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Perchè medito di Paul Fleischman567

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Perchè medito di Paul Fleischman567
Perchè medito*
di Paul Fleischmann**
Che significa meditare? - Il desiderio di conoscersi - La mia
mente e il mio corpo - le leggi di natura - Sedersi per scoprire
La necessità di uno strumento - L’autocontrollo - La pratica
intensa - L’accettazione della realtà personale - L’amore coniugale
Diventare una persona migliore - La responsabilità sociale
La fede - Chi sono - Il ruolo della morte - Essere se stessi
L’esperienza pratica della verità - L’eredità della meditazione
Le mie motivazioni - Perchè sono qui seduto? - La libertà
mentale - La consapevolezza intensa.
(...) Stamattina, come prima cosa, ho meditato
per un’ora. Lo faccio da tantissimi anni, coscienziosamente, e ho trascorso serate, giorni e settimane in
questa occupazione.
* Tratto dal libro di Paul Fleischmann Karma e Caos Ubaldini
editore. Estratto.
** Paul R. Fleischman, M.D., pratica la psichiatria da più
di venticinque anni. Nel l993 ha ricevuto l’Oscar Pfister
dall’American Psychiatric Association per “i suoi importanti
contributi all’aspetto umanistico e spirituale dei problemi
psichiatrici” forniti nel libro The Healing Spirit (Paragon
House, New York, l989). La sua opera più recente è Cultivating
Inner Peace (Tarcher/Putnam, New York, l997). Ha fatto il suo
primo corso di Vipassana, con sua moglie Susan, nel l974, in
India, sotto la guida di S.N. Goenka. Nel l987 i Fleischman
furono nominati Assistenti nell’insegnamento di Vipassana, e
nel l998 S.N. Goenka li ha nominati Maestri. Altri suoi testi
in www.pariyatti.org.
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Perchè medito
Che significa meditare?
La parola “meditare” in passato aveva un significato piuttosto vago; con questo termine si intendeva
una serie di attività che andavano dalla riflessione
profonda e prolungata alla preghiera e alla contemplazione religiosa. In anni più recenti, la parola “meditazione” ha assunto una pseudo -specificità: “Meditazione Trascendentale”, rilassamento profondo o
condizionamento con onde alfa, il tutto caratterizzato da manifestazioni culturali induiste quali i mantra, i guru e gli stati alterati di coscienza. Gli addetti
ai lavori parlano di ‘sedersi’, parola chiave che può
suggerire varie realtà dell’assembramento di persone
accovacciate come polli nella stia, alla vacuità della
noia fino alla penetrazione della visione profonda.
Parto da questa indeterminatezza per spiegare perché ho passato migliaia di ore ‘sedendo’ e perché ho
fatto di questa attività il centro della mia vita.
Il desiderio di conoscersi
(...) Ho sempre desiderato conoscermi. Trovo
strano che, mentre passiamo la maggior parte della
nostra vita a studiare, ad osservare, a contemplare il
mondo che ci circonda, indirizziamo così raramente
le nostre organizzate facoltà mentali verso il mondo
interiore. Questa apparente indifferenza nasconde
certamente una buona dose di ansietà, di riluttanza
o di paura e ciò, naturalmente, mi rende ancor più
curioso. La maggior parte delle nostre attività sono
dirette all’esterno e questo ci distrae dall’introspe-
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Perchè medito
zione; questa ossessiva tendenza all’esteriorizzazione
persiste indipendentemente da necessità di sopravvivenza come quelle di cibo e di calore, e persino dal
piacere: attimo dopo attimo, fino all’ultimo respiro
ci lasciamo catturare da ciò che vediamo, da ciò che
gustiamo, da parole, da movimenti, da stimoli elettronici. É singolare che anche molte attività normali
che apparentemente facilitano la riflessione, come
fumare la pipa o contemplare un tramonto, in definitiva ci impediscono di fermare l’attenzione sulla
realtà della nostra vita.
Non è quindi per pura adesione intellettuale al socratico ‘conosci te stesso’ che io ‘mi siedo’ ma perché
mi rendo conto che io e i miei simili siamo continuamente condizionati da stimoli esterni, siamo
fondamentalmente incapaci di controllarci, e siamo
mossi unicamente dalle nostre reazioni. Voglio conoscere questo essere vivente semplicemente osservandolo, così com’è, non come appare mentre viene
sballottato da un avvenimento all’altro. Questo fa
parte del mio lavoro di psichiatra, ma le mie motivazioni vanno più in profondità: esse sono personali
ed esistenziali.
La mia mente e il mio corpo
Mi interessa la mia mente e mi interessa il mio corpo. Prima di coltivare l’abitudine di meditare, avevo riflettuto su me stesso e avevo usato il mio corpo
come strumento per afferrare una penna o spaccare
la legna, ma non l’avevo mai osservato in modo sistematico, non avevo mai fatto attenzione a ciò che
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Perchè medito
esso prova, o l’avevo fatto saltuariamente e distrattamente, non certo attimo dopo attimo, per ore e
giornate intere. Né mi ero mai applicato ad osservare
l’influenza reciproca di mente e corpo in situazioni
di fatica e di riposo, di fame, di dolore, di rilassamento, di eccitazione, di apatia o di concentrazione.
Il mio desiderio di conoscere non è puramente
obiettivo e scientifico. Questa mente-corpo è il recipiente della mia esistenza. Ne voglio bere il nettare e,
se necessario, la feccia; ma voglio conoscerlo, voglio
immergermi nella sua vita segreta, per lo stesso impulso, credo, che ad ogni inverno e primavera spinge
l’oca selvaggia delle nevi a volare per diecimila miglia.
Mi pare chiaro che le forze della creazione e le
leggi della natura dalle quali sono nati questa mente
e questo corpo continuano ad operare incessantemente in me, e lo fanno ora, in questo momento ed
ogni volta che faccio lo sforzo di osservarle. Vorrei
conoscere queste leggi, le forze che operano in essa,
chi mi ha fatto; vorrei partecipare a questa continua
creazione, ed anche osservarla.
