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Avevano spento anche la luna

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Avevano spento anche la luna
sovraccoperta
«Pochi libri sono ben scritti, pochissimi sono importanti, questo romanzo è entrambe le cose.»
The Washington Post
«I commenti entusiastici dei librai dimostrano la potenza di questo romanzo.»
Publishers Weekly
«Morirono più di venti milioni di persone. Ma c’è
ancora chi nega questa realtà. Ruta Sepetys, figlia di un
rifugiato lituano, dimostra che la verità è un’altra. Commovente. Un romanzo importante, che merita il maggior
pubblico possibile.»
Booklist
813576
In copertina:
Illustrazione di ushadesign
Ruta SepetyS
Avevano spento
anche la luna
Avevano spento anche la luna
Ruta Sepetys è nata in Michigan, da
una famiglia di rifugiati lituani. Non ha
mai dimenticato le sue origini e la storia
della sua famiglia. Per questo è andata
in Lituania, nel tentativo di recuperare
la memoria paterna. Per scrivere Avevano spento anche la luna le ricerche sono
state impegnative e l’hanno portata a visitare i campi di lavoro in Siberia e a conoscere storici e tantissimi sopravvissuti,
che l’hanno aiutata a descrivere i particolari più importanti di quel passato di
atrocità.
«Avevano spento anche la luna è un romanzo duro e
poetico al tempo stesso. Un’opportunità per colmare un
vuoto troppo a lungo dimenticato.»
The Wall Street Journal
Ruta SepetyS
alle classifiche del «New York Times».
Definito all’unanimità da librai, lettori,
giornalisti e insegnanti un romanzo importante e potente, racconta una storia
unica e sconvolgente, che strappa il respiro e rivela la natura miracolosa dello
spirito umano, capace di sopravvivere e
continuare a lottare anche quando tutto
è perso.
Romanzo
CL_avevano spento anChe La Luna_813576_es
Lina ha appena compiuto quindici anni
quando scopre che basta una notte, una
sola, per cambiare il corso di tutta una
vita. Quando arrivano quegli uomini e
la costringono ad abbandonare tutto. E
a ricordarle chi è, chi era, le rimangono
soltanto una camicia da notte, qualche
disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno
del 1941 quando la polizia sovietica irrompe con violenza in casa sua, in Lituania. Lina, figlia del rettore dell’università, è sulla lista nera, insieme alle famiglie
di molti altri scrittori, professori, dottori.
Sono colpevoli di un solo reato, quello
di esistere. Verrà deportata. Insieme alla
madre e al fratellino viene ammassata
con centinaia di persone su un treno
e inizia un viaggio senza ritorno tra le
steppe russe. Settimane di fame e di sete.
Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di
lavoro dove tutto è grigio, dove regna il
buio, dove il freddo uccide, sussurrando.
E dove non resta niente, se non la polvere
della terra che i deportati sono costretti a
scavare, giorno dopo giorno.
Ma c’è qualcosa che non possono togliere a Lina. La sua dignità. La sua forza.
La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio.
Quando non è costretta a lavorare, Lina
disegna. Documenta tutto. Deve riuscire
a far giungere i disegni al campo di prigionia del padre. È l’unico modo, se c’è,
per salvarsi. Per gridare che sono ancora
vivi. Lina si batte per la propria vita, decisa a non consegnare la sua paura alle
guardie, giurando che, se riuscirà a sopravvivere, onererà per mezzo dell’arte e
della scrittura la sua famiglia e le migliaia
di famiglie sepolte in Siberia.
Ispirato a una storia vera, Avevano spento anche la luna spezza il silenzio su uno
dei più terribili genocidi della storia, le
deportazioni dai paesi baltici nei gulag
staliniani. Venduto in ventotto paesi, appena uscito in America è balzato in testa
Segue sull’altro risvolto
sovraccoperta
«Pochi libri sono ben scritti, pochissimi sono importanti, questo romanzo è entrambe le cose.»
The Washington Post
«I commenti entusiastici dei librai dimostrano la potenza di questo romanzo.»
