l`asciugamano di dio. per prendersi cura - Diocesi di Savona
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l`asciugamano di dio. per prendersi cura - Diocesi di Savona
L’ASCIUGAMANO DI DIO. PER PRENDERSI CURA corresponsabili nella casa che è la famiglia e la parrocchia SCHEDE FORMATIVE SULLA CORRESPONSABILITÀ COME PRENDERSI CURA. PER GIOVANI E ADULTI. ADULTI. Quello che trovate in queste pagine è un percorso formativo da realizzare in parrocchia con i giovani e gli adulti. Sette incontri che parlano della tematica della corresponsabilità come prendersi cura. Sono riflessioni che potete sviluppare poi in modo autonomo, pensando a come presentare i contenuti nell’incontro specifico. Non sono il commento dei vangeli quaresimali. Il sacerdote o il catechista possono trovare materiale che noi consideriamo “interessante” per l’approfondimento in gruppi specifici. Il percorso può essere utilizzato anche al di fuori del periodo quaresimale. 1. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: PROTEGGERE L’ALTRO 2. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: AGIRE PER LA GIUSTIZIA 3. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: SOLLEVARE L’ALTRO 4. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: SILENZIO PAZIENZA FRAGILITÀ 5. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: LA LAVANDA DEI PIEDI 6. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: IL PROGETTO ABITARE CORRESPONSABILE 7. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: EVANGELII GAUDIUM PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: PROTEGGERE L’ALTRO Proteggere. Cosa vuol dire? Etimologicamente rimanda al senso del coprire, coprire perché nulla faccia male. Le nostre case, le nostre comunità cristiane, luoghi in cui si dovrebbe pratica l’arte della cura, sono chiamati ad essere luoghi di protezione. Non campane di vetro sotto cui riparare dalla vita, ma luoghi in cui la presenza degli altri rende più forti, più capaci di reggere l’urto, di affrontare le paure, i turbamenti, il possibile disagio che comunque, inevitabilmente si incontra nella quotidianità. Le difficoltà della vita ci possono ferire, lasciare in noi dei tagli, dei lividi. Serve allora qualcuno che ci curi e a nostra volta diventeremo curatori. In questi momenti ricordiamoci di questo: ogni ferita porta con sé una feritoia. Cioè ogni dolore porta con sé una luce, uno spiraglio, una via d’uscita, di superamento, una possibilità di maggiore conoscenza della propria umanità e della propria fede. Gesù Cristo ci mostra che anche la morte ha una via d’uscita. Per imparare a proteggere è importante importante pensarci come un vaso saldato con l’oro. Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello. Questa tecnica è chiamata "Kintsugi." Oro al posto della colla. Metallo pregiato invece di una sostanza adesiva trasparente. E la differenza è tutta qui: occultare l'integrità perduta o esaltare la storia della ricomposizione? Facciamo sempre fatica a fare pace con le crepe! Spaccatura, frattura, ferita, sono percepite come l'effetto meccanicistico di una colpa, perché il nostro pensiero ci ha addestrati a percorrere sempre e solo una delle biforcazioni: o è intatto, o è rotto. Se è rotto, è colpa di qualcuno. Nella vita invece c’è una realtà e il suo contrario. Tesi e antitesi continue che spesso non si risolvono perché non possono essere risolte. Per questo abbiamo bisogno di un pensiero per il quale si accolgono le contraddizioni della vita e la compresenza degli opposti. Il dolore è parte della vita. A volte è una parte grande, e a volte no, ma in entrambi i casi, è una parte del grande puzzle, della musica profonda, del grande gioco. Il dolore fa due cose: Ti insegna, ti dice che sei vivo. Poi passa e ti lascia cambiato. E ti lascia più saggio. A volte. In alcuni casi ti lascia più forte. In entrambe le circostanze, il dolore lascia