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Chiamati all`amore

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Chiamati all`amore
Chiamati all’amore
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CARL ANDERSON - JOSÉ GRANADOS
CHIAMATI
ALL’AMORE
La teologia del corpo
di Giovanni Paolo II
Prefazione di
MONS. LIVIO MELINA
PIEMME
Chiamati all’amore
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Titolo originale: Called to love. Approaching John Pauls II’s Theology of the Body
© 2009 by Carl Anderson and José Granados – this translation
published by arrangement with Doubleday Religion, an imprint of
The Crown Publishing Group, a division of Random House, Inc.
Traduzione a cura della “Fondazione Benedetto XVI pro matrimonio et familia”
I Edizione 2010
© 2010 - EDIZIONI PIEMME Spa
20145 Milano - Via Tiziano, 32
[email protected] - www.edizpiemme.it
Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)
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Prefazione
«Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo» (Sal 139).
La meraviglia del salmista di fronte al proprio corpo lo conduce alla lode del Creatore, che proprio nel corpo si rende
percepibile con la sua cura provvidente e la sua conoscenza intima. «Profetismo del corpo» ci diceva Giovanni Paolo II. Il corpo parla di Dio, ne svela la bontà e la sapienza:
esso parla anche di noi, dell’uomo e della donna e della loro
vocazione all’amore. È una parola profetica, che il corpo
pronuncia a nome di Dio, per rivelarci una strada da percorrere di pienezza umana: la strada dell’amore, in cui l’immagine originaria impressa nell’uomo e nella donna possa
realizzarsi e risplendere in una comunione feconda di persone, aperta al dono della vita.
Veniamo da secoli in cui, per l’influenza di una mentalità dualistica venata di manicheismo e di puritanesimo, il
corpo umano è stato disprezzato o almeno non sufficientemente valorizzato: guardato con sospetto o con inquietudine, quasi si trattasse di una minaccia alla natura spirituale
dell’uomo e al suo destino; trascurato o negato nella dimensione affettiva e sessuale, come se comportasse inevitabilmente tentazioni e pericoli. Oggi il pendolo sembra volgersi dalla parte opposta, con un culto del corpo, che lo esalta
finché è giovane, bello e fonte di piacere, ma che poi lo
rifiuta quando testimonia l’inevitabile decadenza, la malattia e la morte. Al di là dell’apparente contraddizione quePREFAZIONE
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ste due posizioni in realtà condividono un identico riduzionismo antropologico, che rende impossibile integrare il
corpo nella realtà della persona e quindi valorizzarlo adeguatamente nella sua soggettività. Il corpo finisce così per
perdere il suo mistero e venire banalizzato.
Tra i doni più grandi che Giovanni Paolo II ha lasciato in eredità alla Chiesa e all’umanità vi è certamente la sua
«teologia del corpo», che ha permesso di riscoprire la ricchezza piena dell’antropologia biblica e della grande tradizione cristiana, superando visioni anguste e marginali, e
di integrarla in una visione armoniosa con l’esperienza vissuta, colta con nuova vivacità fenomenologica.
Per una giusta valorizzazione del corpo è necessario coltivare uno sguardo contemplativo, che ne colga il mistero in
relazione alla persona e alla sua vocazione all’amore, che
trova luce definitiva e compimento in Cristo Risorto. Ecco
allora l’importanza di questo volume, che non si limita a
un superficiale entusiasmo per le novità della teologia del
corpo, ma ne illustra i fondamenti antropologici, con un linguaggio nello stesso tempo semplice, poetico e profondo.
Gli Autori dell’opera che presentiamo hanno saputo
rendere accessibile, senza annacquarlo, il contenuto della
Grande Catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano
nel piano divino, che si è sviluppata dal 1979 al 1984. Il
loro contributo si qualifica per alcune caratteristiche, che
lo rendono originale e prezioso:
1) la presentazione del contenuto essenziale della «teologia del corpo» viene svolta con l’aiuto dell’opera poetica
di Karol Wojtyla e spesso ricorrendo a testi della grande
tradizione letteraria, poetica e filosofica, così da rendere
suggestiva la lettura, coinvolgendo il lettore nel paragone con le proprie esperienze;
2) l’inserzione della «teologia del corpo» di Giovanni
Paolo II nel contesto della «teologia dell’amore» di papa
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Benedetto XVI, che permette di allargare l’orizzonte teologico dell’approccio antropologico, fondandolo in una
visione cristologica e trinitaria;
3) la sottolineatura della dimensione sociale: la teologia
del corpo ha infatti mostrato come la comunione delle
persone costituisca un autentico bene comune, che sta a
fondamento della società e rende possibile la civiltà dell’amore;
4) attraverso spunti illuminanti, è reso evidente il collegamento con la grande tradizione patristica e teologica
della Chiesa. La novità della «teologia del corpo» viene
dunque ri-dimensionata nell’orizzonte della storia, senza
stacchi e contrapposizioni. La vera novità del cristianesimo non è infatti la rottura con la tradizione, ma piuttosto
la rinnovata freschezza del principio, che nella sua verità
si dimostra sempre continuamente capace di destare meraviglia e di provocare la vita a una conversione che la
renda più bella.
