggetti in base al punteggio di MMSE (Figura 3) non ha mostrato significative variazioni. Figura 3 Punteggio dell’MMSE per livelli di compromissione cognitiva fra baseline e follow up MMSE da 0 a 9 35,3 % 34 % MMSE da 10 a 17 MMSE da 18 a 24 MMSE da 25 a 30 35,3 % 40,4 % 24,1 % 23,4 % 2,1 % 5,2 % baseline folLow up Sebbene le modificazioni osservate non raggiungano il livello di significatività statistica, al follow up si evidenzia un aumento in percentuale dei pazienti con compromissione grave (+3%) e con punteggio normale (+5%). Diminuiscono i gruppi con uno score lieve o moderato; si evidenzia come 43 soggetti, il 69% del campione, mantiene le modificazioni del punteggio del MMSE entro il range di +/- 1 rispetto alla baseline, mentre il 17% registra un miglioramento di 2 o più punti al follow up. Il restante 12% peggiora il proprio punteggio rispetto alla baseline di 2 o più punti. Per ciò che riguarda l’NPI si osserva una riduzione statisticamente significativa dei punteggi medi al follow-up (Tabella 4); i disturbi del comportamento diminuiscono nel 53,2% dei soggetti analizzati, restano invariati nel 14,5% ed aumentano nel restante 32,2%. Risulta anche diminuito il punteggio della CAPITOLO 3 L’Alzheimer Caffè: benefici per la persona affetta da demenza e la sua famiglia scala NPI distress, che valuta l’impatto dei disturbi del comportamento sullo stress dei caregiver. La percezione della qualità della vita è considerevolmente migliorata nell’arco dei tre mesi (Tabella 4), passando da 18,6 ±11,8 a 22,8 ±12,4: l’incremento del dato rappresenta un cambiamento statisticamente significativo, con una forte valenza umana, considerando l’aspetto che la scala si propone di analizzare. Nella Tabella 5 vengono presentati i dati delle subscale della CBI alla baseline e al follow-up; mostrano una significativa riduzione del punteggio totale, al quale contribuiscono in modo diverso le varie subscale; in particolare risulta significativa la riduzione del burden emotivo e sociale. Il caregiver ha meno difficoltà nell’accettare il suo ruolo e riesce a meglio gestire emotivamente la malattia del proprio congiunto. Sebbene la media del punteggio totale CBI al follow up sia diminuita, lo score suggerisce che l’Alzheimer Caffè svolge una funzione importante, ma che sono necessari anche altri interventi per supportare i caregiver nell’assistenza. Tabella 5. Punteggi delle subscale della cbi alla baseline e al follow up Sub scala CBI Baseline Follow up P Carico oggettivo 11,3±6,3 12,0±7,0 Ns Carico evolutivo 8,6±6,7 7,8±6,5 Ns Carico fisico 4,6±4,9 4,4±4,3 Ns Carico sociale 3,5±2,6 2,5±2,6 <0,08 Carico emotivo 2,8±2,6 1,6 ±2,3 <0,001 Media 32,7±20,5 29,01±17,3 <0,04 I dati sono presentati come media ± DS. La significatività è stata calcolata con il t-test di Student a due code per campioni appaiati. pagine 64_65 INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? 4.a Gli inizi e i partner 69 4.b Gli spazi e l’ambiente 70 4.c L’organizzazione e il personale 71 4.d Gli ospiti 72 4.e Le attività 74 4.f I costi 77 4.G I risultati 78 Capitolo 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale pagine 67_67 alzheimer caffÈ: la ricchezza di una esperienza CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale I dati derivati dall’indagine sui Caffè prospettano un modello di servizio originale e utile. Originale perché è una tipologia assistenziale diversa da molte altre, utile perché permette di prendersi cura dell’ammalato e della sua famiglia in modo efficace, ma allo stesso tempo senza l’esigenza di rilevanti investimenti. È un esempio convincente di interventi ad alta intensità umana, adeguati in tempo di crisi economica a supportare i servizi formali che rischiano una progressiva riduzione. Supporto non significa, però, sostituzione; sarebbe una pretesa velleitaria, che peraltro rischierebbe di far assumere a questa esperienza un’immagine fuorviante. L’enorme sviluppo del numero dei Caffè avvenuto negli ultimi anni è la testimonianza di fatto del loro ruolo nell’ambito della ricchezza delle dinamiche di protezione delle fragilità che caratterizza il nostro Paese e del gradimento che hanno ricevuto da parte delle famiglie delle persone colpite da demenza. Non è quindi la risposta ad un “vuoto assistenziale” che verrebbe percepito e quindi riempito, ma l’apertura serena di nuovi spazi per la cura, facendo in modo che l’ammalato possa trovare luoghi dove trascorrere il tempo, in un ambiente protetto, sereno, adeguato alla specificità delle sue esigenze e quindi sostanzialmente terapeutico. Una recente revisione della letteratura ha dimostrato che la maggior parte delle linee guida che si occupano di demenza non trattano l’argomento degli interventi psico-sociali. Questo lavoro vuole porsi quindi nella prospettiva di offrire materiale a chi dovrà stendere le prossime linee guida italiane ed europee perché gli Alzheimer Caffè siano presi in considerazione tra le tipologie di intervento che hanno un rilevante significato. Siamo ben consci che la raccolta dei dati, sia riguardo al funzionamento sia ai risultati, è stata condotta su un campione limitato; il risultato merita ulteriori approfondimenti su numeri più ampi e con metodologie ancora più raffinate di quelle utilizzate. Però ci auguriamo che - anche grazie a questo nostro lavoro - in futuro sarà irrinunciabile considerare gli Alzheimer Caffè all’interno di un progetto articolato di cura all’ammalato di demenza, senza limitare la carica di spontaneità e innovazione che ha caratterizzato la gran parte di questi servizi nei vent’anni della loro vita. Non è questa la sede per ripercorrere la storia dei Caffè, che inizia nel 1997 a Leida in Olanda e che poi si sono diffusi in altri Paesi europei ed extraeuropei e da oltre un decennio anche in Italia, dove l’esperienza si è progressivamente allargata. Oggi lo scenario è caratterizzato da realtà spesso difformi tra loro; le differenze in parte si riflettono anche nei dati riportati in questo studio, ma non per questo dovrebbero essere interpretate come un segnale di inefficacia né tanto meno di inadeguatezza del lavoro compiuto. Le considerazioni di seguito riportate non vogliono essere indicazioni rigide, ma supporti per chi volesse aprire un nuovo Caffè o rianalizzare il lavoro fino ad ora compiuto, al fine di raggiungere, ciascuno nel proprio territorio, il CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale massimo livello qualitativo ed il massimo dei risultati. Allo stesso tempo però i dati indicano che vi sono alcune caratteristiche del servizio che non possono essere trascurate. La spontaneità non viene sminuita dall’appoggiarsi ad indicazioni di carattere generale; anzi, ne viene valorizzata, perché si facilitano alcune decisioni operative e si evitano inutili errori. In questa logica ci auguriamo che vengano lette queste pagine; un contributo tra pari per un progresso di tante piccole imprese che nel loro insieme costituiscono un modello che ha dato risultati importanti e potrà continuare a svolgere una funzione utile. Quindi un contributo per la costruzione di tante piccole, libere imprese. Un mondo di generosità mirata che ci auguriamo possa ancor più svilupparsi nei prossimi anni. 4.a Gli inizi e i partner Le realtà esaminate sono uno specchio della ricchezza della nostra società, ancora in grado di esprimere impegno e innovazione a favore delle persone meno fortunate. È interessante notare che gli iniziatori appartengono al mondo del volontariato nelle sue varie espressioni ed ancor più quanto sia in grande crescita il coinvolgimento delle associazioni di familiari, come risposta ad un bisogno acutamente sentito e ad una domanda che arriva direttamente. Le associazioni che rappresentano gli interessi di gruppi di persone fragili costituiscono una rete di interessi e di competenze che dovrebbero trovare sempre maggiore spazio in un welfare moderno e responsabile; infatti sono efficaci nella specifica funzione, ma nella grande maggioranza agiscono senza particolarismi o egoismi. È inoltre interessante notare che nel corso della loro vita i Caffè hanno trovato nuovi supporti, anche tra i Comuni e le Aziende sanitarie; è il riconoscimento di fatto dell’utilità dell’impresa e del suo rilievo sociale, anche se talvolta si devono rilevare resistenze da parte di chi non riconosce la diversità e specificità dei ruoli, e l’esigenza di creare reti. Alcuni Caffè crescono appoggiandosi a strutture più grandi come le residenze per anziani; questa contiguità presenta vantaggi sul piano pratico (a cominciare dalla facile disponibilità di professionalità qualificate). È però importante tenere separate le due realtà, per evitare l’identificazione del Caffè con un ambiente spesso triste e segregante