Publishers Weekly
«Morirono più di venti milioni di persone. Ma c’è
ancora chi nega questa realtà. Ruta Sepetys, figlia di un
rifugiato lituano, dimostra che la verità è un’altra. Commovente. Un romanzo importante, che merita il maggior
pubblico possibile.»
Booklist
813576
In copertina:
Illustrazione di ushadesign
Ruta SepetyS
Avevano spento
anche la luna
Avevano spento anche la luna
Ruta Sepetys è nata in Michigan, da
una famiglia di rifugiati lituani. Non ha
mai dimenticato le sue origini e la storia
della sua famiglia. Per questo è andata
in Lituania, nel tentativo di recuperare
la memoria paterna. Per scrivere Avevano spento anche la luna le ricerche sono
state impegnative e l’hanno portata a visitare i campi di lavoro in Siberia e a conoscere storici e tantissimi sopravvissuti,
che l’hanno aiutata a descrivere i particolari più importanti di quel passato di
atrocità.
«Avevano spento anche la luna è un romanzo duro e
poetico al tempo stesso. Un’opportunità per colmare un
vuoto troppo a lungo dimenticato.»
The Wall Street Journal
Ruta SepetyS
alle classifiche del «New York Times».
Definito all’unanimità da librai, lettori,
giornalisti e insegnanti un romanzo importante e potente, racconta una storia
unica e sconvolgente, che strappa il respiro e rivela la natura miracolosa dello
spirito umano, capace di sopravvivere e
continuare a lottare anche quando tutto
è perso.
Romanzo
CL_avevano spento anChe La Luna_813576_es
Lina ha appena compiuto quindici anni
quando scopre che basta una notte, una
sola, per cambiare il corso di tutta una
vita. Quando arrivano quegli uomini e
la costringono ad abbandonare tutto. E
a ricordarle chi è, chi era, le rimangono
soltanto una camicia da notte, qualche
disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno
del 1941 quando la polizia sovietica irrompe con violenza in casa sua, in Lituania. Lina, figlia del rettore dell’università, è sulla lista nera, insieme alle famiglie
di molti altri scrittori, professori, dottori.
Sono colpevoli di un solo reato, quello
di esistere. Verrà deportata. Insieme alla
madre e al fratellino viene ammassata
con centinaia di persone su un treno
e inizia un viaggio senza ritorno tra le
steppe russe. Settimane di fame e di sete.
Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di
lavoro dove tutto è grigio, dove regna il
buio, dove il freddo uccide, sussurrando.
E dove non resta niente, se non la polvere
della terra che i deportati sono costretti a
scavare, giorno dopo giorno.
Ma c’è qualcosa che non possono togliere a Lina. La sua dignità. La sua forza.
La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio.
Quando non è costretta a lavorare, Lina
disegna. Documenta tutto. Deve riuscire
a far giungere i disegni al campo di prigionia del padre. È l’unico modo, se c’è,
per salvarsi. Per gridare che sono ancora
vivi. Lina si batte per la propria vita, decisa a non consegnare la sua paura alle
guardie, giurando che, se riuscirà a sopravvivere, onererà per mezzo dell’arte e
della scrittura la sua famiglia e le migliaia
di famiglie sepolte in Siberia.
Ispirato a una storia vera, Avevano spento anche la luna spezza il silenzio su uno
dei più terribili genocidi della storia, le
deportazioni dai paesi baltici nei gulag
staliniani. Venduto in ventotto paesi, appena uscito in America è balzato in testa
Segue sull’altro risvolto
sovraccoperta
«Pochi libri sono ben scritti, pochissimi sono importanti, questo romanzo è entrambe le cose.»
The Washington Post
«I commenti entusiastici dei librai dimostrano la potenza di questo romanzo.»
Publishers Weekly
«Morirono più di venti milioni di persone. Ma c’è
ancora chi nega questa realtà. Ruta Sepetys, figlia di un
rifugiato lituano, dimostra che la verità è un’altra. Commovente. Un romanzo importante, che merita il maggior
pubblico possibile.»