il segno, e tutto ciò che di importante potrà mai accadere nella tua vita lo comporterà in un modo o nell’altro. Metti ordine nella tua vita e sii aperto alle contraddizioni! Con Gesù Cristo lotta per il bene e per la giustizia! La vita è integrità e rottura insieme, perché è ricomposizione costante e paziente. Rendere belle e preziose le persone che hanno sofferto significa significa saper proteggere. Questa tecnica si chiama "amore". PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: AGIRE PER LA GIUSTIZIA Il prendersi cura dell’altro non è mai chiuso in se stesso, stesso non si risolve in una relazione fra due persone. È attento al tempo ed al mondo, è socialmente connotato. connotato Non ci può essere cura del disagio, delle paure dell’uomo, se non c’è contemporaneamente l’esigenza e la costruzione della giustizia sociale. Le nostre case e le nostre comunità cristiane devono allora essere luoghi protetti, ma con le finestre spalancate sull’ingiustizia del mondo cui appartengono. Luogo di cura e laboratorio valoriale sempre vivo per la costruzione di una città degli uomini rifondata sulla giustizia, attraverso la legalità e la solidarietà. Le nostre comunità, le nostre case… I luoghi in cui tutti noi, quotidianamente, sperimentiamo il gusto dolce della simpatia umana e il gusto amaro del fallimento, della debacle educativa. La passione per la giustizia non è solo questione di essere attivi e positivi, ma prima di tutto è la manifestazione del divino dentro di noi, manifestazione di Dio che dà senso alla vita. Il percorso umano di ogni persona è fatto di tanti “noi”. E questi noi si dovrebbero mettere in pista soprattutto quando la persona non ha più la debita considerazione e quando non le si riconoscono i propri diritti. Ma di fronte alle ingiustizie perché Dio non interviene? Dio non fa, ma fa sì che le cose si facciano: è la pedata di Dio che ci sprona ad agire per la giustizia come dice don Luigi Ciotti. Il nostro obiettivo di fronte alle ingiustizie è la giustizia. La legalità e la solidarietà i due strumenti per raggiungerla. La legalità, cioè la giustizia degli uomini, è un percorso, un cammino che non finirà mai, come la solidarietà. C’è un pericolo: la solidarietà, esercitata troppo a lungo, può nascondere il vuoto dei diritti e i ritardi della politica. Non va bene troppa solidarietà e poca giustizia! Cosa fare: essere ospedale da campo, essere denuncia delle storture. 1. La Chiesa come ospedale da campo ci è stata presentata da Papa Francesco. È la Chiesa dell’incontro: stare sulla strada, stare nella piazza, vedere, relazionarsi, guardare le persone negli occhi. È la Chiesa del legame: la capacità non solo di intervenire ma di creare rapporto, accompagnare, seguire. A volte noi siamo i curati, a volte siamo i curatori. Tante volte il vangelo ci parla della strada. La strada insegna il cammino, a non dimenticarci che le persone si incontrano, che le persone sono storie e non derive irreversibili. Strada significa ascolto, conoscenza dei limiti. Lì è possibile incontrare Dio incontrando gli altri ed è possibile incontrare gli altri incontrando Dio. 2. La Chiesa della denuncia degli abusi di potere, degli abusi del denaro, degli abusi delle persone. Il cardinale Ballestrero diceva: “La denuncia è annuncio di salvezza”. Abbiamo una responsabilità e tutti insieme, ciascuno nel proprio ruolo, dovremo rendere conto dei silenzi a danno delle persone più deboli. Siamo chiamati alla testimonianza cristiana e alla responsabilità civile. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: SOLLEVARE L’ALTRO Sollevare. Vuol dire innanzitutto farsi vicini, diventare prossimi. Vicini al cuore dell’altro, ai suoi angoli bui, alle sue facce più difficili da guardare, più fastidiose. Avvicinarsi senza reticenze e paure, come Francesco d’Assisi al lebbroso, nella capacità di chi sa cogliere l’altro senza remore. E poi chinarsi. Per sollevare devi necessariamente chinarti, cambiare prospettiva e livello, inginocchiandoti, perché non ci si può sollevare che insieme. Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi! Ma si solleva, anche, dando speranza. La speranza è il motore ed il fine di ogni prendersi cura. È speranza solida e concreta, impegno quotidiano, scelta, missione. È la distanza che si dà tra quello che viviamo e quello che sarà. È un bisogno di futuro che nasce da un’unica, grande consapevolezza che ogni persona vale quanto il mondo. Ogni persona che varca la soglia delle nostre comunità cristiane dovrebbe essere riconosciuto e sentirsi così, per quello che realmente è: un essere speciale. Ma ci chiediamo se riusciamo, ancora, nelle nostre quotidianità lavorative, a mettere al centro la persona, nella sua globalità! Ricordiamo Ricordiamo un’immagine, raccontata da un monaco camaldolese, che invitava a posare lo sguardo su di una chitarra ed a provare a fare attenzione alla sua forma. Quello che colpisce è che essa possiede un interno, un corpo spazioso e vasto che rimane invisibile agli occhi e che chiamiamo cassa armonica. È uno spazio ospitante, permeabile: si lascia attraversare dal flusso dell’energia sonora, accoglie ogni suono singolare e gli permette di fiorire, gli consente di mettere ali e di volare, di intrecciarsi con altri suoni, di cospirare. Immaginiamo adesso di fare delle pallottole di carta e di riempire questo vuoto. Che cosa accade? Ci accorgiamo che pizzicando le corde i suoni non trovano più una culla dove nascere, dove potersi espandere, respirare: muoiono sul nascere, di asfissia e di rigetto. Potremmo considerare la nostra attenzione all’altro, a chi entra nelle nostre comunità cristiane, a chi chiede una mano, come la cassa di risonanza di questa chitarra. Sappiamo essere uno spazio vuoto e accogliente, pronto a farsi inondare dal mistero doloroso dell’altro, a lasciarlo esprimere nella sua unicità di suoni, dissonanti magari, senza soffocarne la vibrazione nell’ovatta delle nostre certezze? Se come comunità cristiane siamo fragili nelle relazioni, saremo saremo anche fragili nella missione. Se un gruppo parrocchiale, se un consiglio pastorale non curano la qualità delle relazioni umane presenti nella comunità, non realizzano il primo loro impegno di evangelizzazione. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: SILENZIO PAZIENZA FRAGILITÀ Silenzio e pazienza. L’incontro con l’altro pretende la nostra attenzione totale, un’attenzione che esige di venire a contatto con l’altrui, ma prima ancora con la propria fragilità. La mistica Simone Weil lo ricordava con queste parole: “Ogni volta che facciamo veramente attenzione, distruggiamo una parte di male che è in noi stessi”. E quest’attenzione richiede due presupposti fondamentali: il silenzio di quella cassa di risonanza ricordata nell’incontro precedente, il silenzio necessario ad ascoltare il battito di un cuore, non il mio, ma il cuore dell’altro. Perché è nel silenzio che accogli, è nel silenzio che ti prendi cura. E la pazienza, che nel suo senso primario è “soffrire con”, è la passione. È la pazienza del contadino che aspetta che il tempo faccia il suo mestiere, è la pazienza del genitore, la pazienza dell’educazione. La pazienza di chi accompagna nel rispetto dei passi dell’altro: se tu ti fermi, mi fermo con te. Perché la strada del prendersi cura è un cammino che va percorso insieme: è un cammino di ricerca di senso, di costruzione del sogno, è progetto, è essenza. Quando avrò compreso qual è l’essenza, quando ci avrò scorto che l’errore non è la fine della strada e che un uomo è grande non quando non cade, non quando non sbaglia, ma quando riconosce il suo errore e trova la forza di rialzarsi e ricominciare, allora avrò colto il senso del mio prendermi cura ed allora “io sì, che avrò cura di te”. Apprezzare le