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Animali e stato di necessità
dottrina di Michele Leoni* Animali e stato di necessità E’ possibile violare il codice della strada per la necessità di salvare il proprio animale domestico che rischia la vita? Di recente la Corte di Cassazione ha affermato che: “in tema di esclusione della responsabilità per violazioni amministrative, affinché ricorra, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 689 del 1981, l’esimente dello stato di necessità, occorre - in conformità a quanto disposto dagli artt. 54 e 59 del codice penale - che sussista un’effettiva situazione di pericolo imminente di un grave danno alla persona, non altrimenti evitabile, ovvero l’erronea convinzione, provocata da circostanze oggettive, di trovarsi in tale situazione; ne consegue che detta esimente non è invocabile quando la situazione di pericolo riguardi un animale” (la fattispecie riguardava l’irrogazione della sanzione prevista dal codice della strada per l’eccesso di velocità in relazione al trasporto d’urgenza, presso un veterinario, di un gatto gravemente ferito e raccolto poco prima) (Cass. 19.6.2009, n. 14515). La sentenza è ineccepibile, in quanto l’eccesso di velocità crea il pericolo imminente (anzi, attuale e in itinere) di un danno grave a persone a causa del rischio di un incidente stradale, e nel bilanciamento degli interessi in gioco, ovviamente, la tutela della vita o dell’incolumità dell’essere umano prevale sull’esigenza di salvare un animale. E’ però lecito, da questa pronuncia, trarre un interrogativo: è possibile, invece, porre in essere una violazione più lieve (caso classico, una sosta vietata) per salvare l’animale? La sosta vietata infatti, di massima, non origina il pericolo imminente di un danno grave alla persona. Ma questa preliminare considerazione sgombra anche il campo da qualsiasi problematica inerente la ricorrenza di uno stato di necessità, che in tale pericolo trova il presupposto. Va quindi riformulata la domanda: vi è una scriminante che possa legittimare la violazione di una norma del codice della strada al fine di salvare il proprio animale domestico che rischia la vita, laddove non vi siano pericoli imminenti di un danno grave alla persona? Questa scriminante non sembra rintracciabile nelle previsioni dell’art. 51 del codice penale (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), in quanto il comportamento di chi si adopera per salvare l’animale non discende da alcun diritto (se mai, muove da un interesse semplice) né da alcun dovere specifico (né, tantomeno, dall’obbligo di eseguire un ordine legalmente dato). La norma di riferimento, tuttavia, come ha rilevato la Suprema Corte nella sentenza sopra citata, non va individuata nel codice penale, bensì nell’art. 4 della legge 24.11.1981, n. 689, che, fra le esimenti relative agli illeciti amministrativi, prevede anche l’esercizio di una facoltà legittima, che è cosa diversa da un diritto. La facoltà, infatti, è un minus rispetto al diritto soggettivo, e si sostanzia, genericamente e in senso lato (cioè, ove non inerente a un diritto), nella libertà (rectius, possibilità) di tenere una condotta consentita, e quindi non vietata, dall’ordinamento. Può quindi consistere in una situazione giuridica soggettiva elementare, che rientra in una libertà o un principio riconosciuti dall’ordinamento. Ebbene, a questo punto, per quanto qui interessa, è utile richiamare la legge 14 agosto 1991, n. 281 (Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo), il cui art. 1 (principi generali) recita: “Lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente.” La tutela degli animali di affezione è quindi principio legalmente affermato dallo Stato, il quale è espressamente obbligato a promuoverla. E’ questa una norma chiaramente programmatica, in quanto priva di immediata efficacia precettiva (ed infatti, come tale, tipicamente inserita in una legge quadro). Le norme programmatiche, come è noto, non sono direttamente applicabili in sede giurisdizionale, in quanto rivolte al legislatore. Valgono tuttavia come criterio guida per l’interpretazione del diritto vigente, in quanto esprimono i fini a cui l’ordinamento tende. Non sono quindi possibili interpretazioni ove il diritto positivo contrasti palesemente con disposizioni altrimenti enucleate, anche solo in via di principio. Non sembra allora azzardato estendere l’ambito di una facoltà legittima a comportamenti che assecondino principi e finalità posti dal sistema giuridico, ove non ricorrano interessi contrari e prevalenti, e nulla osta a che la salvezza in via di urgenza di un animale di affezione (auspicata e promossa dallo Stato) rientri nelle condotte così facoltizzate. D’altronde, già la storica sentenza 14 giugno 1956, n. 1 della Corte Costituzionale (la prima sentenza in assoluto emessa dalla Corte), nel tracciare la distinzione propedeutica fra norme precettive e norme programmatiche (e le rispettive portate), affermò che le norme programmatiche sono “quelle che si limitano a tracciare programmi generici di futura ed incerta attuazione, perché subordinata al verificarsi di situazioni che la consentano”, ma comunque “fissano principi fondamentali, che anche essi si riverberano sull’intera legislazione”. *Presidente di Sezione Tribunale di Bologna 23