Le leggi di natura
La scienza moderna si basa sul presupposto che
c’è un unico mondo durevole, un solo ordine ininterrotto ed un insieme di leggi che governano sia la
terra che il cielo. Così, basandomi su questo principio e sulle antiche tradizioni dell’India presumo
che le leggi fisiche delle stelle siano anche le leggi del
mio corpo. La mia vita è una loro espressione, ed è
incessantemente collegata da causa ed effetto a tutto
ciò che è stato, che è, e che sarà. É evidente allora
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Perchè medito
che i fenomeni fisici e mentali che continuamente si
affollano in me sono un’espressione delle leggi di natura; essi devono diventare il mio laboratorio di ricerca. Voglio poter cantare come un uccello - e come
un uomo; voglio crescere e marcire come un albero
- e come un uomo. Voglio ‘sedermi’, mentre la mia
mente e il mio corpo fanno emergere e scorrere davanti a me e dentro di me il materiale umano fatto
della stessa sostanza e governato dalle stesse leggi di
galassie e scriccioli.
Sedersi per scoprire
Sono percorso da un’armonia dolce e tremenda al
tempo stesso; vorrei poterla gustare e invece riesco
a malapena a intuirla. Per questo voglio ‘sedermi’
con forte determinazione, per sbarazzarmi del brusìo delle distrazioni e dallo sfilacciamento di inutili
preoccupazioni. ‘Sedermi’ vuol dire scoprirmi come
manifestazione di ciò che è universale. É un’impresa
appassionante e senza fine; e spero proprio di poterla proseguire anche di fronte al cunicolo della morte. É un pensiero, questo, che mi infonde una gioia
e una forza straordinarie.
Medito perché amo la quotidianità, per approfondirla e per gustarla sempre più. I grandi poeti
cantano tutte le piccole cose straordinarie sotto cui
si nasconde il mistero; ma io so anche con quanta
facilità e frequenza io ceda alla distrazione, all’irritazione, quanto angusta sia la mia visione. Non vorrei
fallire la mia vita nel modo in cui una volta persi
l’aereo a La Guardia.
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Perchè medito
La necessità di uno strumento
Può sembrare assurdo che io abbia bisogno di una
tecnica, di una pratica, di una disciplina semplicemente per liberarmi dalle mie fantasie e dalle mie
preoccupazioni, eppure è così; ed io mi arrendo a
questa assurdità facendo ciò che devo fare per sbarazzare la mia mente da inquietudini effimere, per
svegliarmi ad albe sempre nuove, per vedere il mio
bambino che cresce e si trasforma.
Per essere in pace con me stesso io devo dunque
darmi da fare; questa alternanza di meditazione e di
vita mi ha insegnato che l’ ‘essere in pace’ non è uno
stato della mente, ma della mente e del corpo.
Al centro della mia vita c’è una ricettività che ha
bisogno di essere alimentata; la semplice bellezza
delle cose provvede a questo scopo. Vivo per soddisfare questa mia esigenza e tuttavia la bellezza mi
sfugge. Posso cercare di catturarla imbarcandomi in
viaggi emozionanti - alla volta dell’India o dei laghi coronati di verde delle Montagne Rocciose - ma
questo genere di bellezza mozzafiato è soltanto un
intermezzo, un segno di punteggiatura. Mi ricorda
ciò che ha più importanza, ma un punto esclamativo ha un impiego limitato.
Cammino solo nella foresta autunnale, su e giù
per le colline di gneiss e scisti e per le creste del Vermont, e non riesco a capire se questo forte pulsare,
questo martellare, sia il frullio delle ali dei galli cedroni o il battito del mio cuore, accelerato dall’ultima salita. Non conta tanto quello che mi eccita, mi
commuove o mi ammaestra, quanto la sorpresa di
riconoscere, il diapason della mia vita che vibra in
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Perchè medito
risposta a ciò che vive.
Questa capacità di ricevere - un po’ come quella che fa accettare il biscotto bagnato e mezzo rosicchiato del proprio bambino - ha bisogno di una
struttura, di una matrice nel mio corpo, che io semplicemente non posseggo. Per acquisire, per conoscere, mi serve una preparazione fisica.
L’ autocontrollo
Per questo medito, mi ‘siedo’, per aprire i miei pori,
quelli della pelle e quelli della mente, alla vita che c’è
dentro e fuori di me, che continuamente si presenta
alla mia soglia o, quantomeno, per farlo un pò più
spesso.
Mi ‘siedo’ per esercitarmi a riconoscere e ad accogliere in pace tutto quello che è abituale e inevitabile. Come il pavimento di legno che scricchiola
nella camera dai muri storti in cui dormo con mia
moglie, o il mio bambino di due anni che trascina
un rametto per volta per aiutarmi ad accatastare legna nella neve di gennaio.
Per seguire la mia via, sento il bisogno di un timone, di una chiglia, e cioè di un metodo e di una tecnica. Provo sempre di più il bisogno di autocontrollo
- che non è certo costrizione, mortificazione o inibizione. Mentre si medita non ci si alza né ci si muove,
non si fanno soldi né si passano esami, e neppure si
può essere rassicurati da una certa telefonata. Si potrebbe obiettare che anche il servizio militare, una lezione di violino o la formazione medica permettono
di esercitare l’autocontrollo. Ma l’azione di ‘sedersi’
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Perchè medito
dà modo di esercitare l’autocontrollo nei confronti
di valori specifici. Qui l’azione viene completamente
sostituita dall’osservazione. Certo, non varrebbe la
pena dedicare la propria vita a questa pratica se poi
si passasse il tempo in sogni erotici o nella preoccupazione di essere riconosciuti ed accettati. Purtroppo
ciò avviene comunque, fa parte della nostra umanità. Le varie culture non avrebbero prodotto gli onnipresenti codici morali, i Dieci Comandamenti (ed i
Cinque precetti), se non traboccassimo di centomila
impulsi incontrollati. Esortazioni morali e prediche
mi sono però sempre apparse rimedi insufficienti tutt’al più mi danno la misura dei miei istinti più
striscianti e incontrollabili.