Booklist
813576
In copertina:
Illustrazione di ushadesign
Ruta SepetyS
Avevano spento
anche la luna
Avevano spento anche la luna
Ruta Sepetys è nata in Michigan, da
una famiglia di rifugiati lituani. Non ha
mai dimenticato le sue origini e la storia
della sua famiglia. Per questo è andata
in Lituania, nel tentativo di recuperare
la memoria paterna. Per scrivere Avevano spento anche la luna le ricerche sono
state impegnative e l’hanno portata a visitare i campi di lavoro in Siberia e a conoscere storici e tantissimi sopravvissuti,
che l’hanno aiutata a descrivere i particolari più importanti di quel passato di
atrocità.
«Avevano spento anche la luna è un romanzo duro e
poetico al tempo stesso. Un’opportunità per colmare un
vuoto troppo a lungo dimenticato.»
The Wall Street Journal
Ruta SepetyS
alle classifiche del «New York Times».
Definito all’unanimità da librai, lettori,
giornalisti e insegnanti un romanzo importante e potente, racconta una storia
unica e sconvolgente, che strappa il respiro e rivela la natura miracolosa dello
spirito umano, capace di sopravvivere e
continuare a lottare anche quando tutto
è perso.
Romanzo
CL_avevano spento anChe La Luna_813576_es
Lina ha appena compiuto quindici anni
quando scopre che basta una notte, una
sola, per cambiare il corso di tutta una
vita. Quando arrivano quegli uomini e
la costringono ad abbandonare tutto. E
a ricordarle chi è, chi era, le rimangono
soltanto una camicia da notte, qualche
disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno
del 1941 quando la polizia sovietica irrompe con violenza in casa sua, in Lituania. Lina, figlia del rettore dell’università, è sulla lista nera, insieme alle famiglie
di molti altri scrittori, professori, dottori.
Sono colpevoli di un solo reato, quello
di esistere. Verrà deportata. Insieme alla
madre e al fratellino viene ammassata
con centinaia di persone su un treno
e inizia un viaggio senza ritorno tra le
steppe russe. Settimane di fame e di sete.
Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di
lavoro dove tutto è grigio, dove regna il
buio, dove il freddo uccide, sussurrando.
E dove non resta niente, se non la polvere
della terra che i deportati sono costretti a
scavare, giorno dopo giorno.
Ma c’è qualcosa che non possono togliere a Lina. La sua dignità. La sua forza.
La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio.
Quando non è costretta a lavorare, Lina
disegna. Documenta tutto. Deve riuscire
a far giungere i disegni al campo di prigionia del padre. È l’unico modo, se c’è,
per salvarsi. Per gridare che sono ancora
vivi. Lina si batte per la propria vita, decisa a non consegnare la sua paura alle
guardie, giurando che, se riuscirà a sopravvivere, onererà per mezzo dell’arte e
della scrittura la sua famiglia e le migliaia
di famiglie sepolte in Siberia.
Ispirato a una storia vera, Avevano spento anche la luna spezza il silenzio su uno
dei più terribili genocidi della storia, le
deportazioni dai paesi baltici nei gulag
staliniani. Venduto in ventotto paesi, appena uscito in America è balzato in testa
Segue sull’altro risvolto
sovraccoperta
«Pochi libri sono ben scritti, pochissimi sono importanti, questo romanzo è entrambe le cose.»
The Washington Post
«I commenti entusiastici dei librai dimostrano la potenza di questo romanzo.»
Publishers Weekly
«Morirono più di venti milioni di persone. Ma c’è
ancora chi nega questa realtà. Ruta Sepetys, figlia di un
rifugiato lituano, dimostra che la verità è un’altra. Commovente. Un romanzo importante, che merita il maggior
pubblico possibile.»