Sono certo che la lettura di questo agile e prezioso
volume, frutto della riflessione di due prestigiosi professori del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su
Matrimonio e Famiglia, contribuirà a dimostrare la bellezza umana della proposta cristiana, che nella luce della fede
è in grado di far splendere di luce sempre nuova l’amore
tra l’uomo e la donna.
MONS. LIVIO MELINA
Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II
per Studi su Matrimonio e Famiglia
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Abbreviazioni
AR
BO
CCL
DCE
FND
MD
Amore e responsabilità (Karol Wojtyla)
La bottega dell’orefice (Karol Wojtyla)
Corpus Christianorum – Series Latina
Lettera enciclica Deus caritas est (Benedetto XVI)
Fratello del nostro Dio (Karol Wojtyla)
Lettera apostolica Mulieris dignitatem (Giovanni Paolo II)
PG
Patrologia Graeca
RP
Raggi di Paternità (Karol Wojtyla)
TR
Trittico Romano. Meditazioni (Giovanni Paolo II)
UDC Uomo e donna lo creò: catechesi sull’amore umano (Giovanni Paolo II)
ABBREVIAZIONI
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Introduzione
L’UOMO, CAMMINO DELLA CHIESA;
L’AMORE, CAMMINO DELL’UOMO
«Santità, non scrive più poesie?» Questa è la domanda
che, si dice, qualcuno rivolse a Giovanni Paolo II mentre
si avvicinava agli ottant’anni. Non sappiamo cosa abbia
risposto il Santo Padre, ma è evidente che la sua vena poetica non si era esaurita. Prova ne è che, poco tempo dopo,
avrebbe scritto una delle sue ultime opere, proprio una
raccolta di poemi: il Trittico Romano. In queste pagine,
dall’alto della sua veneranda età, il Pontefice volge lo
sguardo verso il passato e verso il futuro.
Le prime righe evocano la visione della natura. Il
poeta contempla il creato in movimento; ogni cosa cerca
incessantemente la sua collocazione, come «l’argentata
cascata del torrente, che dal monte cade ritmato, trasportato dalla propria corrente». Il Papa si sente dunque
compreso in questo ritmo, trascinato, anch’egli, dal flusso del tempo, come il ruscello che scorre lungo il pendio
del monte.
In principio, lo stupore
Esiste, però, una fondamentale differenza tra lo scorrere della corrente e il sentiero che l’essere umano percorre
durante la propria vita.
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Che hai detto, torrente di monte?
In che luogo t’incontri con me?
Con me che sono altresì perituro
come te, siffatto...
Ma cosiffatto come te? (TR, 13).
Il poeta si rende conto che il suo percorso non può
essere paragonato a quello del ruscello. In che cosa consiste la differenza? La cascata è trascinata dal proprio
peso, che la conduce al fiume, per poi, dopo essersi allargata nel vasto delta, finire inghiottita dall’oceano. Per l’uomo, questo lasciarsi andare seguendo un percorso già tracciato non è sufficiente. Egli ha bisogno di sapere quale sia
il senso, la meta finale verso cui tutto procede e deve comprendere come orientare i suoi passi verso tale meta.
Ciò significa che la domanda dell’uomo non si riferisce
soltanto allo spettacolo della natura. Il quesito che rivolgiamo al mondo è, nel contempo, una questione che scandaglia la profondità del nostro cuore e diventa così una
domanda su noi stessi1. Mondo, «in che luogo t’incontri
con me?» dice Karol Wojtyla. Qual è il senso del mio cammino di vita? Lo stesso sant’Agostino esprime con veemenza questo concetto, quando esclama: «Io stesso ero
divenuto per me un grande enigma»2.
In questi versi, Giovanni Paolo II scopre la nostra perenne inquietudine. È stato soprattutto l’uomo moderno
a porre la ricerca della propria identità al centro delle sue
preoccupazioni. Nell’oceano anonimo della grande città,
sentiamo che il nostro io si dissolve e ci troviamo senza
una bussola o una cartina per orientarci. L’unico luogo
che apparentemente ci rimane è la nostra stessa esperien1 GIOVANNI PAOLO II sviluppa queste idee nelle prime pagine di Persona e atto,
Bompiani, Milano 2001. L’esperienza umana del mondo è sempre legata all’esperienza della persona stessa.
2 SANT’AGOSTINO, Confessioni IV, 4, 9.
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za della vita, dove ognuno cerca di trovare uno spiraglio
di luce per rischiarare il proprio cammino. Il Papa ha cercato di seguire questo stesso cammino: quello dell’esperienza umana. Giovanni Paolo II era convinto che questo
fosse l’unico modo per trovare l’uomo e accompagnarlo
dall’interno del suo stesso dramma. Infatti, nella sua prima enciclica, egli scrisse: «L’uomo è la prima e fondamentale via della Chiesa» (Redemptor hominis, 14).
