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IL SENSO
TI APPARIRÀ VIVEN
VIVENDO
(HENRY E LE NUVOLE)
di Enrico Giacometti
...semplicemente non è la vita che sognai...
...nei miei pensieri di bambino, un mondo grande
immaginai per me...
(Non è non è – Bruno Lauzi)
www.enricogiacometti.com
[email protected]
Avevo vissuto così, istante per istante, minuto dopo minuto,
per una moltitudine interminabile di giornate.
Avevo sperimentato come ci si può ubriacare di quotidianità
e di lavoro.
Mi sembrava che avrei potuto andare avanti così per migliaia
d’anni, senza cambiamenti, in un’infinità di giornate di rilassata consuetudine.
Mi pareva di aver trovato un equilibrio.
I
IL VUOTO DEL CIELO
Quasi inavvertitamente però un senso indefinito d'inquietudine si era insinuato in me... Ma mi era sembrato sufficiente
ignorarlo, lasciandomi sommergere completamente dai mille
impegni quotidiani.
Due anni...
Due anni spariti senza lasciare traccia.
Due anni...
Uno spazio vuoto nella memoria.
Due anni avevo lavorato in quello studio d'architettura.
Poi un giorno di primavera…
I primi tempi mi sembrava che il lavoro mi facesse bene: mi
aiutava a non pensare.
La mia vita era diventata di una semplicità e di una regolarità
inconsueta.
Mi alzavo la mattina presto, facevo colazione al bar, e andavo a lavorare.
Una pausa per il pranzo e poi di nuovo a lavorare.
Uscivo alle sette, andavo in palestra, tornavo a casa.
Mangiavo un boccone, mi facevo venir sonno davanti alla
televisione, e mi trascinavo a letto.
Non pensavo a niente.
Non mi mettevo più tanti problemi, tutto era pianificato, un
meccanismo preciso ed inesorabile.
...un giorno normale come tanti altri, come altri mille prima e
mille altri dopo, tutti uguali, senza sorprese, di una confortante uniformità e regolarità...
...mentre camminavo per le vie del centro soprappensiero,
senza pensare a niente, in un paesaggio senza profondità, un
sipario di teatro incollato sullo sfondo... portici e strade di
cartone grigio...
3
...all’improvviso...
…lontano...
…appena percettibile…
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…un brusio... un suono…
che s’infrange, morbida ed inarrestabile al tempo stesso.
...da una finestra aperta sulla strada...
Dove?… Dove avevo sentito quella canzone?…
… una chitarra elettrica... una vecchia canzone triste …
Quando? …
…lenta… suadente… nell’aria..
...non riuscivo... non riuscivo...
…leggera e densa…
Poi, un lampo ...una consapevolezza inesprimibile…
…pervadeva i portici e le strade...
...una stella cadente di sbieco tra i miei pensieri...
…si spandeva come un profumo, saliva su, sopra i tetti, tra i
camini e le antenne, fino a perdersi nel cielo...
Un significato perduto…
Girai lo sguardo attorno...
...i portici ocra... i tetti rossi ...il cielo azzurro…
…qualcosa di vago ed indefinibile...
…un’antica malinconia immensa…
…pensieri fuggenti…
…qualcosa ... evanescente...
...qualcosa che io...
Una specie di risonanza, di eco, si ripeteva, si ripeteva dentro
di me. Cresceva gradualmente, ma con la forza di un’onda
5
Mi sentii mancare il fiato.
I portici ocra, i vecchi palazzi, i tetti rossi, cominciarono a
trasudare un’antica malinconia immensa.
La terra piangeva, il cielo sorrideva.
I contorni delle case divennero indistinti, sfumati, ed il suolo
sembrava oscillarmi sotto.
Puntai i piedi, presi fiato e alzai lo sguardo verso una nuvola
bianca che passava rapida nel cielo.
Ma quello che vidi non era lo stesso di prima.
Tutto un mondo perduto mi si svelò all’improvviso.
In un attimo mi accorsi delle acacie in fiore, del profumo che
spandevano nell’aria, mi accorsi della primavera, del cielo
azzurro, del sole, delle sue sfumature arancio sui portici della
città, mi vidi diverso.
Di colpo tutto quello che avevo fatto fino allora mi apparve
immensamente vano e vuoto, di una vacuità angosciante.
6
Come avevo fatto per tutto quel tempo?
Come avevo fatto ad adattarmi a quei meccanismi di routine
quotidiana?
Lavoro, ufficio, ufficio, lavoro, mangiare, dormire e poi di
nuovo il giorno successivo e quello dopo ancora, e così via in
un eterno ripetersi, opprimente, disperato.
Come avevo potuto?
Come avevo potuto pensare che sarebbe riuscito a riempire il
vuoto immenso della mia vita?
Mi colse una specie di vertigine, di capogiro, come se all'improvviso potesse cessare la forza di gravità, e rischiassi di essere risucchiato nel blu del cielo.
Mi affannai a tornare in ufficio e, appena dentro, uno squillo
di telefono mi riportò alla mia solita realtà, ai miei soliti
noiosi impegni che mi distrassero da quei pericolosi pensieri
inquietanti, come se mi fossi chiuso dietro la porta d’un altro
mondo. Mi parve che quel maligno incantesimo si fosse
spezzato.
Ma era solo l’inizio.
Qualche tempo dopo, dalla finestra dell’ufficio, gettai lo
sguardo verso lo sfondo blu del cielo oltre i tetti rossi...
...nuvole illuminate dalla luce della sera...
...grida di rondini che danzavano nell'aria...
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Mi venne un nodo alla gola.
Fu un attimo, si aprì un breve spiraglio dentro di me, ma fu
sufficiente. Pensieri repressi e ricordi a lungo evitati, sgorgarono come un fiotto.
Come fantasmi ondeggiavano davanti a me, in ogni parete, in
ogni angolo.
Mi sentii soffocare.
Fu un breve istante, ma bastò a farmi capire che non avrei più
potuto tornare indietro alla vita che avevo condotto fino a
quel momento.
Non potevo più nascondermi. Non aveva senso. Non aveva
mai avuto senso.
In un attimo era mutato l’aspetto di ogni cosa. La vita mi
parve di colpo insostenibile e mi ritrovai a dover cambiare
tutto e ricominciare.
Un pensiero mi tormentava...
Due anni...
Due anni, avevo perso in quello studio d’architettura.
Due anni... due gocce di sangue rappreso.
Quei due anni mi si paravano davanti continuamente come
una macchia buia sulla coscienza.
All’improvviso divenni consapevole del peccato più grande:
sprecare i propri giorni, sciupare l’esistenza dietro cose vane,
senza alcuna vera soddisfazione, nascondendosi dietro mille
sciocchezze per pigrizia o per paura di affrontare la vita.
Ero smarrito come poche altre volte.
Non riuscivo a prendere decisioni, e in studio mi allambicca8
vo in misurazioni davanti al tavolo sommerso di squadre, righe e fogli di calcoli, senza trovare soluzioni.
Alla fine decisi di ritirarmi per qualche tempo nella mia casa
di campagna, da solo, a riordinare i pensieri.
Forse era la cosa migliore da fare.
Decisi di parlare con l'architetto della mia intenzione di lasciare il lavoro. Mi dispiaceva per lui, perché era un brav'uomo, ed aveva veramente bisogno d'aiuto con tutto il lavoro che c’era.
E poi era contento di me: giudicava il mio intervento prezioso e diceva che mettevo allegria nello studio. Forse alludeva
a tutta la musica sudamericana che ascoltavo in sottofondo e
canticchiavo distrattamente durante il giorno mentre disegnavo.
Indugiai un po', cercando l'occasione giusta per dirglielo.
Un pomeriggio, in un momento di tranquillità stavamo prendendo un tè in studio. L’architetto sorseggiava con aria soddisfatta. Io continuavo a rimescolare lentamente, assorto nei
miei pensieri.
L’orologio antico sopra la finestra ticchettava inesorabile un
tempo che sembrava dilatarsi. Il silenzio si espandeva.
“Come sei pensieroso! Qualcosa non va?”, mi chiese.
Non risposi subito. Rimescolai ancora un po’ e bevvi un sorso di tè.
“Hai ragione, il tuo tavolo è un disastro!”, disse ridacchiando.
“Non mi riferivo al tavolo. E’ nella mia vita che devo far ordine”.
Dopo un attimo di perplessità, mi guardò con un improvviso
guizzo d’intuito.
“Bravo! Finalmente! Era ora! Non sei più un ragazzino!
Chi è la fortunata?”
“...???...Ah! ...no! ...non intendevo dire quello! Non c’è nessuna “fortunata”.”
Sorrisi. Bevvi un altro sorso di te.
“Semplicemente, è venuto il momento di mettere un po’
d’ordine nella mia vita e di affrontare tutto quello che fino
adesso ho cercato d’ignorare...”
Mi guardò perplesso.
“Non ti trovi bene qui?”
“No, non è questo, qui mi trovo bene. E' solo che devo far
ordine nei miei pensieri.
Ho rimandato a lungo... Ora non posso più rimandare. E' da
tanto che avrei dovuto farlo...
Ho bisogno di una pausa... devo riordinare le idee...
“No... è solo che ho bisogno di fare un po’ d’ordine...”
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Però non potevo andarmene subito, come avrei voluto: avevo
ancora delle pratiche da sbrigare. Ogni giorno che riuscivo a
completarne una mi sentivo un passo più vicino alla mia agognata libertà.
Pensavo, dal prossimo mese...
...di non venire più... ”
Mi guardò serio.
E finalmente una sera uscii dallo studio per non tornarvi.
“Sicuro che vada tutto bene? Se ho fatto qualcosa che...”
“No, assolutamente. Lei non ha nessuna colpa... Sul serio. Sa
che io parlo sempre in modo schietto...”
“Se è per lo stipendio...”
Sorrisi. “No, non è per lo stipendio, lo stipendio va bene. Non
ci sono altri motivi. Il motivo è quello che ho detto. Sono
problemi miei, che non hanno niente a che vedere col lavoro...”
Mi guardò un po' preoccupato. Mescolò a lungo il tè nella
tazza, e per due volte fu ad un passo dal farmi una domanda,
ma non disse niente.
Alla fine mi sorrise bonariamente e disse, “Beh, va bene, dai,
prenditi pure una pausa, riflettici sopra con calma... qui c’è
sempre un posto per te quando vorrai ritornare... Sempre!”.
Mi chiusi dietro la porta di un mondo a cui non appartenevo
più, a cui, a dire il vero, non ero forse appartenuto mai...
Sul cancello per un attimo mi voltai a riosservare lo studio.
Guardai il cortile interno con gli antichi archi rosso mattone,
le finestre su cui si riflettevano le nuvole, i miei gelsomini
azzurri sul davanzale, l’antico orologio dal quadrante bianco
sopra la finestra, e mi sorpresi a provarne nostalgia.
Non avevo ancora trovato un equilibrio.
Ero come un marinaio di terra che non riusciva a stare a lungo in un posto. La strada mi chiamava sempre.
Dovevo andare per nuove terre.
E finivo per provare nostalgia di tutti i luoghi dov’ero stato...
Mi tese la mano. Gliela strinsi e lo ringraziai, e visto che era
un po' giù, per rincuorarlo, gli dissi che avevo già superato
altre crisi e che probabilmente sarebbe passata presto anche
questa.
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II
LA RESA
C’era stato un punto della mia vita in cui avevo smesso di
sognare e di desiderare. Di lì a smettere di riflettere era stato
un attimo.
Cosa fosse successo esattamente, non lo so. Ad un certo punto avevo smesso.
Il senso della realtà mi aveva preso. Avevo cominciato a credere solo nelle cose concrete quotidiane, come accade quando guardi la realtà ben bene negli occhi e ti abbandoni al suo
desolante squallore.
Quando avevo finito l’università e da studente ero diventato
lavoratore, allora, era finita l’epoca dei sogni. Presto ero entrato in una dimensione diversa, quotidiana, terra terra, una
realtà a toni di grigio, luci al neon, pochi chiaroscuri e zone
d’ombra dai contorni sfumati.
Era un meccanismo naturale ed inesorabile. Entravi nella logica del lavoro, della produzione, del profitto. Impiegavi il
tuo tempo a lavorare, lavoravi per guadagnare, guadagnavi
per pagarti i piccoli lussi luccicanti che ti permettevano di
truccare e camuffare un po’ lo squallore di una vita in realtà
vuota.
Anche se in alcuni momenti mi rendevo conto di quante cose
non andassero nella mia vita, mi sembrava di averne perso il
controllo e di non poter far niente per cambiarle.
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I modelli che mi circondavano non erano certo incoraggianti.
Avevo davanti innumerevoli esempi di persone che dopo
brillanti promesse di splendore erano finite in un grigiore uniforme come tutte le altre.
E allora se non puoi cambiare, a che pro continuare a rimuginarci sopra? Perché sforzarsi in una lotta persa in partenza
contro i mulini a vento?
Inutile perdersi in sterili congetture. Meglio concentrarsi sul
lavoro, su cosa fare stasera, e il fine settimana, dove andiamo
per le ferie, quale nuova auto comprare, come investire i propri risparmi... Ecco le cose che diventano importanti e dispotiche, vampiresche e ti succhiano la vita. Alla fine, alla sera
cadi nel sonno come svenuto, per ricominciare da capo il
giorno dopo. E più o meno volutamente, non c’è tempo per
chiedersi il perché di ciò che si fa.
“Bisogna essere realisti” ecco qual’era la frase avvelenante
che non ti permetteva di vivere la tua vita fino in fondo come
avresti voluto.
Era una trappola in cui finivano tutti, prima o poi, e pochi
riuscivano a venirne fuori.
Avevo fiutato il pericolo molti anni prima, eppure c’ero cascato inesorabilmente anch’io.
Essere realisti significava abbandonare ogni programma, ogni
schema che uscisse dalla consuetudine. Significava in realtà
vivere la vita che desideravano altri, forse... non tu.
Alla fine prendi la strada più larga e comoda, ti conformi nelle scelte, nei gusti, e nel modo di pensare, e tutti in fila come
soldatini.
Non è difficile vivere così. Ha anzi una certa comodità. Ac14
quisti una certa velocità all’inizio e poi, preso lo slancio, procedi per inerzia. La tua vita è scandita da impegni e orari precisi, da scadenze da raggiungere una dopo l’altra, come le
caselle del gioco dell’oca.
Avanti, sempre avanti! Tutto al futuro, mai al presente.
Il difetto del sistema è che sempre proiettato in avanti, viene
un giorno in cui ti accorgi che la tua vita è già trascorsa e non
sai nemmeno tu come.
Ti riguardi indietro e ti accorgi di quante cose ti sei già lasciato alle spalle.
Il futuro si è accorciato pericolosamente e ormai ti resta solo
il presente per riflettere, e un passato con cui fare i conti.
Tutto si riassume in poche cose da ricordare...
Ti accorgi allora che tutta la tua vita era fatta di niente.
La vita, in realtà, è sempre e comunque fatta di niente, ma
una vita vissuta così, è stata ancora meno di niente.
Ripensai a come vivevo un tempo.
Un tempo collezionavo ricordi. Vivevo più intensamente che
potevo, ben sapendo che il tempo era breve.
Cercavo di raccogliere i momenti più belli e intensi, tentando
in qualche modo di conservarli, di non farli fuggire.
Ma l’impatto con la realtà della vita mi aveva trascinato inesorabilmente coi piedi per terra, e soprattutto con gli occhi al
suolo, senza più correr dietro alle nuvole.
Così ad un certo punto non avevo voluto più essere quello
che ero. Mi ero sentito stupido, infantile e fuori tempo ad avere ancora dei sogni e dei desideri: la vita vera, quella dura e
cruda ti mostrava che i sogni prima o poi finiscono tutti
nell’immondezzaio.
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Il prepotente e grossolano “senso della realtà” ti faceva credere che non ci fosse più spazio e tempo per vivere nuove
avventure.
Ormai si era adulti, le compagnie si sfasciavano, gli amici si
disperdevano, le ex fidanzate diventavano mamme, la parte
migliore della vita svaniva, gli infiniti sentieri si riducevano
ad uno solo.
E i ricordi diventavano nostalgia, e la nostalgia, dolore.
Così avevo finito per preferire il vuoto, il nulla, al dolore.
E mi sembrava di aver trovato pace.
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III
I FOGLI BIANCHI
Presto, però, mi resi conto che avevo pagato un prezzo elevato per essermi abbandonato per tanto tempo a quell’inerzia
spirituale.
Non avevo più niente da dire, né da scrivere.
Niente saliva più alla superficie dei pensieri.
Forse ero riuscito, parzialmente, nel mio intento: avevo creato un vuoto interiore.
Ma non la pace.
No, quella no.
Avevo dentro un vuoto vibrante.
Un tempo, di tanto in tanto, mi ero fermato a scrivere i miei
pensieri, così per ricordarmi chi ero e dove stavo andando.
Mi aiutava a schiarire le idee, a riordinarle, a verificare le mie
motivazioni.
Ora non avevo più nemmeno lo sfogo di scrivere, non avevo
proprio niente di buono, di coerente o di definito da dire. Potevo rimanere ore e ore, pomeriggi interi davanti ai fogli di
carta perfettamente bianchi.
Non avevo più quel getto di parole che mi premeva dentro e
che dovevo solo cercare di imbrigliare un po’, controllarne la
fuoriuscita come un tempo. No, le parole non sgorgavano
più. Avevo solo un po’ di fastidio, d’imbarazzo di stomaco.
Niente a che vedere col cuore.
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Mi ero immedesimato totalmente nella parte dell'uomo qualsiasi, probabilmente inutile e assolutamente sostituibile con
mille altri, senza che nessuno potesse accorgersi della differenza.
Tutte le grandi possibilità erano svanite e dimenticate.
Quando rincontravo nel cassetto i miei vecchi scritti, senza
nemmeno leggerli, più volte ero stato lì per gettare tutto. Mi
mettevano a disagio, mi ricordavano cose da cui a un certo
punto mi ero allontanato e avevo fuggito, quasi spaventato.
Però la quantità immensa di ricordi che la mia memoria per
anni aveva conservato con cura maniacale, e aveva poi cercato di dimenticare, sembrava donare uno spessore alla mia esistenza, una profondità che altrimenti non possedeva.
Benché a volte dolorosi, e intrisi di nostalgia, mi davano un
forte senso d’identità, alla quale mi aggrappavo come un
punto fisso attorno a cui ruotava la follia del mondo.
Poi, però, i ricordi cominciavano a vibrare tutt'insieme come
miraggi nella calura e mi stringevano addosso una nostalgia
soffocante.
Così per due anni avevo sfuggito come un pericolo, tutto ciò
che mi avrebbe potuto far riflettere e ricordare.
Alla fine il distacco era stato totale: avevo smesso di pensare
completamente ai tanti sogni che avevo avuto, avevo rigettato
in blocco i miei ricordi, e il mio passato, e in un certo senso,
quel “me stesso” che un tempo avevo creduto di essere.
Da tempo non riuscivo più a guardare le vecchie foto.
Avevo chiuso in un baule su in soffitta i video che avevamo
fatto da ragazzi.
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Poco alla volta avevo smesso anche di frequentare i vecchi
amici. La scusa ufficiale che ci davamo gli uni gli altri era
che avevamo poco tempo: il lavoro e mille altri impegni ci
tiranneggiavano.
Ma la verità ... la verità era che a ritrovarci ci veniva una gran
nostalgia. Una nostalgia maledettamente dolorosa. A rincontrarci ci ricordavamo inevitabilmente di tanti sogni e desideri
che avevamo accarezzato da bambini.
E che ci avevano tradito tutti quanti.
La nostra vita reale non era nemmeno una brutta copia di
quella che avevamo immaginato.
E adesso non era più tempo di correr dietro agli aquiloni.
Da anni non ballavo più un tango: non volevo più pensieri
tristi, nemmeno da ballare.
Non ascoltavo più musica, se non allegra e superficiale: musica latinoamericana, fortemente ritmata, allegra, ballabile.
Non leggevo più alcun romanzo.
Non riuscivo più ad affrontare discorsi impegnati, filosofeggianti. Preferivo le chiacchiere delle mie amiche sul colore
dei capelli, sull’opportunità di farsi i colpi luce, e sul miglioramento che avrebbe apportato un rossetto un po’ più chiaro.
Non ero più io.
In fondo ero riuscito nel mio intento, anche se non me l’ero
immaginato così.
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IV
I VENERDÌ SERA
Guardandomi e guardando i miei amici, mi fu dolorosamente
chiaro che ci eravamo ingrigiti ed intristiti tutti quanti, come
avevamo previsto nei nostri peggiori futuri.
Era rimasto solo il lato prosaico dell’esistenza e ogni poesia
era svanita.
Poesia? Ma quale “poesia”? Eravamo appiccicati a terra,
schiacciati al suolo dai moduli delle tasse, dalle ritenute
d’acconto, dall’Iva trimestrale, dai mutui, dalle rate dell’auto,
dalla futilità delle carte timbrate, dall’ottusità della burocrazia. Eravamo caduti nel vortice delle cose inutili che sembrano indispensabili, che ti succhiano il sangue, il tempo e la vita, cercando di focalizzare tutta la tua attenzione.
Il futuro ci sembrava sempre più piatto, più scuro e pensavamo solo a come arrivare a fine mese. Non c’era niente di stimolante. Niente d’imprevisto. Si trascorreva ogni istante in
attesa del momento successivo, sempre proiettati in avanti,
sempre alla ricerca di qualche tempo futuro per cominciare a
vivere.
Si passava tutta la settimana lavorativa in apnea, in una emorragia folle di giorni invissuti, uno dopo l’altro...
Il lunedì mattina era sempre dura ricominciare, ma prendevi
la spinta pensando al fine settimana. Il martedì era interlocutorio.