Mi servono delle lenti indistruttibili, o sempre
rinnovabili, attraverso le quali poter scorgere l’amore al di là delle mie voglie e la fede al di là delle
mie inquietudini. Come distinguere ciò che in me è
convinzione radicata, ciò che forma il nucleo della
mia identità, da semplici velleità destinate a cadere?
Quali sono i personaggi che continuano a passare
davanti allo specchio della mia anima giorno dopo
giorno, anno dopo anno e quali invece i buffoni che
occupano il palco per la durata di una scena?
La pratica intensa
Una volta l’anno, sotto la guida di un insegnante
io mi siedo per l’intera giornata, e questo per periodi
di dieci giorni o anche per periodi assai più lunghi.
Praticare con questa intensità genera sofferenza fisica; di conseguenza, affrontare il dolore è diventato
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Perchè medito
parte normale ed inevitabile della mia vita. So che
è così per tanta gente – per quelli che faticano, che
sono poveri, infermi, che soffrono di malattie inguaribili, che hanno freddo e fame, in tutto il mondo. Ma la mia non è identificazione sentimentale e
masochista; semplicemente, osservo un altro lato di
me stesso. Mentre istintivamente cerco di evitare il
dolore, una saggezza che prevale sulla pura reazione
automatica mi avverte, con le parole di Socrate, che
“… dolore e piacere non sono mai presenti nell’uomo simultaneamente; e tuttavia chi vuole l’uno è
obbligato a prendere anche l’altro: si tratta infatti di
due corpi con una sola testa”.
Voglio veramente essere la persona che dichiaro di
essere? Fino a che punto accetto di essere integrato
con questo corpo petulante che pretende di mangiare, dormire, essere collocato nella posizione giusta, ed
in caso contrario protesta in modo insopportabile?
L’ autodisciplina e il vero amore
‘Mi siedo’ perché so di aver bisogno di un’autodisciplina che non metta sotto accusa le mie tendenze,
o le soffochi, ma che riordini il desiderio in amore,
trasformi paura e dolore in fede.
Per quel che mi è dato di capire, l’amore non è
un’emozione, ma è l’organizzarsi delle emozioni.
Non è una stanza ma il luogo in cui ci si sente a
casa; non è un uccello, ma è una rotta migratoria. É
un complesso di sentimenti che va al di là dei sentimenti. É il contrario del colpo di fulmine e della
sensualità romantica.
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Perchè medito
‘Sedermi’ mi ha aiutato a trovare l’amore, a vivere
l’amore, o quantomeno a viverne di più. Ha ravvivato entro i limiti delle mie possibilità il marito, il padre, lo psichiatra, il cittadino che c’è in me. La meditazione mi ha permesso di scrutare impietosamente e
di superare certi miei atteggiamenti sentimentali, ed
i miei giudizi morali, e mi ha fornito uno strumento,
un’attività in cui esprimere l’amore. Essa mi fa da
leva, e nel medesimo tempo mi stabilizza.
Qualcuno ha scritto che è soltanto ‘l’ambivalenza
che rende l’amore significativo – o addirittura possibile’. In altre parole, è soltanto perché siamo sia
separati che uniti che esiste l’amore. Senza un’esistenza individuale e degli impulsi personali, il mondo sarebbe soltanto un globo omogeneo, spoglio di
emozioni, inconsapevole, come un dito su un braccio. E tuttavia se fossimo irrimediabilmente separati,
saremmo come fredde stelle autonome poste l’una
accanto all’altra nello spazio morto. Per me l’amore
significa l’organizzazione delle emozioni umane in
quello stato complesso in cui separazione e fusione,
individualità e coinvolgimento, io e mancanza di un
io paradossalmente coesistono. Solo un individuo
può amare, ma per farlo deve cessare di essere tale.
‘Sedermi’ mi ha aiutato a svilupparmi in entrambe le direzioni. Quando mi rinchiudo, mi costringe
a spalancarmi e quando mi stacco, come una scheggia che salta via, mi ricongiunge al corpo a cui appartengo.
‘Sedermi’ potenzia lo sforzo che faccio nei miei
confronti, mette in moto la mia volontà ed il mio
impegno, ma nello stesso tempo demolisce le tattiche che adotto per proteggermi e per definirmi,
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Perchè medito
sconvolgendo il concetto che ho di me stesso. Costruisce e nello stesso tempo smonta questo ‘me’,
pezzo per pezzo.
In me dilagano tutte le speranze, tutte le aspirazioni, tutte le paure. Non posso più fingere di essere una
selezione dei miei ricordi o dei miei tratti caratteristici. Se li osservo senza reagire, tutti questi contenuti
psichici diventano accettabili, sono ovviamente parte
di me stesso – sono infatti lì, nella mia mente, li vedo
davanti a me; eppure sono anche impersonali, legati
dalla casualità, sono fenomeni oggettivi dell’esistenza che scorrono incessantemente ed inesorabilmente
sullo schermo della mia vita, senza sforzo o possibilità di controllo da parte mia, senza di me.
Nella misura in cui sono meno spinto da queste
forze, riesco a vedere più cose, a tollerare di più.
Tutte queste pulsioni mi appaiono semplicemente
come elementi della natura o colombe che attraversano il mio cielo interiore. Nel momento in cui va
a pezzi l’immagine artificiosa in cui mi riconoscevo,
sono sopraffatto dalla complessità della mia mente. Fortunatamente, la determinazione e la pazienza
che devo coltivare semplicemente per poter osservare, si sviluppano con l’esercizio, come i muscoli.
Questa miscela di tolleranza e fermezza che pratico
nella meditazione, trabocca naturalmente sulle mie
relazioni con gli altri.
L’accettazione della realtà personale
Sono certamente poche le cose che ascolto dagli
altri – ed ascoltare è la mia occupazione quotidiana
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Perchè medito
– che io non scopra in me stesso quando ‘mi siedo’.
Dipendenza, isolamento, sensualità, stanchezza, avidità, arroganza, perversione, avarizia, smania, presunzione, sono tutti vecchi amici miei. Sono in gradi di accettarli sinceramente e cordialmente in chi
mi sta vicino, sia perché li conosco dal di dentro e
non posso condannare senza condannare me stesso,
sia perché ho imparato a imbrigliare e a sfruttare la
loro energia. Per poter amare cerco di tener a bada la
complessa realtà di me stesso e, nello stesso tempo,
di afferrare la complessità della realtà dell’altro.