Come risolvere questo fondamentale quesito che è l’uomo per se stesso? Molte sono le difficoltà che vengono
immediatamente alla luce. In primo luogo, possiamo chiederci se questa domanda sia l’inizio di un cammino dai
vasti orizzonti, oppure se, al contrario, termini con una
strada senza uscita. Si tratta forse di un enigma impossibile da risolvere? Karol Wojtyla si è posto tale quesito
attraverso le opere teatrali che scrisse in Polonia, quando
era un giovane sacerdote. Ad esempio, La bottega dell’orefice, pubblicato nel 1960, esamina il significato del matrimonio, seguendo il percorso di varie coppie nei momenti decisivi della loro relazione. La prima parte ci racconta
il fidanzamento tra Teresa e Andrea. Quando Andrea si
dichiara, Teresa ricorda un momento del passato in cui i
due attraversavano una crisi: durante una passeggiata in
montagna con alcuni amici, pur essendo circondati dall’armonia e dalla bellezza del creato, non erano in grado
di raggiungere lo stesso equilibrio dentro di loro. Confrontando l’ordine del mondo che la circonda, con l’insicurezza che la opprime dal di dentro, Teresa esclama: «Solo
l’uomo pareva smarrito, sconvolto» (BO, 13). In un’altra
opera, Raggi di Paternità, il personaggio di Adamo, che
rappresenta ogni uomo, confessa di provare una sensazione simile a quella di Teresa. È come se si sentisse esiliato
in un luogo estraneo: «Da tanti anni ormai vivo come un
uomo esiliato dal più profondo della personalità e nello
stesso tempo condannato a indagarla a fondo» (RP, 133).
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Tutti abbiamo avuto momenti come questi, in cui ci
sembra impossibile trovare una risposta alla grande domanda che sentiamo dentro. Ci attanaglia una pericolosa
tentazione: quella di ridurre la domanda, di restringerne
l’orizzonte. Non si potrebbe ricorrere a una metodologia
chiara, che ci consenta di sciogliere il dubbio e di farci
scoprire, una volta per tutte, chi siamo? Disponiamo delle scienze sperimentali, che pretendono di fornire risposte esaustive, in grado di chiarire i fenomeni fino in fondo, senza ambiguità. Ci dicono che la nostra vita si spiega
grazie alle leggi della fisica o della chimica, che il nostro
cammino si compie al ritmo dell’evoluzione. Potremmo
utilizzare questi dati per scoprire, una volta per tutte,
quanto vale la vita umana? Giovanni Paolo II si oppone
con veemenza a tale punto di vista che, in fondo, porta
all’abolizione dell’uomo, poiché lo riduce a un oggetto
utile per fare esperimenti e prendere misure. La risposta del Santo Padre a questo pericolo emerge nelle parole di Adamo Chmielowsky, il protagonista dell’opera
di Wojtyla Fratello del nostro Dio. C’è un momento nel
quale Adamo, artista di talento che ha lasciato le sue tele
per dedicarsi ai poveri, conversa con un estraneo che gli
offre una soluzione semplice ai problemi dell’umanità.
Basta saziare gli uomini con beni materiali. Adamo non
disprezza le necessità dell’uomo che ha bisogno di cibo,
nutrimento o di un tetto. Tuttavia, egli aggiunge che tutto
questo non basta per colmare il grande desiderio dell’uomo, le cui dimensioni sono infinite. Egli dice infatti:
«La miseria dell’uomo è più grande di tutti i beni disponibili»3.
«La miseria dell’uomo è più grande di tutti i beni disponibili.» Non appena abbiamo compreso questa veri3 K. WOJTYLA, «Fratello del nostro Dio», in Opere letterarie. Poesie e drammi,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1993, 416.
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tà e rifiutato la tentazione del materialismo, un altro scoglio emerge all’orizzonte: è la vastità stessa della nostra
domanda che ci può scoraggiare. Dopo tutto, la soluzione non è forse troppo elevata per noi? Non si colloca
forse a un livello troppo alto, per le nostre corte braccia?
Non corriamo forse il rischio di aprire discussioni interminabili su qualcosa che è impossibile discernere chiaramente?
Nonostante tutti i dubbi, Giovanni Paolo II non ebbe
paura di affrontare questo quesito. È vero che l’esperienza umana fa sorgere nell’uomo la domanda circa la sua
stessa identità ed è altresì vero che tale domanda va infinitamente al di là di noi. Come fare per non disperare
dinanzi a questo enigma? È necessario prestare grandissima attenzione a un fatto cruciale: la vera differenza tra
l’uomo e gli animali, questa soglia che il creato attraversa
con l’essere umano, non è solo, né prevalentemente, la capacità di porsi domande. Nell’uomo, c’è qualcosa che anticipa la domanda sulla sua vita, che precede la sua stessa
ricerca di identità e di destino. Solo questo ci permette di
essere certi del fatto che la domanda non è un enigma indecifrabile. Allora cos’è che la precede? Ascoltiamo Giovanni Paolo II.