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Il mercoledì pomeriggio già cominciava a soffiare un po’ aria
di venerdì... Il giovedì scivolava via che era un piacere...
...e infine: venerdì...
La rapidità era impressionante...
....Lunedìmartedìmercoledìgiovedì. Venerdì...
....Lunedìmartedìmercoledìgiovedì. Di nuovo venerdì
All’improvviso era venerdì sera.
...è già venerdì sera...
Come c’ero arrivato? Provavo a ripensarci.
La settimana era svanita come fumo.
...ma come...?
...proprio ieri... non era lunedì?
...mi sembrava che...
...eppure...?
Ti fermavi un momento, ti appoggiavi allo schienale della
sedia, ti stropicciavi gli occhi e ti guardavi attorno stupito,
ripensando a come fosse già andata la settimana.
Poi prendevi un profondo respiro, ti stiravi la schiena, sbadigliavi, richiudevi l'agenda, riponevi le carte e spegnevi la luce, lasciandoti tutto alle spalle con noncuranza.
Quando chiudevi la porta dell’ufficio era come se chiudessi a
chiave tutti i tuoi problemi.
Non se ne andavano affatto, ma era come se non esistessero
più. Sapevi che sarebbero stati lì puntuali ad aspettarti il lunedì mattina, con tutte le pratiche che non avevi sbrigato, le
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bollette che non avevi pagato, le cose che non andavano per
niente e non avevi idea di come poterle risolvere... eppure
riuscivi a rinchiudere quell'immensa massa d'immondizia ben
bene a chiave e a dimenticartene per un paio di giorni.
Sapevi che in perenne attesa del fine settimana, se ne andavano più di due terzi della tua vita... eppure... eppure, per
quanto precario, ti sembrava di aver trovato un equilibrio.
Il venerdì sera comunque era uno strano momento magico,
con un aroma tutto suo. L'aria sembrava più leggera.
Erano brevi momenti di serenità e d’illusoria incognita che
liberavano da tutti i pensieri, nell’ebbrezza di due giorni di
vacanza davanti. Ti pareva di ritrovare quel senso di libertà
che durante il resto della settimana sembrava irrimediabilmente perduto.
Cosa ti avrebbe destinato questo fine settimana? Nuove avventure? Nuovi incontri? Una nuova ragazza? Nuovi amori?
Quali infinite, sterminate novità, quali meravigliose opportunità erano appena dietro l'angolo, pronte per essere colte?
L'umore si sollevava un po’ da terra, rianimato da queste
immense possibilità.
Allora ti recavi al bar all’angolo per l’aperitivo, dove cercavi
di far prendere quota allo spirito tra pizzette, salatini, Negroni
e Cuba Libre.
Al secondo cocktail ti sentivi già più leggero.
...un altro sorso, ecco... ahhhh!!...
Un paio di bicchieri e già la voce interiore diventava più flebile e meno fastidiosa, si assopiva piano piano, sembrava
svanire...
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Era soltanto una serenità chimica. Non era granché, lo sapevo. Anzi, nei momenti di più cruda lucidità, mi rendevo conto
dello squallore intrinseco di tutto ciò.
Però...
...però, mi dicevo che, in fondo, tutte le felicità di questo
mondo sono costruite su una base materiale...
E allora, che a suscitare un’effimera felicità in noi, fossero
oggetti... persone... riconoscimenti... traguardi raggiunti ...due
etti di cioccolato ...o un paio di cocktail ...alla fine che differenza faceva... ?
E allora, il venerdì sera, nel tuo angolo, nella tua nicchia col
tuo Negroni in mano, col tuo migliore sorriso, chiacchieravi
con persone sconosciute che t’illudevi di conoscere perché li
incontravi tutti i venerdì al solito posto.
Un po' gagliardo per l'alcool, attaccavi discorso con qualche
ragazza tutta imbellettata e tirata per la sera che ti guardava
con aria di sufficienza. Sopportavi i discorsi stupidi che facevano con simulata accondiscendenza, con l'intento poi di
sdraiarne qualcuna, più tardi, sul sedile dell’auto.
“Doc, non sembra anche a te che venerdì scorso, quando ci
siamo trovati qua a mangiare, fosse ieri sera?”
“Già”.
“Proprio ieri sera, intendo dire... come se il resto della settimana non ci fosse stato...”
“Già...”
“Non riesco a ricordarmi che cos’ho fatto la settimana passata. Non mi viene in mente niente”.
“Già, Henry, e alla fine passano così gli anni... E non ti ricordi quasi niente. Perché non hai proprio niente da ricordare...”
“E ti sembra che vada bene?”
“Che vada bene... non lo so. Ma va così”.
Così trascorreva la prima fase della serata.
Dopo col mio amico, il Dottore, chiamato così perché era stato il primo di noi a laurearsi, ci trovavamo in pizzeria, sempre
al solito posto, dove ordinavamo, io la solita quattro formaggi
e lui la solita quattro stagioni.
Eravamo diventati schematici anche nel tempo libero.
Una volta gli raccontai della mia strana percezione del tempo.
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“A me non sembra che vada bene! S’invecchia punto e basta!
Che vita è? Che viviamo a fare?”
“Ti sento polemico stasera”.
Sorrisi.
“Non ce l’ho con te. Sono arrabbiato con me stesso.
Possibile che non si riesca a far di meglio che aspettare il fine
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settimana?
Si passa la settimana in una specie di animazione sospesa,
fino a questi due giorni di vacanza... Che poi non va molto
meglio. Passano in fretta, e non è che si faccia granché.
Il venerdì aperitivo, pizza e a ballare... Il sabato sera al pub a
bere qualcosa ...la solita gita fuori porta la domenica...
Mi sento di sciupare il mio tempo, di sprecare la mia vita.
Mi sembra di averne perso il controllo...”
“Non essere drammatico. Non va poi così male... e poi non
siamo i soli a fare così”.
E forse ci stiamo sbagliando tutti quanti... pensai.
“Non so... mi sembra che siamo addormentati... narcotizzati...
trasognati... non sappiamo più nemmeno se siamo vivi o siamo morti...”
Tutto passa, tutto finisce prima o poi...
Perché dovrebbe essere diverso...?
Questo mi ripetevo.
Eppure...
... eppure nei momenti in cui ero forse più lucido mi sembrava tutta una demenza senza senso...
Osservavo tutta quella gente che come me aveva atteso tutta
la settimana per cominciare a vivere...
...e c'era chi si ubriacava, chi andava a mignotte, chi si faceva
un paio di righe per tirarsi su, chi un cannone con gli amici,
chi ballava fino alle quattro e fino allo sfinimento...
Alla fin fine tutti espedienti per non pensare...
“Beh, adesso...”
Ecco cos'avevano in comune.
“Perché ...la chiami vita questa?...”
Stratagemmi per spegnere la mente per un po', per sospendere quell'incessante rumore psichico che ti faceva una testa così, e consumava un sacco di energie in pensieri inutili e molesti.
Un paio di bicchieri e la testa si calmava.
“Insomma ... è così...
... è quel che è...
...è così... che altro vorresti fare?”
Ecco! … ascolta!...
...ahhh!...
...il silenzio...
Già, che altro vorresti fare, Henry?...
Perché poi non dovrebbe andare bene anche così?
In fondo, boh? che c'è poi da fare in 'sta vita balorda?
Chi l'ha stabilito...?
Cos’è realmente importante?
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Ecco la nostra felicità...
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Felicità chimica a buon mercato, da quattro soldi, pericolosa
ed effimera.
Eppure bramavi quei brevi momenti di vuoto di pensieri.
In quegli attimi sembrava scaturire da dentro un senso di libertà precaria, ma profonda.
E in quel senso evanescente di libertà era nascosta una sottile
felicità...
Sì, la felicità sembrava proprio sgorgare semplicemente dal
fermare quell'elaboratore che continuava a ponderare, a misurare, a giudicare e valutare incessantemente e continuava a
spingerti a fare delle cose, a farti desiderare di essere altrove,
di essere con qualcun altro, a farti aspettare il prossimo appuntamento, la prossima novità... a farti attendere domani per
cominciare a Vivere, insomma a farti desiderare di non essere
mai lì dove eri...
Comunque, a parte qualche debole moto d’insofferenza, alla
fine anch’io come gli altri, mi ero conformato e macerato in
quella trita routine, trascinando la mia esistenza di settimana
in settimana.
Così erano state i miei giorni in quei due anni: di fine settimana in fine settimana, perennemente in attesa.
...due anni?
In verità, potevano essere anche quindici.
O forse in qualche modo era così da tutta la vita, da quand'ero bambino, dalle elementari.
Sì, forse sì... Forse era una cosa profonda che mi portavo
dentro da molto tempo, praticamente da sempre, ora me ne
stavo rendendo conto. E forse era proprio quello il motivo per
cui mi era risultato così difficile riconoscere il problema e
individuare la disfunzione: la forza dell'abitudine aveva nascosto il disagio a lungo.
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V
LE NUVOLE
Cominciò così uno dei periodi più indefinibili della mia vita.
Era appena terminata la parte piovosa della primavera e già si
sentiva il respiro dell'estate che soffiava leggero sui campi di
grano e di erba medica.
Lasciato il lavoro, mi ero ritirato in semi-eremitaggio nella
mia casa di campagna. Solo saltuariamente scendevo in città
a fare acquisti. Mi nutrivo soprattutto dei prodotti dell’orto
che coltivavo assieme ad un contadino mio amico, in una
specie di ritorno alla natura, così, tra l’altro, non dovevo preoccuparmi troppo a prepararmi da mangiare. Alla mattina
presto mi alzavo e facevo qualche lavoro: strappavo le erbacce, innaffiavo, vangavo, raccoglievo qualche frutto. Un po’ di
lavoro fisico mi faceva bene.
Avevo cominciato ad appassionarmi di giardinaggio da
quando mi accorsi che mi aiutava a rilassarmi.
Mi aiutava a creare una specie di oasi protetta dove ritirarmi
periodicamente e trovare sollievo dalle tensioni e dalle preoccupazioni della vita.
Inoltre, la continua trasformazione e l’alternarsi delle fioriture, mi rendeva meno pesante il trascorrere delle stagioni, con
quel senso di continuo rinnovamento che sa trasmettere la
natura.
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Sul finire dell’inverno il profumo della lonicera sbocciata timidamente ai primi raggi del sole, m’illudeva di una primavera imminente. Gli ellebori vicino al laghetto e ai margini
delle strade inducevano alla speranza. Il calycanthus riempiva l’aria di un profumo antico e nostalgico. Mi ricordava la
mia infanzia, mia madre che l’aveva piantato nel giardino di
casa, dove restava, dimesso e poco appariscente fino ai primi
giorni dell’anno nuovo, quando miriadi di calici gialli di un
profumo inebriante facevano l’occhiolino al primo sole.
Fiorivano i bianchi bucaneve, gli allegri crochi, le primule
selvatiche. Un mattino ti alzavi e sentivi le viole nell’aria.
Sbocciavano i narcisi, le giunchiglie e i tulipani, annunciando
marzo. I prugni selvatici diventavano nuvole bianche, i peschi si ammantavano di rosa. E poi la natura accelerava con
l’allungarsi delle giornate ed i primi tepori, e in rapida successione fiorivano gli alberi di giuda, i lillà, i glicini, i maggiociondoli, i filadelfi, le iris, le rose, le spiree, le ninfee. E
poi gli hemerocallis, le buddleie, i rhyncospermum, gli ibischi, gli oleandri, le lagerstroemie.
Quando sul finire di agosto vedevi spuntare i primi ciclamini,
seguiti dai colchici e dagli astri, capivi che l’estate volgeva al
termine. Seguivano le lespedeze, gli aconiti, e i chrysanthemum. Le foglie arrossivano, e ingiallivano accendendo
l’autunno degli ultimi colori. Gli osmanti e gli eleagni riempivano l’aria di profumi delicati.
Tra le foglie cadenti spuntavano le bacche scarlatte
dell’evonimo e lilla del callicarpa. Ed era già momento di
piantare le viole del pensiero e i cavoli ornamentali che rallegravano un po’ l’inverno nelle brevi pause di sole.
Curando le piante, tagliando l’erba, vangando, zappettando,
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concimando, diventavo partecipe di quegli eterni cicli di trasformazione.
In quei giorni miti di primavera, finite le mie semplici mansioni quotidiane, mi sdraiavo per ore ed ore, fino a sera, sul
ripido prato dietro casa, tra le ginestre in fiore e l’erba medica, ed osservavo le nuvole nel cielo azzurro sopra le colline.
Scorrevano leggere e spensierate e mi davano un senso di mistica serenità e di libertà.
Lasciavo i miei pensieri correre dietro alle nuvole, inseguendo ogni immagine che mi suggerivano.
Volevo riuscire a spezzare definitivamente quelle false catene
mentali che mi legavano al passato, m’impedivano di andare
oltre, e, come una forte risacca, mi rigettavano senza posa
sulla spiaggia dei ricordi.
Quando avevo abbandonato il lavoro e mi ero ritirato in campagna a riflettere, all’inizio non avevo detto niente a nessuno.
Non ne avevo parlato né a Francesca, né ad Antonella, né al
Dottore, né a Gigler. Non avevo troppa voglia di dare spiegazioni.
Avevo soltanto voglia di pace e di tranquillità.
Doveva essere un lungo viaggio compiuto in solitudine nei
meandri di me stesso.
Dovevo far ordine nella mia vita e nei miei pensieri.
Non ero più sicuro di aver fatto le scelte giuste...
In qualche modo sentivo di avere ancora dei conti aperti col
passato.
Volevo ripercorrere la mia vita passo, passo, fino ad individuare i passaggi volontari e quelli obbligati, ripetermi le mie
ragioni per le scelte fatte, per esser sicuro che non fossero
state solo casuali.
E volevo capire cosa dovevo fare ora per andare oltre.
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32
VI
L’ETA’ DELLE DISILLUSIONI
Avevo raggiunto quell’età in cui gli amici, anche i più scapestrati, cominciano a sentirsi vecchi, a rintanarsi in casa, a fare
pericolosi progetti per il futuro, e ad ammogliarsi. Non avevo
ancora raggiunto la seconda fase dell'età umana, quella delle
disillusioni, degli avvocati e delle cause di divorzio, nella
quale, dopo anni di repressione matrimoniale, si rivive una
seconda giovinezza quarantenne, dandosi alle smodatezze più
sfrenate, spese processuali permettendo.
Alcuni amici si erano dispersi per il mondo da cui, ogni tanto,
ricevevo cartoline con bizzarri paesaggi, e variopinti francobolli di paesi che mettevano alla prova le mie conoscenze di
geografia.
Io ero rimasto e quasi sempre ero solo.
Frequentavo solo qualche amica, frequenza disinteressata
senza le complicazioni del sesso, a parte qualche piccola tentazione, di tanto in tanto, con qualcuna delle più carine, che
però generalmente riuscivo a controllare. Era una situazione
precaria, perché sapevo che prima o poi tutte si sarebbero legate stabilmente a qualche ragazzo geloso che avrebbe ostacolato la nostra frequentazione.
Erano tempi duri, ma resistevo.
Vedevo spesso soprattutto Francesca. Era stata per un certo
periodo la ragazza di Dan, un mio caro amico, ed io ero stato
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assieme ad una amica di lei. Poi col tempo le coppie si erano
sciolte, ma tra noi era rimasta una bella amicizia. Avevamo
un pezzo importante di passato in comune che ci legava profondamente.
Il tempo non era servito a placare il suo dolore.
Non voleva dimenticare, vi opponeva una strenua resistenza
con tutte le sue forze. Era dura, molto dura, anche per una
ragazza forte come lei.
Non si era ancora arresa all’oblio, come fanno tutti, prima o
poi, per tornare a vivere.
Aveva paura di dimenticare anche il più piccolo particolare di
Dan.
Era sempre più bella, bella di una bellezza triste, bella del suo
dolore. Era diventata più pacata col tempo, più saggia, avendo riposto tutta la sua pazzia in quell’amore impossibile, alla
cui fine senza appello non voleva arrendersi.
Le volevo un gran bene, e tante volte mi sono domandato se
non fossi innamorato di lei. In ogni caso era un innamoramento che non aveva bisogno del sesso. Mi bastava averla lì
con me.
Da quando Dan era morto, si era abbandonata ad una castità
naturale, senza sforzo, senza tentazioni. Viveva appartata in
un ritiro dal mondo quasi monacale e praticamente frequentava solo me. Gli altri uomini non li vedeva proprio, benché
ne avesse vari attorno a lei.
Tante volte avevo cercato di dissuaderla, di farla ragionare, di
convincerla a rifarsi una vita.
Una volta si arrabbiò per tutti i tentativi che facevo di presentarle dei ragazzi.
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“Ma sono qui!”
“Sto bene così, Henry! E non c’è bisogno che ti impegni tanto. Ti ringrazio per l’interessamento, ma non ho bisogno di
niente.”
“E invece sì! Non hai neanche trent’anni, sei bella, giovane, e
te ne stai in casa a far le ragnatele. E questo lo chiami normale?”
“Senti, non ho capito: vuoi liberarti di me? Perché mi sembra
che tu voglia sbarazzarti di me. Se vuoi che me ne vada, se
sono troppo invadente, non hai che da dirlo, non è necessario
che mi appioppi a qualcun altro che mi porti via. Me ne vado
da sola!”.
Mi fece un gran tenerezza.
“No, Frenci, sai quanto sto bene con te. E non sai che male
che mi fa quando penso che prima o poi qualcuno ti porterà
via e praticamente non ci vedremo più. Perché succederà così... incontrerai qualcuno che sarà geloso di noi... e non ci vedremo più...
Ma non voglio essere egoista, ti voglio troppo bene. E tenerti
tutta per me non è il tuo bene”.
“Ma neanche il mio male!”
La abbracciai. Mi strinse forte.
“So già che mi mancherai”.
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“Mi mancherai!”
A volte mi domandavo come sarebbe stata la mia vita senza
di lei.
Di tanto in tanto vedevo anche Antonella.
Antonella...
Non saprei come definire la nostra relazione.
Potrei dire che era stata la mia ragazza...
...ma da subito era stato un rapporto così insolito e altalenante...
...ci lasciavamo, tornavamo insieme, ci lasciavamo di nuovo...
Amava i drammi, le sceneggiate e cercava sempre
l’occasione per inscenarne di nuovi.
A volte il nostro rapporto diventava pesante come il piombo.
Spesso mi domandavo perché non la facevo finita con una
storia così.
Però quando la rivedevo, ricordavo subito la risposta.
Era alta e snella, aveva lunghi capelli neri e lisci, occhi verdi
provocanti. Sempre elegante, curata, sexy: d’altronde era una
modella.
Per strada tutti si giravano a guardarla, tutti cercavano di attaccare discorso con lei.
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Era davvero d’una bellezza e d’uno charme fuori dal comune
e tenerla tra le mie braccia o nel mio letto, mi faceva sentire
importante, e fortunato che fosse mia.
Ma era solo un’illusione...
In realtà apparteneva solo a se stessa.
Era una donna libera ed indipendente e ciò costituiva il suo
fascino ed anche il mio cruccio. Ed era quello che mi aveva
reso così difficile lo staccarmi da lei una volta per tutte, e tra
alti e bassi aveva fatto durare a lungo la nostra relazione.
Da subito il nostro accordo era stato che la nostra sarebbe stata una relazione libera, ovvero in teoria non stavamo insieme,
eravamo soltanto due “amici”. Ci frequentavamo secondo i
nostri desideri, che poi erano i suoi capricci, in realtà, perché
io avrei preferito una relazione regolare con lei.
Di tanto in tanto non ci vedevamo per un po’ e ognuno aveva
le sue avventure. Poi, sentiva nostalgia di me e tornava. E io,
ovviamente, secondo lei, dovevo esser pronto ad accoglierla
a braccia aperte... E spesso mi faceva pure delle scenate se
frequentavo qualche ragazza!
VII
ECHI DEL PASSATO
Un pomeriggio una moto si fermò al mio cancello.
Mi sollevai per guardare.
Ma chi?...
Spense il motore e si avvicinò al campanello, mentre si slacciava il casco.
“Gigler!”
Si voltò e mi vide. Mi fece un cenno con la mano.
Oltre agli impegni per le sfilate, che la facevano assentare
spesso, a volte se ne andava via, spariva per qualche tempo e
non c'era verso di trovarla.
Ormai erano quasi due mesi che non la vedevo e non era rintracciabile da nessuna parte.
Ero un po’ preoccupato, temevo si fosse cacciata in qualche
guaio.
“Aspetta che vengo ad aprirti”.
“E bravo Gigler! Che sorpresa! Hai fatto bene a passare!”
“Bravo Henry! Che combini?”
“Niente di ché, mi godevo l’aria e mi bevevo una birretta.
Vieni, che ne ho una anche per te, bella fresca”
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Ci sedemmo sul prato e stappammo le birre.
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“Salute!”
“...nel senso che ...facevo cose senza nemmeno sapere perché
le facevo...”
“Ah, che bella arietta! Si sta proprio bene!”.
“Uhmm... proprio come fanno tutti... Che c’è di strano?...”
Sorrisi.
“Esatto, come fanno tutti... Ma io non ce l’ho più fatta ad andare avanti senza trovare un senso in ciò che facevo.
Senza sapere più dove stavo andando, né perché, mi sentivo
di sprecare la mia vita.
Molti si limitano a guardarla passare tra lavori insulsi e impegni futili... finché un giorno si accorgono che ormai è andata...
Quando mi sono reso conto che stava accadendo anche a me,
mi sono rifiutato di proseguire oltre.
Ho deciso che era meglio fermarsi un attimo a riflettere.”
“Come va, Henry?”
“Bene, dai. Qui si sta sempre bene”.