Booklist
813576
In copertina:
Illustrazione di ushadesign
Ruta SepetyS
Avevano spento
anche la luna
Avevano spento anche la luna
Ruta Sepetys è nata in Michigan, da
una famiglia di rifugiati lituani. Non ha
mai dimenticato le sue origini e la storia
della sua famiglia. Per questo è andata
in Lituania, nel tentativo di recuperare
la memoria paterna. Per scrivere Avevano spento anche la luna le ricerche sono
state impegnative e l’hanno portata a visitare i campi di lavoro in Siberia e a conoscere storici e tantissimi sopravvissuti,
che l’hanno aiutata a descrivere i particolari più importanti di quel passato di
atrocità.
«Avevano spento anche la luna è un romanzo duro e
poetico al tempo stesso. Un’opportunità per colmare un
vuoto troppo a lungo dimenticato.»
The Wall Street Journal
Ruta SepetyS
alle classifiche del «New York Times».
Definito all’unanimità da librai, lettori,
giornalisti e insegnanti un romanzo importante e potente, racconta una storia
unica e sconvolgente, che strappa il respiro e rivela la natura miracolosa dello
spirito umano, capace di sopravvivere e
continuare a lottare anche quando tutto
è perso.
Romanzo
CL_avevano spento anChe La Luna_813576_es
Lina ha appena compiuto quindici anni
quando scopre che basta una notte, una
sola, per cambiare il corso di tutta una
vita. Quando arrivano quegli uomini e
la costringono ad abbandonare tutto. E
a ricordarle chi è, chi era, le rimangono
soltanto una camicia da notte, qualche
disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno
del 1941 quando la polizia sovietica irrompe con violenza in casa sua, in Lituania. Lina, figlia del rettore dell’università, è sulla lista nera, insieme alle famiglie
di molti altri scrittori, professori, dottori.
Sono colpevoli di un solo reato, quello
di esistere. Verrà deportata. Insieme alla
madre e al fratellino viene ammassata
con centinaia di persone su un treno
e inizia un viaggio senza ritorno tra le
steppe russe. Settimane di fame e di sete.
Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di
lavoro dove tutto è grigio, dove regna il
buio, dove il freddo uccide, sussurrando.
E dove non resta niente, se non la polvere
della terra che i deportati sono costretti a
scavare, giorno dopo giorno.
Ma c’è qualcosa che non possono togliere a Lina. La sua dignità. La sua forza.
La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio.
Quando non è costretta a lavorare, Lina
disegna. Documenta tutto. Deve riuscire
a far giungere i disegni al campo di prigionia del padre. È l’unico modo, se c’è,
per salvarsi. Per gridare che sono ancora
vivi. Lina si batte per la propria vita, decisa a non consegnare la sua paura alle
guardie, giurando che, se riuscirà a sopravvivere, onererà per mezzo dell’arte e
della scrittura la sua famiglia e le migliaia
di famiglie sepolte in Siberia.
Ispirato a una storia vera, Avevano spento anche la luna spezza il silenzio su uno
dei più terribili genocidi della storia, le
deportazioni dai paesi baltici nei gulag
staliniani. Venduto in ventotto paesi, appena uscito in America è balzato in testa
Segue sull’altro risvolto
1.
Mi portarono via in camicia da notte.
Ripensandoci, i segnali c’erano tutti: foto di famiglia bruciate nel camino, la mamma che nel cuore della notte cuciva
l’argenteria e i gioielli più belli nella fodera del suo cappotto
e il papà che non tornava dal lavoro. Il mio fratellino, Jonas,
continuava a fare domande. Anch’io ne facevo, ma forse mi
rifiutavo di riconoscere i segnali. Solo più tardi mi resi conto
che la mamma e il papà intendevano scappare con noi. Ma
non scappammo.
Fummo portati via.
14 giugno 1941. Mi ero messa la camicia da notte e mi ero
seduta alla scrivania per scrivere una lettera a mia cugina Joana. Aprii un nuovo blocco di carta avoriata e un astuccio di
penne e matite, un regalo della zia per il mio quindicesimo
compleanno.