Che hai detto, torrente di monte?
In che luogo t’incontri con me?
Con me che sono altresì perituro
come te, siffatto...
Ma cosiffatto come te?
(Di fermarmi qui, acconsenti –
consentimi di fermarmi al varco,
ecco uno di questi semplici portenti.)
Non si stupisce una fiumara scendente
e silenziosamente discendono i boschi
al ritmo del torrente
– però un umano si meraviglia.
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Il varco che un mondo trapassa attraverso l’uomo
è dello stupore la soglia,
(una volta, proprio questo portento fu nominato «Adamo»)
(TR, 13).
Ecco la risposta: la soglia che il creato attraversa nell’uomo non è, in primo luogo, la capacità di farsi domande, ma
piuttosto la possibilità di meravigliarsi. Il fatto che lo stupore abbia la prima parola, cambia radicalmente l’intero
senso della nostra ricerca. L’esempio che segue ci servirà
per mostrare la differenza. Supponiamo di doverci presentare a un esame per una materia che non abbiamo studiato.
Ci sediamo dinanzi a un foglio bianco con una penna in
mano. Un sudore freddo inizia a bagnarci la fronte mentre il professore passeggia per la classe, sorvegliandoci per
impedirci di copiare. Sicuramente, nessuno vorrebbe trovarsi in situazioni come queste e chiunque, se potesse, scapperebbe dall’aula. Immaginiamo anche, però, un tipo di
domanda molto diverso, ad esempio, arriviamo a casa e
troviamo un regalo inatteso da parte di un amico o di un
familiare. Non sappiamo il perché di questo presente e iniziamo a cercarne la ragione. È il nostro compleanno? Oggi è un giorno in cui festeggiamo un evento importante?
Abbiamo fatto qualcosa di speciale per il nostro amico? Ci
troviamo nuovamente dinanzi a una domanda, a cui è forse
difficile dare una risposta, tuttavia, in questo caso, il quesito è ben diverso. La ragione: c’è qualcosa che precede la
domanda, è l’amore del nostro amico che si manifesta nel
suo regalo. Senza sapere ancora il perché, conosciamo già il
quadro della risposta: un’amicizia, una comunione. La
questione ora non ci paralizza né ci infonde il desiderio
di fuggire, ma apre orizzonti di felicità, nuove possibilità
di crescere nell’amore. Il compito di comprendere il perché, è colmo di senso fin dalla sua stessa origine, e precede di gran lunga la nostra risposta.
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La domanda di cui abbiamo parlato fino ad ora – quella circa la mia stessa vita, la mia origine e il mio destino –
è molto simile a quella che rivolgiamo a noi stessi dinanzi al regalo di una persona che ci vuole bene. In ambedue
i casi, c’è qualcosa che la precede: si tratta dello stupore
dinanzi al dono ricevuto, grazie al quale abbiamo la certezza che l’esistenza ci sia stata donata. Un quesito che
sorgesse dal nulla minaccerebbe di paralizzare la corrente della vita, come accadde con Amleto nel suo «essere o
non essere». Tuttavia, quando la domanda è preceduta
dallo stupore, la cosa cambia. I quesiti emergono, non
perché ci manchi il senso, ma piuttosto perché di senso ce
n’è troppo. Di fatto, siamo certi che c’è una risposta, anche se sappiamo di non poterla raggiungere da soli e che
sarà sempre più grande di noi. In tal modo, invece di ostacolare il nostro percorso, lo stupore è una forza che ci sostiene e che ci stimola ad andare avanti, come quando
camminiamo trascinati dalla corrente del copioso fiume:
L’uomo, con loro, scorreva sull’onda dello stupore!
Meravigliandosi, sempre emergeva
dal maroso che lo trasportava,
come per dire a tutto il mondo:
«fermati, questo trapasso ha un senso,
ha un senso... ha un senso... ha un senso!» (TR, 14).
Ora dobbiamo introdurre un nuovo termine. Si tratta
della parola “mistero” che apparirà con frequenza nelle
nostre pagine. Con questo lemma non intendiamo riferirci a qualcosa di oscuro, a tenebre che ci impediscono di
vedere. Al contrario: dire che il mondo è misterioso, significa confessare che è pieno di un significato così grande
da non poter essere integralmente abbracciato dal nostro
sguardo. Il mistero si riferisce dunque alla grande ricchezza della realtà, sempre capace di risvegliare lo stupore: dinanzi a un viso umano individualmente amato, dinanzi a
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un bel tramonto, dinanzi all’amore che altri ci mostrano
con le loro opere... Pertanto, se il mistero include domande irrisolte, non è per mancanza di chiarezza, ma
piuttosto perché è troppo luminoso. Gli occhi non possono guardarlo in faccia, poiché l’eccessivo splendore li
acceca.