e come tale vissuto dalla popolazione. Al contrario, gli Alzheimer Caffè combatte qualsiasi rischio di segregazione, a cominciare da quello di una famiglia che, appesantita dai propri compiti, tende a chiudersi, riducendo al minimo i contatti con l’esterno. In conclusione, chiunque dovesse pensare oggi ad una nuova impresa in questo campo, in particolare se un’associazione di familiari, è necessario si assicuri l’appoggio di un volontariato forte (ad esempio il sindacato dei pensionati dispone di strutture solide, spesso di valore simile a quelle professionalizzate) e di una cooperativa affidabile per la fornitura delle necessarie prestazioni di pagine 68_69 rilievo economico (la vocazione realmente sociale di una certa cooperativa è garanzia di un buon livello di omogeneità rispetto all’impresa comune). Su questa base si deve partire e “rischiare” con generosità e coraggio (i dati riportati, ed altre informazioni raccolte in vari ambienti, indicano che non vi sono stati fallimenti di Caffè una volta iniziati). Ovviamente è necessario che dietro al coraggio vi sia un’idea, un progetto che colleghi le esigenze specifiche di un territorio, di un gruppo di persone, alla finalità “grande” di replicare un modello che ha avuto successo in ambiti diversi. Così si arriva progressivamente ad un radicamento dei Caffè, silenzioso ma fondato su solide basi. Un altro dato non apertamente dichiarato, ma intuibile da varie indicazioni, è la funzione di leadership esercitata da una persona (oppure due-tre fortemente sintoniche) che fin dall’inizio si pone come perno dell’impresa; questa riesce a collegare le istanze di varia origine e a trasformarle in programmi concreti di lavoro. La leadership deve però essere “delicata”, per evitare che chi volesse avvicinarsi all’esperienza trovi barriere di fatto, anche se fondate su buone intenzioni, alla sua integrazione. La questione della leadership è una delle più delicate in tutti Caffè; infatti spesso la provenienza di chi è stato l’iniziatore dell’impresa (un volontario, un operatore sociale, un famigliare) dà un indirizzo forte all’insieme. E ciò deve essere mitigato dalla capacità di porsi obiettivi di collaborazione, il più possibile generali ed aperti alla continua innovazione. 4.b Gli spazi e L’ ambiente Gli ambienti nei quali si svolge l’attività dei Caffè sono ricavati da ambiti diversi, frequentemente messi a disposizione di enti che appoggiano l’iniziativa o ne sono i promotori. Un aspetto critico è la collocazione; oggi il trasporto da parte dei familiari avviene nella grande maggioranza dei casi in automobile; sembra quindi più importante l’accessibilità di un parcheggio che non la collocazione nel centro della città. In alcuni Caffè il trasporto viene effettuato a pagamento, in altri attraverso il contributo di volontari organizzati; ovviamente la scelta deve esser compiuta in modo oculato, per evitare carichi pesanti sulle famiglie (sia dal punto di vista organizzativo che economico). Non occorrono grandi spazi (la dimensione di 100-120 mq appare adeguata); sono però necessari un buon riscaldamento e la possibilità in estate di mantenere una temperatura vivibile, anche tenendo conto che le case dei malati spesso sono molto calde e quindi la permanenza al Caffè rappresenta un momento di refrigerio. I locali possono essere resi piacevoli dal lavoro dei volontari, con fotografie e elementi di ornamento. Non vi sono regole rigide circa l’ambiente; deve però essere curato, anche se talvolta l’edificio non è ben conservato e richiede qualche intervento eseguibile a basso costo; ciò non significa che debba essere rigidamente ordinato, ma un luogo dove la caratteristica fondamentale ed imme- CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale diatamente percepibile sia quella di una piacevole accoglienza. L’informalità e la stessa denominazione di “Caffè” caratterizzano l’ambiente, che non deve avere nulla di simile ad un luogo istituzionale (consultorio o ambulatorio), ma dare l’immagine di un luogo adatto per un momento di incontro senza compiti predefiniti, una pausa nel ritmo di una “giornata di 36 ore” sempre scandita da doveri e compiti ineludibili. È necessario un bagno attrezzato, facilmente accessibile. È preferibile l’organizzazione degli spazi su due locali separati per permettere, ad esempio, in alcuni momenti la suddivisione tra ammalati e familiari, per rendere possibile l’esecuzione di interventi diversi. Un angolo per riscaldare le bevande ed i cibi è molto utile. Un aspetto particolare riguarda l’adozione di accorgimenti per ridurre la rumorosità dell’ambiente attraverso l’uso di pannelli fonoassorbenti o altri sistemi. È necessario infatti evitare che la permanenza nel Caffè sia fonte di stress per gli ammalati; ciò ha riflessi concreti sulla scelta dei frequentatori, perché impone la separazione, ad esempio, di persone con rilevanti disturbi comportamentali dagli altri. Anche l’illuminazione deve essere curata, per evitare angoli bui o eccessive differenze che possono creare ombre che preoccupano la persona con deficit cognitivo. L’arredamento dovrà richiamare piacevolmente quello di un luogo informale e nello stesso tempo garantire sicurezza (evitare mobili con angoli acuti, profili sporgenti, soprammobili che possano cadere o rompersi, ecc.). Una particolare cura dovrà essere data ai colori, per mantenere la serenità dell’ospite e facilitare il riconoscimento e la fruibilità degli spazi. Un ambiente adeguato ha rilevante importanza nel permettere l’instaurarsi di strategie compensatorie, che contribuiscono a rallentare l’evoluzione della malattia, ma soprattutto momenti di vita priva di stimolazioni ansiogene, all’origine di molti disturbi comportamentali. 4.c L’organizzazione e il personale L’organizzazione degli Alzheimer Caffè è mediamente “leggera”, così come il personale. I dati dello studio indicano una notevole varietà riguardo al numero degli incontri nella settimana e nel mese. Evidentemente questo dato dipende dalla disponibilità degli operatori; tuttavia una frequenza troppo rarefatta non consente di raggiungere risultati significativi. Una stretta relazione con le persone affette da demenza e le loro famiglie richiede infatti un certo livello di periodicità (almeno una volta alla settimana, con un’apertura di 2-3 ore). Questi orari possono essere ridotti se lo scopo del Caffè è esclusivamente quello di informare o di dare indicazioni pratiche, soprattutto rivolte ai familiari. Al contrario, in alcuni casi dall’esperienza dei Caffè sono sorti servizi più impegnativi, con una apertura molto prolungata, che per alcuni aspetti si avvicina a quella dei centri diurni (si tratta però di casi particolari, non un modello da replicare). pagine 70_71 I dati dell’indagine indicano una forte presenza di personale volontario; circa il 70% non riceve infatti alcun compenso. Si tratta spesso di persone preparate, con esperienze in altri servizi (in alcuni casi peraltro è stata fatta una selezione psico-attitudinale, anche se questa procedura non è frequente). Tra il personale retribuito vi sono i medici, gli infermieri (per un tempo ridotto, dedicato prevalentemente alla consulenza, per evitare qualsiasi tentazione concorrenziale con altri servizi) ed alcuni tecnici dedicati a specifiche attività, quali gli psicologi e gli educatori (si evidenza come il basso livello delle retribuzioni indica implicitamente che anche queste figure professionali vivono in modo umanamente coinvolgente la prestazione della propria opera). In alcuni casi accanto al Caffè agiscono autonomamente associazioni di volontariato alle quali sono affidati specifici compiti (trasporto, pulizia dei locali, manutenzioni, preparazione del cibo, ecc.). Questi contatti hanno un grande valore, oltre a quello per il servizio reso, perché collegano il Caffè con le realtà esterne, e ne amplificano il significato umano e tecnico (in molti ambienti l’Associazione Nazionale Alpini svolge con generosità e professionalità questa funzione). La preparazione e la distribuzione di stampati come guide per affrontare la demenza (ve ne sono ormai centinaia, mediamente di buona qualità) rappresenta un altro strumento utile. In alcuni casi sono stati sperimentati collegamenti via web con le famiglie dei frequentatori per mantenere un contatto anche nei giorni in cui il Caffè non opera; il mondo dell’information and communication technology è in grande espansione anche in questo campo e nel prossimo futuro assisteremo a modelli di care avanzati, utili per mantenere i contatti all’interno delle reti spontanee che si formano, ad esempio, attorno ad un Caffè. I cellulari costituiscono uno strumento utile, aperto a molte applicazioni, quali continuare a casa gli esercizi appresi durante la permanenza al Caffè o richiedere ulteriori informazioni sulla linea di quelle condivise nei gruppi. I Caffè devono tenere un’attenzione mirata alla tecnologia in forte evoluzione; a tal fine la presenza sistematica di giovani volontari con attitudine all’innovazione può essere utile, anche per costruire e sperimentare piccoli avanzamenti sul piano organizzativo e della comunicazione. 