“Mi han detto che hai lasciato il lavoro...”
“Già...”
“E che fai adesso?”
Mi misi ad osservare una nuvola.
“Niente, per ora sto qui”
“Non so tu, Gigler... ma a me la vita appare spesso veramente
assurda...
Dannarsi a correre dietro a tante cose che non durano... che
da un momento all’altro finiscono...
Costruire... costruire... per cosa?...”
“A fare che?”
“A godermi l’estate e a riflettere”
“A riflettere su cosa?”
“Ah, se cominci a ragionarci sopra così, è finita!”
“Su tante cose... Sto cercando di fare un po’ d’ordine.
Mi sembrava di aver perso un po’ la direzione della mia vita.”
“In che senso?”
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“Delle volte mi domando se sono io quello strano. La gente
sembra così adattata a vivere alla superficie...
Io ci ho provato, ma non ci sono riuscito. Non riesco ad andare avanti a lungo se non trovo un significato in quel che faccio.
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E il continuare a sopravvivere e tirare avanti, per sopravvivere e tirare avanti ancora, e così via, per me non è sufficiente.
Non riesco a trovarvi alcun senso.
Normalmente si vive proiettati in avanti. Si trascura il presente quasi fosse un intralcio da scavalcare per raggiungere una
meta futura. E sempre a correre e ad affannarsi...
Ma il trucco del domani che finalmente ci soddisferà... la carota appesa al bastone che ci fa correre, non riesce più ad ingannarmi.
Non so... forse sono io quello anormale... però...
Boh? ”
Si accese una sigaretta.
“Anch’io a volte mi domando per cosa triboliamo...
Invece di goderci la vita subito, adesso... rimandiamo, rimandiamo...”
Sospirai.
“Viviamo al domani... perché l’oggi, smarrito in mille impegni inutili, coi ritmi che ci lasciamo imporre dal mondo,
sembra troppo insulso...” , risposi, “Ma l’oggi è insulso a
causa nostra... che invece di seguire la voce del cuore, seguiamo la voce del mondo che ci ha ipnotizzati come un pifferaio magico... E tutti dietro!... Questa è la cruda verità.
Ci siamo adagiati in una vita di comodo su modelli precostituiti, che ci garantisce un certo apparente confort, ma poche
soddisfazioni.
E così invece di vivere la vita che vorremmo veramente, ci
limitiamo a campare, a tirare avanti...
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Pur di assicurarci una presunta sicurezza, accettiamo tutte le
limitazioni possibili... ci consegniamo ad una vita mediocre,
lasciando morire tutti i nostri sogni e desideri... per paura di
rischiare... Senza renderci conto che una vita così, è già
un’anticipazione della morte, è una morte mentale, peggio di
quella fisica. Si diventa zombie... morti viventi...”
Sospirò. “Già, proprio così... Mi domando cosa si tenta di
preservare... cosa ci sia da preservare in una vita vissuta così.
Si cerca di prolungare l’esistenza ad ogni costo, accettando
perfino che sia a malapena di sussistenza... per raggiungere il
glorioso traguardo di diventare vecchi e rincoglioniti e morire
in un ospizio!”
Gli passai una birra. L’aria era immobile. Un falco descriveva ampi cerchi nel cielo.
“Dedicare tempo ad inseguire obiettivi degni è importante e
giusto...”, continuai. “È che ho perso di vista i miei obiettivi... E poi, comunque, non si può destinare tutto al futuro.
Ho voglia di vivere subito, non domani... voglio sentirmi vivo adesso.
In fondo, qualsiasi cosa abbiamo fatto o non fatto, ottenuto o
non ottenuto, il risultato finale non cambia... Tutto finisce in
niente comunque... ”, continuai.
“Ti capisco... A volte, quando mi sento stressato da quello
che faccio e mi sembra di sprecare la mia vita, mollo tutto,
salgo in moto e vado a farmi un giro...
In moto almeno mi sento vivo...
...l’aria fresca, la velocità... fluire con la strada... Forse non è
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granché... Eppure, per quanto poco, ha il sapore della Vita...”
ero certo!”
Annuii con la testa.
Rimasi in silenzio per un po’ ad osservare una nuvola accesa
dal tramonto, che pareva un grande aquilone rosso.
Ci facemmo una gran risata.
“Pensa che differenza rispetto a come vivevamo un tempo...
le scorrerie che facevamo per discoteche e locali vari sul tuo
furgonaccio bianco, con tutta la compagnia... alla perenne
caccia di avventure e di ragazze...”
“Vivevamo alla giornata” continuai, “con la beata incoscienza dei ragazzi... che forse poi incoscienza non era...
Che disastri che abbiamo fatto!... Eppure non rinnego nemmeno una delle cose fatte!... se non che dovevamo farne ancora di più!...
Mi domando se non eravamo più saggi di adesso...”
Mandò giù un sorso di birra.
“Già... ci penso spesso...
Partivamo e non sapevamo nemmeno dove saremmo andati...
quella era Vita!
E quante cazzate abbiamo fatto?
Al volante del furgone... guida spericolata a manetta... in controsterzo...
Abbiamo rischiato la pelle più di una volta...” disse ridacchiando, “...e tu che stavi sempre davanti di fianco a me, perché avevi paura che mi addormentassi...”
“No, Gigler, non è che avevo paura che ti addormentassi: ne
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“Avessimo potuto continuare così!...”, proseguì, “Ci fossimo
riusciti davvero!
Non so che darei per rifare anche solo una di quelle uscite...
proprio come un tempo... con tutti i régaz... io, tu, il Doctor e
gli altri...
Magari!”
Rimase in silenzio per un po’. Sospirò.
“Forse potremmo anche riuscirci...”, continuò, “Ma è lo spirito che è diverso...”
“Già... non si può tornare indietro...
Anche le rimpatriate che di tanto in tanto abbiamo fatto a casa di qualcuno... Hai visto che ormai siamo diversi... La vita
ci ha smorzati.
All’epoca vivevamo alla giornata... ma non come adesso, che
ci barcameniamo tra lavoro e mille altre puttanate, senza sapere dove andiamo e senza goderci nemmeno il presente...
Allora assaporavamo il momento fino in fondo, senza pensare al domani...
Sentivamo che la parte bella e fresca della vita stava svanendo in fretta. Il futuro appariva incerto e oscuro.
Altro che incoscienti! Siamo più incoscienti a vivere come
viviamo adesso!
Ci calavamo completamente nel presente. E facevamo bene...
facevamo proprio bene... col senno di poi, confermo che fa44
cevamo bene. Vedendo come siamo adesso, ribadisco che
avevamo ragione... Sapevamo che ci aspettava tutto questo.
Eppure non siamo riusciti ad evitarlo...
Anche se forse siamo riusciti a prolungare la nostra adolescenza più di tanti altri... E abbiamo fatto bene!... alla faccia
di chi diceva che eravamo immaturi!...”
“Sì, lo penso anch’io... Avevamo ragione...”
Aspirai profondamente.
Buttai fuori il fumo e mi misi ad osservare una scia di aeroplano che il vento stava disperdendo.
“...e siccome non avevo ancora voglia di buttarmi giù da un
ponte... mi sono ritirato qui a riflettere...
Sto cercando risposte...
Non so se ci riuscirò...
Eppure non posso fare a meno di tentare...”
Rimanemmo in silenzio per un po’.
Avevo lo sguardo perso in lontananza, oltre le colline. I grilli
cantavano la sera ormai imminente.
“In quei momenti di lucidità che ti appare evidente la grande
vacuità dell’esistenza... così breve e precaria...”, ripresi, “svaniscono tutte le illusioni...
Resta un grande vuoto... e una grande malinconia... Presto
seguiti da un menefreghismo e disprezzo totale nei confronti
dell’esistenza stessa ... E da una specie di follia autodistruttiva che ti fa desiderare di anticiparne la fine.
E allora ti viene voglia di premere di più sul gas, andare più
forte per accorciare i tempi, bruciare più in fretta, rischiando
il tutto per tutto, e farla finita con tutta questa farsa insensata,
fonte d’innumerevoli preoccupazioni e sofferenze.
Tanto, nulla per nulla...”
Terminai la birra con un ultima grande sorsata.
Mi offrì una sigaretta e mi fece accendere.
“Grazie...”
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46
“Cos'è che non va?”
VIII
“Niente”.
SCIROCCO
“Su, dai, ti conosco bene, conosco bene quella faccia. Cosa
c'è?”
“Cosa c'è?... c'è che...
Finalmente, un giorno di maggio, Antonella si rifece viva.
Parlammo per un po’ del più e del meno quasi ci fossimo visti il giorno prima.
Poi, come se niente fosse, mi raccontò che frequentava un
uomo, un tipo che aveva una ventina d’anni più di lei, con un
figlio piccolo.
Era andata a vivere da lui, e, diceva, stavano bene insieme.
Le aveva addirittura proposto di sposarlo...
...andare a convivere con un uomo che ha già un figlio... a
fare da madre ad un bambino che non è nemmeno tuo... ma
sei sicura?..."
"Beh, perché?... non sarò mica la prima!..."
"Ho capito, ma, voglio dire, così in quattro e quattr'otto...
sposarsi... mettere su famiglia..."
La notizia mi piombò addosso come un macigno.
Antonella era fatta così; per lei passavo con noncuranza dal
ruolo di fidanzato a quello di amico e viceversa, a seconda
dei casi.
Ora mi toccava il ruolo di amico.
Restai in silenzio vari minuti.
"Beh prima o poi bisogna pur mettere ordine nella propria
vita..."
"Sì, d'accordo, ma bisogna anche raggiungere la maturità necessaria. Sono cose che nascono lentamente, non s'improvvisano. "
“Che c'è, non dici niente?”
"Perché, secondo te non sarei adatta?"
“Eh,? Non dici niente?”, insisté.
"...insomma... se devo dirti la verità... adesso come adesso...
mettere su famiglia, fare i lavori domestici... ai fornelli... fare
la mamma... con tutta una banda di marmocchi strillanti che
48
“Cosa devo dire...?”
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ti corrono attorno? Tu? Ma sei sicura?!? perché, scusami, ma
proprio non ti ci vedo!”
"Mah?"
“Perché allora credi che continui a frequentarti?”
“Beh, che vuol dire?...”
“Ah, non lo so, non lo so proprio...”, risposi brusco.
“Vuol dire quel che ho detto... Almeno ne sei innamorata ?”
“Non lo sai? Non credi che ti voglia bene? ...Eh?”
“Beh, è un uomo molto affascinante e mi adora”.
“Mah?”
“Ma lo ami ?”
“Non ci credi?”
“Ma sì... e poi col tempo... quando ci conosceremo meglio...”
“Insomma, ma cosa ti è venuto in mente? Famiglia, bambini,
sposarsi... così, tutto in un colpo...
Ma cosa ti è successo?”
“Ne dubito fortemente”.
Mi guardò indispettita. Si accese una sigaretta.
“Fa proprio piacere sentirsi dire queste cose... dopo tanto che
ci conosciamo...”.
Sospirò forte e disse: “Ci si stanca, Henry...
...ci si stanca della mancanza di punti fissi nella propria vita...
Lui mi dà un senso di sicurezza e di solidità”.
Rimanemmo a lungo in silenzio senza neanche guardarci.
Nessuno faceva la prima mossa.
“Tutto quello che non ho mai saputo darti io, insomma”.
“Devo andare adesso”.
Mi guardò con un'espressione a metà tra il senso di colpa e la
compassione: “Non è questo che volevo dire”.
Mi accorsi che indugiò parecchio, più del dovuto, a cercare le
chiavi dell’auto nella borsetta. Si aspettava che le dicessi
qualcosa per farla restare.
Ma non dissi niente, rimasi immobile sul prato con le mani
intrecciate dietro la testa ad osservare una nuvola che passava.
Si voltò un momento a guardarmi con le chiavi in mano.
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“Ma è quello che pensi”.
“Dai, smettila, non dire così. Sai che ho grande stima di te".
49
Ma io continuavo a fissare il cielo.
Scosse la testa, si alzò e se ne andò.
Ero stato forse eccessivamente duro con lei, ma in verità, ero
stanco di essere soggetto ai continui capricci delle donne e di
quei discorsi che mi ero sentito fare centinaia di volte fino
alla nausea: tutta la mia vita era assillata da donne che cercavano una posizione sociale.
Non si poteva, semplicemente, stare bene insieme, e basta?
La famosa illusione malefica della stabilità...
In una vita che muta continuamente, tra anni che fuggono
senza rimedio con accelerazione crescente, era un’assoluta
chimera, né più, né meno.
L’unica vera costante della vita è il cambiamento.
Ma la gente non lo capisce, non lo vuole capire.
...e allora via, pronti ad inseguire illusioni di sicurezza e di
durata, dove non è possibile trovarle...
E poi con Antonella avevo sempre dovuto essere particolarmente paziente, ne avevo sopportate tante, troppe.
Quando la vedevo tornare da me con gli occhi bassi, mi dimenticavo tutto, ma quando ci ripensavo a mente lucida, mi
davo dello stupido ingenuo.
No, no, altro che! Non ero stato affatto troppo duro! Anzi avrei dovuto incazzarmi, invece! Che diavolo!
In fondo mi aveva scaricato per uno che aveva quindici anni
e passa più di me, con un figlio piccolo... Per la stabilità!...
Macché, macché stabilità ... Balle!... Per la grana! altro
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che! Per la fresca!... ecco la verità!
La moneta ...
E poi mi viene a raccontare delle puttanate per giustificarsi...
...la “stabilità”...
Cazzate! Che ipocrisia!
Insomma ero in quel tipico stato d’animo che...
... come dire...
...riassumendo...
...ti sembrano tutte delle troie.
Per fortuna Francesca mi telefonò, distogliendomi da quei
pensieri.
Grazie a Dio non erano tutte come Antonella.
Era un po' che non ci vedevamo.
Mi chiese se mi andava di prendere un caffè insieme.
Le dissi di venire da me, ché non avevo molta voglia di uscire.
Quando arrivò, la abbracciai stretta, stretta.
Rimase un po' meravigliata da quel mio slancio di affettuosità, a cui mi abbandonavo raramente, e capì che c'era qualcosa
che non andava.
“Cosa c'è, Henry ?”, disse mentre ricambiava l’abbraccio.
“Niente. Semplicemente ti voglio bene”.
52
guancia.
Sorrise e mi abbracciò più stretto.
“Qualcosa non va ?”
Sospirai: “Ma, no, non più di tanto... Ormai ci ho fatto l'abitudine a queste sue improvvisate...”
“No”.
“Sicuro?”
“Hai rivisto Antonella ?”.
“Beh, insomma... ormai...” Sbuffai. “Sì, ci sono rimasto male....
...è libera, non è la mia donna. Ha il diritto di fare ciò che
vuole. Sono io il cretino.”
Il suo intuito riusciva sempre a sorprendermi.
“...sì... è venuta a trovarmi oggi pomeriggio...”
“Come sta?”.
“Sei soltanto innamorato. Non essere troppo duro con te stesso!”
“Bene... Bene...”
“Innamorato!… Non esageriamo! ...”.
“Cosa fa adesso?”
“Non ti raccontare delle balle! Sei innamorato!”
“Adesso...
...adesso ...è andata a convivere...
Sta con un uomo... un uomo di vent'anni più vecchio di lei...
con un figlio piccolo...
Parla di sposarsi... mettere su famiglia.
Dice che le dà “sicurezza”...”
“Ma no! ... è soltanto attrazione fisica, ecco... quello sì
...dai...
E’ che in fondo non ho alternative interessanti, è un po’ che
non conosco nuove ragazze.”
“Accidenti, Henry!”, disse scuotendo la testa.
Mi guardò compassionevole.
“È solo che mi ha colto di sorpresa.
Non me l'aspettavo. Sta senza farsi vedere per due mesi e poi
arriva con questa bella novità...”
“Ci sei rimasto male ?”, disse mentre mi accarezzava una
53
Bevvi un sorso di birra.
54
“Vabbé. Raccontati pure quel che vuoi. Sai come la penso”.
Nuvole illuminate dal sole nell'aria della sera. Il fresco cominciava a scendere dai boschi.
“Stai tranquillo, la conosci bene ormai.
E’ facilmente prevedibile come andrà a finire: una mattina si
alzerà, le sembrerà di percepire qualcosa di diverso nell’aria,
lo saluterà e gli dirà che le dispiace, ma deve assolutamente
andare, ringraziandolo per tutto quello che ha fatto per lei, e
lasciando un altro cuore infranto, da suicidio.
E poi la vedrai tornare, ci puoi contare”.
“Dammi una sigaretta, va là”.
“Tieni”
Mi accesi la sigaretta e aspirai profondamente.
Le nuvole sulla collina avevano preso un tono rosa acceso.
Sbuffai il fumo con aria insofferente: “Sono stanco di tutti
questi suoi cambiamenti d'umore. Sono stanco. Stanco...”
“E’ un pensiero che prima o poi ci coglie tutti... la “stabilità”,
la “sicurezza”... ma la conosci, vedrai che non durerà...”
Sospirai.
“Ma sì, forse hai ragione”. Le sorrisi.
Mi offrì un'altra sigaretta.
“Antonella cerca quell’equilibrio che le è sempre mancato...
Ma quando non sai bene su quali basi fondare il tuo comportamento, tutto appare possibile. Così cambia umore e opinioni come il vento, ma il suo carattere di fondo resta sempre
uguale. È sempre lei, irrequieta, instabile... la puoi riconoscere in ogni suo gesto.
Adesso le sembra importante avere punti fissi nella vita, avere una famiglia, come se la chiave della sua realizzazione
fosse lì, come se fosse il rimedio per la sua insoddisfazione...
Ma poi tornerà alla vecchia strada di sempre, e ti verrà a cercare, vedrai.”
Aspirai una forte boccata di fumo che bruciava i polmoni.
“Una volta li sopportavo meglio, ma adesso... E poi fa dei
discorsi di sicurezza economica, di posizione sociale... di tutte le puttanate che non ho mai tollerato!
La credevo diversa. Sentire anche da lei questi discorsi che
ho sentito pronunciare da centinaia di donne e che mi hanno
sempre dato il voltastomaco, mi ha veramente nauseato”.
Si accese una sigaretta.
55
Mi faceva sempre bene parlare con lei.
Alternavamo i periodi in cui ci raccontavamo le nostre piccole disgrazie.
Adesso toccava a lei sopportare.
L’abbracciai. Era davvero una buona amica.
“Ma dimmi, Henry... per il resto, come te la passi?”
“Aspetta che vado a prendere qualcosa di fresco da bere”.
56
Tornai con una bottiglia di Sauvignon bello freddo come piaceva a lei, un paio di calici e dei salatini.
“Beh, sono delle occupazioni che mi prendono tutto il giorno”.
“Davvero?”.
“Fantastico!”, disse con gli occhi che le brillavano, “Grazie,
Henry, ti meriti un bacione”.
Mi dette un bacio con lo schiocco su una guancia, lasciandomi un segno di rossetto che si affrettò a cancellare con le dita,
ridendo.
“Certo”.
“E qual’è l’occupazione che ti prende la maggior parte del
tempo? ...fare il giardiniere?...”, disse con aria ironica.
“No, riflettere”.
“Alla nostra, allora”, disse alzando il bicchiere.
“Cioè...?”
“Alla nostra”.
“Pensare, ragionare insomma.”
“Ahhh!!! Avevo proprio una gran sete!”
Mi guardò con aria perplessa.
Bevvi due grandi sorsate fresche di vino, respirai a fondo,
buttai fuori l'aria stantia assieme ai pensieri molesti, e la vita
ricominciò a sorridermi.
“Sul serio?”.
“Sì”
“Allora cos’è che mi volevi domandare?”, le chiesi dopo un
altro paio di sorsi.
“E a cosa pensi?”.
“Come te la passi”, rispose sgranocchiando un salatino.
“Mah, devo rifare un po’ d’ordine tra i miei pensieri”.
“Mah, niente di ché, penso, mangio, dormo, aggiusto il giardino e coltivo un po’ l’orto”.
“E col lavoro come va?”
“Bene... l’ho lasciato”
“Tutto qui?”
57
“Dici sul serio?”
58
Rimase a guardarmi diffidenza, per capire se stavo scherzando.
Il silenzio riempiva l’aria tra di noi.
I pensieri cercavano di condensarsi in un discorso sensato,
ma le frasi uscivano a epigrammi, rade, come le mie emozioni.
“E adesso dove lavori?”
“Un giorno di primavera…
“Non lavoro”
…per le vie del centro…
“Ma scherzi?”
.fin su nel cielo una canzone…
“No”
Un’immensa malinconia…
Rimase a guardarmi per un po’, perplessa.
…nuvole bianche oltre i tetti rossi …
“Ma come... ? Non capisco... andavi bene... L’architetto aveva una gran stima di te... Mi sembrava anche che ti piacesse...
Cos’è successo?”
… ricordi…
“Sì”
…fantasmi…”
“Non ce la facevo più”
Davanti ai miei occhi ripassarono le nubi candide, fioccose di
quel giorno di primavera, le rondini che volteggiavano allegre e malinconiche tra i camini.
“Eri sotto pressione?”
“Una vertigine…
“No, non esattamente... Ma non potevo più andare avanti così”.
…un senso di libertà perduta…
… un vuoto immenso…”
“Scusami, ma non ti seguo. Cos’è successo allora?”
“Cos’è una poesia?”
“Non so se riuscirò…
È successo tutto così all’improvviso...”
59
“No, no,...”, mi fece sorridere, “...ma potrebbe esserlo...
60
…piuttosto un requiem…
..un requiem per una vita passata, una vita finita, anni perduti... Ancora molta strada da percorrere... Tanta polvere,
ragnatele e nidi d’ombra...”
Mi sorrise.
“...non so ...non so se riesco...”