Conosco mia moglie perché medito da tanti anni.
Ci siamo dati appuntamenti ed abbiamo nuotato insieme, ci siamo sposati e ci siamo scontrati, abbiamo
viaggiato e costruito capanne, comprato case, partorito e cambiato pannolini insieme; in breve abbiamo fatto dappertutto cose normali. Si tratta di realtà
banali che, in un mondo di miliardi di persone non
dovrebbero influire affatto sul motivo per cui ‘mi
siedo’ e invece influiscono, eccome. La gratitudine
che proviamo l’uno per l’altra attutisce i colpi: la
vita che conduciamo ci affila come lame. Quando
mi siedo, la vita scorre attraverso me – anche la mia
vita di uomo sposato. Anche questo aspetto della
mia esistenza, con i suoi eterni coinvolgimenti, si
presenta alla mia solitaria coscienza.
Per il marito che io sono, la meditazione costitui­
sce una specie di porto al riparo del mio meschino
egoismo, dove i venti del risentimento e della collera hanno il tempo di calmarsi. Sedendomi ho il
modo di assaporare il calore e la generosità di cui
sono stato oggetto. ‘Mi siedo’ e sono come una zucca, con la sua consistenza fibrosa e la sua limitata
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Perchè medito
dolcezza, ma con un ricco apporto di elementi vitali
per chi vorrà nutrirsene; ‘mi siedo” come uno dei
buoi di una squadra che traina un carro pieno di cavalli a dondolo, macchinine e verande da ripitturare.
‘Sedendomi’ sono già quel vecchio malato in attesa della sola persona che può prendersi cura di lui,
oppure dell’altro che, un giorno, seduto accanto ad
un letto di ospedale, sarà il solo in grado di tenere a
bada la morte per un’altra ora. ‘Mi siedo’ come un
qualsiasi uomo, con desideri qualsiasi, un sognatore
che, con i mattoni di un destino condiviso, costrui­
sce un sogno comune. Ma quel che è certo è che
“mi siedo’ da solo. Che fortuna avere questa caverna,
questo rifugio, questa roccia, questo specchio che è
la meditazione, con cui posso, senza smarrirmi, forgiare, lasciare andare e riprendere, toccare e sbloccare il mio amore.
L’amore coniugale
La meditazione è la bussola con la quale solco i
mari dell’amore coniugale. Succede che diventi
la tagliola con cui fermo la volpe diretta alla stia.
L’amore è fatto di ardore profondo e di arduo impegno ed ovviamente non può essere portato avanti da
soli. Ci sono molti modi di aiutarsi reciprocamente:
secondo Martin Buber, un uomo e una donna non
possono amarsi senza un terzo punto con cui formare un triangolo stabile; esso può essere un dio, una
missione, un interesse, cioè un significato che li oltrepassi. Che dire di due che a malapena conoscono
la stella polare?
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Perchè medito
C’è una battuta scherzosa in ‘Peanuts’: “Io amo
l’umanità. Sono le persone che detesto”. L’amore è
un progetto che va continuamente realizzato. Se è
un sentimento generalizzato e informe rimane una
banalità, una vaga aspirazione, una difesa contro un
vero coinvolgimento. L’uso sdolcinato che ne fanno
dà alla parola amore un suono terribilmente falso.
D’altra parte, se l’amore è soltanto un dare ed avere,
rimane nel campo del possesso, dell’intimistico, del
narcisismo. Si tratta dell’amore possessivo che si ha
per la propria casa, la propria macchina, la propria
famiglia.
Penso che l’amore vero copra tutte due le dimensioni: sorretto dalle ali dell’ideale, porta con sé quelli
che trova sulla propria strada.
‘Mi siedo’ per amare di più mia moglie e quegli
amici e compagni con cui condivido anche soltanto
una giornata nel mio cammino dal noto all’ignoto. In certi momenti, in cui vorrei buttar giù i muri
che racchiudono il mio destino, mi è difficile amare
quella con cui il mio destino è più strettamente legato, anche se è facile amarla quando ci inzuccheriamo il tè a vicenda. É normale provare affetto per gli
amici che incontro nei fine settimana dedicati alla
famiglia e allo sport all’aria aperta; più difficile è lasciarsi coinvolgere dalla loro vita e dai loro problemi
di salute e di soldi, ne va della serenità della mia vita.
Ma la cosa più difficile è mettere al primo posto,
tra tutti gli altri, questo mio modo di essere e continuare a rischiare. Dovrei tenermi tutti i miei soldi
o avere il coraggio di darli via per scopo caritativo?
Dovrei applicarmi a studiare il testo sanzionato dalla
autorità o cantare la canzone del mio cuore?
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Perchè medito
Quando ‘mi siedo’ il denaro non mi serve a granché, il desiderio di essere approvato si spegne: è allora che le corde del mio cuore fanno veramente risuonare il loro motivo, per il bene o per il male.
‘Mi siedo’ per legarmi all’albero maestro, per udire meglio la canzone dell’amore, che continuamente
mi sfugge, ma a cui non posso sottrarmi.
Un neonato ha l’aria così fragile, ma se dimentichi
il suo pasto o lo tieni in braccio malamente, le tue
orecchie dovranno fare i conti con gli acuti della sua
collera. L’ira scaturisce da quell’istinto primario di
sopravvivenza dell’organismo, e ne è parte integrante. Ma quanti guai procura alla nostra vita quotidiana, per non parlare dei disastri sociali che provoca!
Penso che la cosa più inutile di questo mondo sia
quella di mettersi a meditare con la rabbia dentro.
Che senso ha un così inutile ribollire?
Diventare una persona migliore
‘Mi siedo’ per crescere, per diventare una persona migliore, per assistere al sorgere e allo svanire di
collere inconsistenti, e vedere che le divergenze cui
davo tanta importanza la mattina, a mezzogiorno
sono già sfumate. ‘Mi siedo’ per essere costretto a
riordinare, a ristrutturare, a ripensare la mia vita,
in modo che, vivendo in modo decente, io riesca
a trasformare poco a poco la mia collera meschina
in flessibilità, comprensione, capacità di scorgere il
punto di vista altrui. ‘Sedermi’ mi aiuta a trascendere il bambino irritabile e petulante che c’è in me.