4.d Gli ospiti La selezione degli ospiti rappresenta un passaggio delicato. Alcuni Caffè scelgono pazienti all’interno di una certa finestra di gravità, altri no; alcuni ritengono che i pazienti più lievi rispetto alla compromissione cognitiva possano giovarsi maggiormente di un intervento. Anche la provenienza dei pazienti (chi ha suggerito il ricorso al Caffè) è molto differenziata; si sottolinea che in un certo numero di casi il tramite avviene attraverso le Unità di Valutazione Alzheimer, che costituiscono una rete diffusa in tutto il territorio nazionale e svolgono funzioni di diagnosi, terapia, follow up e counselling. In alcuni CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale casi il rapporto con le UVA viene mantenuto, con rilevanti vantaggi sul piano dello scambio di informazioni, ma anche su quello di indicazioni mirate per gli interventi. Inoltre questo collegamento offre agli operatori la sensazione di trovarsi all’interno di un sistema tecnicamente qualificato per la cura, ovviamente con compiti diversi, ma con la stessa ispirazione di fondo; ciò è particolarmente rilevante per contrastare la tentazione alla chiusura e all’autosufficienza sempre presente, e giustificata, in ambienti che hanno molto sofferto per l’esclusione sociale indotta dalle comunità di appartenenza. I fruitori dei Caffè sono spesso disomogenei fra loro da un punto di vista clinico, perché sono affetti da malattia di Alzheimer, da demenze vascolari o miste, da altre demenze, da psicosi con compromissione delle funzioni cognitive. Anche i familiari non possono essere inseriti in gruppi omogenei, perché variano per età, cultura, capacità di resilienza (e quindi capacità di gestire il carico oggettivo), supporti dei quali dispongono. L’età media dei fruitori dei Caffè analizzati è di 80 anni, per il 60% di genere femminile; la buona rappresentanza di uomini testimonia, di fatto, l’interesse dei caregiver di genere femminile verso le attività del Caffè rivolte a pazienti dell’altro sesso (sarebbe molto interessante a questo proposito in future ricerche definire il profilo di attività che giovano maggiormente ad un genere rispetto all’altro). Solo il 6% dei fruitori ha meno di 70 anni, come avviene oggi per la maggior parte dei servizi, sempre più utilizzati da persone in età avanzata (quindi ogni valutazione epidemiologica condotta sugli ultrasessantacinquenni è destinata a perdere valore). La scolarità media è di 10 anni. Il dato analitico indica anche una condizione di salute somatica non gravemente compromessa, in linea con altri studi condotti in Italia per le stesse età. I punteggi di MMSE suggeriscono che la maggior parte dei frequentatori ha una compromissione di livello medio delle funzioni cognitive, mentre è elevato lo score che rileva la presenza di disturbi del comportamento. Il Caffè costituisce quindi un’alternativa almeno parziale all’uso dei farmaci neurolettici? Alla domanda che sempre più frequentemente viene posta come conseguenza delle restrizioni all’uso di questi farmaci imposte dalle autorità regolatorie, non vi è ancora una risposta precisa, anche se sono sempre più numerosi gli studi che mirano ad aprire nuove prospettive di cura. Il punteggio riscontrato alle scale di rilevazione dello stress del caregiver indica un peso abbastanza elevato, che giustifica il ricorso al Caffè come momento di pausa serena nella settimana di chi fornisce assistenza. Come riportato nel capitolo 3, il turn-over degli utenti non è molto elevato, ad indicare un legame forte tra il Caffè ed i suoi fruitori; d’altra parte una quota non irrilevante sospende la frequenza perché viene trasferito in una casa di riposo. In questi casi evidentemente la frequenza al Caffè rappresentava un supporto per le famiglie al limite della propria capacità organizzativa e psicologica di offrire cure adeguate alla persona affetta da demenza. pagine 72_73 La quasi totalità frequenta il Caffè accompagnata da un famigliare o da un caregiver (talvolta anche due, segno di particolare gradimento delle attività svolte); si tratta infatti di malati non più in grado di svolgere in maniera autonoma alcune delle attività quotidiane di base, per i quali la vita è di fatto fondata sulla realtà di coppia (è un aspetto che caratterizza molte malattie croniche e che dovrebbe costituire uno degli obiettivi delle cure, peraltro mai sperimentato fino ad ora). Un’attenzione particolare viene data agli ospiti più poveri: infatti sono tendenzialmente isolati, hanno maggiori bisogni, vivono in case malsane e seguono diete inadeguate (peraltro la letteratura medico-scientifica è concorde nel dimostrare un rapporto tra povertà e outcome negativi, quali l’aumentato ricorso ai servizi sanitari, la morbilità e la mortalità). Questi si affezionano in modo particolare al Caffè, perché trovano nei suoi locali e nell’accoglienza un ambiente più caldo (in termini fisici e psicologici) di quello della loro casa. L’aumento della diffusione della povertà tra le persone anziane indotto dalla crisi porterà ad un’ulteriore valorizzazione di esperienze gratuite e ad alto valore aggiunto. Al momento dell’ingresso viene accuratamente raccolta la biografia di ogni ospite: la conoscenza degli eventi che hanno segnato la loro vita e quella delle famiglie rappresenta infatti una risorsa per comprendere alcuni atteggiamenti assunti dal paziente e la sua residua capacità di relazione, ma anche per prevenire e tamponare eventuali disturbi comportamentali, oltre che per organizzare attività mirate al singolo malato (ad esempio la musicoterapia per chi ha una storia di passioni per il canto...). 4.e Le attività Le attività svolte nei Caffè sono le più svariate e legate alla presenza di competenze e sensibilità locali. Non è possibile quindi indicare una traccia comune dei percorsi, né fa parte degli scopi di questo documento (d’altra parte è stato rilevato come la scelta di una metodologia o di un’altra non segue indicazioni dettate da precise indicazioni scientifiche, ma dalla peculiare formazione e informazione che caratterizza gli operatori, in particolare quelli di preparazione psicologica che costituiscono una presenza irrinunciabile in ogni Caffè). Si deve però sottolineare che le varie attività devono essere strettamente cadenzate, per prevenire l’ansia e la frustrazione dell’attesa da parte degli ospiti e le incertezze del personale, che rischiano di produrre risposte banali. Gli aspetti più rilevanti sono l’accoglienza, che deve essere molto curata e a forte intensità umana per evitare al paziente lo stress indotto dal cambiamento di ambiente; il coinvolgimento dell’ospite nella preparazione dei locali ha ricadute positive sulla sua partecipazione alle attività; la parte ludica conclusiva, con dolci e bevande, è sempre molto gradita. Alla fine gli ospiti par- CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale tecipano alla pulizia dell’ambiente ed al riordino. Ovviamente queste attività sono tutte volontarie; se in alcune situazioni il paziente mostra scarsa disponibilità è necessario rispettare la sua condizione, senza esercitare pressioni. Le attività più frequenti sono quelle di stimolazione cognitiva e riabilitativa, come la ROT, il cui significato è terapeutico, ma è anche di creare un ambiente di interazione positiva. In quest’ottica si collocano la musicoterapia, la danzaterapia, l’arteterapia, ecc. Sono anche fiorite numerose esperienze fondate sulla possibilità di disegnare offerte al paziente. È interessante in particolare la modalità per la riproduzione dei volti, che con il progredire della malattia tende a perdere i dettagli, fino a lasciar intravvedere solo gli occhi. Al di là degli aspetti scientifici di questa produzione, è utile ricordare che queste manifestazioni di outsider art suscitano generale attenzione e quindi rappresentano un importante contatto con il mondo esterno all’ambiente del Caffè. Rispetto ai caregiver, i colloqui con lo psicologo rappresentano l’attività più diffusa, sia attraverso un rapporto personale sia a piccoli gruppi. La condivisione di problematiche vissute è di per se un aspetto molto gradito; lo scambio di testimonianze ha un elevato valore aggiunto. Ovviamente si tratta di interventi delicati che richiedono preparazione, sensibilità ed esperienza da parte del conduttore dei gruppi. In alcuni casi la presenza