La brezza serale entrava dalla finestra aperta e fluttuava
sulla scrivania, facendo danzare le tende. Sentivo il profumo
del mughetto che io e la mamma avevamo piantato due anni
prima. «Cara Joana.»
Non fu un bussare. Fu un rimbombo cupo e insistente
che mi fece sobbalzare sulla sedia. Dei pugni battevano sulla
nostra porta d’ingresso. Dentro casa, nessuno si mosse. Io
mi alzai dalla scrivania e sbirciai in corridoio. Mia madre era
appiattita contro la parete, di fronte alla carta della Lituania
incorniciata, con gli occhi chiusi e il viso tirato da un’angoscia
che non vi avevo mai visto prima. Stava pregando.
«Mamma», disse Jonas, un solo occhio visibile attraverso la
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fessura della porta in camera sua, «hai intenzione di aprire?
Sembra quasi che vogliano buttarla giù.»
Nostra madre girò la testa e vide me e Jonas che facevamo
capolino dalle rispettive stanze. Abbozzò un sorriso. «Sì, tesoro. Adesso vado ad aprire. Non lascerò che buttino giù la
nostra porta.»
I tacchi delle sue scarpe echeggiarono lungo il parquet del
corridoio e la gonna lunga e leggera le ondeggiò sulle caviglie. La mamma era elegante e bella, anzi, bellissima, con un
sorriso insolitamente aperto che illuminava ogni cosa intorno
a lei. Io ero fortunata ad avere i suoi capelli color miele e i
suoi luminosi occhi azzurri. Jonas aveva il suo sorriso.
Dal pianerottolo tuonarono voci imperiose.
«L’nkvd!» sussurrò Jonas impallidendo. «Tadas ha detto
che hanno portato via i suoi vicini su un camion. Stanno
arrestando la gente.»
«No, non qui», risposi. La polizia segreta sovietica non aveva
motivo di interessarsi a noi. Andai in fondo al corridoio per
ascoltare e guardai di nascosto oltre l’angolo. Jonas aveva
ragione. Tre agenti dell’nkvd avevano circondato la mamma.
Portavano berretti blu con un bordo rosso, su cui spiccava una
stella dorata. Un agente alto aveva in mano i nostri passaporti.
«Ci serve più tempo. Saremo pronti domattina», disse la
mamma.
«Venti minuti... o non vivrete abbastanza da arrivare a
domattina», minacciò l’agente.
«Per favore, abbassate la voce. Ho dei figli», sussurrò la
mamma.
«Venti minuti», gridò l’agente. Buttò la sigaretta accesa
sul pavimento pulito del nostro soggiorno e la schiacciò sul
legno con lo stivale.
Stavamo per diventare sigarette.
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2.
Volevano arrestarci? Dov’era il papà? Corsi nella mia stanza. Sul davanzale della finestra era comparsa una pagnotta
appena sfornata, con una grossa mazzetta di rubli infilata
sotto. La mamma arrivò sulla soglia con Jonas che la seguiva,
standole attaccato.
«Ma, mamma, dove andremo? Che cosa abbiamo fatto?»
chiedeva lui.
«È un equivoco. Lina, hai sentito? Dobbiamo fare in fretta
e prendere tutto ciò che è utile, anche se non ci siamo necessariamente affezionati. Avete capito? Lina! I vestiti e le scarpe
devono essere la nostra priorità. Cercate di infilare tutto
quello che riuscite in una sola valigia.» La mamma guardò
verso la finestra. Si affrettò a far scivolare il pane e il denaro
sulla scrivania e chiuse di scatto le tende. «Promettetemi che
se qualcuno cercherà di aiutarvi lo ignorerete. Sistemeremo
da soli la faccenda. Non dobbiamo trascinare parenti e amici
in questo malinteso, capite? Anche se vi chiameranno a voce
alta, voi non dovete rispondere.»
«Ci arresteranno?» chiese Jonas.
«Promettetemelo!»
«Te lo prometto», disse piano Jonas. «Ma dov’è il papà?»