Rimase in silenzio per un po'.
vendo rinfrescanti Mojito colmi di ghiaccio, avevo la forte
tentazione di lasciar passare la vita così, in una sorta di torpore catalettico, senza pensare più a niente, .in una specie di estraniazione totale...
Alla fine ho ceduto, ho lasciato il lavoro, e mi sono ritirato
qui.
Sto quasi tutto il giorno sdraiato sul prato a riflettere.
Sembra assurdo... non è molto, lo so... ma così mi sento vivo.
Non Vivo come quando viaggio, eppure vivo.
In ufficio mi sentivo più assurdo che mai.
Mi sono ricordato di tante cose, di tutto quello che avevo
smarrito... ”.
“...vedi Frenci…
...non mi spaventano né la fatica, né le difficoltà....
Rimanemmo in silenzio per un po'.
Mi spaventa l'assurdità...
“Sei in ritiro spirituale, allora”.
Mi spaventa la vacuità, l'inutilità...
“Una specie”.
...trascorrere una vita a tribolare per ottenere chissà cosa, come se questo potesse dare un senso alla mia esistenza...
Il sole stava tramontando dietro la collina illuminando il bosco sul versante di fronte.
I merli cantavano nell'aria della sera.
Non avevo nessuno scopo particolare.
Non trovavo nessuna vera soddisfazione e realizzazione in
ciò che facevo.
Cercavo di farlo al meglio e credo anche che lo facessi bene,
prendendolo con sufficiente impegno. Ma non avevo ambizioni, né vi trovavo alcun obiettivo degno.
Pensavo soltanto al fine settimana.
In certi sabati pomeriggio, dormicchiando sull’amaca e be61
“E stai raggiungendo la santità e la pace dei sensi?”, disse
con aria ironica.
“Ti sembra che l’abbia raggiunta?”
“No, non direi...”
62
IX
I PEZZI DI UN UOMO
Mio nonno diceva che un uomo è fatto di tanti pezzi e quando ne manca uno si vede subito.
Se ne usciva spesso con questi proverbi ed aneddoti, figli naturali delle riflessioni di una lunga vita.
Mi tornò in mente un giorno, osservando dall’alto della collina la vecchia casa di campagna del nonno, ora mia, sovrastata da greggi di nuvole spensierate.
I pezzi d'un uomo...
Ma di quali pezzi è fatto veramente un uomo...?
Dei ricordi?... quelle fragili tracce che delineano la propria
personalità, quel senso di unicità che differenzia dagli altri?
Ma cosa sono i ricordi, se non flebili echi di un passato che
non esiste più?
Effimeri, evanescenti, eppure senza di essi la propria identità
crollerebbe come un castello di carte.
Restai un po’ soprappensiero.
In un certo senso, evitare i ricordi, era stato come rinnegare
me stesso.
63
E il risultato era che la mia esistenza aveva perso spessore, la
mia anima si era spenta, scolorita, e credo che tutti quelli che
mi conoscevano se ne fossero accorti.
No, non potevo fingere che mi mancasse un pezzo, perché,
appunto, quando ne manca uno, si vede subito.
E poi i ricordi sono difficili da evitare, ci circondano continuamente, sempre in agguato negli odori dell'aria, nei gesti
quotidiani, nei piccoli oggetti che si possono ritrovare malauguratamente nel fondo d'un vecchio cassetto.
Un giorno mi era capitata in mano una mia vecchia agenda
telefonica che non avevo voluto buttare via. Conservare gli
oggetti era un vizio che avevo ereditato da mia mamma e dai
miei nonni.
Era piena di vecchi numeri telefonici che ormai non telefonavano più a nessuno.
Non ne avevo dimenticato nemmeno uno.
Ogni numero corrispondeva ad un periodo diverso della mia
vita.
C'era l'epoca del 34.25.59 con cui telefonavo alla mia vecchia
zia, c'era l'epoca del 27.09.38 con cui telefonavo ai miei nonni, l'epoca del 54.25.56 con cui telefonavo ad Elena, quello
del 77.10.31 con cui telefonavo a Dan, e tanti altri ancora.
Erano numeri a cui nessuno avrebbe risposto più. Però rimanevano nella mia memoria come codici d'accesso al passato.
Servivano a ricordarmi cose che non appartenevano più al
presente, o meglio, che non esistevano più.
34.25.59 e subito appare l'immagine d'un appartamento in
una vecchia casa popolare, un'antiquata macchina da cucire,
un pianoforte scordato, e una vecchina dal sorriso bonario col
64
suo scialle grigio sulle spalle.
27.09.38 e mi sembra di vedere l’immagine autunnale, scura
come un antico quadro fiammingo, di una coppia di anziani,
seduti in una stanza in penombra. Mi appare l’immagine di
mio nonno che tamburella pensosamente le dita sul tavolo
davanti a un solitario, mentre la nonna sbuccia una mela, tra
mobili austeri di noce scuro e una vecchia pendola alla parete
che ticchetta lentamente e rumorosamente le ore.
Adesso al numero di Elena rispondevano persone sconosciute
che non avrebbero capito la mia commozione nel rifare una
volta ancora quel numero.
Ma il 77.10.31 era forse quello che mi metteva più malinconia di tutti. M’immaginavo un telefono appoggiato per terra,
suonare da solo in un appartamento vuoto che non aveva trovato ancora acquirenti; suonare disperatamente nella solitudine per richiamare invano il proprio padrone che mai più
sarebbe andato a rispondere. Niente è più triste d'una cosa
che non servirà mai più.
appariva sulla scena per un attimo, ma quando cercavo di
concentrarmi sul suo volto, più mi sforzavo, più mi sfuggiva.
Forse il mio inconscio non voleva ricordare cose dolorose,
anni della mia vita fondamentali, ma irrimediabilmente lontani e irripetibili, ai quali non riuscivo a pensare più senza
sentirmi male.
Alla fine restava un buco, ed era come se mancasse un pezzo
alla mia vita.
I ricordi...
...effimeri dati ad accesso casuale....
Ogni volta che mi veniva in mente Dan, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordarmi la sua faccia.
Mi venivano in mente tanti particolari, ma non riuscivo a ricordarmi il suo viso. Mi ricordavo il suo modo di sorridere, la
sua risata contagiosa, il suo sguardo profondo, la sua espressione indecifrabile quando suonava il pianoforte, ma erano
solo brevi lampi, il suo viso completo era sfumato, come ad
alzarsi al mattino con gli occhi appannati. Nel mio ricordo
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66
X
I BIVI
Un giorno, ascoltando la radio, una canzone triste di un film
malinconico di trent’anni prima mi gettò addosso uno strano
incantesimo, come fossi riportato indietro a quei tempi.
Ricordavo bene quel periodo, le mode, l’abbigliamento, le
automobili.
Ma soprattutto ricordavo bene le speranze.
Mi rivedevo bambino, davanti un futuro incognito, trent’anni
di vita in un paese in rapida crescita: possibilità infinite, sogni illimitati, campi fertilissimi dove sarebbe cresciuto qualsiasi desiderio.
Mi rivedevo, sul far della sera, in una piazza polverosa di un
paesone di mare, di quelli cresciuti troppo in fretta negli anni
dello sviluppo economico, attorniata da palazzoni che sembravano voler scrutare il mare al di là dell’orizzonte, come a
voler interrogare il futuro nella brezza salmastra carica
d’odori incogniti.
Ero un bambino e il futuro era una specie di sogno, qualcosa
di fluido ed evanescente, un mistero, pieno d'infinite possibilità...
Rimpiangevo pochissimi momenti del passato, nella loro realtà.
Del passato mi mancavano soltanto i sogni, lo sconfinato fu67
turo ignoto, un’immensa tela bianca che la fantasia poteva
colorare a piacimento.
Ecco cos’è che mi mancava davvero: quei sogni che trainavano la mia esistenza, che davano uno scopo apparente, e mi
rendevano più leggeri e facili da sopportare anche i momenti
più duri.
Mi mancava di poter osservare la vita con davanti trent’anni
di possibilità meravigliose e suadenti...
Ma ora mi osservavo dall’altro capo di quei trent’anni e non
avevo ancora incontrato quelle cose incantevoli e luccicanti.
E anzi ne erano svanite a migliaia come miraggi.
La storia che era stata raccontata fino a quel momento era
molto più anonima, molto più banale, e sembrava che ormai
non ci sarebbero più state svolte, colpi di scena o finali a sorpresa.
A lungo avevo esplorato le diramazioni del passato, cercando
di capire se avevo sbagliato da qualche parte, provando a ripercorrere nel pensiero i bivi alternativi e cercando uno sviluppo differente di una vita parallela.
È una tentazione che colpisce tutti. La famosa illusione di
cambiare il passato...
L’unico effetto è che la vita rimane paralizzata dal rimpianto.
E poi, in fondo, se avessi potuto tornare indietro, non avendo
il dono della preveggenza, avrei fatto sicuramente le stesse
scelte e gli stessi errori...
...che altro avrei potuto fare in mancanza di conoscenze, in
mancanza di dati precisi per poter scegliere davvero...?
68
Nient'altro.
XI
Avrei fatto le stesse scelte e gli stessi errori.
Era solo un'illusione malefica che avrei potuto far qualcosa di
diverso.
Quello fu il pensiero che mi piacque di più.
IL FILM
Sono ad una festa. Dan mi saluta sorridente, mentre sale in
auto.
Provo a dirgli qualcosa, ma faccio una gran fatica come se mi
mancasse la voce.
Cerco di agitare le braccia per farmi notare, ma mi accorgo di
essere lontano. Allora corro, corro per raggiungerlo, per fermarlo e corro, corro…corro… ma sento che la sua auto si allontana sgommando velocissima. Il motore accelera sempre
più e le gomme stridono in lontananza...
Mi sveglio sudato di soprassalto.
Dalla notte maledetta dell’incidente ho rifatto mille volte
quel sogno.
Un crampo allo stomaco mi accompagna il risveglio ed un
senso di oppressione mi dura tutta la mattina.
Non avrei potuto far nulla di più di quel che avevo fatto.
Ma sì... certo...
Allora era forse così che dovevano andare le cose.
69
All’ennesima volta che ebbi quel maledetto incubo, decisi di
affrontare i fantasmi.
Aprii la botola e salii in soffitta.
Erano anni che non ci andavo. Fu come entrare direttamente
nei miei ricordi.
C’erano oggetti di famiglia di generazioni. Vecchi giocattoli,
bauli, album di fotografie, vestiti fuori moda e fuori taglia, le
lucine di Natale, vecchi presepi, addobbi, libri ingialliti, og70
getti di dubbio gusto, vecchie radio dei primi del novecento,
odore di naftalina, polvere e ragnatele.
Aprii e tirai fuori da un vecchio baule, dove era rimasto ad
aspettarmi, fedele, per tutto quel tempo, il filmato che aveva
fatto Dan il giorno del matrimonio di Elena.
Elena...
...quante emozioni collegate a quel nome…
Elena era stata la mia ragazza per qualche mese, e non c’era
nessun motivo particolare per cui avrei dovuto ricordarmi di
lei. Come non mi ricordavo quasi più delle tante ragazze, avventure passeggere, che avevano incrociato la mia vita.
Eppure non l’avevo dimenticata.
Non so spiegarmelo. Ma mi era rimasta in qualche modo dentro. Forse era capitata in un momento particolare in cui sentivo più che mai la mancanza di una ragazza.
A volte mi domando se quello che solitamente chiamiamo
amore, non sia solo questione di mancanza di opportunità.
Non avevo mai guardato quel filmato. L’avevo evitato per
molto tempo. Rappresentava una specie di resa dei conti col
passato.
Mentre scendevo di sotto, gettai una rapida occhiata a tutti
quegli oggetti lassù. Ognuno di essi raccontava una storia.
Ognuno voleva raccontarmi la sua storia.
Il vecchio armadio scheggiato da una bomba americana nel
quarantacinque...
71
...il manichino da sarta che un giorno la vecchia zia…
Scesi in fretta e richiusi velocemente la botola.
Mi sedetti sul divano, accesi lo schermo e cominciai a guardare il filmato del matrimonio di Elena. Un messaggio dal
passato.
Rividi la chiesa e l’altare, i gladioli rosa e bianchi, la luce che
scendeva da una vetrata colorata sopra gli sposi.
Riascoltai la musica di sottofondo, un adagio per organo, malinconico come un tramonto.
Mi prese una stretta al cuore.
Poi il lancio di riso e la marcia nuziale, mentre la sposa si
proteggeva col velo.
Nella ripresa Elena apparve all’improvviso in primo piano
col viso incorniciato dal velo nuziale. Era ancora più bella di
come la ricordassi.
Capelli castani, lisci. Occhi bruni, dolci. Labbra perfette.
Non l’avevo mai più rivista, e non ci eravamo nemmeno più
sentiti per telefono. Anche il suo viso nei miei ricordi era rimasto a lungo sfumato.
La sua voce, mentre nel video scherzava con Dan, mi buttò
addosso un cumulo di ricordi.
Mi sentii opprimere come se mi mancasse il respiro.
Poi mi rividi...
C’era un mio primo piano, mentre Dan diceva delle cretinate.
Fa sempre uno strano effetto osservarsi dall’esterno. A vedermi da fuori, non molto del mio vero sentimento trapelava.
A dire il vero, sembravo anche allegro.
Nell’inquadratura successiva ero solo, in disparte, all’ombra
d’un albero. Elena mi veniva incontro per salutarmi, reggen72
dosi l’abito.
Non avevo mai visto la scena da quell’angolatura.
Nella ripresa non si riusciva a sentire quel che dicevamo. Solo io lo ricordavo.
Era l’addio. Un vero addio.
Dopo quel giorno le nostre vite si erano separate definitivamente, nonostante la promessa di rivedersi.
Forse era stato meglio così, ma il vecchio “lontano dagli occhi…” aveva funzionato poco.
Poi ci fu un primo piano di Francesca che rideva avvicinandosi, e copriva l’obiettivo con una mano.
Apparvero una serie di scene da mal di mare, di piedi e cielo,
e delle voci: “Adesso basta! …dammi ‘sta telecamera Dan”
“No lascia!” “Dammela qui. Fammi filmare un po’ anche
me”. Alla fine la spuntò Francesca che cominciò a filmare.
E apparve Dan…
Sembrava lì come in un giorno qualsiasi, come se potessimo
incontrarci da un momento all’altro.
Scherzava e diceva delle battute.
Mi fece sorridere, addirittura riuscì anche a farmi ridere.
Ma subito la malinconia mi si richiuse sopra. Il dolore entrò
in me come un muro nero, la tristezza si fece di piombo e
scesi giù nell’abisso dei sentimenti, fin sul fondo.
Dan mi aveva dato il filmato qualche giorno dopo. Avrei voluto buttarlo via subito. Ma non lo feci per rispetto a Dan.
Ma forse non era quella la vera ragione...
Forse non avevo avuto la forza di dimenticare.
Forse, dopotutto, non avevo voluto buttar via una parte della
mia vita. Un pezzetto di me.
Forse era per lo stesso motivo che non avevo buttato via i
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miei scritti, né la mia vecchia agenda telefonica.
Dimenticare...
Ecco il dilemma.
...dimenticare due persone scomparse dalla mia vita definitivamente?
Un amico morto ed una ex fidanzata sposata con un altro?...
Una parte della giovinezza andata... il sentiero davanti più
breve e con meno possibilità di svolta.
Quanti progetti che avevamo vissuto insieme…
Quanto fumo...
Mi prese una nostalgia che avrei preso il telefono e avrei
chiamato subito Elena, solo per sentire che di quegli anni non
tutto era scomparso.
Il dolore assunse tutte le sue sfumature e mi scese giù nel
profondo dell'anima.
Mi sentii veramente male.
Che senso aveva ricordare, per poi sentirsi così? Aveva senso
serbar ricordo di cose tanto dolorose?
Ma in fondo quei ricordi erano una parte della mia vita...
...e come sarebbe stata la mia vita senza di quella parte?
Già …come sarebbe stata?
Mi venne un’idea bizzarra …eppure…
…eppure… riguardando quel video mi resi conto...
...che se la mia vita fosse stata un’interpretazione …una spe74
cie di recita... se fossi stato semplicemente un attore calato
nella parte…
…se ci fosse stato un Padreterno che un giorno mi avesse
preso in disparte e mi avesse detto : “Guarda Henry!” e mi
avesse fatto rivedere la mia vita daccapo, come in un filmato...
...se l'avessi rivista complessivamente, allora avrei detto...
...che era una bella storia, malinconica, struggente, strappalacrime a volte ...altre tragicomica e grottesca, ma pur sempre
bella...
Già, se l’avessi vista dal di fuori, invece che dal di dentro, da
una prospettiva più distaccata, come se fosse la vita d’un altro, avrei detto che era una vita densa, difficile a volte, ma
piena. E quel senso di vuoto che mi aveva preso in certi momenti, era soltanto perché non avevo più voluto guardare
dentro di me.
75
XII
LE LETTERE MAI SPEDITE
Ricercando i pezzi di me stesso in vecchi cassetti, bauli e album di fotografie, un giorno, aprendo un vecchio quaderno di
appunti, ritrovai una lettera d’amore che non avevo spedito.
Era una lettera di dieci anni prima, ma avrebbe potuto essere
stata scritta in un’altra vita.
Ci sono fasi dell’esistenza così diverse per stile, idee, ambiente, amicizie, gusti e interessi che potrebbero essere altre
vite, come se la “nostra vita”, quella con cui ci identifichiamo, fosse in realtà un collage grossolano di vite differenti.
Pertanto, senza ricorrere alla mistica, posso dire che nelle mie
vite precedenti, a lungo avevo cercato il cosiddetto amore
perfetto, eterno, assoluto.
A lungo ci avevo creduto.
L’amore sembrava donare alla vita uno spessore ed una profondità che altrimenti si stentava a trovare. Sembrava riempirla di significato.
Avevo avuto varie ragazze, brevi avventure veloci, rapidamente cominciate e finite, e presto dimenticate. Ma chissà
perché, quelle rare volte che mi ero innamorato davvero di
una ragazza, frequentandola e conoscendola giorno dopo
giorno, non ero mai stato ricambiato... Era una cosa strana, a
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ripensarci... ma era andata così...
Beh, a parte con Antonella... Ma era stata una relazione così
inconsueta...
L’amore... Ricordavo bene come iniziavano i sintomi del malanno: giorno dopo giorno il lento scivolare nei suoi sorrisi, il
vivere di un suo sguardo, fin a sentire la propria identità perdersi nei suoi occhi.
Pian piano non facevi altro che pensare al suo sorriso, alla
sua bocca, al suo collo, alla sua pelle. Al suo profumo. Se
sorrideva la giornata diventava bella. Se scherzava con te la
vita aveva un senso.
Ma cosa mi aveva portato in fin dei conti il cosiddetto “amore”?
Soltanto ore e notti agitate. Speranze eteree.
Effimere gioie illusorie.
Momenti struggenti, sentimenti violenti, e alla fine tanta sofferenza...
Aprii la busta, un messaggio giunto da dieci anni prima, che
aveva finito, imprevedibilmente, per essere stato scritto per
me stesso.
Appena cominciai a leggere, un ombra scura ridiscese su di
me.
“…Tu non sai che battaglia sto combattendo... Se solo potessi sentire la nostalgia che mi attanaglia in alcuni momenti,
capiresti quanto sia grande la forza d’animo per tirare avanti.
Le notti sono tremendamente lunghe, interminabili, come
quando si è malati e l’alba non viene mai.
77
La mia malattia sei tu.
Sono andato lontano, in un paese di mare, perché i soliti luoghi riecheggiavano senza fine i miei pensieri. Ho pensato che
una distesa d’acqua sterminata potesse attutirli senza riverberarmeli contro.
Credevo che lasciandoti un po’ da sola forse avresti sentito
nostalgia di me e ti sarebbe venuta voglia di vedermi.
Ho passeggiato a lungo sul porto nel vento, da solo, tra scalinate, pergolati, giardini pensili, scivolando tra le ombre
proiettate dai lampioni, col vento che mugghia la mia solitudine nelle strade deserte e fredde.
Non c’era anima viva, nemmeno la mia.
Il vento sibilava tra gli alberi, e le sartie ritmavano una sinistra melodia tintinnante.
Fuori dall’alone giallastro dei lampioni, la notte buia si
stendeva in tutta la sua crudeltà. La luce verde del faro appariva remota e irraggiungibile, sperduta nel mare.
Ho aspettato a lungo, invano,una tua telefonata.
E adesso la notte, il mare, le stelle mi sembrano assolutamente inutili.
Tu non sai il vuoto che sento dentro. E non sai la presa che
mi stringe il cuore.
Davvero non avevo nessuna voglia di innamorarmi di te.
Proprio non ne avevo bisogno. E ho lottato, non sai quanto
ho lottato, quanto ho combattuto quel sentimento che non volevo.
Vorrei che il vento mi portasse via questo amore, che lo gonfiasse come una vela e me lo strappasse di dosso. Forse la
mia anima sanguinerebbe per un po’, ma tornerebbe alla pace così tanto desiderata. Al nulla di ogni giorno, forse, ma
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alla pace…
della vita quotidiana... una mano di colore con cui ravvivare
il grigiore della consuetudine, per sfuggire alla monotonia...
Mi venne un vecchio brivido a rileggere la mia lettera.
Ormai erano anni che ero alla deriva sentimentale.
Era passato tanto tempo che non ricordavo quasi più il viso
della ragazza alla quale l’avevo scritta.
A tratti, però, avevo rivissuto le stesse cose con Antonella.
Avevo cercato all’esterno un rimedio per la mia insoddisfazione. Ma la mia insoddisfazione aveva radici ben più profonde e non poteva essere anestetizzata servendosi
dell’amore come una droga...