del medico consiste in un colloquio in risposta a precise domande da parte degli ammalati e delle loro famiglie. Il complesso degli interventi di sostegno sia diretti sia all’interno dei gruppi non deve richiedere un eccesso di investimento di risorse psicofisiche, per evitare che paradossalmente il caregiver sia gravato da un carico difficilmente sopportabile. Le informazioni sulla salute della persona affetta da demenza e sulle cose da fare vanno comunicate in modo sereno, non impositivo; si deve trasmettere la sensazione che non tutti gli spazi vitali sono occupati dalla malattia, ma che anche nelle situazioni più complesse restano ambiti per interventi preventivi, mirati a ridurre l’eccesso di disabilità. In generale il sostegno psicologico e le informazioni pratiche hanno un obiettivo comune, cioè diminuire le ansie conseguenti ad interrogativi senza risposta, ad un futuro ignoto sia rispetto all’evoluzione sintomatologica della malattia dal punto di vista cognitivo, comportamentale, funzionale, clinico, sia rispetto al ruolo dei caregiver e alle capacità di rispondere in modo adeguato alle esigenze dell’assistenza. Non interessano informazioni generali, che oggi molti sono in grado di reperire su internet, ma risposte specifiche che generano fiducia, attraverso un legame diretto, sicuro, confortante. Nei tradizionali incontri di informazione - che pure continuano ad avere significato - non si creano infatti intensi rapporti di fiducia, come invece avviene nel Caffè. Nel tempo delle solitudini che non si incontrano, un luogo di incontro organizzato, periodico, sicuro rappresenta un’oasi nella giornata durissima dei caregiver; la condivisione tra simili toglie imbarazzo sociale o vergogna nell’affrontare pagine 74_75 qualsiasi tematica, anche la più privata e delicata. Peraltro la presenza del malato nel Caffè allontana l’ansia di saperlo affidato ad altri. Nel complesso è possibile contribuire alla serenità di chi dona assistenza evitando che si senta anche lui un ammalato, ma al contrario accompagnato nel trovare una routine quotidiana di cura e affetto. A questo proposito riportiamo quanto scritto da un operatore, che così si è espresso per far comprendere il senso del suo lavoro: “vedere quanto sia naturale per noi operatori condividere momenti lieti e sereni con il loro congiunto malato, serve soprattutto a far capire ai caregiver quanto sia ancora possibile ricevere da persone affette da demenza. Insegniamo a guardare diversamente agli individui con i quali ci relazioniamo. Insegniamo ad evitare di volerli ad ogni costo riorientare, riequilibrare, risanare. Ecco che lo spazio relazionale del Caffè può diventare spazio ludico, dove con fantasia creare situazioni di divertimento e di svago. E quando magicamente il sano si confonde con il malato abbiamo raggiunto il nostro obiettivo di qualità del tempo libero e della relazione interpersonale”. È importante che gli organizzatori del Caffè tengano un diario, allo scopo sia di documentare le attività svolte sia di analizzare le modificazioni delle stesse nel tempo e, seppure in modo non strutturato, di rilevare l’utilità degli incontri sui singoli ammalati e sulle loro famiglie. Il diario associato a riunioni almeno mensili dell’équipe costituisce il fondamento del lavoro. Il monitoraggio continuo del livello di presenze e di partecipazione attiva permette di correggere in tempo reale eventuali situazioni di criticità non volute, in particolare se coinvolgono le persone maggiormente a rischio. Una documentazione “narrativa” diviene utile anche per la formazione di nuovi volontari o operatori che entrano nel servizio. Questo aspetto è di particolare rilievo perché consente un turnover degli operatori e la possibilità di fondare nuove attività partendo da una base consolidata di conoscenze. Inoltre la presenza di persone in formazione (come avviene in alcuni Caffè) arricchisce il gruppo degli operatori, portando serenità e nuove esperienze. In alcuni casi i Caffè hanno avviato corsi di formazione per addetti all’assistenza come, ad esempio, le badanti; pur non essendo un’attività fondamentale, testimonia il legame che si è creato con le situazioni difficili vissute dalle famiglie dei pazienti e la stima che il Caffè ha acquisito. Ciò vale anche per ogni altra attività progettuale rivolta al territorio; pur essendo nel complesso un segnale positivo, è necessario fare in modo che non snaturi l’attività principale, cioè quella dell’accoglienza e della vita nel Caffè. Nel complesso, però, la collaborazione tra i Caffè ed il territorio deve essere migliorata, per abbattere pregiudizi e luoghi comuni. La popolazione troppo frequentemente si sente estranea a quanto avviene nei Caffè: questa distanza psicologica e la mancanza di adeguate informazioni provoca ritardi nel ricorso al servizio da parte delle famiglie, che attendono fino a quando sono al limite delle proprie forze. CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale Si sottolinea come in molte situazioni non vi siano rapporti strutturati tra il Caffè ed i medici di medicina generale; ciò priva il servizio di un importante punto di appoggio, ma anche il medico della possibilità di discutere con gli operatori del Caffè interventi utili per il benessere del paziente ed anche di capire quali sono le condizioni che maggiormente provocano sofferenza. Peraltro il collegamento sarebbe utile per appoggiare i frequentatori del Caffè ad una competenza clinica quando si identificasse una situazione che necessiti di una cura specifica; il Caffè non deve nemmeno lontanamente assomigliare ad una struttura sanitaria, ma se la sensibilità degli operatori rileva un bisogno clinico è necessario che sia identificabile un percorso di cure, in modo da garantire un adeguato follow up. Rispetto ai rapporti con gli ambienti esterni si sottolinea che solo un Caffè ha rapporti con una realtà formativa, nello specifico l’Università di Bologna. Al contrario, sarebbe estremamente vantaggioso un contatto diffuso con agenzie formative e di ricerca, al fine di migliorare la preparazione degli operatori (vecchi e nuovi, volontari e professionisti), di formare nuove leve, ed anche di predisporre originali modalità di lavoro con un rapporto di reciproco scambio di informazioni e la loro conseguente elaborazione. I dipartimenti universitari coinvolgibili in queste attività sono molti, afferenti all’area geriatrica, psicologica, riabilitativa, del nursing, dell’assistenza sociale, della sociologia, e altri ancora. Una collaborazione sul piano metodologico e dell’interpretazione dei risultati sarebbe di grande utilità per i Caffè, e darebbe anche all’università un ruolo nell’analisi dei processi di trasformazione dell’assistenza sotto la pressione opposta dell’aumento del bisogno e della riduzione delle disponibilità. Infine tra le attività è da ricordare la rilevazione della valutazione del servizio da parte dell’utente. Nelle realtà studiate si è ritenuto che l’intenso rapporto tra gli organizzatori e i frequentatori permetta di fatto un continuo reciproco scambio di informazioni e di valutazione, che banalizzerebbe una rilevazione formale. In questa prospettiva la problematica resta aperta: è invece sempre necessario avere la coscienza che i rapporti possono modificarsi tra operatori e fruitori e che nulla può essere considerato stabile nelle dinamiche interpersonali e di gruppo; talvolta l’abitudine impedisce di vedere le crisi e quindi di intervenire adeguatamente. 4.f I costi I costi delle attività dei Caffè sono mediamente ridotti. Si aggirano dai 5 ai 10.000 € per anno per un Caffè di 20 ospiti, anche se sono molto difformi. La loro segmentazione indica che nella maggior parte dei casi si tratta di costi incomprimibili, come, ad esempio, le assicurazioni; però in generale si può affermare che l’appoggiarsi a servizi o strutture più pesanti sul piano economico permette rilevanti economie di scala. pagine 76_77 Particolare attenzione deve essere data al mantenimento dei costi sotto una certa soglia; da questo punto di vista è da evitare ogni allargamento veloce delle attività, ad esempio sotto la pressione dell’aumento dei volontari o di una certa temporanea disponibilità finanziaria. Solo un’oculata programmazione può permettere - ove ritenuto opportuno - un lento allargamento del lavoro. La frugalità deve caratterizzare le attività, evitando spese inutili, riutilizzando quando possibile ogni materiale, incoraggiando gli ospiti e le loro famiglie a partecipare alla vita del Caffè con contributi non economici (cibi, in particolare). Quest’ultimo è un altro aspetto delicato: i Caffè non chiedono mai denaro, perché si creerebbero difficoltà in alcune famiglie, già sottoposte oggi alle conseguenze negative della crisi, e disparità spiacevoli; si romperebbe l’atmosfera di scambio libero e gratuito che caratterizza la maggior parte dei Caffè. Le fonti di finanziamento possono essere le più varie; poiché le amministrazioni comunali hanno disponibilità in continua diminuzione, è opportuno ricorrere alla ricchezza e alla generosità della comunità civile, alle Fondazioni bancarie e private, a contributi strutturati (il 5 per mille) e alla raccolta di fondi mirata attivando specifiche attività di fund raising. L’attenzione sempre più ampia verso le demenze da parte del grande pubblico certamente favorirà anche le donazioni: è però importante a tal fine che il Caffè venga presentato come un luogo “positivo”, che induce benessere e non come un’attività secondaria, pensata come “un’ultima spiaggia”, perché i donatori sono portati a finanziare imprese che producono risultati. 