La mamma rimase zitta un attimo, battendo le palpebre
rapidamente. «Lui ci verrà incontro. Abbiamo venti minuti.
Raccogliete le vostre cose. Subito!»
La camera cominciò a girare. La voce della mamma mi
riecheggiava in testa. «Subito. Subito!» Che cosa stava succedendo? I rumori del mio fratellino di dieci anni che correva
in giro per la sua stanza mi fecero scattare qualcosa dentro.
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Tirai fuori con uno strattone la mia valigia dall’armadio e la
aprii sul letto.
Esattamente un anno prima, i sovietici avevano cominciato
a trasferire truppe oltre il confine, nel nostro paese. Poi, in
agosto, la Lituania era stata ufficialmente annessa all’Unione
Sovietica. Una volta che mi ero lamentata a cena, il papà mi
aveva sgridato dicendomi di non dire mai e poi mai qualcosa
di negativo sui sovietici. Mi aveva mandato in castigo in camera
mia. Dopo quella volta non dissi più niente ad alta voce. Ma
ci pensavo molto.
«Le scarpe, Jonas, calze di scorta, un cappotto!» sentivo la
mamma gridare dal corridoio. Presi dalla mensola una foto
della nostra famiglia e misi la cornice d’oro a faccia in su
nella valigia vuota. I volti mi guardarono, felici, ignari. Era
la Pasqua di due anni prima. La nonna era ancora viva. Se
davvero stavamo andando in prigione, volevo portarla con
me. Ma non era possibile che ci mettessero in prigione. Non
avevamo fatto niente di male.
Colpi e rumori secchi esplodevano in tutta la casa.
«Lina», disse la mamma precipitandosi in camera mia, con
le braccia cariche. «Sbrigati!» Spalancò l’armadio e i cassetti,
tirò fuori freneticamente le mie cose e le gettò alla rinfusa
in valigia.
«Mamma, non riesco a trovare il mio album da disegno.
Dov’è?» le chiesi in preda al panico.
«Non lo so. Ne compreremo uno nuovo. Metti via i tuoi
vestiti. Svelta!»
Jonas corse nella mia stanza. Si era vestito per andare a
scuola, con la divisa e il cravattino, e teneva in mano la cartella.
I capelli biondi erano accuratamente pettinati con la riga da
parte. «Sono pronto, mamma», disse con la voce che tremava.
«N-no!» balbettò lei, rimanendo senza fiato alla vista di
Jonas con la divisa della scuola privata. Fece un respiro forzato e abbassò la voce. «No, tesoro, la valigia. Vieni con me.»
Lo afferrò per un braccio. «Lina, mettiti le scarpe e le calze.
Svelta!» Prima di correre nella stanza di Jonas mi gettò il
soprabito estivo e io lo indossai.
Infilai i sandali e presi due libri, i nastri per i capelli e la
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spazzola. Dov’era finito il mio album da disegno? Afferrai
dalla scrivania il blocco di carta avoriata, l’astuccio di penne
e matite, il rotolo di rubli e li sistemai fra i mucchi di roba che
avevamo buttato in valigia. Chiusi le serrature a scatto e corsi
fuori dalla camera, le tende che si gonfiavano e sbattevano
sulla pagnotta fresca rimasta sulla scrivania.
Vidi il mio riflesso nella porta a vetri della panetteria e mi soffermai un momento. Avevo una macchia di vernice verde sul mento.
La grattai via e spinsi la porta. Un campanello squillò sopra la mia
testa. Il negozio era caldo e profumava di lievito.
«Lina, che bello vederti.» La donna si precipitò al bancone per
servirmi. «Che cosa ti posso dare?»
La conoscevo? «Mi scusi, io non...»
«Mio marito è professore all’università. Lavora per tuo padre»,
mi spiegò. «Ti ho visto in città con i tuoi genitori.»
Annuii. «Mia madre mi ha chiesto di comprare una pagnotta»,
le dissi.
«Certo», rispose la donna dandosi da fare dietro il bancone. Avvolse
una pagnotta tonda nella carta marrone e me la porse.