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Perchè medito
La responsabilità sociale
Ma questo risolve soltanto i contorni del problema. Ormai non mi agito più tanto per i miei affari personali. Sono arrabbiato perché i miei voti e le
mie tasse servono solo ad opprimere altri paesi; sono
arrabbiato di dover essere giudicato per tutta la vita
sulla base di esami a quiz; sono arrabbiato perché c’è
gente che, invece di cercare, si imprigiona nel dogma e lo impone agli altri; sono arrabbiato perché si
scavano le montagne per estrarne l’energia che serve
a fabbricare lattine da buttar via.
E allora ‘mi siedo’ anche per esprimere la mia rabbia, e la forma in cui la esprimo è la determinazione.
‘Siedo’ con forza, con volontà e quando il dolore si
fa sentire, anche con una buona dose di veemenza,
‘sedermi’ mi aiuta a imbrigliare la mia collera sacrosanta. Per tutti questi anni mi sono seduto almeno
quindici ore alla settimana. Quando, come spesso
accade, mi rendo conto che parte della convinzione con cui perseguo il mio scopo mi viene da una
rabbia che non ammette che le pianure boscose e i
pascoli montani della mia psiche siano sconvolti dai
bulldozer della TV, dal dover ingerire cibi che non
nutrono, da notizie inventate, da un mare di nozioni inutili, da manifestazioni in favore di capi di stato, di divinità e dell’antiproibizionismo. Le voci del
gregge non riusciranno facilmente a strapparmi dal
mio rifugio silvestre di ben ponderata autonomia e
di franco linguaggio, perché ho potuto esercitarmi
in questo tipo di fermezza. La collera del bambino
può diventare la scintilla di una volontà adulta.
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Perchè medito
La fede
Da quello che posso capire la pratica di ‘sedersi’,
divenuta norma di vita, non è esattamente una religione, e tuttavia non può non dirsi religiosa. Per
quanto mi riguarda, non mi sono legato a scritture, a
dogmi, a gerarchie; non ho posto divieti alla mia intelligenza e alla mia autonomia politica, né mi sono
creato miti per pormi al riparo da realtà sgradevoli.
Ma mi sto sempre più accorgendo del ruolo insostituibile che la fede svolge nella mia vita pratica.
La fede che ho progressivamente scoperto in me
stesso non è né cieca né irrazionale né immotivata:
non è un voler credere. Penso proprio che ‘sedermi’
mi abbia sbarazzato delle mie credenze più di quanto lo abbia fatto la mia formazione scientifica. La
fede per me non riguarda neppure ciò che costituisce la mia vita: scopi, preferenze, impegni, affetti che
riflettono i miei ideali, le mie opinioni, i miei gusti
– tutti molto importanti, ma che non sono la fede.
Fede è quello che mi fa vivere, che mi dà la carica:
la batteria, la pompa cardiaca del mio essere. Non
è l’altra sponda, ma la barca con cui tento di raggiungerla. Non ciò che conosco, ma il modo in cui
la conosco. É presente, non passata o futura ed è la
mia risposta più piena ed autentica, assolutamente
viscerale. Paul Tillich identifica la fede con l’interesse supremo dell’uomo – il fondamento di tutto
ciò che prendiamo veramente sul serio. Vorrei poter
descrivere la fede come io l’ho scoperta, e cioè come
fame esistenziale.
La fame scaturisce dal mio corpo, viene prima della mia vita mentale e psicologica anzi, può persino
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Perchè medito
distruggerla. Io non mangio in ragione di quello che
credo, spero o desidero, o secondo le prescrizioni di
una qualche autorità, o in base a ciò che leggo. Mangio perché ho fame. Il mio corpo è un organismo
dinamico e metabolizzante, un permutatore di energia, che continuamente incorpora, trasforma, rimodella – con la vitalità che è propria di qualsiasi essere
umano o di una quercia o di un cervo. Questo essere
che io sono consuma, ricostruisce e poi crea nuova
vita emotiva e spirituale. La fede non è quello che
digerisco, ma è il processo ordinato che dà coerenza e
direzione a questo organismo perpetuamente attivo.
La fede non è qualcosa che ho e che mi fa dire
‘Credo!’ ma qualcosa che so benissimo che mi è già
stato dato, su cui si fonda il senso di ‘me’. Non la
trovo o la ricerco una volta per tutte, ma ripetutamente e continuamente, non è un insieme di pensieri e non fornisce risposte concrete e limitative.
Chi sono? Cos’è questa vita? Da dove viene? Non
lo so. In merito a questi importanti quesiti non ho
credenze. Eppure non accade mai che questo strano uccello, la mia fede, traballi sulla sua gruccia! Io
‘mi siedo’ con spassionata neutralità. Perché? Perché
quest’attività non ha lo scopo di darmi delle risposte in base a cui vivere la mia vita. É la mia vita.
Così come mangio, leggo, lavoro, gioco, io ‘mi siedo’. Anche se non ho forti convinzioni intellettuali
con cui giustificare la mia giornata, me stesso, la mia
vita, la mia cena, in ogni caso mangio! E, di solito,
anche con piacere. Non sono né un esistenzialista né
un marxista né un anoressico.
Così come la fame del mio corpo, anche la fame
della mia esistenza richiede un nutrimento quotidia-
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Perchè medito
no. Il cibo che prendo diventa il mio corpo; ciò con
cui sostento la mia esistenza diventa il mio essere.
Meditando io sono vivo, vigile, in grado di osservare, in pace con me stesso e con gli altri; vibro in
incessante mutamento, ma niente può smuovermi.
É così che compio la traversata in questo mondo
incandescente.
Chi sono?