4.g I risultati L’indagine condotta ha permesso di documentare i risultati ottenuti nelle diverse realtà. Come indicato nei precedenti capitoli, non sono state compiute solo valutazioni quantitative, perché le atmosfere, le capacità di adattamento, gli stimoli positivi, i cambiamenti di umore, la serenità riconquistata non possono essere misurati, ma solamente percepiti da chi è coinvolto nell’impresa. Da questo punto di vista sarebbe utile per certi periodi videoregistrare le attività, al fine di far cogliere e valutare da osservatori esterni le peculiarità del servizio. Ciò ha esposto queste valutazioni alla critica di autoreferenzialità; è però necessario ripetere che la ricchezza dei comportamenti umani non può essere completamente riassunta nelle scale di valutazione, anche se queste rappresentano elementi indispensabili per organizzare un servizio. Il rapporto tra una serie di atti e le relative conseguenze sui comportamenti spesso non è comprensibile e quindi non si possono trarre leggi generali, ma solo indicazioni empiriche, che però sono utili per proseguire il lavoro. Sapere, ad esempio, che il MMSE di un certo ospite è 24/30 e non 14/30 costituisce un punto di partenza importante per sviluppare una relazione significativa; allo stesso modo rilevare che in un certo momento la popolazione CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale che frequenta il Caffè ha in media un livello lieve o moderato di compromissione cognitiva costituisce un’informazione facilmente condivisibile da tutto il personale, sulla quale è possibile costruire un progetto di cura. Peraltro è significativo il fatto che nel periodo di osservazione gli ospiti con un livello più elevato di MMSE, e quindi con una compromissione cognitiva più lieve, presentino un miglioramento. Se il dato venisse ulteriormente confermato in altri studi indicherebbe che le persone meno compromesse si giovano di più della frequenza del Caffè; questa osservazione però non tiene in conto che, al contrario, sono i caregiver che devono sopportare maggiori pesi indotti dalle necessità assistenziali a beneficiare delle attività svolte. Infatti il Caregiver Burden Inventory ha uno score piuttosto basso, che migliora soprattutto nelle componenti riguardanti la percezione di difficoltà soggettiva di chi offre assistenza. Su questa stessa linea si collocano i risultati positivi ottenuti attraverso la valutazione della frequenza e gravità dei disturbi comportamentali che diminuiscono, riducendo il carico psicologico e pratico sulla vita di chi fornisce assistenza. La presenza di questi disturbi è la causa più frequente di aumento della disabilità e di istituzionalizzazione, nonché di gravi difficoltà nell’assistenza (maggiore frequenza di interventi medici, di prescrizioni farmacologiche, maggiori costi di gestione della malattia, più elevato stress del caregiver che induce di conseguenza un aumento dello stress dell’ammalato, peggioramento del livello di autonomia nelle attività della vita quotidiana, già compromessa dal deficit cognitivo). È certamente il dato più significativo sul piano pratico, perché il disturbo comportamentale è l’aspetto che maggiormente interferisce con la vita della famiglia, provocando crisi difficilmente gestibili ed aumentando il rischio di istituzionalizzazione dell’ammalato. Anche il miglioramento degli score della qualità della vita si colloca nella prospettiva complessiva, indicata dallo studio, di un effetto non banale indotto dalla permanenza nell’Alzheimer Caffè rispetto alle difficoltà indotte dai compiti di cura affidati ai familiari o ad altri caregiver. È interessante notare che i punteggi sono lievemente più elevati nel sesso maschile rispetto a quello femminile, quasi vi fosse una maggiore autonomia psicologica dell’uomo rispetto all’ambiente di vita. Nel complesso il livello basso è in linea con gli elevati disturbi comportamentali, che identificano una popolazione con un elevato livello di sofferenza soggettiva. Ovviamente gli effetti positivi indotti dalla frequentazione del Caffè talvolta non sono adeguati rispetto alla gravità, condizione di stress di chi fornisce assistenza; in questi casi gli operatori possono facilitare l’appoggio ad altri servizi, quali i ricoveri di sollievo o l’accesso ad un centro diurno per demenze. Nell’insieme però si osserva un netto aumento da parte dei familiari nell’acquisire maggiori capacità di dare aiuto per un lungo periodo, senza che il sopraggiungere di una crisi impedisca il mantenimento nel tempo di un servizio di alta qualità. L’aumento dell’empowerment da parte di chi assiste non è sempre pagine 78_79 cosciente; si assiste però ad un progressivo, anche se lento, miglioramento della loro condizione, specchio di un maggior controllo da parte del caregiver sulla propria vita. Il servizio non è solo fonte di alienazione, ma di scelte che portano a meglio gestire il proprio tempo ed a meglio controllare procedure e risultati. La brevità del periodo di osservazione ha impedito di rilevare una eventuale modificazione del tasso di istituzionalizzazione delle persone che frequentano il Caffè; si è però osservata una stabilità della frequentazione, che indica un forte legame con il servizio, certamente dipendente dai piccoli e grandi risultati raggiunti. L’insieme delle indicazioni soprariportate permette di concludere che l’esperienza degli Alzheimer Caffè, nelle sue diverse realizzazioni, è estremamente positiva. Si costruisce infatti un approccio nuovo alla conoscenza del malato e dei suoi bisogni, facendo emergere una visione “sociale” delle demenze, che non nega l’ambito biologico del disturbo, ma lo colloca in una dimensione quotidiana, nella quale i sintomi si sviluppano ed esercitano un’influenza sulle dinamiche vitali. Non è possibile dimostrare con questi dati una relazione diretta tra la frequentazione di un Caffè e i miglioramenti osservarti; è però indubbio che un intervento a supporto dei familiari, che influenza positivamente non solo la loro qualità di vita, ma allo stesso tempo i sintomi comportamentali dell’ammalato ed il mantenimento delle sue residue funzioni cognitive, assume una rilevante importanza nel panorama degli strumenti per la care delle persone affette da malattia di Alzheimer e da altre demenze. I Caffè non sono né un luogo di ritrovo come un Centro Sociale, né un ufficio dei servizi sociali del comune o del distretto, né luoghi di informazione sulle demenze, né punti per le prenotazioni di esami e visite; al contrario, se ben organizzati, possono riassumere i punti di forza di ciascuno di questi per fornire al cittadino un servizio utile e strutturato. In questa prospettiva, peraltro, l’evoluzione dei Caffè è aperta all’iniziativa dei gestori ed alle possibilità/capacità di stendere reti efficaci. I vantaggi dei Caffè sono evidenti sia per i pazienti sia per chi li assiste; si conferma quindi l’ipotesi iniziale di questo capitolo, cioè che il servizio, a basso costo, ma a forte intensità umana, è utile e quindi che la sua diffusione spontanea avvenuta in questi anni va sostenuta ed appoggiata (come è negli scopi di queste pagine). Lo studio ha riportato luci ed ombre, ma gli aspetti che meritano attenzione superano largamente quelli criticabili. Ciò permette una difesa efficace da chi ritiene inadeguati alcuni Caffè a causa della mancanza di attività strutturate e di collegamenti con i risultati attesi. Benché i Caffè analizzati nello studio non appartengano a questa tipologia, è utile ricordare che un certo livello di autonomia e di creatività è necessario per arrivare a risultati significativi. In particolare è importante che ogni Caffè sappia trovare un equilibrio tra aspetti strutturati CAPITOLO 4 Un modello di servizio a basso costo e ad elevata utilità sociale e spontanei, perché solo così si ottiene un’elevata qualità delle prestazioni assistenziali. L’esperienza