Abbiamo detto, con sant’Agostino, che l’uomo si trasforma per se stesso in una grande domanda. Ora siamo
in grado di cogliere meglio il senso di questa frase. L’uomo
è una grande domanda per se stesso proprio perché sperimenta la sua vita come un grande mistero, un mistero
che risveglia lo stupore. Sappiamo dunque che non dobbiamo farci prendere dallo sconforto quando cerchiamo
una risposta. Lo stupore apre dinanzi a noi un cammino:
si trasforma in un invito a viaggiare. Dobbiamo ora chiederci: dov’è che l’uomo sperimenta questo stupore? In
quale frangente gli si manifesta il mistero della vita?
L’amore, la culla in cui nasce lo stupore
Oggi, molte persone si rendono conto del pericolo che
corriamo quando perdiamo un orizzonte rilevante per la
nostra vita. Non vogliono che l’attività senza fine di un
mondo governato da tecnologie senza un volto diriga anche
la loro storia. Sono concordi nel dire che c’è una dimensione dell’esperienza umana che si apre al mistero, e che questa dimensione è rimasta oscurata. È dunque necessario
recuperarla. Tuttavia, esiste nella nostra vita una finestra
dalla quale possiamo affacciarci a questo mistero?
Di fatto, assistiamo a una rinascita dell’inquietudine
religiosa. Fioriscono le credenze esotiche, abbondano i
movimenti in cerca del divino. Ciononostante, in molti casi, questa esperienza del mistero viene considerata soltanto come un anelo mistico che ci separa dal nostro vivere
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quotidiano. È come un’improvvisa illuminazione grazie
alla quale apprendiamo a disdegnare questo mondo e a
cercare la nostra dimora in regioni isolate. Per coloro che
concepiscono Dio in questo modo, Egli non si trova tra le
cose terrene, nell’andirivieni quotidiano da casa al lavoro
e dal lavoro a casa; al contrario, bisogna lasciare dietro di
sé le attività terrene ed entrare nel profondo di se stessi
per cercare questo mistero, che ci sarà rivelato soltanto
lontano dalla confusione delle cose comuni.
Il problema di tale approccio è che trasforma l’esperienza del mistero in qualcosa di estraneo a ciò che ci succede
quotidianamente. Si finisce così per stabilire una separazione: da un lato collochiamo la fede religiosa e dall’altro la
vita corrente. La fede si trasforma dunque in qualcosa di
contrapposto a ciò che facciamo ogni giorno.
Dal canto suo, Giovanni Paolo II offre una risposta diversa, fedele alla tradizione cristiana. La Bibbia, infatti,
parlando della parola di Dio, dice: «Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e
farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare,
perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire» (Deuteronomio 30, 12-13). Questa è la grande sorpresa, la lieta
novella della rivelazione cristiana: la finestra sul mistero si
apre proprio nel tuo salotto, proprio nel tuo ufficio. Ma
com’è possibile? Già prima abbiamo fatto riferimento a
uno dei luoghi in cui lo stupore si manifesta: l’incontro
con la natura. Tuttavia, la meraviglia che sperimentiamo
nel vedere le montagne o l’immenso oceano, non è la
prima né la più importante. Esiste un’esperienza più basilare che ci rivela il mistero ancor più chiaramente. Torniamo per un momento a un brano della succitata La bottega dell’orefice. La giovane Teresa ricorda la bellezza di una
determinata notte passata in montagna. Confronta questa
bellezza con il suo rapporto con Andrea il quale, anche se
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lei ancora non lo sa con certezza, finirà per diventare il suo
sposo. Andrea è con lei, ma la sua amicizia sta attraversando un momento difficile. Il giovane non ha ancora maturato appieno il suo amore per Teresa e a tutti e due risulta difficile comunicare. Teresa ricorda i suoi pensieri di
quella notte:
[...] Ho presentito il peso della vita
Quella notte stavo tanto male
Eppure era davvero una notte splendida
Una notte colma di segreti, notte di montagna.
Tutto attorno a noi mi sembrava
così necessario
e così in assonanza con il mondo intero
e solo l’uomo pareva smarrito, sconvolto (BO, 13).
In quel momento, Teresa era incapace di provare stupore dinanzi alla natura che la circondava. La splendida
notte di montagna evocava in lei soltanto paura e ansia.
Era la confusione di colui che non ha ancora trovato completamente il proprio cammino. Tutto era in ordine: i pianeti, i boschi, gli animali e le piante... allora perché non
riusciva a trovare la pace? Quello che accade è che la
grande differenza dell’uomo con il resto del creato, la sua
capacità di porsi la domanda sul senso di tutto, è vincolata all’esperienza della comunicazione personale e dell’amore. Quando quest’ultimo manca, come avvenne a
Teresa quella notte, è impossibile che si illumini la questione circa il senso della vita. Più avanti, Andrea chiederà la mano di Teresa, e lei vivrà il contrasto tra questo
momento di felicità e l’incertezza dell’angoscia provata in
quella notte tra le montagne. Ora, finalmente, Teresa trova l’equilibrio che le mancava. Ci è riuscita attraverso il
dialogo con Andrea, nell’intesa con colui che diventerà
suo marito. È qui che riceve il marchio dell’amore, più potente di tutto il simbolismo della natura, nella notte stellata delle montagne polacche. È qui, nell’esperienza del-
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l’amore, che nasce lo stupore; è qui che si apre un nuovo
camino che li condurrà, con il tempo, alla pienezza.