Scientificamente so di essere vivo solo perché sono
all’interno del corpo della vita. Dal punto di vista
fisico, so di essere il prodotto di altre vite – genitori,
antenati. Repiro l’ossigeno creato dalle piante, perciò, quando inspiro ed espiro, sono un tubo collegato all’intera vita della biosfera, un piccolissimo numero dipendente da tutto il resto. Con la digestione
e il metabolismo, biotraformo le molecole organiche create da piante e animali, che io chiamo cibo,
in altre sostanze biochimiche, con le quali plasmo
questa forma chiamata corpo, che continuamente si
modifica e si rimodella, come fanno le nuvole. Alla
fine, questo processo di rigenerazione cesserà e questa forma svanirà, così com’è nata, grazie a forze e
cause naturali.
Non ho difficoltà a capire questa realtà fisica, così
ovvia e scientifica. Ma anche la mia persona, la mia
realtà psicologica sono il risultato di varie cause: le
cose che mi sono state insegnate, le esperienze che
ho avuto, le convinzioni culturali, le spinte sociali.
Questa fitta rete di causalità – fisica, biologica, psicologica, culturale – che collega il passato al futuro
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Perchè medito
passando per il presente, è l’oceano in cui galleggia, per un istante, la bolla della mia vita. Per una
bollicina così effimera, la morte non può che essere
inevitabile. E tuttavia, nel momento in cui c’è, percepisco quanto sia vitale questo essere che respira e
che pulsa, vivo, in dialogo sonoro col passato e col
futuro, con persone e cose – che crea, interpreta,
conosce – solido punto nella tela, messaggio nella
mente sintattica della creazione. La fede su cui si
fonda la mia pratica non risiede nella mia mente,
ma è l’equivalente psicologico della vitalità fisica.
Non la percepisco come pensiero ma come impulso
potente che continuamente fa sbocciare la vita. ‘Sedendo’ io posso conoscere, assumere, diventar questa diretta effusione di energia.
Mi ritrovo ‘seduto’ anche quando sono annoiato,
sofferente, pigro, distratto, preoccupato; non perché
penso che meditare mi faccia bene o che mi procuri il paradiso, e neppure perché ho una particolare
forza di volontà. Semplicemente è la mia vita che
compie la sua traiettoria. Einstein ci ha dimostrato
che ogni massa è energia. La mia vita risplende e io
‘siedo’ nella luce.
Il ruolo della morte
‘Sedermi’ mi ha mostrato e mi ha costretto ad accettare il ruolo che la morte svolge da sempre nella
mia vita. Ogni creatura cosciente sa che la somma
totale delle sue pulsazioni è limitata. Da bambino
mi chiedevo: dov’ero prima di nascere? Dove andrò
quando muoio? Quanto è lunga l’eternità e quando
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finisce? Studiando la storia ho imparato che anche
gli eroi muoiono; ho visto nelle mappe i colori degli imperi ritirarsi ed avanzare come maree. Posso
scovare qualcosa la cui legge non sia l’impermanenza? Una volta cercavo di nascondermi dietro la mia
giovinezza (ma poi sono aumentate le rughe attorno
agli occhi ed i capelli bianchi) e mi assicuro contro i
rischi di malattia; ma non c’è nascondiglio che tenga: ogni giornata termina col buio; le cose vanno
fatte oggi o non accadranno mai più.
Stranamente, invece di togliermi l’appetito e di
produrmi ‘nausea’ (probabilmente conseguenza delle indigeste salse francesi più che di una vera filosofia), la tristezza della notte che scende mi induce a
far tesoro della vita. Non è forse l’avvertimento più
universale che l’uomo possa ricevere? Allora, spaccando la legna faccio più attenzione a far cadere la
scure nelle fessure del ceppo di quercia, valuto attentamente ogni libro che intendo leggere, mio figlio
mi chiede di essere amato e curato, i sentieri del bosco richiedono manutenzione: per me si tratta di un
unico mandato, chiaro ed inequivocabile. ‘Mi siedo’
all’alba, ed il giorno passa. Ancora un’altra alba, ma
la serie è limitata, così giuro a me stesso che non
mancherò un solo giorno.
‘Sedermi’ mi inchioda all’evidenza psicologica
che la morte è l’accesso alla vita: nessun potere può
salvarmi. E poiché sono consapevole della morte, ed
ho paura, desidero vivere non in modo automatico
e reattivo, come un animale, né in maniera dipendente come un bimbo che pretende che il padre si
occupi di lui, ma scegliendo coscientemente e con
determinazione il materiale di ogni fuggevole istan-
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Perchè medito
te della mia vita. So che i petali racchiudono uno
splendore effimero, e per ricordarmi di questo, mentre l’istinto è sempre quello di sfuggire alla realtà,
occorre che io continui a confrontarmi con quel limite, con quel metronomo che dà il giusto valore ad
ogni cosa: la morte.
‘Mi siedo’ perché sapere che morirò arricchisce e
semplifica la mia vita; perciò devo fare di tutto per
trovare una disciplina ed una stabilità che mi permettano di guardare in faccia questa realtà. Per riabbracciare la vita, devo stringere la mano alla morte e
per riuscire a far questo ci vuole molta pratica. Ogni
atto di ‘sedermi’ significa morire a ciò che accade
intorno a me, abbandonare la distrazione, far cessare
ogni desiderio di gratificazione. É la vita di questo
momento, senza sovrapposizioni.
Questa rigorosa messa a fuoco mi riuscirà molto,
molto utile un giorno. Ma lo è fin d’ora.
Essere se stessi
Medito per essere me stesso, uno che non dipende dal giudizio proprio o da quello altrui. Per tanti
anni della mia vita sono stato classificato: prima a
scuola, poi dagli amici ed infine nella vita sociale.
Per quanto cercassi di combattere questa forma di
dipendenza, non riuscivo a sganciarmene.
Come spesso accade, per il mio bene i miei genitore mi soppesarono con gli strumenti di confronto:
ero bravo in questa cosa o incapace, bravo quanto
il tale, o migliore o peggiore, o il migliore di tutti o
una frana.
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Perchè medito
Oggi, meditando, scopro l’assurdità dell’emulazione. La mia vita consiste in ciò che effettivamente
vivo, non nelle valutazioni che le si sovrappongono.