delle forti differenze tra i frequentatori del Caffè impedisce l’adozione di comportamenti prefissati e richiede un elevato livello di informalità, che induce un progressivo miglioramento della comunicazione e quindi delle ricadute che ne derivano sul piano della care. È auspicabile che “l’impresa Alzheimer Caffè” possa svilupparsi sempre più e che questo testo contribuisca a facilitare il compito di chi volesse intraprendere una strada non facile, ma di rilevante significato umano e assistenziale. La diffusione dovrebbe peraltro identificare luoghi di contatto e collegamento tra le varie realtà, per indurre scambi di informazioni pratiche e creare sinergie operative. In questa prospettiva hanno un ruolo importante le Fondazioni, in particolare quelle che si sono attribuite il mandato di affiancare il non profit per facilitare lo scambio di informazioni e di modellistica, al fine di migliorare l’operatività ed i risultati che possono essere raggiunti. La recente attenzione per le microrealizzazioni rappresenta un cambiamento di prospettiva estremamente significativo, perché permette di intervenire nel luogo dove è minore la distanza tra il bisogno e l’atto di cura, evitando sprechi, burocrazie, talvolta anche la costruzione di imprese nel deserto. Si è molto discusso in questi anni sul significato e le opportunità offerte dai trattamenti farmacologici e non delle persone ammalate di demenza; non vogliamo entrare in una diatriba che esula dagli scopi di questo studio, anche perché al centro collochiamo il termine “cura”, che ha un significato più ampio delle singole tecniche utilizzate. Se costruire e gestire un Alzheimer Caffè è un atto di cura per qualcuno, come è stato dimostrato in questo volume, è compito nostro come attori professionali e, in generale, come membri della collettività sostenerli e mantenerli vivi. L’Alzheimer Caffè non è uno spazio avulso dalla realtà quotidiana, in cui si dà per qualche tempo l’illusione dell’assenza di malattia, ma un passaggio importante per inserire un momento di serenità nella vita difficile dell’ammalato e di chi si prende carico di lui. È una serenità che discende dalla chiarezza dei ruoli e dei compiti, dalla capacità di comunicare attraverso linguaggi diversi ma sempre adeguati, dalla possibilità di prevenire e tamponare situazioni di disagio, dall’appartenere ad una cultura condivisa per la quale è sempre possibile migliorare la vita di chi soffre, anche nelle condizioni più difficili. È una serenità che tende a diffondersi al di fuori del Caffè, perché costruita su solidi rapporti tra le persone; rappresenta un segnale positivo per chi deve affrontare un tempo di malattia che altrimenti potrebbe sembrare senza speranza e senza fine. pagine 80_81 INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? 83 Conclusioni Per una sussidarietà frugale pagine 83_83 alzheimer caffÈ: la ricchezza di una esperienza CONCLUSIONI Per una sussidiarietà frugale Le conclusioni di questo volume sono state tratte nel capitolo precedente, dove è stato descritto il possibile ruolo degli Alzheimer Caffè nell’assistenza alle persone affette da demenza ed alle loro famiglie. Sono state indicate anche alcune modalità per ottimizzare il funzionamento di un servizio originale e innovativo, che può giovarsi del supporto di idee e di esperienze come quelle riportate in queste pagine. Di seguito ritorniamo invece su alcune caratteristiche di fondo alle quali dovrebbe ispirarsi chi progetta e realizza servizi per le persone anziane fragili ed in particolare se affette da demenza. L’impresa è sempre difficile, qualsiasi sia il livello; per questo l’attenersi ad indicazioni di metodo permette di percorrere le strade dell’impegno guidati da utili tracce. La cura delle persone fragili si fonda culturalmente sul riconoscimento di alcune caratteristiche strutturali della vita della persona che invecchia, già ampiamente descritte in queste pagine, ma che è opportuno riassumere ulteriormente: a. la multidimensionalità dei problemi umani e clinici e quindi l’esigenza di una valutazione altrettanto multidimensionale, che tenga conto di piani diversi clinici e funzionali; b. la fragilità come condizione peculiare della sottopopolazione di anziani che richiede maggiore protezione in senso globale ed interventi sanitari mirati ed approfonditi; c. la plasticità come caratteristica di fondo della vita (anche biologica) della persona che invecchia; quindi un’ampia serie di interventi collegati anche con lo stile di vita sono importanti per il controllo dello stato di salute e possono ottenere risultati significativi, seppure in condizioni apparentemente immodificabili come quelle della persona affetta da demenza. Nella prospettiva sopraindicata alcuni atteggiamenti da parte di chi presta cura e assistenza garantiscono la possibilità di meglio esplicare servizi utili per la persona che soffre per limitazioni della propria autonomia. Di seguito vengono presentate alcune indicazioni al confine tra aspetti teorici e pratici, per meglio affrontare i compiti che derivano dall’impegno di cura all’interno di un sistema organizzato. 1. Evitare atteggiamenti conservatori. La frase ormai storica di Robert Kane: “Dobbiamo adottare uno spirito collettivo di intolleranza creativa verso lo status quo dell’assistenza alle malattie croniche dell’anziano” deve essere assunta come regola generale. Dobbiamo mettere in atto un impegno forte di creatività, perché le esigenze cambiano in modo veloce e solo menti particolarmente plastiche sanno reggere la sfida. Contemporaneamente dobbiamo riconoscere la talvolta scarsa adeguatezza sul piano culturale e pratico dei nostri atti di cura, che vanno per molti aspetti rivisti. Qualche CONCLUSIONI Per una sussidiarietà frugale tempo fa è stato di moda affermare che il nostro tempo sarebbe stato caratterizzato dalla fine della storia. Teoria sconfitta dai macrofenomeni a livello planetario, ma anche dalle nostre realtà più modeste, come quelle caratterizzate dal bisogno di protezione delle persone fragili. “I poveri saranno sempre in mezzo a voi”: questa notissima affermazione evangelica descrive una storia sempre in movimento, che assume ogni giorno aspetti nuovi, in una dialettica senza fine tra impegno di cura e bisogno che cambia in conseguenza di culture, tecniche, generosità, egoismi. Innovazione vuol dire anche coraggio ed entusiasmo, caratteristiche non banali per chi voglia intraprendere atti di cura efficaci. L’ambiente degli Alzheimer Caffè in questi anni ha mostrato doti di coraggio e di entusiasmo, senza di queste forse non sarebbero mai partiti né sopravvissuti a lungo. Parte importante dell’evitare atteggiamenti conservatori è costituita anche dal cambiare lo stile di comunicazione attorno alle demenze. Termini come “perdita del sé”, “morti viventi”, “vittime della malattia”, “furto della memoria” dovrebbero essere abbandonati perché non aiutano a capire la sofferenza dei malati e, al contrario, creano intorno a loro un alone di pessimismo, una sorta di morte sociale che induce solo “carichi pesanti per i caregiver” e scoraggia un atteggiamento volto alla cura. In questa direzione si collocano opportunamente molti Caffè che utilizzano un linguaggio nuovo, meno tradizionale, più “libero”, che discende direttamente dalla loro motivazione di fondo, cioè garantire la vita e non attendere la morte. 2. Una moderna assistenza e cura dell’anziano con compromissione delle funzioni cognitive non è compatibile né con l’essere rinunciatari paurosi, quelli che vedono catastrofi senza rimedio nel nostro futuro, né ottimisti superficiali e teorici, che ritengono di avere la ricetta per qualsiasi problema. L’evoluzione demografica ed epidemiologica è stata così veloce da rendere difficile la maturazione di un pensiero adeguato ad affrontare le molte e diverse dinamiche umane, cliniche, psicologiche, sociali ed organizzative avvenute in pochissimi anni. Questa considerazione storica permette di mantenere una visione equilibrata e fattiva sia nell’impegno quotidiano sia nella progettazione di imprese importanti. Oggi siamo alla soglia di grandi cambiamenti (secondo alcuni la terza rivoluzione industriale) che attraverso la robotica ridurrà drasticamente la forza lavoro. Si libereranno quindi energie per professioni nuove, legate alla cura delle persone fragili, il cui finanziamento verrà dall’aumento della produttività nei vari settori dell’industria e dei servizi. Questa prospettiva presenta alcuni lati oscuri, in particolare nell’ottica della giustizia sociale, ma allo stesso tempo apre grandi spazi per imprese ancora ad alta intensità di lavoro umano, come quello che viene prestato nell’Alzheimer Caffè, che pagine 84_85 in quest’ottica potrebbe godere di adeguati finanziamenti. 