Quando allungai i soldi, lei scosse la testa.
«Ti prego», sussurrò la donna, «non potremo mai sdebitarci,
davvero.»
«Non capisco.» Allungai verso di lei la mano con le monete. Mi
ignorò.
Il campanello tintinnò e qualcuno entrò nel negozio. «Salutaci
tanto i tuoi genitori», si raccomandò la donna prima di servire
l’altro cliente.
Più tardi, quella sera, chiesi al papà chiarimenti sul pane.
«È stato molto gentile da parte sua, però non era il caso», disse lui.
«Ma cosa hai fatto?» gli domandai.
«Niente, Lina. Hai finito i compiti?»
«Ma devi aver fatto qualcosa per meritarti il pane gratis», insistetti.
«Non mi merito niente. Si sta dalla parte del giusto, Lina, senza
aspettarsi gratitudine né ricompense. Adesso va’ a finire i compiti.»
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3.
La mamma riempì una valigia altrettanto grande per Jonas. Lo faceva sembrare ancora più minuscolo di quel che
era e lui doveva reggerla con entrambe le mani, piegandosi
all’indietro per sollevarla da terra. Non si lamentò del peso
né chiese aiuto.
Il rumore di vetri e ceramiche infranti risuonava dolente
nell’appartamento a intervalli rapidi. Trovammo nostra madre
in tinello che gettava per terra la cristalleria e le porcellane
più belle. Aveva la faccia lucida di sudore e i riccioli biondi
le ricadevano liberi sugli occhi.
«No, mamma!» gridò Jonas correndo verso i cocci rotti che
si ammucchiavano sul pavimento.
Io lo tirai indietro prima che toccasse i vetri. «Mamma,
perché stai rompendo il tuo servizio bello?»
Lei si fermò e fissò la tazza di porcellana che teneva in mano. «Perché ci sono troppo affezionata.» La scagliò per terra,
senza nemmeno soffermarsi a guardarla rompersi prima di
prenderne un’altra.
Jonas si mise a piangere.
«Non piangere, tesoro. Ne prenderemo di più belle.»
La porta si spalancò di scatto e tre agenti dell’nkvd entrarono in casa impugnando fucili a baionetta. «Che cosa è
successo qui?» chiese un agente alto, esaminando i danni.
«È stato un incidente», rispose la mamma calma.
«Lei ha distrutto delle proprietà sovietiche», tuonò lui.
Jonas si tirò vicino la valigia, per paura che anche quella
potesse diventare da un minuto all’altro proprietà sovietica.
La mamma si guardò nello specchio dell’anticamera per
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sistemarsi i riccioli scompigliati e mettersi il cappello. L’agente dell’nkvd la colpì sulla spalla con il calcio del fucile, buttandola con la faccia contro lo specchio.
«Porci borghesi, sempre a perdere tempo. Non le servirà
quel cappello», la derise.
La mamma si raddrizzò e ritrovò l’equilibrio, poi si lisciò la
gonna e aggiustò il cappello. «Mi scusi», disse in tono dimesso
all’agente prima di sistemarsi di nuovo i riccioli e infilarsi lo
spillone di madreperla nel cappello.
«Mi scusi»? Aveva detto proprio così? Quegli uomini fanno
irruzione di notte in casa nostra, la sbattono contro lo specchio... e lei li supplica di «scusarla»? A quel punto la mamma
allungò la mano per prendere il lungo cappotto grigio, e di
colpo capii. Stava giocando con gli agenti della polizia sovietica una delicata partita a carte, senza sapere quale mano
sarebbe stata distribuita in seguito. La rividi nella mia mente
cucire gioielli, documenti, argento e altri valori nella fodera
di quel cappotto.
«Devo andare in bagno», annunciai nel tentativo di distogliere l’attenzione da mia madre e dal cappotto.
«Hai trenta secondi.»