‘Sedermi’ mi permette di andare al di là di una
mentalità di editorialista, di accanito commentatore, e di scavarmi una galleria in profondità, verso la
verità immediata. Ho fatto progressi: sto diventando sempre più uno zainetto vuoto, un bambino che
trova che la scuola è chiusa.
Cosa c’è da guadagnare o da perdere quando mi
siedo? Chi c’è da battere o da rincorrere? Sul vassoio
del mattino mi giunge solo questo giorno concreto,
pieno e assolutamente nuovo, e soltanto questo.
Sono contento perché sto sempre meglio con me
stesso, in me stesso. Mi lamento di meno. Mi è più facile lasciar andare idee, speranze e smettere di pretendere da me stesso, perché il semplice fatto di parlare,
sperare ed agire sono già una ricompensa sufficiente.
Mi sono ‘seduto’ senza puntelli, gingilli, comodità
e sicurezze, per osservare me stesso, quando niente
e nessuno poteva darmi delle risposte. Mi è accaduto di ‘sedermi’ e di non chiedere nulla, di non aver
bisogno di nulla e di sentirmi saziato. La mia spina
dorsale e le mie mani ora hanno una diversa solidità.
Adesso, quando mi succede di perdere l’equilibrio,
riesco a cadere più come un gatto che come un sasso.
Nella mia vita quotidiana mi esercito a diventare
la persona con cui dovrò convivere alla mia prossima seduta. Quando medito, nessuno , amico o nemico, può darmi ciò che mi manca, otogliermi ciò
che sono; e nessun mediatore, più o meno benevolo,
può interferire nella disamina che, in base ai fatti,
io faccio di me stesso: scopro di essere meno scaden-
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Perchè medito
te di quanto credevo – o peggiore; ma decisamente
reale e pieno di gemme. Che sollievo rinunciare a
desideri e ripicche, e lasciare che la distesa della mia
vita si increspi in piccole onde. Mi sento in compagnia di tanti altri bulbi primaverili, come una foglia
in un bosco di alberi caduchi: un semplice particolare piccolo e fragile, tutto solo con il mio destino,
e nello stesso tempo partecipe del coro frusciante di
una foresta sterminata.
L’esperienza pratica della verità
Prima che mi insegnassero a meditare esploravo
la vita in modo prevalentemente intellettuale: libri e
conferenze mi fornivano ispirazione e suggerimenti,
ma, in ultima analisi, tutto ciò che veniva detto e
scritto eludeva il problema.
Meditando io prendo posizione per qualcosa e
sono qualcosa, non soltanto a parole, ma con la mia
mente, il mio corpo e l’intera mia vita. Qui – protetto dal maestro, dall’insegnamento e dalla pratica – trovo modo di scendere gradino dopo gradino
nella luce e nell’oscurità che sono in me, nell’Hitler
e nel Buddha nascosti dentro me. Rivivo il bambino
spaventato che, in un mondo minacciato dall’olocausto, percorre in autobus, d’inverno, le strade buie
della città, o il ragazzo che, con il sacco in spalla,
cammina sotto cattedrali di abeti splendenti nel sole
e che, gridando o piangendo, percorre tutta la gamma del potenziale umano, dal sadismo all’amore.
Ora vedo che porto la frusta e gli stivali d’aguzzino e soffre con i più miserabili, e bevo ai torrenti di
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Perchè medito
montagna con poeti ed esploratori: tutte le vite sono
presenti in me, e tutto questo potenziale psicologico
si esprime in azioni della mia vita quotidiana, sia
pure implicitamente o simbolicamente. Tutto ciò
che sono sgorga dall’universalmente umano. Meditando ne scorgo chiaramente l’impatto, così come
percepisco il condizionamento della storia e l’ispirazione che mi viene dalla visione profonda. ‘Mi siedo’
in aperto confronto con tutto ciò con cui mi sono
scontrato e a cui ho reagito; la mia risposta del momento è quello che mi plasma.
La vita ha inizio in una selva di condizionamenti;
le nostre reazioni istintive a questi condizionamenti
creano altrettante limitazioni. Per liberarci occorre
che diventiamo consapevoli del processo di condizionamento, e che impariamo a dargli una risposta
adeguata. La meditazione mi rende cosciente di
ogni mia scelta sicché, quando passo all’azione, mi
ritrovo più attento, più concentrato, più aperto e
comprensivo.
L’eredità della meditazione
La meditazione trasforma anche i motivi per cui
medito: ho cominciato per ragioni legate alla mia
situazione storica e personale, ma la tecnica che ho
ricevuto e che è servita a milioni di esseri umani nel
corso di migliaia di anni, ha dilatato il mio orizzonte
su visioni senza tempo. La mia è una ricerca individuale ma non solitaria: se posso usare questo strumento è perché mi è stato trasmesso. Altri prima di
me hanno iniziato questa ricerca di una vita piena-
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mente umana, altri la continueranno; anche la mia
fragilità, la mia stessa cattiveria allora acquistano un
senso, perché formano l’humus su cui devo crescere.
E per quanto grandi mi appaiono questi miei sforzi,
essi non sono che una parte esigua del lavoro immane che gli altri hanno compiuto.
Ora so che posso fiorire, come un arbusto, in una
foresta illuminata di incessanti cicli di vita. Fiorire, per un essere umano, significa applicarsi sinceramente e scrupolosamente ad osservare la propria
vita, perché solo da questa osservazione scaturisce
l’immagine vera della propria umanità. Anche se
condizionato dal nichilismo e dalla paura, senza
il confronto di credenze elementari e consapevole
della malvagità e dell’odio spaventoso che esistono
nell’uomo, io posso essere, io voglio essere un’espressione di fede, di una fede senza oggetto. Non sarà un
gran ché, ma posso radicarmi profondamente in ciò
che è vero, imparare a vederlo e trasmettere ad altri
la mia visione.