3. Non ridurre i problemi clinico-assistenziali ai loro aspetti economici, sottoponendo a questi ogni comportamento e riducendo ogni valutazione al “costo di tutto” e al “valore di nulla”. Le dinamiche della vita, in particolari quelle connesse con la difesa delle persone fragili, fanno mettere al centro valori indipendenti dalle “evoluzioni della fortuna”; la dignità umana è un metro di valutazione superiore a qualsiasi altro. Ogni decisione, quindi, soprattutto nei momenti estremi, deve sottrarsi al dominio di considerazioni di convenienza economica, organizzativa o anche psicologica. Si deve inoltre evitare di creare le condizioni per le quali la persona ammalata cronica, e quindi oggettivamente forte consumatrice di risorse, si senta responsabile di un peso eccessivo sulla collettività, con negative ricadute sul piano del vissuto soggettivo. Questo disagio è particolarmente percepito dai familiari delle persone affette da demenza. L’Alzheimer Caffè è invece, per definizione, un ambiente dove non si prova disagio per la propria condizione né ci si sente di peso alla collettività; l’atmosfera volontaristica induce infatti serenità, tolleranza, ascolto, lievità. In un tempo di gravi difficoltà per le famiglie povere, che subiscono la drastica riduzione dei fondi pubblici dedicati alle politiche sociali, interventi a basso costo e di alto significato sia sul piano concreto che di supporto psicologico assumono progressivamente maggiore importanza. Questa considerazione legata allo specifico non toglie rilievo alla preoccupata valutazione dei piani per la lotta alla povertà, che in passato non stati al centro degli interventi pubblici e che negli ultimi anni hanno visto decurtazioni di notevolissima intensità. 4. L’assistenza all’anziano è fondata su interventi di alta e bassa tecnologia. Si deve possedere l’abilità di utilizzare le macchine, perché la tecnologia esercita una forte spinta al progresso di ogni settore della medicina (si veda il ruolo svolto dall’ICT). Però si deve provare orgoglio anche per gli aspetti meno misurabili degli atti di cura, cioè la capacità di trasformare in procedure terapeutiche quanto indicato dalla medicina basata sulle evidenze, ma anche da quella “narrativa”: ambedue concorrono ad un approccio adeguato alla multiformità del bisogno della persona anziana colpita da malattia cronica. Il progresso scientifico non deve essere vanificato o banalizzato da una attuazione in ambiti assistenziali inadeguati a cogliere la specificità della condizione clinica dell’anziano, a rilevarne i dati in maniera multidimensionale e ad organizzare risposte terapeuticoassistenziali in modo allo stesso tempo “dolce” e incisivo. La rete dei servizi per le demenze, come premessa ad un metodo di continuità assistenziale, non è un modello teorico, ma un insieme di momenti, caratterizzati CONCLUSIONI Per una sussidiarietà frugale dalla stessa cultura, in grado di accompagnare l’anziano nelle lunghe strade della malattia cronica, adattando a specifiche esigenze quanto di più moderno viene indicato dalla ricerca. 5. Impegnarsi a definire i risultati del lavoro di cura. La valutazione degli outcome è essenziale anche in un’ottica di definizione del rapporto tra costi e benefici. È necessario un preciso sforzo da parte di chi ha la responsabilità di definire i benefici ottenuti, altrimenti sarà difficile domandare alla generosità sociale di impegnarsi a favore dei più fragili. I risultati non sempre possono essere raggiunti in breve tempo e spesso si limitano al controllo di qualche sintomo o al rallentamento della storia naturale di malattia. In questa prospettiva si collocano gli small gains, i piccoli vantaggi che possono essere indotti nell’anziano fragile da cure adeguate. Si tratta di risultati che oggettivamente possono sembrare limitati, ma che invece hanno valore per il singolo fortemente compromesso e anche per la collettività, che così di fatto riconosce il proprio dovere di agire per il bene dell’individuo, senza incentrare l’intervento su obiettivi lontani, che il più delle volte sono teorici e irrealizzabili. È necessario dare valore a qualsiasi segmento della cura, cercando di definire, raggiungere e misurare outcome adeguati - con realismo - alla situazione clinica di ogni anziano ammalato. Altrettanto importante è evitare piccole perdite, cioè rallentare l’evoluzione del paziente quando viene esposto a difficoltà senza protezione. Le cure hanno quindi sempre questa duplice funzione, che si deve valutare per quanto possibile anche sul piano quantitativo. Il realismo e la sensibilità suggeriscono però che talvolta i contenuti umani della cura possono essere più importanti della stessa definizione “scientifica” con la quale si caratterizzano gli outcome. Nella prospettiva dell’etica della responsabilità la funzione della relazione di cura si esprime principalmente come tentativo di salvaguardare il più possibile l’identità di persona nella sua dimensione soggettiva ed ambientale. In tale prospettiva, se da un lato non è in discussione la funzione prioritaria dell’evidenza scientifica, sarebbe illusorio pensare che questa sia in grado di dare risposta a tutti i problemi che la pratica clinica pone. Infine si deve riconoscere che la cura del paziente si realizza non solo con interventi che si basano sullo stato attuale delle conoscenze, ma anche su ragionevoli ipotesi di lavoro che la scarsità delle conoscenze stesse impone, nell’interesse del malato, di sottoporre a verifica clinica. 6. Non togliere libertà all’anziano ammalato, che è già sottoposto dagli eventi ad una lenta privazione della capacità di disporre autonomamente della propria vita, qualsiasi sia il livello di funzione cognitiva. Il rischio di ridurre l’anziano (e la sua immagine) ad una serie di parametri in declino pagine 86_87 è sempre dietro l’angolo; lo slogan “invecchiare non è una malattia”, al di là del realismo clinico, è di grande efficacia per non espropriare chi invecchia del proprio tempo di vita, riducendolo soltanto al tempo della malattia. Questo atteggiamento è particolarmente necessario di fronte alla persona affetta da demenza, la cui libertà è affidata alle scelte di chi di lui si cura (professionalmente o nel rapporto di caregiving). La città deve essere aperta all’anziano con problemi cognitivi, favorendo la sua piccola libertà possibile. I Caffè rappresentano isole, in un mare talvolta inospitale, sulla quale chi è ammalato e chi vive con lui può trovare un punto di appoggio che, sebbene temporaneo, può aiutarlo a “restare a galla”. E spetta alla collettività impedire che l’isola sia travolta dalla pressione dell’acqua. 7. È necessario adottare un modello “prudente” di medicina degli anziani cronici perché nessuna competenza o specializzazione dispone di tutte le risposte; è però certo che vi sarà sempre bisogno di chi sa interpretare e curare la sofferenza complessa del vecchio, adeguando la pratica alla specificità delle tante diverse situazioni di vita. Fa parte della prudenza in senso lato anche saper accettare i limiti dell’organizzazione dei servizi come oggi si estrinseca in molte parti del nostro Paese. Le affermazioni retoriche e onnipotenti sulla rete, intesa come costruzione perfetta che tutto regola e tutto controlla, non hanno trovato concreta realizzazione in nessuna area del mondo. La cultura della cura dei cronici dichiara invece apertamente l’appartenenza ad una medicina non commerciale, che ha alla base profondi valori di rispetto della dignità e della libertà e, quindi, una logica di prudenza e di mitezza. In questa prospettiva la valutazione della qualità espressa dall’utente rappresenta un’indicazione di come e se il paziente percepisce la scelta strategica - operativa e relazionale - di chi presta il servizio. Sebbene vi siano rilevanti problemi metodologici ed interpretativi, soprattutto nel caso di persone con limitazioni cognitive, resta fondamentale disporre della valutazione dei fruitori rispetto ad un servizio ricevuto. Nelle patologie croniche è spesso difficile, perché possono coesistere deficit cognitivi, depressione del tono dell’umore, necessità di coinvolgere il caregiver, con i limiti conseguenti in tema di affidabilità: un sistema moderno di assistenza deve tuttavia tenere in conto il giudizio di chi vive un lungo tempo della propria vita all’interno di un servizio organizzato e di chi lo assiste con continuità. Nel caso delle demenze la modalità di raccolta del giudizio di chi riceve un servizio varia nel tempo, perché si modifica la capacità di esprimere soddisfazione rispetto alla qualità dell’assistenza ricevuta. Resta però sempre sullo sfondo l’esigenza di creare condizioni per le quali una persona ritenga di poter controllare gli eventi che riguarderanno la propria vita in futuro. È un sentire profon- CONCLUSIONI Per una sussidiarietà frugale do che gli operatori della cura non possono trascurare nelle sue diverse espressioni, che riguardano la salute e le condizioni di benessere. Un rapporto intenso tra chi dona e chi riceve, come avviene nei Caffè, permette di costruire assieme alcuni percorsi vitali e quindi di dare a chi è assistito la percezione di essere partecipe attivo della costruzione del suo futuro. 