reciproche fragilità. fragilità Il fallire, il cadere, il perdere e il perdersi è inesorabilmente inscritto nella nostra umanità. Siamo esseri fallibili e per questo meravigliosamente preziosi, come gli oggetti più fragili e perfetti. Inesorabilmente fragili. Tutti: chi si prende cura assieme a chi è curato. Ogni volta che pensiamo alla parola fragilità, ci vengono in mente quegli enormi pacchi al cui interno si nasconde, si preserva, qualcosa di piccolo, di fragile, di prezioso. Accanto all’etichetta fragile, è apposta un’altra etichetta “maneggiare con cura”. È li che cominciamo a pensare a quanto dolore provochiamo nell’altro quando non cogliamo il senso delle sue ferite. E spesso sono le ferite altrui, paradossalmente, a stimolare il nostro crudele narcisismo. Ed emerge il fariseo: non sono come quello lì, pago sempre le decime, digiuno, ecc., cioè io sono migliore. Talvolta sono proprio i dolori degli altri a nutrire il nostro “IO”. E Dio? Come deve essere infelice! Un Dio che nel momento della creazione è diventato ostaggio di ciascuno di noi. Un Dio che non può permettersi di perdere nessuna delle sue creature. Un Dio piccolo, fragile, in nostra mano. Non nel senso che possiamo muoverlo come vogliamo, ma un Dio cui facilmente possiamo provocare nuovi dolori. Un Dio amore, “impotente”, che si ferma sulla soglia della nostra libertà. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: LA LAVANDA DEI PIEDI Da un’omelia di Mons. Tonino Bello Una volta, nello scrivere una lettera alla mia Diocesi per la Quaresima, decisi di darle proprio questo titolo “La Quaresima: dalla testa ai piedi”. Dalla testa, per lo shampoo di cenere che ci viene fatto il Mercoledì delle ceneri. Ai piedi perché dopo la lavanda dei piedi finisce la Quaresima e comincia il triduo pasquale. Dalla testa ai piedi: un cammino abbastanza lungo. Non si tratta di percorrere il metro e mezzo o i due metri della nostra altezza, ma di andare dalla testa propria ai piedi degli altri. Un cammino lungo, molto lungo! Cenere e acqua, inoltre, sono gli ingredienti del bucato di una volta, simboli di penitenza e di servizio. Gesù ha compiuto proprio questo gesto. La sera del Giovedì santo, si è alzato, è andato verso gli Apostoli e ha preso loro i piedi par lavarli. Anche i piedi di Pietro che non voleva. Poi Gesù è andato da Giovanni e da Giuda. Ha lavato anche i piedi di Giuda, quei piedi che non sono riusciti ad entrare nell'immaginario della gente. Eppure sono stati anch'essi lavati da Gesù, e sono stati lavati per noi, per la gente che sbaglia, per la gente che pecca, per la gente che torna... San Giovanni dice che Gesù si alzò da tavola, depose le vesti, si cinse l'asciugatoio, lavò i piedi e riprese le vesti. Nel testo greco sono adoperati gli stessi verbi che pronuncia Gesù quando dice: Io lascio la mia vita per riprenderla di nuovo. Questa è una spia, ci fa capire che questo gesto non è un gesto emotivo, ma è proprio la descrizione in formula breve della Passione, e quindi dell'Eucaristia. Questo gesto spiega la logica dell'Eucaristia: Gesù dice che la nostra signoria, la nostra affermazione, sta nel servizio. Si alzò da tavola. tavola. Che cosa significa si alzò da tavola? Prima di tutto che l'Eucaristia, quindi la Messa, non sopporta la sedentarietà, non tollera la siesta, non permette l'assopimento della digestione. Tante volte, stando a Messa, ci sentiamo gratificati: che importa di tutto quello che succede nel mondo, dei problemi della giustizia! Bangladesh, Sri Lanka, dove si trovano? Che importa dello Sri Lanka! Amazzonia, Burundi: che importa di tutta questa roba? Si alzò da tavola: Non possiamo rimanere in chiesa; la Messa è una forza che spinge fuori! La Messa obbliga ad abbandonare la tavola, sollecita all'azione, spinge a lasciare le nostre cadenze residenziali. Ci stimola ad investire il fuoco che abbiamo ricevuto in gestualità