Visto da questa prospettiva l’amore non poteva curarmi proprio niente, non più di una bottiglia di vino...
Avevo sempre saputo che legarsi ad una creatura mortale,
affidare la propria felicità all’esistenza di un’altra persona era
pericoloso, estremamente pericoloso.
La brevità e la precarietà stessa della vita umana la rendevano in sé una scommessa molto rischiosa e la sofferenza un
destino molto probabile.
Ma allora perché dannarsi tanto per l’amore?...
Perché rischiare così?
Cosa avevo sperato di trovare, veramente, nell’amore?
Era una domanda che non mi ero mai posto onestamente.
Osservai il cielo fuori dalla finestra. C’era una nuvola rosa
illuminata dal tramonto.
Rimasi un po’ soprappensiero con la lettera in mano.
Una risposta affiorò in me, sorprendente.
...Un sogno, mi dissi..
Avevo cercato un sogno...
...un sogno che mi permettesse di staccarmi dallo squallore
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Rimasi soprappensiero per un po’, cercando d’assimilare
quella nuova consapevolezza.
Più di una volta mi ero detto razionalmente, che quel sentimento che provavo per Antonella non era un amore buono,
sano. Ero vincolato da una forte passione che mi aveva
impedito di staccarmi da lei completamente.
Ma si poteva veramente definire Amore?
In verità, spesso si chiama “amore” quella malsana passione
fatta di gelosia, senso del possesso e attrazione fisica che lega
un uomo ad una donna...
Ma quello è più simile ad una droga: ti giochi l’anima per
una breve ebbrezza... Lo desideri e lo disprezzi al tempo stesso...
In quell’attimo di chiarezza, cominciai a vedere tutto da una
prospettiva diversa.
Con stupore mi accorsi che quello che avevo chiamato “amore”, per quanto forte e struggente, nonostante le sofferenze e
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le gioie che mi aveva procurato, in verità era ancora un sentimento immaturo. E non era nemmeno così nobile come avevo creduto...
Improvvisamente mi sentii leggero, sollevato da un peso immenso.
E finalmente, cominciai seriamente a distaccarmi da Antonella.
XIII
SOTTO LE NUVOLE
Era passato parecchio tempo dall'ultima volta.
Ero sdraiato sul prato ripido dietro casa, tra l'erba alta, con le
dita intrecciate dietro la testa e un paio di birre ancora fresche
di fianco a me.
Avevo riconosciuto subito l’auto, ma non mi ero mosso.
Vidi che entrò dal cancello, bussò alla porta più volte, e poi
cominciò a fare il giro del giardino. Poi mi vide e mi venne
incontro.
“Ciao, Henry”
Si chinò su di me, mi dette un bacio su una guancia e si
sedette sull'erba.
“Ciao Anto”, risposi, senza muovermi. Il mio sguardo era nel
cielo.
Passammo qualche minuto in silenzio.
“Cosa guardi?, mi disse.
“Le nuvole”, risposi.
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82
L'osservazione era banale, c'erano decine di nuvole che sembravano conigli. Vedeva solo delle nuvole. Non c’era da aspettarsi molto di più...
“Perché?”
“Mi piacciono”
Guardò alto nell’azzurro.
Una grande pace riempiva il cielo, dove le nuvole scivolavano leggere.
A volte le nuvole mi parevano vertiginosamente alte. Ogni
tanto, invece, mi pareva che allungando la mano avrei potuto
sfiorarle.
Altre a volte la prospettiva s’invertiva come se io fossi sospeso sopra di loro e potessi caderci sopra.
“Cosa ti piace?”
Un vento leggero faceva rabbrividire le foglie dei pioppi.
Faticavo a parlare. In quel silenzio la mia voce mi risuonava
estranea.
“…le forme ... mi suggeriscono idee... ricordi...”
Tornò a guardare in alto.
“Tipo?...”
Non risposi.
Si sdraiò di fianco a me. Rimanemmo in silenzio a lungo.
“...sembra proprio un coniglio.
Ti ricordi quella volta... era primavera... sarà stato quattro cinque anni fa... Stavamo per sdraiarci su un prato, quando è
saltato fuori tra i nostri piedi un coniglio nascosto... Che spavento che ci ha fatto prendere!
Te ne ricordi ?”
Mi sorprendeva un po' che se ne ricordasse. Non parlava
spesso del passato, ed era difficile capire se ci pensasse mai.
Per lei c’era solo il futuro.
Reagiva con violenza alla malinconia e alla nostalgia, buttandosi nell'azione. Bloccava tutti i sentimenti struggenti sul nascere, li afferrava per la gola con l’aggressività dell'istinto di
sopravvivenza.
“Te ne ricordi, Henry ?...
C’eravamo conosciuti da poco... Era primavera. I prati erano
pieni di viole... Te ne ricordi ?
Ti ricordi le risate e le lotte che facevamo sul prato? Ci ruzzolavamo come dei bambini... Tornavo a casa piena d’erba...
te ne ricordi?...
Eh?...”, chiese con un tono quasi supplichevole.
Alla fine le mie labbra si dischiusero.
All'improvviso disse: “Guarda quella nuvola, Henry! Sembra
un coniglio. Lo vedi? Il muso, le orecchie...”
83
“Me ne ricordo.
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Era una lepre, comunque.”
“Una lepre?… Certo, una lepre...”
“Erano bei momenti...”, disse, “...eh?! Vero?...”
Il silenzio creò un vuoto immenso e le distanze parvero ingigantirsi.
pioppi.
Aprii la bocca, ma non uscì nessun suono.
L’aria rendeva i pensieri più leggeri.
I momenti scorrevano con una velocità indefinibile e a tratti
sembravano rallentare ed accelerare, e ingorgarsi come la
corrente d’un ruscello.
Poi il momento si fermò sopra di noi nel cielo azzurro.
Con un lungo respiro, si fece largo un’idea che prese la mia
voce.
“Vero?...”
Le foglie dei pioppi sfarfallavano alla brezza ammiccando in
toni argentati.
Il passato mi apparve benevolo, come un vecchio amico che
non vedi da tempo ed è tornato a trovarti.
“Spesso non ce n'è bisogno, a ben pensarci, si scopre che le
cose vanno bene anche così.
Si può anche riniziare dal punto in cui si è arrivati”.
Appoggiò la testa sulla mia spalla. Le cinsi la vita col braccio. Mi sentivo di nuovo in sintonia con lei.
“Erano bei momenti”, risposi.
Sentii un sospiro trattenuto a fatica.
Rimase in silenzio qualche minuto ad osservare le immagini
che le passavano davanti agli occhi.
“Ci sono delle volte che bisognerebbe poter ricominciare tutto da un certo momento...”, disse.
Bevvi un lungo sorso di birra.
“Sì, bisognerebbe poter ricominciare tutto da un certo punto”,
continuò.
Il vento amplificava il silenzio facendo frusciare le foglie dei
85
“A volte, però, poter cancellare tutto quello che c'è stato dopo
sarebbe molto meglio”, riprese.
Una nuvola oscurò il sole.
Di nuovo la mia voce si fece largo a fatica in mezzo a tutto
quel silenzio.
“...serve anche quello per capire il valore delle cose importanti...
E' necessario bruciare molte energie e spesso anche molta
vita per capire quello che conta veramente...
Quando, però, si sono esaurite le energie nocive, finalmente
si può stare tranquilli, senza più sentire le voci maligne che ti
chiamano dentro...”
86
La nuvola passò ed il sole tornò ad illuminarci.
XIV
“Forse hai ragione”, rispose, “ma tante volte mi sembra che
non sia servito a niente, di non aver imparato nulla e di non
essermi mai mossa dal punto di partenza...”
Da quella volta Antonella prese l’abitudine di venirmi a trovare di pomeriggio e di sdraiarsi sul prato accanto a me a
guardare il cielo e le nuvole.
I discorsi erano dilatati nel tempo e le risposte giungevano
sempre dopo lunghe pause, seguendo i ritmi coi quali si susseguivano le nuvole nel cielo.
SEMPLICEMENTE NON È LA VITA CHE SOGNAI
Uno dei pensieri più malefici che ti possono cogliere è quello
di non aver vissuto la vita che avresti voluto, come se ad un
certo punto tutto fosse andato maledettamente storto.
È una sensazione terribile, tra le più deprimenti in assoluto,
una specie di demone malvagio che ti opprime e ti vessa. Un
pensiero che ti distrugge, che ti toglie la voglia di vivere, che
ti fa ammalare, che ti può perfino uccidere.
Semplicemente accade che cominciano ad infilarsi una serie
di cose che non vanno per il verso giusto... e un giorno ti rendi conto che non sei padrone della tua vita...
All’improvviso ti afferra questa pesante sensazione e capisci
che tutta quelle idee di controllo e di libero arbitrio sono solo
delle fesserie.
Da quel momento ti accorgi che la tua vita corre in derapate,
contenute all’inizio, poi sempre più ampie, e alla fine stai
correndo come un matto e stai guidando alla cazzo. Ma non
riesci a farci niente, non ci sono freni, il volante non sterza al
punto giusto, le gomme sono lisce, e la tua vita va sempre più
forte e sbanda sempre di più.
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Spesso mi ero lamentato che nella mia vita non era andato
bene un accidenti di niente. Tutto era andato a puttane.
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Che cazzo di vita!, mi dicevo.
Avevo battagliato e imprecato a lungo contro la mia sorte bastarda che non mi aveva concesso nemmeno quel minimo che
dovrebbe esserci nella vita di un uomo.
Tutto sembra sempre lì lì pronto per essere afferrato, ma è
sempre due passi davanti a te.
... amori svaniti... finiti in niente...
...amici perduti...
...promesse di successo e di carriera finite nel cesso...
...lotta quotidiana con conti da pagare... multe... tasse...
...soldi sempre scarsi...
...frustrazione a volontà...
Cazzo, ce n'era da riempire un treno, e da piangersi addosso
per una vita intera! E a lungo mi era sembrato davvero di aver tutte le ragioni per farlo.
tempo.
...semplicemente PUF! si erano sgonfiate, scoppiate come
bolle di sapone...
Sembravano della massima importanza, cercavano di focalizzare tutta l’attenzione... e poi, all’improvviso ...scomparse,
andate così com’erano arrivate...
Certi obiettivi, certi scopi che mi ero prefisso, che li avessi
raggiunti oppure no, ora sembrava non avere più importanza.
Ero cambiato io?
Erano cambiate le mie esigenze?
Mah?
Alla fine, si erano rivelate soltanto cose caduche ed effimere,
proprio come le nuvole...
...apparivano e svanivano in un attimo...
...come le nostre stesse vite...
Un giorno osservando le nuvole che mutavano incessantemente in un gioco infinito di forme inconsistenti, mi colse un
pensiero, una consapevolezza improvvisa...
Sapevo a livello intellettivo che niente dura, che tutto è destinato a mutare, a finire, a estinguersi... al più tardi ad essere
perduto con le nostre vite...
...ma capirlo profondamente, sentirlo con ogni fibra di se
stessi... capire il senso profondo della caducità...
... ed esserne consapevole in ogni istante...
...no...
...quello, in verità, no...
Sembra un pensiero ben noto, un concetto semplice, ma in
realtà è difficile da realizzare nel suo senso profondo.
In verità non vogliamo rendercene conto. Altrimenti non riusciremmo ad impegnarci in niente, soprattutto nelle cose a
lungo termine. Nella nostra percezione ci accorgeremmo che
la vita svanisce troppo in fretta tra faccende vane.
E allora preferiamo non pensarci.
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Mentre osservavo quello strano gioco di forme vaporose che
si creavano e si dissolvevano, apparivano dal nulla e nel nulla
scomparivano, ripensai a tante cose che mi avevano preoccupato nel corso degli anni...
...che ne era stato?...
Dov’erano finite?
Semplicemente erano svanite, così, da un giorno all’altro, e a
volte non me ne ero nemmeno reso conto, se non dopo molto
89
Come ci si potrebbe impegnare per qualcosa che non dura?
E allora costruiamo cose, pur sapendo che hanno una scadenza, pensando che dureranno per il tempo che servono e poi
...e poi quando sarà necessario... allora le lasceremo andare...
punto saldo.
Non c'è salvezza in questo mondo.
Non c'è salvezza per nessuno.
Già, sembra facile...
Ma non è affatto facile imparare a lasciar andare.
Anzi, è una delle lezioni più difficili da apprendere di questa
vita.
In realtà, dentro di noi non crediamo davvero che le cose non
durino. Questa è la nostra illusione nascosta.
In verità, la nostra intenzione è di costruire per sempre.
Non vogliamo affatto lasciar andare, il pensiero ci turba e
cerchiamo di evitarlo.
E allora viviamo trasognati come se le cose al mondo fossero
eterne e la nostra vita non avesse termine.
Forse sarebbe una forma di saggezza inconsapevole anche
quella, se non finissimo per poi dannarci l’anima alla ricerca
spasmodica di cose da conquistare e da ottenere.
Anzi, forse proprio il senso di precarietà e di fragilità ci spinge a inseguire l’illusione di consolidare le nostre esistenze
con possedimenti e beni, accumulando esperienze e ricordi.
Così ci affanniamo, senza riflettere, tutto per costruire castelli
di nuvole sulle nuvole.
Ma non si può costruire niente sul niente... Il niente rimane
niente...
In quel momento rivelatore divenni profondamente consapevole che non esiste proprio nulla a cui potersi aggrappare,
niente a cui potersi appoggiare, non ci sono ancore, nessun
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Era un pensiero durissimo, pesantissimo, come un macigno,
come una montagna, come un intero pianeta...
...eppure era un pensiero tagliente come una spada, come un
laser, un pensiero che tagliava e vaporizzava in un attimo
strati su strati d’illusioni...
Ciò che non si può evitare, va accettato.
Passato il momento di disorientamento, dinnanzi
all’inevitabilità, il pensiero, invece di essere disperante, diventava estremamente liberatorio.
Liberava dal peso del fare, dal peso di ottenere, dalla ricerca
affannata.
E mostrava una via più leggera.
Che differenza che farebbe vivere con la costante consapevolezza della caducità! Quante cose si cesserebbero di fare, e
quante altre si farebbero con cuore infinitamente più leggero!
Quanti fantasmi che svanirebbero in un colpo, e quanto scarso significato assumerebbero tante cose che ci sembrano indispensabili!
Ma non è affatto semplice trovare un giusto equilibrio.
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È difficile impegnarsi a costruire cose, a dedicare loro del
tempo, quando ci si ricorda che sono effimere.
XV
E non si riesce ad evitare di affannarsi quando ci si dimentica
che sono fugaci.
IL MALESSERE
A chi non la conosceva, Antonella dava l’impressione di una
ragazza frivola e superficiale. Ed effettivamente a volte faceva dei discorsi fatui con un’aria da diva che l’avresti presa
volentieri a schiaffoni.
Certo quando la incontravi, la bellezza era il suo principale
biglietto da visita, ed anch’io all’inizio ero stato colpito soprattutto da quello... Però a conoscerla bene, quando gettava
la maschera, non era affatto stupida, né superficiale. Aveva
molti interessi e una buona cultura.
Era un aspetto che non mostrava a tutti. Coi più si divertiva a
interpretare la parte della bambola stupida e facile, per poi
prendersene gioco, illudendoli di abboccare alle loro esche
malamente camuffate.
Ma tra noi era partita in modo completamente differente, per
gradi, come un’amicizia e a me aveva lasciato presto trapelare il suo lato nascosto. E se era durata parecchio, se pur in
modo altalenante, era proprio per quello, perché una donna,
per quanto bella, se non è anche interessante, ti stanca subito.
Un pomeriggio venne a trovarmi che sembrava pensierosa.
“Ciao Henry, come va?”
93
94
“Ciao Anto! ...bene, dai... Tu?”
ma adesso...”
“Insomma...”
“È un senso d’insoddisfazione?...”
“Che hai fatto?”
“Sì”
“Niente. Niente di ché...”
“Un senso d’insoddisfazione generico... non ben definito? ...”
“E allora?...”
“Sì”
“Non so... non saprei dirti...
“Una specie di malessere latente?...”
...però... boh?... non sono a posto...”
“Proprio così”
“E cosa c’è di strano? ...tu non sei mai stata a posto!” dissi
ridacchiando.
“Capisco”
“Capisci?...”
“E dai, Henry! Dico sul serio!
Non mi sento a posto...”
“Sì, capisco. Capisco perfettamente”.
“In che senso?”
“Capita anche a te?”
“Non so... non saprei...
...ed è quella la cosa strana...
So che c’è qualcosa che non va, ma non saprei dirti cosa...
“Certo! Capita a tutti. Fa parte della natura umana”
So solo che... non sono felice... non mi sento felice...
E non saprei dirti perché... Non ho particolari problemi, anzi
le cose in generale stanno andando bene...
Dovrei essere felice... Ed è proprio quella la cosa strana... A
volte davo la colpa ad una serie di cose che non andavano...
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“Sì. Guardati in giro: conosci qualcuno che possa definirsi
realmente “felice”?
Pensa ai tuoi amici, alla gente che frequenti...
Ne conosci qualcuno?...
E il resto del mondo?
96
“Dici sul serio?”
È in continuo conflitto. Ti sembra felice?”
sazione... ma non sapresti dire a cosa è dovuta...
Riesci solo a sentire che c'è...
Sospirò. “A dire il vero... no!”
È tanto che ci rifletto sopra, che cerco di analizzarlo...
“Quel senso d’insoddisfazione fa parte di tutti noi. È una specie di malattia spirituale.
Da un certo punto di vista siamo tutti malati... tutti gravemente malati... Tutti insoddisfatti, febbricitanti, con malattie
spirituali dolorose... A volte vere e proprie cancrene...
Alcuni che sembrano a posto, si sono arresi ad una specie di
quiete apparente, ma è solo una calma fittizia...
Cercano d’ignorare la realtà... ma andando a scavare in profondità, sotto sotto ...si svela sempre quel senso di inappagamento, latente, oscuro...”
“...siamo tutti insoddisfatti... tutti malati...
Non avevo sentito nessuno ammetterlo così francamente.”
“Ho soltanto guardato in faccia ciò che i più cercano di schivare. Semplicemente perché ad un certo punto non ho più potuto ignorarlo.
Ho dovuto guardare la realtà dei fatti.
E ho dovuto chiamare le cose col loro nome...”
“Ma cos’è questo malessere? Da cosa è generato?”
“È difficile da capire...
È un malessere vago e indefinito... e quando cerchi di analizzarlo, sfugge.
Ed è per questo che è così difficile da scacciare.
Andando a fondo percepisci solo quella strana fastidiosa
sensazione... ma non sapresti dire a cosa è dovuta...
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...è come un senso di mancanza...
...una specie di senso d’incompletezza...
Ma non saprei dirti cosa manca veramente...
Sembra sempre che ci manchino centomila cose... Ma quello
che ci manca davvero è la felicità...
Apparentemente siamo tutti protesi alla ricerca della felicità...
...di quell’effimero stato precario che chiamiamo felicità...
La cerchiamo nel piacere... come se fossero due sinonimi.
Così diventiamo affamati di vita, e la fame anima ogni nostra
azione e ci spinge spesso a compiere le cose più assurde e
pericolose...”
“È vero. Il piacere diventa una specie di fissazione... Una
mania... Come se il piacere in sé potesse dare un senso alla
vita...
Bisogna averne di più, sempre di più... e non basta mai...”,
disse.
“...e poi ovviamente cerchiamo in ogni modo di evitare il dolore...”, continuai, “come se si potesse avere un piacere eterno. Senza renderci conto che piacere e dolore sono due facce
della stessa medaglia. Non sono due opposti, ma complemen98
tari. Non si può avere uno dei due senza l’altro.
Così siamo presi nel ciclo alterno delle maree, tra la fuga dal
dolore e la ricerca del piacere.
tali questioni di fronte a milioni di persone che vivono ogni
giorno in condizioni di vita drammatiche, tra guerre, carestie,
dittature, lottando quotidianamente per la sopravvivenza...
E non appena ci rendiamo conto che non c’è niente che ci
possa soddisfare veramente a lungo, quando ci rendiamo conto che inseguiamo cose effimere che non possono saziarci, e
che anzi è proprio la brama a causare la nostra sofferenza...
...allora cerchiamo di trovare almeno la serenità... o la pace...”
Però...
Rimasi in silenzio per un po’. Mi accesi una sigaretta.
“Ma più che altro si cerca un senso...”, continuai.
“Sullo sfondo della morte che ci aspetta al termine... con la
consapevolezza che le cose di questo mondo non durano...
che tutto quel che abbiamo fatto finirà in niente, come noi
stessi, del resto... ci si domanda che senso ha tutto questo...
È stato il mio chiodo fisso per anni e anni... e lo è ancora...
Alcuni evitano semplicemente questa domanda...
Almeno finché possono... finché ci riescono...
Ma io non posso più, e continuo a rifletterci sopra...”
Avevo la gola secca. Bevvi un sorso di birra fresca.
Non c’erano nuvole, solo un cielo estivo biancastro, pieno di
foschia per la calura.
“Si potrebbe pensare che sia un'indagine oziosa di uno che ha
tempo da perdere...” continuai,
“...che addirittura ci sia quasi da vergognarsi ad occuparsi di
99
...però... il fatto è che in quelle situazioni ciò che spinge
avanti è la speranza di un domani migliore. Non c’è tempo
per pensare, e si rimanda la Vita ad un futuro momento
ipotetico quando tutto andrà bene... quando sarà finita la
miseria... quando la guerra finirà... quando il tiranno sarà
rovesciato... quando tornerà la democrazia... quando
regnerà la giustizia... quando il lupo dormirà con l’agnello...
insomma, quando finalmente verrà la mitica età aurea che
esiste solo nel pensiero.