Possiamo dunque affermare che, per Giovanni Paolo II,
il nostro incontro con il mistero avviene nell’esperienza
dell’amore. Se dovessimo descrivere con un’immagine lo
stupore provato dinanzi al mistero dell’esistenza, potremmo scegliere il viso di un bambino che scopre i regali che
i genitori gli hanno fatto per Natale. Oppure quello di una
madre che, per la prima volta, tiene in braccio il suo bimbo appena nato. In realtà, nella nostra vita, lo stupore
emerge solo perché esiste l’amore. Anche quello che proviamo dinanzi alla creazione, assume un significato soltanto perché all’origine della nostra vita c’è un’esperienza
d’amore.
Il mistero, dunque, non è distante da noi, ma lo incontriamo nel nostro esistere quotidiano; si palesa, in un modo o nell’altro, nella vita di ogni persona. Emerge dall’esperienza dell’amore, che ci accompagna con diverse
intensità, dalla nascita alla morte. Soltanto se lo sperimentiamo, possiamo trovare la risposta alla domanda circa il
nostro essere; solo così potremo raggiungere la felicità.
«L’uomo» scriveva Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica «rimane per se stesso un essere incomprensibile; la
sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore,
se non s’incontra con l’amore» (Redemptor hominis, 10).
Queste parole sono l’eco di altre che Giovanni Paolo II
rivolge ad Anna, un personaggio del libro La bottega dell’orefice. Anna è una donna di mezza età, che sta attraversando un periodo difficile nel matrimonio. Quello che le
viene detto, vale anche per noi:
Tu, per esempio. Non riesci a vivere senza amore. Ti ho vista
da lontano quando camminavi cercando di suscitare interesse.
Sentivo quasi la tua anima. Invocava con disperazione l’amore
che ti manca. Cercavi qualcuno che ti prendesse per mano, che
ti stringesse a sé... (BO, 53).
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Non è forse qualcosa di cui tutti siamo a conoscenza:
ossia che l’amore è la vera sostanza di cui si nutrono le
nostre vite? Esso si mostra all’uomo come una ricchezza
che lo invade mentre, nel contempo, gli rivela ciò che di
più intimo c’è in lui. «L’amore» dice Karol Wojtyla «prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. È
il peso di tutto il suo destino. Non può durare un solo momento» (BO, 48). L’amore, infatti, permea tutte le dimensioni della nostra vita. Lo scopro nel mio corpo mentre
muove i miei istinti e le mie emozioni. Nel contempo però,
possiede anche una dimensione spirituale, che mi fa percepire la dignità unica della persona amata e mi conduce
così, ben oltre me stesso, fino alla trascendenza, fino a
Dio. In questo modo, esso diventa il filo conduttore che
può unire tutti i compartimenti stagni nei quali l’uomo ha
diviso la propria vita. Pertanto, l’esperienza dell’amore è
il punto di partenza della visione dell’uomo sostenuta da
Giovanni Paolo II. Egli ci offre la chiave che consente di
rispondere, dal di dentro, alla domanda circa ciò che siamo per noi stessi. Ci viene dunque offerta la possibilità di
dialogare con l’uomo moderno nel suo stesso campo di
gioco: quello dell’esperienza umana, della ricerca della sua
identità. Nel contempo però, e questo è il tocco da maestro di Giovanni Paolo II, il fatto di partire dall’esperienza
dell’amore eviterà l’isolamento e il soggettivismo in cui,
spesse volte, cade l’uomo contemporaneo. Di conseguenza, se l’esperienza umana fondamentale è quella dell’amore, allora questa esperienza mi estrae continuamente da me
stesso. L’amore, nel quale trovo la mia identità, mi apre
all’incontro con l’altro e mi conduce verso Dio, verso il
trascendente. In altri termini, Giovanni Paolo II è disposto a percorrere il cammino dell’uomo moderno, il cammino dell’esperienza, a condizione che gli sia consentito
di iniziare partendo dal suo vero nucleo: lo stupore dinanzi alla rivelazione dell’amore.
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Per unire fede e vita
Lo abbiamo già detto: Giovanni Paolo II ha voluto
attirare l’attenzione sul pericolo di separare la fede dalla
vita. La mentalità contemporanea tende a vedere la fede
come un fattore esterno, aggregato all’esistenza quotidiana,
come se si trattasse di un elemento decorativo dal quale,
in ultima analisi, potremmo anche prescindere. L’esperienza religiosa diventa così un corpo estraneo che non si
incastra bene nel puzzle che ci affanniamo a ricomporre
con ogni giornata passata al lavoro o in famiglia. È come
se la vita reale avesse a che vedere con le cose terrene,
mentre la fede rimane assorta contemplando il cielo. Nell’osservare questa separazione, alcuni critici del cristianesimo (tra i quali spicca il filosofo tedesco Nietzsche) hanno
accusato la fede di distruggere la felicità umana, mandando in rovina la gioia di vivere e insegnando agli uomini a
cercare la loro pienezza in un qualche paradiso lontano.