dinamiche e missionarie. Questo è il guaio delle nostre Eucaristie: spesso ci si fiacca nel tepore del cenacolo. E' bello rimanere dove ti fanno indugiare le cadenze dei canti, l'atmosfera di solidarietà e il trasporto dell'amicizia.. Se non ci si alza da tavola, l'Eucaristia rimane un sacramento incompiuto. Depose le vesti. vesti. Chi si alza da tavola, infatti, deve deporre le vesti, non può andar via con il bagaglio. Quali vesti? Le vesti del tornaconto, del calcolo, dell'interesse personale. Se smaniate per diventare ricchi, se smaniate per le carriere rampanti, per scavalcare gli altri nel fare strada, se smaniate per avere il doppio, il triplo stipendio, usciamo da questa Chiesa! Se in casa vostra permettete che vadano avanti la logica dell'accumulo, del lusso, dello spreco, della mentalità borghese, del prendersi una, due, tre o quattro macchine, usciamo dà questa chiesa! ...Deporre le vesti del dominio, dell'arroganza... A volte siamo arroganti anche quando presentiamo Gesù Cristo! Quando, ad esempio, lo presentiamo con faccia arcigna, con rabbia, con fare riottoso, e, così, siamo intolleranti. Deporre le vesti dell'egemonia, della prevaricazione, dell'accaparramento.... ...Deporre le vesti significa ricusare il potere! Non possiamo amoreggiare col potere, non possiamo coltivare intese sottobanco offendendo la giustizia! Magari col pretesto di aiutare la gente!... …Avere potere significa salire sulle spalle degli altri per elevarsi. Deporre le vesti significa questo: rimanere nudi. La Chiesa deve perdere i segni del potere e conservare, invece, il potere dei segni: il potere di porre dei segni che siano scrupolo, spina nel fianco del mondo. Si cinse l’asciugatoio: la Chiesa del grembiule. grembiule. Parlo spesso della Chiesa del grembiule. Il grembiule è l'asciugatoio, l'unico dei paramenti sacri che viene ricordato nel Vangelo. Gesù non mise né la pianeta, né la casula, né il camice... si cinse l'asciugatoio. Ma quando si parla di questo non ci si scalda tanto, fa più immagine la Chiesa del lezionario, la Chiesa del rito. Immaginate un dibattito in televisione e un vescovo che vi partecipa con il grembiule!... ...solo se avremo servito potremo parlare e saremo creduti. L'unica porta che ci introduce oggi nella casa della credibilità è la porta del servizio. Leggiamo ancora il Vangelo di Giovanni: Dopo che ebbe finito di lavare i piedi ai suoi discepoli riprese le vesti, sedette di nuovo e parlò. Dovremmo agire proprio come Gesù. Egli parlò soltanto dopo aver servito. Altrimenti la gente non crederà alle nostre parole. Se esse, infatti, non sono sorrette da una esemplarità forte, non producono nulla. Ecco perché vorrei accendere il vostro cuore ed il vostro impegno per il volontariato, per il servizio, nelle vostre comunità parrocchiali, a favore dei poveri. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: IL PROGETTO ABITARE CORRESPONSABILE Scarica la brochure. Il tempo di Avvento ha visto la realizzazione di alcuni incontri nelle parrocchie per rendere concreto il nostro progetto sull’abitare. Qualche gruppo di famiglie è già partito con il suo azionariato diffuso e con l’accompagnamento quindi di alcune famiglie in difficoltà abitativa. La proposta continua e vuole vedere nella Quaresima un momento propizio per ampliare la nostra azione a vantaggio delle persone più deboli. Se la situazione lo richiede, vi invitiamo a ripresentare il progetto al fine di 1. iniziare il discorso, se non è stato ancora presentato alle persone, 2. coinvolgere un numero maggiore di singoli e di famiglie, 3. monitorare l’eventuale esperienza iniziata in Avvento, 4. organizzare un incontro con gli operatori della Caritas e della Fondazione ComunitàServizi. Potete inoltre presentare in parrocchia il comunicato stampa che la Diocesi ha illustrato alla società civile savonese il 30 novembre scorso circa il suo patrimonio