8. Nelle aree apparentemente marginali, come quelle dell’assistenza alle persone affette da demenza, è necessario adottare una forte propensione alla formazione, all’“esempio” ed alla sperimentazione; infatti è importante la presenza di luoghi dove la cura delle demenze possa essere sperimentata concretamente, ogni giorno adattando le nuove affermazioni della biologia, della clinica, della tecnologia e della scienza dell’organizzazione alla prassi. È importante disporre di ambiti dove vengono ad incontrarsi la pratica clinica, che è sempre frutto di mediazioni (e talvolta anche di rilevanti compromessi), con le affermazioni della medicina basata sull’evidenza (ad esempio per l’uso di farmaci innovativi) e con le proposte di nuove tecnologie in ambito diagnostico, terapeutico o nell’ambito dell’informazione e della comunicazione. Ovviamente su questi temi deve avvenire la formazione degli operatori ad ogni livello. Non si deve inoltre dimenticare la rapidità dell’evoluzione del costume e di altri aspetti sociologicamente rilevanti (struttura della famiglia, modalità di rapporto con i servizi, disponibilità alla cura informale, ecc.); questi hanno bisogno di ambiti di analisi e di valutazione attenta, al fine di proporre nuovi contenuti formali e sperimentazioni di modelli assistenziali adatti al mutare delle condizioni di vita della persona che invecchia. Si devono evitare le sovrastrutture burocratiche, in passato talvolta privilegiate da una certa medicina in grado solamente di imporre le proprie lentezze e rigidità a bisogni in veloce cambiamento. Si devono anche evitare analisi moralistiche rispetto all’evoluzione della condizione sociale dell’anziano: dobbiamo porci con realismo all’interno del tempo presente, indicando le caratteristiche di interventi che rispettano la persona, tanto più quanto questa non trova nell’ambito dei supporti informali un’adeguata attenzione ai propri bisogni. Questi punti costituiscono un fondamento forte per costruire qualsiasi progetto nelle aree più fragili della vita. In aggiunta a queste considerazioni di carattere generale, l’analisi dell’esperienza degli Alzheimer Caffè induce ad una valutazione complessiva che può schematicamente essere definita di “sussidiarietà frugale”. Infatti il Caffè si colloca in uno spazio che rispetta ogni altro all’interno della rete dei servizi; non svolge attività sanitaria diretta, ma solo interventi di supporto dove altri servizi non arrivano. Non vuole (né può) sostituirsi alla famiglia ed alla sua organizzazione, anche se pagine 88_89 rappresenta un utile aiuto alla vita delle famiglie. Il lavoro degli Alzheimer Caffè rispetta quindi le gerarchie che caratterizzano gli interventi a favore delle persone colpite da demenza, valorizzando così il proprio ruolo, senza interferire con quello di altri e quindi senza creare danni anche se involontari. Certamente chi progetta questi servizi non si pone problematiche teoriche rispetto alla sussidiarietà; però una collocazione che di fatto rispetta questo principio fondamentale dell’organizzazione sociale è indice di sensibilità e intelligenza, tanto più rilevanti quanto più sono naturali e non indotte da affermazioni teoriche. D’altra parte la frugalità è anch’essa una caratteristica fondante di queste imprese. Frugalità indotta dalla scelta di svolgere prevalentemente funzioni volontaristiche, di utilizzare spazi a basso costo o gratuiti, di sviluppare attività che utilizzano anche supporti esterni. La frugalità in questo campo permette - come ripetutamente affermato - un positivo rapporto costi-benefici, ma allo stesso tempo rappresenta un esempio significativo di come pochi soldi utilizzati con intelligenza e dedizione possano produrre grandi risultati. La frugalità diviene uno stile ed un insegnamento anche per gli altri attori della rete, abituati a non dare attenzione ad aspetti ritenuti irrilevanti nel tempo dell’opulenza, ma che ora nel tempo della crisi sono divenuti essenziali per permettere la sopravvivenza di particolari servizi. Il termine frugalità è stato da taluno accostato a quello di razionamento: vi è, al contrario, una differenza fondamentale, perché nel primo caso vi è una partecipazione spontanea e convinta alla comune scelta, nel secondo caso invece prevalgono le imposizioni dall’alto. Questa considerazione non deve essere interpretata come un invito ad accontentarsi, ma a riconoscere che spesso non sono necessarie strutture ed operatività fastose per ottenere buoni risultati e che in ogni modo oggi la sopravvivenza di alcuni servizi è legata alla capacità di farli costare poco. Ma allo stesso tempo senza vivere il risparmio come una sventura che induce al pessimismo, alla rinuncia, all’auto-svalutazione. Peraltro chi lavora nel campo delle demenze ha, non da ieri, esperienza di mezzi limitati e di traguardi ugualmente raggiunti. Questi ultimi talvolta sono indipendenti dalla quantità del servizio (non dalla qualità) e fonte di soddisfazione che permette di andare avanti. Il denaro disponibile non può essere definito una variabile indipendente, ma certamente qualsiasi atto di cura collettiva o interpersonale non può dipendere solo dai soldi! La crisi che oggi accompagna anche l’impegno di cura impone risposte diverse da quelle tradizionali. Sono sempre più necessarie imprese che producano valore non solo economico, ma umano, attraverso la capacità di sintesi tra tecnica e relazione, efficienza e valori, rispetto dell’individuo ed organizzazione. Ancora una volta è possibile affermare che gli Alzheimer Caffè rappresentano il piccolo esempio di una piccola rivoluzione, che si colloca al centro CONCLUSIONI Per una sussidiarietà frugale delle dinamiche di forte trasformazione dei sistemi organizzati, in particolare quelli rivolti a garantire benessere alle persone fragili. Sarà interessante seguirne l’evoluzione come esempio di un modo nuovo di offrire cure in tempi apparentemente poco sensibili all’apertura verso i deboli. Alla fine di queste pagine esprimiamo l’augurio che il lettore possa trarne indicazioni per affrontare più serenamente le problematiche poste dalle persone affette da demenza. Nello specifico chi è coinvolto nei vari interventi potrà trovare utili e riproducibili modelli di comportamento; il libretto in quest’ottica apporta un rilevante plus-valore. Nel complesso gli Alzheimer Caffè rappresentano un’ipotesi operativa per migliorare la qualità della vita delle persone ammalate, che può essere realizzata con risorse limitate. La speranza di chi ha svolto lo studio e di chi ha messo a disposizione i dati è che le indicazioni possano facilitare il compito di chi volesse far crescere nuove esperienze in questo filone o in altri affini. L’assistenza alle persone affette da demenza ne riceverebbe un grande impulso e le persone ammalate un significativo miglioramento della propria condizione. Ma, alla fine “la ragione può solo parlare, è l’amore che canta!”. Questa frase dello scrittore Joseph de Maistre viene spesso utilizzata con i giovani che si apprestano ad affrontare una professione di cura. Lavorare per gli anziani fragili non può prescindere da ragionamenti tecnico-scientifici, fondati sulle scoperte della ricerca, ma deve essere caratterizzato anche dall’impegno a comprendere la persona ammalata nelle sue diverse prospettive, complesse e difficili da identificare, una sorta di “canto” che va intuito, perché la ragione e la scienza devono essere accompagnate dall’amore che permette di capire l’altro per poterlo meglio curare. Se l’incontro tra queste due realtà non avviene, la cura non esprime le sue potenzialità e l’ammalato non potrà godere dei progressi oggi possibili. Gli Alzheimer Caffè non sarebbero oggi una realtà così viva senza l’amore di tanti volontari ed operatori che hanno tradotto nella concretezza del lavoro di cura le grandi scoperte della scienza. pagine 90_91 INTRODUZIONE LA DEMENZA: UN FUTURO DI SPERANZA? 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Attraverso il trasferimento di risorse economiche e di competenze gestionali tipiche dell’impresa, UniCredit Foundation sostiene progetti significativi per impatto sociale e innovazione, realizzati da organizzazioni non profit locali. www.unicreditfoundation.org