Tuttavia, tale obiezione perde forza quando affrontiamo la domanda dell’uomo alla luce dell’amore. Infatti, se
quest’ultimo è il punto di partenza della nostra ricerca,
allora necessitiamo una rivelazione – la rivelazione dell’amore – per percorrere il nostro cammino. Difatti, non
possiamo generare l’amore da soli, ossia senza l’incontro
gratuito con la persona amata e senza la sua risposta libera. La nostra vita quotidiana, dal momento in cui ci
alziamo a quello in cui andiamo a dormire, è aperta a
questa rivelazione, tende verso essa, l’attende con ansia.
Potremmo addirittura affermare che la rivelazione dell’amore avviene proprio nel pieno della nostra vita abituale, proprio laddove incontriamo il mondo e gli altri
uomini. Non abbiamo bisogno di scappare dal regno terreno in cui si svolge la vita umana, per trovare la lucentezza dell’amore.
Orbene, se il destino della tua vita si gioca dinanzi alINTRODUZIONE. L’UOMO CAMMINO DELLA CHIESA...
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l’amore, allora l’arrivo di una rivelazione non ti distruggerà, bensì ti aprirà alla felicità. Il cristianesimo è proprio
una rivelazione, qualcosa che coglie l’uomo di sorpresa e
lo conduce ben oltre le sue limitate frontiere. La rivelazione cristiana, così come l’amore, avviene precisamente nello spazio e nel tempo del nostro mondo, poiché «il Verbo
si è fatto carne e abitò fra noi» (Giovanni 1, 14). Ciò significa che la fede cristiana, essendo rivelazione dell’amore,
non è estranea alla nostra vita: inizia proprio nell’incontro con esso.
Quanto detto sopra può essere riassunto confrontando
due testi molto importanti per Giovanni Paolo II. Nel
primo, il Santo Padre si riferisce all’esperienza umana, alla
nostra vita di tutti i giorni. Nella sua prima enciclica, infatti, egli ricorda che: «L’uomo non può vivere senza amore.
Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua
vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se
non s’incontra con l’amore» (RH, 10). Il secondo brano
si trova nei documenti del Concilio Vaticano II, ed è una
frase che Giovanni Paolo II citava con frequenza parlando della rivelazione di Cristo: «In realtà solamente nel
mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima
vocazione...» (GS, 22). L’uomo trova il proprio significato nell’amore, ci dice la prima frase. L’uomo trova il proprio significato in Cristo, afferma la seconda. Non si contraddicono: Cristo viene a spiegarci chi siamo, perché ci
rivela la pienezza dell’amore. Il cristianesimo, infatti, intende se stesso proprio come la massima rivelazione dell’amore. Usando le parole dell’apostolo Giovanni, potremmo dire «lo abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha
per noi e vi abbiamo creduto» (1 Giovanni 4, 16). Questa
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manifestazione dell’amore di cui parla Giovanni nella sua
lettera, avviene nella vita, nella morte e nella resurrezione
di Cristo. Per tale ragione, il papa Benedetto XVI, nella
sua prima enciclica scrive: «È lì [lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo] che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia
l’amore» (DCE, 12).
Così, lo stupore al quale ci siamo riferiti fino a ora, arriva al culmine con quello provato dinanzi al Vangelo di
Gesù:
In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell’uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione
della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, «nel mondo contemporaneo». Questo stupore, ed insieme persuasione e
certezza, [...] è strettamente collegato a Cristo (Redemptor hominis, 10).
Il papa Benedetto XVI ha ripetutamente sottolineato
un’importante conseguenza di tutto ciò: per ricevere il
Vangelo, non bisogna mettere da parte la vita quotidiana
di ognuno di noi. Non bisogna dire di “no” all’esperienza umana e all’umana ricerca della felicità. Al contrario: il
cristianesimo è il cammino dell’amore e, di conseguenza,
è il grande “sì” a tutte le domande dell’uomo e ai suoi desideri più profondi. Nella sua prima enciclica Redemptor
hominis Giovanni Paolo II afferma che l’uomo è il cammino della Chiesa. Possiamo dunque chiederci: in cosa
consiste questo cammino? Ora lo sappiamo: il cammino
dell’uomo è quello dell’amore. Questo percorso dell’amore è proprio quello che Benedetto XVI ha proposto alla
Chiesa nella sua prima enciclica Deus caritas est (Dio è
amore); continuando dunque a percorrere la via aperta
dal suo predecessore.
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Qual è il cammino della Chiesa?