immobiliare. Scarica il pdf. PRENDERSI CURA NELLE RELAZIONI: EVANGELII GAUDIUM A questo link http://www.vatican.va/holy_father/francesco/apost_exhortations/documents/papafrancesco_esortazione-ap_20131124_evangelii-gaudium_it.html potete stralciare dall’Esortazione Apostolica del Santo Padre i pezzi che volete approfondire nell’incontro. In alto sulla destra del link avete la possibilità di scaricare in pdf tutto il documento. Riportiamo qui sotto alcune sottolineature tratte da un articolo di Aldo Maria Valli "La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù": inizia così l'Evangelii gaudium, con cui Papa Francesco affronta il tema dell'annuncio del Vangelo nel mondo di oggi. É un appello a tutti i battezzati, senza distinzioni di ruolo, perché portino agli altri l'amore di Gesù in uno "stato permanente di missione" (25), vincendo "il grande rischio del mondo attuale": quello di cadere in "una tristezza individualista" (2). Il papa invita a "recuperare la freschezza originale del Vangelo", Gesù non va imprigionato entro "schemi noiosi" (11). Occorre "una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno" (25) e una riforma delle strutture ecclesiali perché "diventino tutte più missionarie" (27). Su questo piano Francesco si mette in gioco in prima persona. Pensa, infatti, anche a "una conversione del papato" perché sia "più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell'evangelizzazione". Il verbo messo al centro della riflessione è "uscire". Le chiese abbiano ovunque "le porte aperte" perché tutti coloro che sono in ricerca non incontrino "la freddezza di una porta chiusa". Nemmeno le porte dei sacramenti si dovrebbero mai chiudere. L'eucaristia stessa "non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli". Il che determina "anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia". (47). Molto meglio una Chiesa ferita e sporca, uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa prigioniera di se stessa. Non si abbia paura di lasciarsi inquietare dal fatto che tanti fratelli vivono senza l'amicizia di Gesù (49). Su questa via la minaccia più grande è quel "grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando" (83). Non ci si lasci prendere da un "pessimismo sterile" (84). Il cristiano sia sempre segno di speranza (86) attraverso la "rivoluzione della tenerezza" (88). Francesco non nasconde il dissenso verso quanti "si sentono superiori agli altri" perché "irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato" e "invece di evangelizzare, classificano gli altri". Netto è anche il giudizio negativo verso coloro che hanno una "cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo" nei bisogni della gente. (95). Questa "è una tremenda corruzione con apparenza di bene... Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!" (97). La predicazione ha un ruolo fondamentale. Le omelie siano brevi e non abbiano il tono della lezione (138). Chi predica parli ai cuori, evitando il moralismo e l'indottrinamento (142). Il predicatore che non si prepara "è disonesto ed irresponsabile" (145). La predicazione offra "sempre speranza" e non lasci "prigionieri della negatività" (159). Le comunità ecclesiali si guardino da invidie e gelosie. "Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?" (100). Di fondamentale importanza è far crescere la responsabilità dei laici, finora tenuti "al margine delle decisioni" a causa di "un eccessivo clericalismo" (102). Importante è anche "allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa", in particolare "nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti" (103). Nel rapporto col mondo il cristiano dia sempre ragione della propria speranza, ma non come un nemico che punta il dito e condanna (271). "Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri" (272). "Se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita" (274).