Le mie motivazioni
Ho imparato a meditare in risposta al male, alla
paura, alla mancanza di senso, all’individualismo
paranoico che domina questo nostro tempo: ed anche per coerenza verso la speranza, l’idealismo ed il
senso di eternità che hanno permeato la mia giovinezza. La meditazione mi aiuta a vivere quella che
prima era una fede inconscia, mi suggerisce – sia a
livello umano che professionale – parole che guariscono e che per me hanno senso anche in condizio-
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ni apparentemente assurde, perché rappresentano
l’anello di congiunzione con l’universale. Mi fa toccare in ogni momento il fondamento umano di ogni
mio gesto e di ogni azione altrui.
Mi esercito a conoscermi, e quello è il mio laboratorio di ogni giorno. Non misuro più gli eventi sul
metro angusto della mia vita. Spesso mi accade di
dimenticare il tempo e di sentirmi nel cuore della
storia.
‘Siedo’ in solitudine per liberarmi dal mio isolamento. Quando sono sprofondato nel mio io scuro,
trovo la vera sorgente della mia appartenenza.
Freud riteneva che alla base della paura ci fosse
timore della castrazione, più temibile della morte
stessa. Io interpreto questo complesso come paura
del dolore fisico, della mutilazione, dell’isolamento
sociale, dell’ostracismo, della perdita del senso di
appartenenza, della capacità generativa e della continuità nel ciclo delle generazioni.
Accade che le due maggiori difficoltà con cui devo
confrontarmi quando medito per ore o giorni interi, siano il dolore fisico ed il timore di perdere la
posizione sociale che ritengo mi competa. Un dolore che inizia nelle ginocchia o nella schiena può
invadere l’intero corpo e continuare a bruciare senza
tregua. Nel tormento di quelle ore interminabili,
previsioni e calcoli di vantaggi sociali perdono ogni
consistenza. Mi balenano altri desideri: una casa migliore, delle vacanze invernali ai tropici; la deferenza
di colleghi che pendono dalle mie labbra man mano
che avanzo nella carriera. Mi invento le crisi finanziarie a cui sono meno preparato, sperimento con la
fantasia il rifiuto umiliante che schiaccia il derelitto
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Perchè medito
colpevole di essere povero o di un’altra razza, o in
qualsiasi modo impotente, mali oscuri nascosti nelle
mie radici o forse nel mio futuro ( e nelle radici e nel
futuro di ogni uomo).
Perché sono qui seduto?
Un tordo vola su un ramo basso, al limite della
radura e la tranquilla sera del Vermont con il suo
canto squarcia trionfale. Io rimango qui, immobile.
Ho ricevuto come un tramite, ricolmo dei doni di
coloro che hanno amato e lasciato una traccia; ed
il rimanere fermo in questa posizione di fuoco è il
canto della mia specie.
La meditazione mi fa superare le mie paure più
profonde, mi fa più libero di vivere secondo il mio
cuore, accettando le conseguenze, ma anche raccogliendo i frutti di questa autenticità. Spesso ho chiamato dolore ciò che era soltanto solitudine e paura;
se osservate, queste si dissolvono.
Trovo che dover sostenere per un pò questo sforzo
rigoroso è un prezzo molto esiguo da pagare per la
musica che sento dentro – musica feconda che scaturisce dal cuore della vita stessa.
La libertà mentale
Medito per trovare la libertà mentale. Ho avuto
in sorte la capacità di pensare in modo razionale,
logico, scientifico, in una cultura in cui il pensiero
sintetico ed aggressivo rappresenta un’arma di sopravvivenza. Ma anche il più grande apologista della
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Perchè medito
Ragione, Socrate, ha dimostrato di avere lo stesso
rispetto per la raffigurazione mitico – poetica. Molti
dialoghi socratici, infatti, indicano i limiti della logica ed il ruolo essenziale del mito.
Mentre medito, un milione di pensieri mi attraversano la mente ma, conformandomi alla tradizione che mi viene dai grandi maestri indiani del
passato, cerco di lasciarli andare tutti, di lasciarli scivolar via come nuvole, come l’acqua, come il tempo.
Manco a dirlo, spesso mi lascio intrappolare e mi
ritrovo a girare intorno a un punto fisso, come un
aquilone che si è impigliato nei rami di un albero.
Ma, dopo un pò, vuoi per la noia, per la stanchezza,
per volontà o per un’intuizione improvvisa, una raffica di vento mi libera e posso ripartire.
La meditazione è la strada che mi riporta alla
flui­dità di uno stato pre-mentale, all’atmosfera pregnante da cui scaturiscono, come scintille, metafora, intuizione e ragione. Immerso in una cultura di
conquiste intellettuali, mantengo una integrità, una
riserva in cui il cerbiatto della poesia riesca a circolare liberamente tra i portabagagli stipati di valigette
mediche e di testi di conferenze. Quando gli impegni minacciano di soffocarmi, la meditazione è come
un provvidenziale dolorino che non mi dà tregua, il
chiacchierone che mi tiene sveglio, l’indice ammonitore che mi avverte e mi rimette in fuga. Devo ritornare sempre a ciò che è potenziale, perché qualsiasi
rotta non è che una risposta mutevole, imposta dalle
circostanze, al vento che spira non si sa da dove.
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Perchè medito
La consapevolezza intensa
‘Mi siedo’ per ancorare la mia vita a certi stati
d’animo, per allinearla su cuore e mente e per irradiare sugli altri le mie scoperte. Non posso buttar
via i miei ideali giovanili e compromettere la serenità della mia vecchiaia. Nel quieto benessere e nel
profondo rilassamento che accompagnano i momenti di consapevolezza intensa e silenziosa, la mia
vita si sfoglia strato dopo strato. Ogni nuovo strato
di verità che viene allo scoperto, viene a sua volta assottigliato, raschiato via, finché appare un altro strato più profondo. Medito per forgiare la mia vita su
ciò che è chiaro, semplice, universale, che ha già in
sé la sua realizzazione. Ed è una impresa senza fine.
Tanti giorni della mia vita non sono stati realmente vissuti; ma dopo ogni fallimento mi sono sempre rituffato in questo cammino di autocontrollo
e di ricettività affettuosa. Medito semplicemente
per esprimere l’amore e la dignità di tutto ciò che
è umano.
Revisionato da Biblioteca Vipassana, 2015
I titoli dei paragrafi sono stati posti dalla Redazione.
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