Il nostro scopo, nel resto di questo libro, è quello di
illustrare i fondamenti di quanto abbiamo affermato fino
a ora, circa l’unione tra l’esperienza umana dell’amore e
la rivelazione di Cristo.
In altri termini, intendiamo mostrare che l’amore è il
cammino dell’uomo e che la missione della Chiesa è proprio
quella di manifestare al mondo la verità dell’amore.
Tale compito, in apparenza semplice, non è in realtà così facile da portare a termine.
Veniamo al nostro primo ostacolo: usualmente, attribuiamo significati molto diversi, per non dire contraddittori, alla parola “amore”. La usiamo per riferirci al più nobile dei sacrifici, ossia quando l’uomo si mantiene fedele
ai suoi cari, fino al punto di affidare loro la sua vita. Ma
la usiamo anche per riferirci all’atto vile del marito che
abbandona la sua sposa e i suoi figli per un’altra donna:
«Lo ha fatto per amore». Nel libro di Georges Bernanos
Diario di un parroco di campagna, il protagonista ci mette
in guardia contro questa pericolosa ambiguità. Ecco le
parole che il personaggio principale, un sacerdote, rivolge
a uno dei suoi fedeli che, per giustificarsi, nomina l’amore: «Non utilizzare questa parola amore... Hai perso il
diritto e anche il potere»4.
A questo problema – l’ambiguità del termine “amore” –
si aggiunge la scarsità di riflessioni serie sull’essenza di
questo sentimento. Molti continuano a ritenere che l’amore sia semplicemente un fatto privato, irrilevante per spiegare chi siamo e per aiutarci a costruire il tessuto sociale
nel quale viviamo. Può, l’amore, essere davvero la risposta alla domanda della mia esistenza? Possiamo afferma4 G. BERNANOS, Diario di un parroco di campagna, traduzione di Paola Messori,
Mondadori, Milano 2002.
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re che l’amore è la spiegazione ultima di tutta la storia
umana, nonché il fondamento della realtà? Oppure, l’obiettivo che ci proponiamo di raggiungere con questo libro, è
solo un ingenuo tentativo di spiegare tutto, a partire da
un’emozione romantica? Avremo tempo per occuparci di
queste domande.
Le difficoltà relative all’amore ci aiutano a comprendere perché, spesse volte, la fede cristiana è così male interpretata. Di fatto, proprio perché la nostra fede consiste
nella rivelazione dell’amore, la fortuna dell’amore è legata
alla fortuna del Cristianesimo. Ciò significa, in primo luogo, che quando il significato e l’importanza dell’amore si
oscurano nella nostra vita o nella nostra cultura, e quando la sua definizione perde nitidezza, diventa impossibile
mostrare la presenza di Dio nella nostra esistenza. Dio
diventa un intruso, qualcuno di estraneo alle cose per cui
l’uomo si affanna e che non riesce a entrare nella nostra
vita. D’altro canto però, senza la luce dell’amore di Dio
che Cristo ci mostra, non possiamo comprendere la grande ricchezza e la pienezza della nostra esistenza e dello
stesso amore umano.
Analogamente, se recuperiamo il legame tra l’amore e
il cristianesimo, disporremo di una metodologia che ci
consentirà di affrontare le domande che abbiamo fin qui
presentato. È proprio questo il metodo usato da Giovanni Paolo II. Possiamo rappresentarlo con uno schema:
due punti, A e B, uniti tra loro da due frecce, che vanno
dal primo al secondo e dal secondo al primo. Il primo
punto è la rivelazione di Cristo e il secondo è la nostra
esperienza quotidiana. La prima freccia parte dalla figura
di Cristo e arriva alla nostra vita: contemplando Gesù,
comprendiamo chi siamo e capiamo il senso più profondo di ciò che ci accade. La seconda freccia parte dalla
nostra esperienza e arriva fino a Gesù: le nostre domande e le nostre inquietudini, le cose che ci accadono ogni
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giorno ci aiutano a capire meglio in che modo Egli è il nostro Salvatore.
In queste pagine, intendiamo ricorrere a questa metodologia per disegnare una mappa che consenta all’amore
di trovare la propria strada. Inizieremo con la prima apparizione dell’amore nella nostra vita. Proseguiremo seguendo tutte le sue peripezie fino a giungere alla pienezza che
ci promette e a cui aneliamo. Nella prima parte del libro
(L’amore, rivelato nel tuo corpo) esamineremo come l’amore
si rivela a noi, in che modo ci apre un cammino e ci invita
a seguirlo. La seconda parte (La redenzione del cuore) affronterà le difficoltà che si presentano a noi sul cammino
dell’amore e troverà, nell’amore rivelato da Cristo, la forza
per superarle. Nella terza parte (La bellezza dell’amore: lo
splendore del corpo) vedremo che l’amore di Gesù ci permette di amare come Lui ama e, in questo modo, conduce
il nostro cammino di amore verso di Lui. Questa via, che
sia nel matrimonio o nella verginità consacrata, ci conduce alla resurrezione finale nei cieli.
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