Ma la realtà è che quando finalmente la sopravvivenza fisica
non costituisce più un problema, quando finalmente, o purtroppo, rimane il tempo per riflettere, allora riaffiorano quei
problemi irrisolti ed inquietanti, d’importanza capitale, anche
se a lungo ignorati, che circondano l'esistenza umana e che
sono sempre stati lì, insidiosi, nel fondo, in agguato, nascosti
sotto altri problemi più immediati.
Appaiono le domande che, almeno una volta, quali comete
portatrici di sventura, hanno attraversato i pensieri di tutti e
tutti hanno sempre evitato come un pericolo oscuro e fatale...
Sono domande scarne ed essenziali, antiche quanto l’uomo...
... apparentemente risapute... trite e ritrite... ma ancora irrisolte...
Un giorno ti assalgono all’improvviso, compaiono come un
lampo tra gli altri pensieri... e diventano così forti che non
puoi più ignorarle. Tutte le altre questioni perdono
100
Mi accesi una sigaretta e aspirai a fondo.
C’era una cappa di afa opprimente e il canto delle cicale
sembrava amplificare la calura.
d’importanza.
Alla fine si torna sempre lì, al nodo cruciale...
...il senso della vita...
Se non riesci a rispondere a questa domanda, tutto il resto
non conta, tutte le altre attività si riducono a passatempi di
bambini, che fanno giochi e imitano gli adulti con grande solennità, come se fossero cose serie...”
Restammo in silenzio per un po’.
“Sì...”, disse, “...resta la questione fondamentale...
Provi ad ignorarla perché non sai cosa rispondere...”
“Già... E si finisce quasi per provare nostalgia per quei tempi
passati in cui c’era da preoccuparsi solo della sopravvivenza
fisica.
Ora c’è da trovare una ragione di sopravvivenza spirituale.
Ed è molto più difficile...”
“E tu che risposta hai trovato, Henry?”
“Per ora solo nuove domande...
Solo nuove domande...”
Con due sorsi finii la birra.
Ogni volta che mi occupavo di tali questioni, il mondo sembrava acquisire una pesantezza enorme. Era inevitabile.
Eppure non potevo far a meno di pensarci.
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“...visto da una certa prospettiva il mondo è assolutamente
assurdo...”, continuai, “Cos’ha realmente da offrirci l'esistenza?”
Mi guardò seria.
“Anche se apparentemente le nostre vite sono migliori di
quelle delle persone che vivono in condizioni di estrema miseria, lottando ogni giorno per la sopravvivenza fisica
...anche se pensiamo di essere fortunati e che a loro la vita
non abbia offerto molto ...anche se possiamo permetterci dei
lussi luccicanti... alla fine le nostre vite, sostanzialmente, non
sono molto meglio... Anche noi combattiamo la nostra battaglia quotidiana imposta dall’ambiente in cui viviamo ...per le
rate del mutuo, per la carriera, per uno stipendio migliore, per
la posizione sociale, per la pensione... tutte cose, se non futili, secondarie, ma alla quali attribuiamo grande importanza...
e che comunque sono fonte di preoccupazione e di logorio...
Agiamo schiavizzati dalle convenzioni, dai nostri lussi splendenti che ci imprigionano in belle gabbie dorate.
Sciupiamo buona parte della nostra vita in impegni privi di
reale importanza...
...e sempre di fretta, sempre di corsa, sempre proiettati verso
il prossimo impegno, sempre proiettati nel domani... un domani che ci libererà dalle nostre schiavitù, un futuro immaginario che magicamente ci concederà di fare ciò che realmente
amiamo, invece di essere occupati in attività prive di alcuna
102
vera soddisfazione...”
“È vero... ...andiamo avanti... avanti ... sempre avanti...
E speriamo sempre che domani sarà meglio.
...corriamo dietro a tante cose...
...e spesso non sappiamo nemmeno perché...”
“In realtà facciamo molte cose per consuetudine... perché tutti fanno così...
Viviamo come robot, spinti automaticamente in ruoli dalle
illusioni create dalla società, assorbite inconsciamente...
L’ironia è che spesso sappiamo vedere la miseria negli altri e
non riusciamo a vederla in noi.
Non riusciamo a vedere la pochezza della nostra vita.
Sì, a ben pensarci, anche se in condizioni esteriori differenti,
tutti condividiamo la stessa misera sorte umana.
Vuoto misero alcuni... vuoto dorato altri...
Comunque pur sempre vuoto... senza alcuno scopo reale...”
Non si muoveva una foglia. Il cielo sembrava un muro bianco, compatto.
“Ce la mettiamo tutta per nascondere il vuoto...” continuai,
“Alcuni inseguono obiettivi grandiosi. Provano ad ottenere
quella celebrità che, sperano, durerà oltre la loro morte e li
illude che la loro vita non sarà stata sprecata. E si buttano a
capofitto nelle imprese più azzardate...
I più finiscono per passare solo momenti di grande frustrazione. Pochissimi hanno successo.
E ancora meno riescono a godersene i frutti.
È solo un’altra chimera.
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Prima o poi il tempo cancella tutto.
Pensa a quante persone famosissime al loro tempo, ora sono
praticamente sconosciute. Nella migliore delle ipotesi un
breve trafiletto su un libro di storia, in mezzo ad una schiera
di altri nomi più o meno ignoti.
E chi ci pensa più? Chi se ne ricorda?
Il mondo è pieno di mausolei in rovina che celebrano le gesta
di qualcuno che non interessa più a nessuno e di statue che
servono da cagatoio ai piccioni...”
Restammo in silenzio per un po’.
“Sì, hai ragione, Henry... ci perdiamo in mille programmi e
progetti per cercare di dare un senso alla nostra vita...
Ma questo senso si stenta a trovarlo...
Eppure non mi sembra vero che non abbia senso... che non vi
sia alcun significato... né scopo...
Ci dev’essere una soluzione... una risposta...”
“Una risposta?...
Mio padre una volta buttò lì una frase che non ho più dimenticato...
Stava parlando, in studio, con un collega, che gli aveva raccontato di un loro amico che era morto improvvisamente, e
disse: “Di che ti meravigli? Siamo qui per caso!”
Siamo qui per caso...
...per caso...
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...ecco tutto il senso di un’esistenza...
Per caso!
E tu che ti arrovelli a riflettere sullo scopo. A riflettere sul
senso di tante vicende delle quali non riesci a capire il significato.
...sul senso di una morte che prima o poi giunge, assurda e
crudele, e ti porta via tutto...
Ti domandi se c’è un Dio che regge le fila di un universo indecifrabile, se abbiamo un libero arbitrio, se c’è un destino,
se possiamo cambiare le nostre condizioni...
Domanda pure, che senso ha questa esistenza improbabile e
incomprensibile!
E ogni altra spiegazione è troncata sul nascere...”
E poi giunge la sentenza... siamo qui per caso...
Non riesco a credere che siamo davvero qui per caso...”
Tutto qui...
“Già, neppure io...
...per caso la vita generata dalla materia inanimata...
...nessuno vuole accettarlo...
...per caso la vita diventata consapevole di sé...
Eppure “per caso” è forse la risposta giusta.
...per caso venuti all’esistenza...
Nessuno scopo... nessun significato particolare... nessun senso nascosto dell’esistenza...
Si accese una sigaretta.
“...per caso...
...non so, Henry...
...eppure non riesco a credere che questa vita sia solo un evento accidentale...
... per caso...
...per caso...
...ecco la risposta dura e inesorabile che dissipa come un sole
crudele e implacabile tutte le nebbie dell’illusione.
La risposta è pesante e definitiva almeno quanto quella del
corvo di Poe, che gracchiava continuamente “Mai più! Mai
più!”.
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..soltanto per caso...”
106
Ho dentro di me l’eco dei racconti che coloravano le nostre
serate afose trascorse all’osteria davanti ad una birra ghiacciata, quando dentro le volute del fumo delle sigarette, le
immagini sembravano prendere vita…
L’Africa...
...per noi come parlare di un’altra galassia...
Ecco, se mi fermo un attimo e tendo l’orecchio, mi pare ancora di sentire la sua voce...
Mi sembra di udire ancora l’eco delle sue storie inverosimili.
Mi viene da sorridere a ricordarle...
XVI
NUVOLE SCURE
A Josh, che ci ha insegnato
che si può morire veramente
Una nuvola avanzava in un lento turbine scuro dall’aspetto
fatale ed inquietante. Era cupa e minacciosa.
Il suo aspetto, nonostante tutto, mi era familiare.
“…un giorno mi dimentico di fare il pieno e rimango senza
benzina in mezzo alla savana a cinquanta chilometri dal villaggio più vicino”.
In un lampo mi apparve il viso d'un vecchio amico, eternamente giovane, col suo sorrisone bonario, che rendeva semplice ogni cosa. Tutti gli volevano bene e la sua spontaneità
faceva sembrare, anche a quelli che l'avevano appena conosciuto, di conoscerlo da sempre.
Da anni si era trasferito in Africa e tornava alla sua vecchia
casa europea solo d’estate, per salutare gli amici.
“Hai dimenticato di far benzina...?”
Le sue avventure africane accendevano la nostra fantasia, ci
portavano il sole torrido dell’equatore, i profumi speziati della foresta, i versi misteriosi della savana, gli strani riti ed i
canti ipnotici degli sciamani.
E a noi che eravamo immersi nello smog e la vista era rinchiusa dagli alti muri dei palazzi di fronte, sembrava che vivesse cento vite, non una sola.
107
“Già. Avevo caricato la macchina, ma nella fretta...
Era una pista deserta che attraversava la savana. Una strada
polverosa piena di buche. Non passa mai nessuno, se non una
volta ogni due giorni... a volte anche tre o quattro...
Ormai faceva sera, e dovevamo passare per forza la notte lì,
accampati, e aspettare che prima o poi passasse qualcuno...
Tra l’altro eravamo proprio in mezzo ai gatti...”
“Gatti?”
“Quelli grossi...”
“Azz!”
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“Dico al mio aiutante “Dobbiamo accamparci per la notte...
Ci pensi tu?”
Sai loro sono abituati... Loro vanno... si fermano dove capita... No problem...
Ha raccolto della legna ed ha acceso un bel falò”.
“E tu che hai fatto ?”
“Beh, niente, faceva tutto lui …ho steso una stuoia e mi son
sdraiato a riposare”.
senza un chiodo.
Pensa che non sono mai riuscito a spiegargli come si avvita
un bullone... Sul serio, non scherzo... Quando c’era da cambiare una gomma non capiva da che parte andava svitato, e
poi invece di riavvitarlo cercava di inchiodarlo a martellate.
Invece con un machete in un oretta ha costruito una capanna
per la notte.
Avevamo un po’ di provviste, ha preparato da mangiare e poi
si è messo a suonare un tamburo”.
“E avete passato la notte così?”.
“A riposare? In mezzo ai leoni?!?”
“Sì, ma c’era il fuoco acceso”
“A beh, allora…
Non era meglio stare in auto?”
“Si sta più scomodi”
“Ma è più sicuro!”
“Sì, buonanotte! Un leone ci mette un secondo a sfondare il
vetro!”.
“Beh... effettivamente...”
“Intanto col machete si è messo a costruire una capanna, molto più robusta dell’automobile!
Dovevi vedere com'era bravo. Ce l’hanno scritto nei geni. Ed
era incredibile vedere cosa riusciva a fare, con un machete,
109
“Sì. È bellissimo stare all’aperto nella savana, si vedevano le
sagome nere delle acacie sul rosso del tramonto. Si udivano i
versi degli elefanti e i ruggiti dei leoni.
Il tamburo sembrava il cuore dell’Africa, tum tu turu tu tum
tu turututum...
Nel buio, lontano dalle luci delle città, sembrava di poter toccare le stelle. Ce n’erano migliaia. Qui da noi non se ne vedono tante.
Bellissimo. E’ stata una gran serata...”
Una gran serata in mezzo ai leoni... Solo lui poteva viverla
così. Prendeva tutto con grande serenità, non si scomponeva
mai.
Credo che la parola sconforto o depressione per lui fossero
prive di significato.
Aveva sempre mille storie da raccontarci.
“Avevo comprato un fuoristrada, un nuovo modello che di110
cevano che andasse dappertutto. Allora mi dico: vediamo se è
vero!
Vedo una buca larga, piena d'acqua, in mezzo alla strada, accelero e provo a superarla.
...solo che era una buca per lavori in corso, profonda due metri! PLUF ! ci sono finito dentro fino al collo!...
Poi ci sono volute trenta persone a spingere e a tirare per far
uscire la jeep. Ho perso anche le scarpe nella melma”.
“…una volta mentre ero in vespa, mi ferma un vigile moretto, che non avevo né luci, né libretto, niente.
Mi dice: “Ti devo far la multa”
“Ma va là, gli dico, non ho mica tempo! Devo andare a far
delle compere e sono già in ritardo”.
Ci metteva sempre di buonumore. Aveva un modo incredibile
di risolvere i problemi, e non si perdeva mai d'animo.
Quanti ricordi…
Ricordavo bene quell’ultima estate di tanti anni fa, un’estate
ormai perduta nell’abisso del tempo, nel gorgo della clessidra
che inesorabilmente tutto inghiotte e sommerge...
Quella volta era rimasto più a lungo per varie vicissitudini.
Era impaziente di ritornare, sembrava quasi che avesse un
appuntamento...
Il mal d’Africa lo richiamava, non vedeva l'ora di ripartire e
di ritornare alla sua terra adottiva, di rivedere finalmente la
bianca cima maestosa del Kilimangiaro nell'aria vibrante della savana, invece di tutta la nebbia piovigginosa dell'autunno
cittadino.
Avevamo vent’anni... facevamo festa... cantavamo...
Una sera, poco prima che ripartisse, suonavamo la chitarra
insieme.
“Ma io ti devo far la multa!”.
“Sì, ho capito, ma ci vuole troppo tempo! Senti perché non
vieni con me in città e poi quando ho finito mi fai la multa?”.
Lui sale e andiamo in giro a fare compere per tutto il giorno,
mi da anche dei consigli sugli acquisti. Poi ci beviamo una
birra al bar. A sera tardi lo riporto indietro, lo scarico e mi
dice:
“Va be', buona notte”
“Buona notte”, gli rispondo e me ne vado”.
Tutte le volte che ci ripensavo mi faceva ridere.
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Una settimana dopo, era morto, laggiù in Africa.
Un malore dissero...
Un malore, a ventisette anni?
La morte coglie sempre impreparati, è vero, ma di
quell’evento riuscivo solo a pensare che non era nemmeno
una dissonanza, una nota stridente, ma proprio una cosa senza senso, una risposta sbagliata ad una domanda che non era
stata fatta.
Ricordavo bene la sua vitalità, la sua gioia di vivere, il suo
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ottimismo congenito...
Ma dopo tanti incidenti in auto, aereo, e serpenti, leoni, malaria, ragni e predoni, morire di un malore a ventisette anni?
Assurdo.
Sapevamo, l’avevamo sentito dire, che ad un certo punto la
vita finisce, ma fino ad allora, non ci credevamo veramente.
Era una cosa che riguardava gli altri, non noi.
A lui sembrava che dovesse andare sempre tutto bene ed era
proprio l'ultima persona che pensavi potesse morire.
Immaginavo che se avesse potuto raccontarci la sua fine, avrebbe detto con grande tranquillità come se niente fosse,
nello stile dei suoi racconti africani, qualcosa del tipo: “Improvvisamente comincio ad avere uno strano senso di malessere e mi dico “Ma che diavolo succede ? “ e in due minuti
diventa tutto nero. “Ma va là, non sarà mica la morte?, mi
dico”.
E sono morto per davvero! Che fregatura!”
Così amo ricordarlo.
Pensavo che il suo spirito potesse insegnarci molto: vivere
nel buonumore fino all'ultimo senza preoccuparsi troppo del
futuro o della nostra sorte... e poi quando arriverà la nostra
ora... beh, allora noi siamo là a disposizione, sempre pronti
ad andare, senza rimpianti, senza nostalgie, senza pensieri di
avere ancora cose da fare in sospeso...
La nuvola scura continuò a contorcersi ed oscurò il sole. Divenne densa e fatale. Un soffio freddo mi fece rabbrividire la
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pelle.
Si fece largo nella memoria il ricordo d’una stanza
d’ospedale, bianca, asettica, impersonale, come il nulla. Un
corridoio lungo, bianco, sfocato, con tante porte chiuse su
altrettante vite.
Si entrava solo col camice e la mascherina. Poi si aprivano e
si richiudevano delle porte in successione con degli scatti che
rimbombavano cupamente nel vuoto e si entrava nell’ultimo
domicilio di una persona. Dieci metri quadri, un letto
d’acciaio, lenzuola bianche, muri bianchi, camice bianco, viso bianco, come un fantasma. Una vista su un parco con alberi dalle foglie appena spuntate, che frusciavano mestamente
in un mondo e in una vita ormai remoti. E poi fiale, flebo,
medicinali, siringhe e cuscini. Un fisico gracile spossato dalla
malattia, e soprattutto dalla cura inutile e dolorosa.
Un viso pallido, su una testa liscia senza più capelli, che nonostante l’oltraggio, non aveva perso la sua femminilità. Un
sorriso bonario e stanco.
Tutti pensavamo di avere ancora un po’ di tempo. La primavera era ormai nell’aria, già si sentiva profumo di viole, e le
giornate si allungavano, anche se le notti erano ancora lunghe
e buie. Si parlava del più e del meno come un giorno qualsiasi, con davanti una lunga schiera di giorni comuni.
Ma il tempo finì senza preavviso, una maledetta domenica
d’inizio febbraio...
C’è chi dice che la morte sia una trasformazione, un passaggio, il parto dell’anima che finalmente nasce alla vera vita,
abbandonando il corpo che ne era il grembo.
Forse per alcune persone anziane può apparire così. Il fisico
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si stanca, invecchia, si sfibra, s’indebolisce pian piano. Poco
alla volta non si riescono più a fare alcune cose che erano abitudine quotidiana. Il peso dei ricordi e della vita passata,
delle persone amate scomparse, i vecchi amici che ogni anno
ai raduni sono sempre meno, conciliano col pensiero della
fine. Ed invogliano ad andare.
Per altre persone, invece, sembra un parto prematuro o addirittura un aborto, e diventa dura da accettare.
Ma il finale è sempre lo stesso: le molecole dei nostri corpi si
scindono, si degradano, e gli atomi che le compongono si riciclano e si riorganizzano in nuove strutture e nuove forme.
E quegli aggregati di atomi, generati da stelle in ere remote,
appartenuti nel tempo a soli, a pianeti, ad animali e chissà a
cos’altro, e che chiamavamo per nome, torneranno nel gioco
eterno della materia e dell’energia, separandosi e ricombinandosi, giungendo chissà dove nello spazio e nel tempo.
Sì, niente si crea, niente si distrugge: tutto si trasforma in nostalgia.
XVII
L’ERRORE
Con le vacanze estive rimasi solo sul prato ad osservare le
nuvole.
Le città erano diventate deserte. Sembravano essere rimasti
solo i grilli e le cicale. Soltanto qualche rara automobile interrompeva un silenzio corposo.
Stavo bene, non soffrivo affatto la solitudine. Anzi il fatto
che tutti fossero partiti in vacanza, mi faceva sentire particolarmente giustificato a non far niente e stare sul prato a meditare.
Una sera un’auto si fermò al mio cancello.
Mi sollevai a guardare.
Chi? ... Francesca!
“Ciao, Frenci! Che sorpresa!”
“Ciao Henry! Come stai? Volevo vedere come te la passavi.
Dove sei finito ? E’ un po’ che non ti fai vivo”.
Mi dette un bacio su una guancia.
115
“Che sorpresa Frenci! Hai fatto bene a venire!”
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Si sedette di fianco a me con le gambe raccolte. Le passai una
birra ancora fresca.
Si mise ad osservare le colline in lontananza.
“Mah?... prendo quel che viene. Come sempre... Sai com’è
fatta...”
“Che fa adesso?”
“Che pace che c’è...
Ogni volta che vengo, capisco perché hai deciso di ritirarti
qui... ”
“È in Grecia con delle amiche”
“In Grecia...? come in Grecia?... Ma non era tornata...?”
C'era una leggera brezza fresca e dal campo di erba medica
saliva un profumo delicato che sapeva di pulito e di cose
buone.
“Sì, ma è anche ripartita.”
“Ma come...? ...e che ti ha detto?”
“Come va, Henry?”
“Ho saputo che Antonella è tornata!”
“Che mi ha detto? Mi ha detto ...che aveva voglia di rivedere
le sue amiche... che ultimamente le aveva un po’ trascurate...
...che aveva voglia di mare ...che era tanto che non andava in
Grecia…”
“Già. Avevi ragione, Frenci”
“E non ti ha proposto di andare con lei?”
“Visto?” , disse con un sorriso.
“E tu come stai, Frenci?”
“No, diceva che le sue amiche si sarebbero sentite imbarazzate ad andare in giro con una coppia … eccetera, eccetera… le
solite cazzate...”
“Soliti alti e bassi”
“E tu?”
“Mhhh...? O bassi e fondi?”
“E io niente. Aveva già deciso lei. Sai com’è fatta”.
“...bassi e fondi...
Ma dimmi piuttosto di te e Antonella. Sono curiosa...”
“E ti ha piantato così?”
“Bene”.
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“Direi di sì”.
“...è difficile stabilire...
Non disse niente, scosse solo la testa.
...perché...”
“Ma va bene...
... va bene così…”, dissi.
C’era un pensiero bizzarro che già da un po’ girava ai margini della mia mente. Mi era venuto leggendo una biografia.
Mi accesi una sigaretta e presi una profonda boccata di fumo.
Il fumo uscendo lentamente dalla mia bocca, da sdraiato, in
uno strano effetto di prospettiva sembrava creare le nuvole
del cielo.