Chiusi la porta del bagno e mi guardai allo specchio. Non
avevo idea di quanto in fretta sarebbe cambiato il mio viso,
sfiorendo. Se l’avessi saputo, avrei fissato più a lungo il mio
riflesso, cercando di memorizzarlo. Era l’ultima volta, per più
di dieci anni, in cui mi sarei guardata in uno specchio vero.
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4.
I lampioni in strada erano spenti ed era quasi buio pesto.
Gli agenti marciavano dietro di noi, obbligandoci a tenere il
loro passo. Vidi la signora Raskunas sbirciare da dietro le tendine. Nell’attimo in cui si accorse che la guardavo, scomparve.
La mamma mi diede un colpetto al braccio per farmi capire
che dovevo tenere la testa bassa. Jonas si stava affannando a
portare la sua valigia, che gli batteva sui polpacci.
«Davai!» ordinò un agente. Sbrigarsi, sempre sbrigarsi.
Avanzammo fino all’incrocio, verso una grossa sagoma
scura. Era un camion, circondato da altri agenti dell’nkvd.
Mentre ci avvicinavamo al retro del veicolo, vidi che dentro
c’erano delle persone sedute sulle loro valigie.
«Spingimi su prima che lo facciano loro», si affrettò a sussurrarmi mia madre: non voleva che un soldato le toccasse il
cappotto. Feci come mi aveva chiesto. Gli agenti spintonarono
Jonas sul camion. Lui cadde a faccia in giù e la valigia gli fu
gettata addosso. Io riuscii a salire senza cadere ma, quando
mi raddrizzai, una donna mi guardò e si portò di colpo la
mano alla bocca.
«Lina, tesoro, abbottonati il soprabito», mi esortò la mamma.
Abbassai lo sguardo e vidi la mia camicia da notte a fiori.
Nella fretta di cercare l’album da disegno, mi ero dimenticata di cambiarmi. Scorsi poi una donna alta e magra, con
il naso a punta, che fissava Jonas. La signorina Grybas. Era
una zitella che insegnava nella nostra scuola, una maestra di
quelle severe. Riconobbi anche altre persone: la bibliotecaria,
il proprietario di un albergo della zona e parecchi uomini
che avevo visto parlare con il papà per strada.
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Eravamo tutti sulla lista. Non sapevo bene che cosa fosse
quella lista, sapevo solo che c’era scritto sopra il nostro nome,
così come quello delle altre quindici persone sul camion con
noi. Il portellone posteriore venne chiuso con un colpo secco.
Un vecchio calvo di fronte a me emise un flebile gemito.
«Moriremo tutti», disse piano. «Sono sicuro che moriremo.»
«Sciocchezze!» si affrettò a ribattere la mamma.
«Invece sì», insistette lui. «È la fine.»
Il camion si avviò con un sobbalzo in avanti, facendo cadere
tutti dalle valigie su cui erano seduti. Il calvo all’improvviso
si tirò goffamente in piedi, scavalcò il portellone del pianale
e saltò giù. Si schiantò sul marciapiede e si lasciò sfuggire un
lamento simile a quello di un animale catturato in una trappola. La gente a bordo si mise a gridare. Il veicolo si fermò
con uno stridio di pneumatici e gli agenti balzarono a terra.
Abbassarono il portellone e vidi l’uomo che si contorceva a
terra per il dolore. Lo sollevarono e gettarono il suo corpo
raggomitolato di nuovo sul camion. Una gamba sembrava
straziata. Jonas nascose la faccia nella manica della mamma.
Lo presi per mano. Stava tremando. Mi si annebbiò la vista,
serrai gli occhi e li riaprii. Il veicolo si rimise in moto di scatto.
«no!» si lamentò l’uomo tenendosi la gamba.
Il camion si fermò davanti all’ospedale. Tutti sembrarono
sollevati all’idea che si sarebbero presi cura dell’uomo calvo
ferito. Ma non fu così. I russi si erano fermati ad aspettare.
Una donna sulla lista stava partorendo. Non appena fosse
stato tagliato il cordone ombelicale, avrebbero gettato lei e
suo figlio sul camion.
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