...fumo nient’altro che fumo, come i nostri stessi pensieri...
“Frenci, …ti ho mai raccontato la storia di Berlioz?”
“Sì. Va bene così...”
“Il musicista?”.
“...in che senso?...”
“Sì”.
Un falco volteggiava nel blu.
Presi un’altra boccata di fumo.
“No... ma cosa c’entra?...”
“Di...?”
“Berlioz”
“La conosci la storia?”
“Nel senso che … boh?... chi può dirlo?… forse è un bene
così…”
“No”.
“Allora stammi a sentire.
È una bella storia”
“Mah?...” disse alzando le spalle.
“Ma sì... in fondo, a volte...
“Sentiamo”
...è difficile stabilire se…”
Mandai giù un sorso di birra.
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“...quando Berlioz era un giovane compositore esordiente,
conobbe una bella attrice irlandese che recitava in un opera di
Shakespeare. Si chiamava Harriet.
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Fu un colpo di fulmine. Se ne innamorò a prima vista e cominciò a tempestarla di lettere d’amore e di fiori.
Ma, invece di fare colpo, lei cominciò ad evitarlo in tutte le
maniere”.
“Ci credo”.
“D’altronde rivelare subito il proprio amore ad una donna,
soprattutto appena incontrata, non è mai stata una tecnica
vincente. In queste cose ci sono regole ferree che vanno rispettate, dico bene?”.
“E poi non si conoscevano neanche!...”
“Infatti. Bisogna darle atto che un tipo che non conosci
nemmeno, che ti manda fiori e regali, professandoti un amore
eterno, può proprio sembrare uno squilibrato... E le faceva
pure scenate di gelosia pubblicamente, come se fosse stata la
sua donna!”.
“Te la faccio riascoltare un giorno o l’altro.
Il tema dell’opera è quello di un giovane artista che dopo una
forte delusione d’amore, assume una dose letale di oppio.
La sinfonia comincia con un motivo ricorrente, un’idea fissa
che rappresenta l’ossessione per lei. Man mano, la realtà comincia a deformarsi sotto l’effetto della droga, finché lui sogna di trovarsi ad un ballo con lei.
È una scena di apparente armonia, ma non dura: la sua gelosia lo rende folle, e preso da un impeto di rabbia, la uccide.
La sinfonia continua con lui che, pentito e distrutto dal dolore, viene condannato e trascinato al patibolo.
Con l’avanzare dell’effetto dell’oppio la realtà si deforma
sempre più fino a diventare un incubo. E la sinfonia termina
con lui che in preda alle allucinazioni immagina di essere stato trasportato all’inferno, dove una ridda di demoni e streghe,
tra i quali anche lei, sono là a tormentarlo per l’eternità...
L’opera fu un successo straordinario. Era molto moderna e
all’avanguardia per l’epoca...
“E poi si meravigliava se lo prendeva per matto!”.
E il bello sai qual’è?”
“Insomma, nonostante tutti gli sforzi del povero Berlioz, lei
lo evitava in tutte le maniere.
La sua sofferenza per quell’amore non corrisposto, gli dette
una grande ispirazione.
Compose un’opera che chiamò « La Symphonie Fantastique ».
La conosci ?”
“La devo aver sentita…”
121
“No...”
“È che Harriet ascoltando quella bellissima opera e venendo
a sapere che era stata scritta per lei, rimase profondamente
colpita e affascinata da quel giovane compositore che fino
allora aveva respinto, prendendolo per matto.
Accettò d’incontrarlo e ne nacque un’intensa, struggente storia d’amore”.
122
“Noi donne siamo ancora più matte!”.
“Già! E dopo neanche un anno erano sposati.
In apparenza, a volte, la realtà è più incredibile del più fantasioso romanzo”.
“Già. Ma non è tutto...
A forza di bere, divenne sempre più malata e fu colta da una
paresi. Poteva parlare e muoversi a malapena.
Alla fine morì...”
“Che fine triste!”
“E’ il termine giusto. Si era in pieno Romanticismo.
Ma la domanda è: la storia finisce così?”
“Già... ma la storia non è ancora finita.
Lui si risposò con una cantante lirica, e dopo quel grande
amore travagliato, gli sembrò di ritrovare la serenità.
Ma dopo pochi anni anche lei morì e restò di nuovo solo”
“Finisce così?”
“Accidenti... e poi?”
“No, non finisce così... assolutamente...
“Poi, rimasto vedovo, partì per una grande tournée trionfale
in Russia, dove fu accolto con tutti gli onori e poi...
“E’ una storia molto bella, molto romantica”.
...dunque...
… e poi non me lo ricordo più...
Passato il grande idillio iniziale, poco dopo il matrimonio
cominciarono a sorgere i primi problemi...
Non erano tutte rose e sinfonie...
Lei era in crisi perché la sua carriera d’attrice era in declino
ed era invidiosa del successo di lui...
Inoltre era gelosa perché gli giravano attorno molte donne.
Così cominciò a bere e ciò, ovviamente, peggiorò le cose.
Divenne un litigio continuo. La loro relazione si trasformò in
un inferno.
Alla fine divorziarono”.
Ma la cosa importante, che ti volevo far capire, è...
...è che nella realtà le storie vere, al contrario dei romanzi,
non s’interrompono mai ad un certo punto... Sempre nuovi
personaggi e nuovi attori intervengono, scrivendo una storia
perenne ed infinita, dove il buono ed il cattivo, il bene ed il
male, la poesia e la prosa sono strettamente intrecciati e continuamente si alternano in chiaroscuri di luce ed ombra.
Le storie vere non hanno mai un inizio, né una fine e quindi
non sono né tristi, né allegre, né romantiche, né squallide...”
“ È un finale squallido!”
“Cosa mi vorresti dire?”
123
124
“Che siamo noi che consideriamo un bene o un male le nostre
vicende personali a seconda da quale punto le osserviamo,
non sono le vicende in sé... Dipende solo fino a che punto ci
spingiamo con lo sguardo.
Un evento può essere giudicato positivo o negativo solo se,
arbitrariamente, e artificialmente, lo si circoscrive e lo si separa dal resto.
Ma in realtà non è mai isolato”
un evento...
Rimasi soprappensiero.
Le nuvole sulla collina si accesero di toni arancio. Il vento
poco alla volta le disperse. Un’idea prese forma in me.
Soltanto in un contesto finito può esistere il male... Perché il
bene ed il male sono solo in funzione del sistema di riferimento assunto...
Rimanemmo in silenzio a fumare nell’aria della sera, osservando le colline illuminate dal sole, i chiaroscuri delle ombre
delle nuvole sul verde dei boschi.
“Non avevo mai visto le cose da questo punto di vista...”, disse.
Cos’avevo detto?...
“Nemmeno io”
C’era qualcosa che le avevo detto che … non so... mi sembrava che ci fosse da capire qualcosa d’importante…
“Devo ragionarci sopra…
Quindi vorresti dire ...che in fondo ... in fondo le nostre vite,
non sono poi così male…
O meglio che non si può decidere…”
Un falco disegnava ampi cerchi nel blu. Di tanto in tanto lanciava un grido.
Respirai lentamente.
“Esatto. Non possiamo decidere. Perché non ci sarà mai un
risultato definitivo”
Dunque... ma allora...
Rimase in silenzio per un po’. L’aria stava rinfrescando.
...tutti i problemi nascono solamente dalla tendenza a giudicare!!! Ecco l’errore!
Un raggio di sole fece capolino tra gli alberi.
“Bello”, disse, “non sappiamo più neanche se va bene o va
male...
Bene!... le nostre certezze stanno aumentando!”.
Non potendo conoscere la catena infinita di cause ed effetti,
non è possibile fare alcuna valutazione definitiva e sensata di
125
Mi venne da ridere, e anche a lei.
Bevvi un altro sorso di birra e mi sdraiai a guardare Venere
126
che già brillava nel cielo.
XVIII
“C’è molta speranza in tutto questo, però. Niente è definitivo. Mai!”
BARLUMI
Sorrise.
“E il vero dono è che non ha senso mettersi troppe preoccupazioni, perché i risultati a lungo termine delle nostre azioni,
sfuggono alla nostra comprensione e al nostro controllo”.
Rimase un po’ soprappensiero con lo sguardo perso in lontananza. Prese un profondo respiro e si mise sdraiata di traverso con la testa sul mio petto a guardare gli ultimi bagliori del
giorno.
La sera divenne molto luminosa ed una grande pace scese
nella valle e su di noi.
Finalmente uno spiraglio di luce buona entrò in me e cominciò a diradare una nebbia grigia che mi avvolgeva da molto
tempo, forse da sempre, ed era andata infittendosi.
A lungo, ogni volta che avevo riflettuto sul perché della mia
insoddisfazione mi ero dato questa semplice risposta:
…Troppe cose non sono andate come avrebbero dovuto…
La causa era ovvia, il motivo evidente: le cose non erano andate per il verso giusto, dunque non avevo potuto essere felice.
Semplice e logico. Questione chiusa.
Avevo sempre dato per scontato che la sofferenza fosse generata dalle circostanze avverse, qualcosa di esterno a me su cui
avevo scarso controllo.
Ma poi un giorno, un dubbio mi colse all’improvviso.
... sono davvero gli avvenimenti, a generare la sofferenza e la
felicità?...
127
Sembrava una domanda bizzarra, e la risposta scontata.
Solitamente si pensa che gli stati d’animo siano generati dagli
eventi, fino al punto di arrivare a credere che siano pratica128
mente contenuti in essi.
Ma mi resi conto che lo stato d’animo non è dovuto
all’evento in sé, ma solo alla valutazione che se ne fa. E la
valutazione è strettamente soggettiva, al punto che lo stesso
evento può essere giudicato all’opposto da persone diverse.
Ma allora come si è formato il proprio personale criterio di
valutazione?
La risposta era sorprendente. Mi resi conto che in realtà avevo assorbito dal mondo per osmosi, opinioni, desideri e modi
di pensare, che erano effimeri, arbitrari e mutevoli con le varie mode e culture. Me ne ero lasciato influenzare e li avevo
assimilati al punto da credere che fossero miei.
Ma non c’era davvero niente di personale: erano soltanto un
fascio di idee raccolte a casaccio con le quali, inconsapevolmente, mi ero dettato una lunga serie di rigide regole da soddisfare per potermi ritenere felice.
Col solo effetto di allontanarmi costantemente dalla felicità.
In verità io, soltanto io ero la fonte di tutte le mie emozioni.
Solo io ero responsabile della mia sofferenza e della mia felicità.
Era sorprendente che non fossi riuscito a capirlo prima.
Ma oltre a non aver mai messo in discussione la valutazione
di un avvenimento, mi resi conto di aver commesso un errore
ancor più grossolano.
Tutto nasceva dall’aver dato per scontata la veridicità di ciò
che era accaduto.
Il problema non era soltanto quello di stabilire se un evento
fosse positivo o negativo, il problema era proprio di stabilire
cosa fosse accaduto...
Sembrava un pensiero assurdo, ma, in fin dei conti ...com'e129
...com'erano andate davvero le cose?
Cos’era successo realmente?
Esistevano eventi oggettivi?
Non era affatto una domanda retorica.
Pensandoci bene non era assolutamente facile stabilirlo.
Avevo preso per vera la ricostruzione di molti avvenimenti,
ma tutto era stato visto tramite il filtro riduttivo e parziale
della mia mente.
In verità avevo frammentato, spezzettato la Realtà grossolanamente, avevo ricomposto i frammenti alla buona, li avevo
appiccicati insieme, incastrati a martellate e li avevo chiamati
avvenimenti. Avevo creato io un rapporto del tutto arbitrario
di causa-effetto. Ma ogni effetto in realtà ha innumerevoli
cause concomitanti e ogni causa genera una cascata interminabile di effetti.
Mi resi conto che la mia ricostruzione degli avvenimenti era
solo una delle infinite possibili. Non ne esisteva una soltanto.
Anzi, in assoluto non ne esisteva proprio nessuna. Erano solo
collage di frammenti di Realtà che potevano essere assemblati a piacimento e dare origine a disegni completamente differenti, pur utilizzando gli stessi ritagli.
Fu una rivelazione potente, colma d'innumerevoli implicazioni.
Visto che facevamo dipendere la felicità dal verificarsi di eventi che in fondo non erano né positivi, né negativi, perché
erano sempre e soltanto delle ricostruzioni ed interpretazioni
del tutto arbitrarie e parziali di una Realtà infinita, compresi
che alla fine non è necessario che accada niente di particolare
per poter essere felici...
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Per essere felici, per quanto possa sembrare incredibile, è sufficiente scegliere consapevolmente di esserlo a prescindere
da ciò che sembra accadere, perché in fondo esiste solamente
una catena infinita di cause ed effetti senza risultati definitivi.
XIX
LE STANZE CHIUSE
Il problema di fondo è che la nostra visione è sempre parziale
e limitata.
Non riusciamo mai ad avere uno sguardo d'insieme dell'esistenza, cogliendone tutti gli aspetti. Qualcosa ci sfugge sempre.
A volte ci lasciamo influenzare dalla sfumatura colta in un
istante e ne trascuriamo infinite altre.
Così la Realtà assume tanti aspetti a seconda di chi la osserva, come se ci fossero tanti mondi nel Mondo, ciascuno con
pochi contatti sporadici e fugaci con gli altri, come se vi fossero tante stanze chiuse con poche porte che nessuno si prende la briga di oltrepassare.
In verità, siamo tutti rinchiusi nel nostro infimo personale ritaglio di mondo.
Ricordo l'aria convinta di certi contadini seduti tranquilli sull'uscio come se il mondo finisse di là dalla vigna...
...l'espressione apatica di vecchi col cappello seduti a giocare
a carte al bar, come se l'essenza della vita fosse nel fondo
d'una bottiglia...
A volte capita di sfiorare per un attimo questi altri mondi diversi, ma coesistenti, come quando si viaggia in auto lenta131
132
mente per qualche sperduta strada di campagna.
Si apre uno spiraglio, appaiono spezzoni d’immagini, inquadrature di vite differenti, ritagli d’esistenza…
XX
LA MIA VITA?
…una ragazza che si pettina allo specchio pensando all'abito
per il ballo...
… su una sedia a dondolo un’anziana signora che spera nel
domani…
…aerei a diecimila metri d'altezza verso isole tropicali…
…bambini spensierati all’uscita dalla scuola nei pomeriggi di
maggio…
…un camionista che consuma la sua vita su strade interminabili…
…un muratore con cappello di carta di giornale che fischia
contento spingendo una carriola…
…vecchi col basco che giocano a bocce nel sole primaverile...
E poi altrove, ancora più in là, ma contemporaneamente, altri
mondi nel mondo, altre prospettive, altri punti di vista...
…un ammalato grave che dispera di tornare alla vita...
…un carcerato che graffia un pezzo di muro, ripensando alla
sua vita sbandata...
…città dell'est dove la vita e la morte sono scandite a colpi di
mortaio...
Differenti prospettive della stessa realtà, a volte patetiche,
angoscianti, allegre, divertenti, spensierate, opprimenti, allucinate, monotone...
Frammenti dello stesso mondo che non si riesce mai a vedere
nel suo aspetto completo.
133
Dopo qualche giorno ritornò Francesca.
“Ciao Henry, ho pensato di passare a trovarti!”
“Hai fatto benissimo, Frenci!”
“Ho portato delle birre fresche! E delle patatine!”, disse alzando un sacchetto.
“Brava, Frenci! Tu mi vizi!”, dissi ridacchiando.
Ci mettemmo a sedere sul prato.
Si cominciava a star bene, il fresco della sera scendeva dal
bosco. I grilli cantavano allegri.
“Sai Henry, ogni volta che vengo qui mi sembra di essere un
po’ in vacanza”.
Sorrisi.
“Come te la passi, Henry?”
“Al solito Frenci.”
134
“Ho riflettuto molto, sai Henry, su quello che mi hai detto
l’altra sera...”
“Cioè?”
“...che una vicenda può essere giudicata un bene o un male
solo se la si interrompe arbitrariamente ad un certo punto...
...ma nella realtà gli avvenimenti non sono mai isolati... nella
realtà le storie non s’interrompono mai... vi è sempre una cascata di effetti che si protende all’infinito...
E non ci sarà mai un risultato definitivo...
Quindi non si può decidere se un evento è stato un bene o un
male, dipende fino a che punto ci si spinge con lo sguardo...”
Sorrisi. “Proprio così Frenci! Vedo che mi hai seguito!”
“Sì. È stato il pensiero più bello e incoraggiante che ho sentito dopo tanto tempo!”
Sorrisi. “E il bello, Frenci, è che non solo la valutazione in
termini di bene o di male, ma anche la ricostruzione dei cosiddetti “avvenimenti” è del tutto arbitraria, e spesso totalmente fasulla. Fasulla, perché assolutamente soggettiva ed
incompleta... piena di omissioni e interpretazioni...
E non è solo una speculazione filosofica, ma è proprio ciò
che accade!
Frenci, viviamo una vita fondata su memorie completamente
inventate che si basano su fatti essenzialmente fasulli!
È difficile da accettare, ma è proprio così.”
135
“...anche le nostre memorie sono fasulle?”
“Ma certo! I nostri ricordi e le nostre percezioni, sono ingannevoli e fuorvianti.
Per me è stata una rivelazione inaspettata... davvero... eppure
mi sono reso conto che nella mia vita ho operato moltissime
ricostruzioni del tutto false degli avvenimenti...
Molte cose non sono andate come ho creduto, e molte cose
probabilmente non sono accadute affatto...”
“...questa poi!...”
“Ascolta Frenci, senti questa...
Alle scuole medie mi ero preso una bella cotta per una
ragazzina...
È stato il mio primo amore...
Anche adesso quando ci ripenso, la ricordo bellissima. Aveva
un sorriso dolce... un fare dimesso... un po’ timida... castana... occhioni bruni...
Non facevo altro che pensare a lei... Ma sai come sono i primi amori... non si hanno termini di paragone... non si ha esperienza...
Non sapevo come comportarmi.
Un giorno finalmente trovai il modo di stare soli...”
Mi riapparve davanti la scena che nella memoria avevo rivissuto innumerevoli volte.
136
“Eravamo in un campo di grano in un giorno di fine primavera.... proprio dietro la scuola media...
...un cielo azzurro luminoso e schietto...
Aveva un viso dolcissimo. Le sue labbra mi attiravano. Avrei vo-
A lungo, ogni volta che ci ripensavo mi sentivo a disagio.”
“Che triste, Henry! Il primo amore che finisce così...” mi
guardò con tenerezza.
luto baciarla, ma era il mio primo bacio ed ero troppo agitato.
Capii che non ce l’avrei fatta, e non potendone più di quella
tensione, presi il coraggio a due mani e le chiesi se voleva
fidanzarsi con me...”
Mi venne da sorridere a ripensarci. Mi fermai ad inseguire i
ricordi, trasportati leggeri dalle nuvole.
Mi accesi una sigaretta.
C’era una nuvola che come il fumo si dissolveva lentamente
nell’azzurro del cielo.
“... e com’è andata a finire?...”, domandò curiosa.
“Com’è andata a finire?...”
Ridacchiai. “È finita che...
...che disse che ero matto e scappò via!...
Ecco com’è finita!”
“Già, Frenci. È una storia che non avevo mai raccontato a
nessuno...”
Mi accarezzò una guancia con un sorriso comprensivo.
Aspirai una boccata di fumo.
“Per caso, un giorno, dopo molti anni, la rincontrai...
Mi fece una gran festa, e ci fermammo a prendere un caffè in
un bar e a chiacchierare un po’.
Fu davvero una sorpresa rivederla dopo tanto tempo, e soprattutto ricevere un’accoglienza così calorosa e amichevole
da parte sua. Era ancora una ragazza carina, anche se crescendo, secondo me non si era mantenuta così bella come da
ragazzina.
Mi raccontò che si era sposata ed aveva due bambine.
Ovviamente era passato tanto di quel tempo che la cosa non
mi faceva più alcun effetto.
Mi veniva da ridere.
Eh, sì Frenci... si dimentica... col tempo si dimentica... tutto
si trasforma... i sentimenti evaporano... i visi si cancellano...
È così...
“Da quella volta mi evitava sempre.
Fu una grande delusione.
Per molto tempo rimase come il simbolo dei miei insuccessi
amorosi.
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Ricordammo il tempo passato, le scuole medie... quelle macchiette dei professori... i vecchi compagni...
...qualcuno si era sposato... qualcuno aveva fatto carriera...
alcuni avevano dei bambini...
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Qualcuno non c’era più...
Infine fu lei a tornare all’episodio di quel pomeriggio di primavera, quando, nel campo dietro la scuola media le avevo
confidato il mio amore...
Ero davvero sorpreso che se ne ricordasse, e ancor di più che
ne parlasse.
Ne parlava con gli occhi bassi ed un sorriso imbarazzato.
Mi disse arrossendo: “Sono stata una sciocca a scappare via
così... Mi piacevi molto. Ma ero troppo imbarazzata. Non avevo mai avuto un ragazzo, e nessuno me lo aveva mai chiesto.
Sei stato più coraggioso di me. Sei stato molto tenero”.
Rimasi a guardarla a lungo, stupito.
Capisci, Frenci? Di colpo un pezzo della mia vita, del mio
passato girò su se stesso di centottanta gradi...
Improvvisamente uno degli episodi che avevano in qualche
modo segnato la mia adolescenza, divenne falso.
Avevo pensato che fosse scappata perché non le piacevo per
niente, che avevo sbagliato tutto...
...ed invece era proprio il contrario.
Mi ero costruito un castello d’insuccessi amorosi su una pietra inesistente.
Fu la prima volta che mi accorsi con stupore che perfino il
passato, anche se già accaduto, è instabile e mutevole.”
“Frenci, dammi retta, le ricostruzioni dei fatti sono sempre
false ...o perché parziali... o perché mal interpretate... o perché basate su dati incompleti...”
“Il passato è sempre fasullo Frenci.”, continuai, “È una specie di favola che ci raccontiamo.
Vedi, ci aggrappiamo ai ricordi, al nostro passato perché
sembra donarci uno spessore... una consistenza che altrimenti
non si trova...
Sembra costruire la nostra personalità, alla quale ci aggrappiamo con le unghie come fosse il nostro bene più prezioso,
nel tentativo di preservarla ad ogni costo.
Ci sembra di non saper più chi siamo, senza.
Ed è proprio per quello che diamo un gran valore ai nostri
ricordi, al nostro passato... li consideriamo come parte di noi
stessi, della nostra identità... Anche se a volte è fondata sulla
sofferenza... Meglio una personalità pesante fondata su ricordi dolorosi, che però ci danno un forte senso d’identità, che
rischiare di non sapere più chi siamo...
Il nulla ci spaventa più perfino della sofferenza.
Ma se il passato è fasullo...
...se la “storia” della propria vita è costruita su eventi di fatto
inesistenti...
Rimanemmo in silenzio per un po’.
“Effettivamente è successo anche a me...
...un pezzo della tua vita che improvvisamente cambia completamente senso...”
139
...allora la propria identità, quella che viene chiamata “io”,
quella che crediamo essere noi stessi, fondata su una storia
fasulla, che consistenza può avere?
Cos’è?... Cosa può essere, se non un fantasma inconsistente?
140
È un pensiero duro, molto duro.
XXI
La nostra identità, la nostra personalità, tutto ciò che crediamo di essere...
IL TEMPO DEL SOGNO
...nient’altro che un fantasma inconsistente...
È un pensiero difficile da accettare, eppure l’evidenza è davanti agli occhi.”
Rimase in silenzio.
Anch’io rimasi pensieroso, mentre riflettevo su ciò che mi
era venuto in mente.
Mi accesi una sigaretta.
Era una consapevolezza disorientante.
Ovunque cercassi, non c'era niente che potesse definirsi “vero”.
Riguardando a quel fascio evanescente di ricordi di presunti
eventi, mi resi conto che erano soltanto fantasie, né più, né
meno, e che era assolutamente impossibile stabilire se fossero
stati veri o no.
I ricordi, in fondo, erano come la memoria di un sogno, svanito all'alba lasciando solo effimere impressioni.
Agosto stava giungendo rapidamente al termine.
C’era ancora un caldo torrido anche se l’estate era ormai agli
sgoccioli. Ben presto i primi temporali avrebbero spazzato
via la calura.
Francesca aveva preso l’abitudine di venire a trovarmi verso
sera quando cominciava a fare un po’ di fresco. Bevevamo un
po’ di birra, spizzicavamo qualcosa di freddo, visto che col
caldo veniva poca voglia di spadellare, chiacchieravamo e ci
facevamo compagnia.
“Hai visto, Henry, come si sono già accorciate le giornate?”
“Già, Frenci. L’estate finisce sempre troppo in fretta. Non
sono mai riuscito a farci l’abitudine. Mi coglie sempre di sorpresa.”
“Anche me. Sembrava ieri che era giugno... e poi... in un attimo... siamo alla fine d’agosto...
E l’autunno è alle porte, anche se adesso con questo caldo
non sembra...”
141
“Già, e sai quanto odio il freddo, l’inverno ed il maltempo.
L’ho sempre odiato...
142
Fin da bambino alla fine di un’estate, il pensiero del freddo
incombente, dei giorni corti e bui, delle piogge e della neve,
dei raffreddori e delle influenze, ingessati nei maglioni e nei
cappotti, per mesi chiusi in casa, mi rendeva triste... mi gettava sempre addosso una malinconia profonda...”
“Anche a me!”
“Nei cupi pomeriggi invernali scrutavo oltre la finestra appannata e schizzata dalla pioggia, con lo sguardo perso in
lontananza.
Quei giorni grigi interminabili mi sembravano un riempitivo
senza scopo, un inutile spreco di tempo, in attesa della vera
Vita che per me si svolgeva d’estate, al caldo, all’aria aperta.
Dalla finestra del palazzone, guardavo oltre i tetti umidi,
nebbiosi e fumosi della città, e sognavo il sole e il mare al di
là dell’orizzonte. Immaginavo le palme da cocco, le lagune
d’acqua tiepida e cristallina che avevo visto soltanto nelle riviste.
Mare... caldo... sole... luce viva ... colori brillanti...
Ecco il posto giusto per me, non il luogo opaco a toni di grigio in cui abitavo...
Da allora mi era rimasta la convinzione che cambiando luogo, la mia vita avrebbe potuto essere più piena e più felice.
Ma adesso non ne sono più così sicuro...”
“Perché, Henry? Dici che non è facile adattarsi a vivere in un
altro paese? Che saltano fuori nuovi problemi?...”
“Beh, quello senz’altro... ci sono sempre dei problemi da af143
frontare... non è tutto rose e fiori...
Comunque sono situazioni pur sempre affrontabili e risolvibili.
Il vero problema è un altro...”
Mi accesi una sigaretta.
Non si muoveva un filo d’aria.
Nonostante fosse ormai sera, faceva molto caldo.
“È davvero sufficiente andarsene?...”, continuai,
“...è sufficiente cambiare luogo?...
... non è così semplice...”
“Perché dici così?”
“...perché in realtà, ovunque andiamo, ci troviamo sempre
nello stesso luogo...
Ecco il vero problema...
Viviamo sempre in un mondo personale fatto di pensieri.
Sempre smarriti all’interno di noi stessi.
Perennemente imprigionati, nel nostro angusto mondo mentale. Un mondo dispotico che a volte diventa pesante come il
piombo, e spesso assomiglia più ad un inferno, anche se ormai ne siamo talmente assuefatti, che non lo vediamo più
come tale, ma semplicemente lo riteniamo l’unico possibile.
Ovunque andiamo ci portiamo dietro noi stessi.
E se non troviamo un’armonia in noi stessi, non la troveremo
da nessun’altra parte.
Non è sufficiente andarsene.
144
È l’ennesima illusione.
Certo, a volte cambiando luogo può capitare che s’inneschino
una serie di trasformazioni positive che mutano il nostro modo di vedere le cose...
Ma è molto più facile che avvenga il contrario...
...che ci portiamo dietro i nostri problemi irrisolti anche in
capo al mondo...”
“Sì, probabilmente hai ragione...
...non possiamo scappare... non possiamo andarcene da noi
stessi...”
“Frenci, in verità, il mondo, il vero mondo è dentro di noi.
Crediamo di conoscere il mondo esterno, ma ciò che conosciamo sono soltanto i nostri pensieri sul mondo.
Tutto quel che possiamo conoscere è solo una ricostruzione
mentale.
Conosciamo la Realtà esterna solo tramite percezioni che si
riducono a segnali elettrici che vengono interpretati e ricostruiti dal cervello, completamente influenzati da noi stessi,
dal nostro umore, dalle nostre esperienze passate...
Il mondo è sempre totalmente “colorato” da noi stessi, tanto
che non è realmente possibile parlare di proprietà del mondo
a priori. Non ha veramente un senso.”
“Ma ora compare una domanda più inquietante...”, continuai,
“Fino a che punto?...
Fino a che punto ricostruiamo la nostra Realtà?
Questo è il vero nocciolo della questione.
E se non fosse solo un problema di esatta ricostruzione o di
145
corretta interpretazione degli avvenimenti...?”
“In che senso?”
“Accadono veramente degli avvenimenti?
Esistono davvero delle “cose”, là fuori?
O gli avvenimenti e le cose esistono soltanto dentro di noi,
solo nelle nostre menti...?”
“Come?”
“E se non accadesse niente là fuori?
E se le nostre menti non sono semplicemente i filtri con cui
viene ricostruita ed interpretata la Realtà?...
Se non si limitano a ricostruirla, ma la creano proprio?...
Completamente, dal nulla?...”
“Ma come? Che dici?...”
“È un dubbio pazzesco, me ne rendo conto ...ma se la nostra
percezione è fondamentalmente fasulla, e la nostra interpretazione è del tutto arbitraria, niente potrebbe essere ciò che
appare....
Portato all’estremo, potrebbe essere tutta una specie di grande allucinazione...
...tutto puro pensiero...”
Mandai giù un sorso di birra.
Era un’idea inquietante. Sembrava pura follia, eppure...
“Si torna all'antico problema irrisolto a monte di tutto, ancora
146
prima di tutte le materie scientifiche... fisiche, chimiche e
biologiche...
L'antico problema irrisolto e irrisolvibile della percezione...
...l'antico problema che ha messo a nudo che non c’è possibilità alcuna di provare che tutto quello che ti circonda, sia dotato di realtà ed esistenza intrinseca indipendente... Che non è
possibile provare in alcun modo che esiste una realtà oggettiva esterna...
Tu solo “sai” d’esistere a causa di un senso radicato dentro di
te, anche se non ti è possibile “provarlo” in alcun modo. Ma
dell’esistenza di ciò che è “là fuori”, non puoi dire niente”.
“Per quanto possa sembrare strano, il fatto che tu mi parli e
mi dica “Sono qui”, non dimostra niente”.
“Un momento, aspetta... come sarebbe a dire?...”
“Ma è pazzesco!...
“Vedi Frenci... tutto è mediato dai sensi.
Se i sensi c’ingannano... il discorso è finito... visto che non
abbiamo alcuna possibilità di riscontro se non tramite i sensi...
E cercare di verificare la validità dei sensi tramite i sensi è un
paradosso, una tautologia irrisolvibile”.
“Lo so... Eppure, in fondo, non è quello che accade anche di
notte quando si sogna?
Incontriamo nel sogno persone dall'apparenza reale... interagiamo con loro, parliamo e ci rispondono, sembrano dotate di
volontà e d’identità propria ... nel sogno mangiamo cibi che
sembrano assolutamente veri come sapore, odore, consistenza ...sogniamo di far l'amore con una ragazza e tutto sembra
estremamente reale... tocchiamo oggetti, percorriamo distanze, visitiamo luoghi e all'apparenza è tutto assolutamente reale, e giureremmo che è tutto vero...
Ma è soltanto immaginazione...
Crediamo di osservare delle cose, e invece siamo soltanto di
fronte ai nostri stessi pensieri.
Tutto proiettato dalla nostra coscienza, che nel sogno fa da
attori, da spettatore, da palcoscenico, da oggetti, da spazio e
da tempo...
Poi ci svegliamo e, dopo, quello che sembrava essere la real148
“Ma scusa... va bene che la percezione e l’interpretazione
possono essere influenzate dalle proprie idee... però anche se
la ricostruzione non è perfetta, comunque ha sempre una base
oggettiva...”
“E quale sarebbe la base oggettiva?”
“Beh, puoi sempre confrontarti con le altre persone... Se per
esempio chiedi a me se c’è quell’albero, te lo posso confermare... magari non lo vedo esattamente come te... però...”
147
“È una falsa prova. Io non posso saper niente di quello che
succede al di fuori di me, se non tramite i sensi. E i sensi mi
possono ingannare in mille modi. Non posso sapere per certo
nemmeno se tu esisti o no, se sei solo un frutto della mia fantasia... un’allucinazione...”
“Ma come? Sono qui!”
tà, ci appare per quel che è: tutto un frutto della nostra mente.
Ma allora come fare a stabilire che anche questa “Realtà”
dello stato di veglia non sia soltanto un prodotto della mente?
E se fosse solo un altro sogno con un senso di realtà e di durata?
E se in verità non fosse proprio mai successo niente, e tutta la
mia esistenza fosse fatta della stessa sostanza dei sogni ?...”
“Ma è assurdo! Henry, ma che dici?”
“Assurdo? Per quanto sembri assurdo e folle, e ammetto che
lo sia davvero... a ben pensarci non è più strano di quello che
insegna la fisica...
Scendendo nei profondi recessi della materia si scopre che
tutto è costituito dalle stesse poche particelle che non sono
oggetti in senso tradizionale.
Neutroni, protoni, elettroni...
Non sono “solidi”.
Sono solo energia.
Elementi intangibili, impalpabili, indefiniti, che assemblati in
gruppi innumerevoli assumono la parvenza di oggetti materiali, con una forma e una posizione precisa...
Ma ogni oggetto materiale che ci circonda, dalle sedie agli
alberi, dai nostri corpi fino ai pianeti e le stelle, pur apparentemente solido, è fatto di qualcosa di etereo.
Pertanto, che sostanza può avere l’intera Realtà che è costituita di elementi inconsistenti?”
Rimase a lungo perplessa ad osservarmi in silenzio.
“Quelli che chiamiamo oggetti sono in verità soltanto degli
149
insiemi di relazioni costruite dalla mente.
Ogni oggetto viene definito e conosciuto soltanto come insieme di qualità ricavate dalle percezioni. Ed è conoscibile
esclusivamente tramite quelle.
Le percezioni sensoriali sono l’apparente anello di congiunzione tra il mondo esterno e la mente, ma in verità non sono
altro che mente e non esistono indipendentemente da essa.
Basti pensare a quel che succede quando si è incoscienti: i
sensi dovrebbero trasmettere gli stimoli lo stesso, eppure non
si percepisce niente.
È la mente che dà forma alle percezioni sensoriali. I sensi e la
mente sono una cosa sola. E quindi anche la mente ed i presunti oggetti sono una cosa sola, perché qualsiasi oggetto si
riduce solo ad un insieme di ipotetiche qualità che in verità
sono create dalle percezioni sensoriali, ovvero dalla mente.
In altre parole le qualità degli oggetti, sono soltanto qualità
create dalla mente, totalmente.
Quindi, gli oggetti non sono altro che mente.
Cioè, in altri termini, non esiste una qualche sostanza indefinita alla quale vengono attribuite delle qualità da parte della
mente.
No. Gli oggetti nella loro essenza sono solo fenomeni psichici, soltanto apparenze, e non hanno alcuna proprietà o qualità
al di fuori della mente che li percepisce.
Pertanto le percezioni durante lo stato di veglia, non sono
molto differenti da quelle durante il sogno: tutto avviene nella mente che si proietta immaginariamente all’esterno coi
presunti sensi.
Riassumendo, la Realtà è completamente mentale. Non solo
per la sua conoscibilità, ma nella sua essenza.
150
E non ha senso parlare di una Realtà esistente di per sé, separatamente dal sistema psichico che la percepisce”
Mi ascoltava seria. Bevve un sorso di birra.
“Secondo il senso comune esistono delle cose, fatte di materia, qualcosa di solido, concreto, esistente di per sé.
La materia inanimata, in seguito a lunghissimi e misteriosi
processi, ha preso vita e si è evoluta in forme sempre più
complesse fino a generare i nostri corpi, che tramite il cervello hanno sviluppato quella che viene chiamata “coscienza”.
In questo modo riduttivo, la coscienza sembra essere un sottoprodotto accidentale della materia.
Un universo fatto di materia ha generato casualmente quella
specie di fantasma che viene chiamato coscienza...
Ma la Realtà primaria è la Coscienza.
É la Coscienza che dona realtà alle cose.
Il mondo esterno è derivato e secondario.
Senza una coscienza osservante e discriminante, gli oggetti,
le forme, lo spazio e gli eventi, come potrebbero essere definiti? Che proprietà avrebbero?
O è soltanto una pura astrazione mentale priva di reale significato, pensare all’esistenza di queste cose in sé e per sé, senza qualcuno che ne sia consapevole?
E il tempo, che sembra scandire il succedersi degli eventi...
cosa sarebbe senza di una Coscienza che percepisce ed è consapevole di questo mutare delle cose?
La Realtà fondamentale è la Coscienza. Ciò che in termini di
fisica viene chiamato l’Osservatore. È quella che fa da arbi151
ter, da termine di confronto e di paragone, che discrimina e
classifica.
Tutte queste procedure che costituiscono la determinazione
della Realtà non hanno senso di per sé, senza una Coscienza
osservante e discriminante.
La Coscienza soltanto è il metro di determinazione della Realtà. E non si limita a misurare, ma nell’atto di misurare dà
proprio forma alla Realtà, con quei determinati rapporti.
Ed è per quello che la Realtà fisica è così ben descritta dalla
matematica, cosa che è sempre stata considerata un mistero,
fin dai tempi di Pitagora: perché la Realtà fisica è completamente determinata e creata dalla Coscienza, e quindi da una
entità che opera tramite principi logici di confronto e di misurazione.
La Coscienza ha creato dapprima la Realtà e poi la matematica con la quale ha descritto i principi del proprio funzionamento...”
Rimanemmo in silenzio per un po’.
“Riesci sempre a spiazzarmi coi tuoi ragionamenti...
Sono sempre così contrari al senso comune... eppure hanno
una logica... per quanto paradossale...”
“È solo che la gente non si pone le domande giuste... o forse
è meglio dire che non si pone proprio domande...”, dissi sorridendo. “Ci sono tante cose che vanno contro il senso comune... eppure sono vere...
Pensa soltanto a quanto tempo c’è voluto prima che qualcuno
capisse che la terra è tonda...
Eppure apparentemente non è quello che ti dicono i sensi...
152
Ricordo che fin da bambino, ero molto piccolo, ho avuto a
tratti l’impressione, anzi, la forte sensazione che la vita fosse
tutta un'illusione, un grande sogno ad occhi aperti...
Ma ogni volta ho abbandonato presto il pensiero.
L’idea era troppo spaventevole e generava un senso di libertà
assoluta e di solitudine a cui non ero preparato.
Però non mi ha mai abbandonato del tutto e negli anni ho
scoperto che molti altri hanno avuto la stessa impressione.
Impressione?... o forse è meglio dire intuizione?
Forse c'è dentro di noi una parte celata che sa che tutto questo
è soltanto una specie di grande miraggio...
In fondo, se questo fosse davvero un grande sogno, molte cose assurde avrebbero improvvisamente un senso...
Molte ingiustizie di questo mondo svanirebbero in un istante...
Per altri, però... che dire... sarebbe tutto inconsistente... e tutto quello che facciamo, tutto quello che siamo...
...tutto fatto di niente... tutto un sogno... soltanto un sogno...”
“Già, proprio così...”
“Che strana ironia...”, continuai, “...tutti desideriamo vivere
una vita da sogno...
E forse, senza saperlo, siamo stati esauditi...”
Le ultime luci della sera rendevano le cose indistinte ed irreali. Mi accesi una sigaretta. Si vedevano le prime stelle, e la
luna stava sorgendo dietro la collina.
“..ma non nel senso che intendiamo noi...
Forse più che una vita da sogno...
...abbiamo soltanto fatto un sogno di vita...”
“ma certo è soltanto un sogno!...”
Non è successo niente di grave... anzi non è successo proprio
niente!
...era soltanto un incubo ad occhi aperti!...
Tutto tornerebbe. Sarebbe la logica spiegazione che ci libererebbe in un istante da tutta la sofferenza, proprio come a svegliarsi da un incubo molesto...”
“Magari! Sarebbe bello!
Per certi versi...
153
154
Per altri scienziati che invocano effetti quantistici complessi,
i pensieri sono generati casualmente. Pertanto i pensieri, e di
conseguenza, la volontà, le scelte ed i desideri, semplicemente accadono, appaiono senza ragione; fenomeni su cui non si
ha alcun controllo, pur con l'illusione di averlo.
XXII
MIRAGGI
Avevo ormai compreso che il vero fondamento della Realtà è
la coscienza.
Sembrava un passo avanti. Eppure tutto quello che la Scienza
sapeva dirci della coscienza, non era granché, e non era
nemmeno tanto convincente...
Secondo alcuni scienziati la coscienza sarebbe solo un sottoprodotto di reazioni chimiche e fisiche complesse che avvengono spontaneamente nei nostri cervelli, un po’ come l'ossigeno che combinandosi col ferro, genera la ruggine.
Pertanto, i pensieri, la volontà, le scelte ed i desideri non sarebbero altro che gli effetti di cause naturali, il risultato di un
grande meccanismo che va avanti da sé autonomamente.
Portando avanti il ragionamento, il libero arbitrio è solo
un’illusione...
Per alcuni ricercatori la coscienza sarebbe il risultato di un
programma genetico autoconfiguratosi nel corso della selezione naturale. In breve, la coscienza non sarebbe altro che
una versione di programma d’elaboratore molto avanzata che
ci permette di rispondere all’ambiente nel quale viviamo e
condiziona il nostro comportamento.
155
Comunque la si guardasse, dal punto di vista scientifico, il
libero arbitrio appariva soltanto una chimera.
Ma anche più semplicemente, osservando il sorgere dei propri pensieri, ci si accorge che appaiono dal nulla, aleggiano
per un po’ e al nulla ritornano.
Su di essi non si ha alcun dominio, e in effetti non è possibile
prevedere in anticipo il prossimo pensiero che verrà in mente.
I pensieri e quindi le scelte, i desideri, i sogni, le aspirazioni,
semplicemente accadono.
Era un bel calcio al libero arbitrio.
Eppure sembrava assurdo che non si potesse esercitare alcun
tipo di controllo sui propri pensieri.
Era un’idea strana e disorientante.
Ed era ancora più strano rendersi conto che il pensiero stava
ragionando su se stesso come un cortocircuito, un serpente
che si morde la coda.
Il pensiero che pensa se stesso, e con sgomento...
...si rende conto di essere soltanto...
qualcosa d’illusorio...
156
Un evento accidentale...
XXIII
Un miraggio...
CONOSCERETE LA VERITÀ...
Un fantasma...
L’idea che l’esistenza fosse soltanto un sogno, un gioco della
coscienza in se stessa con un senso illusorio di concretezza e
di durata, era decisamente liberatoria.
Cambiava istantaneamente la prospettiva, e tante situazioni
moleste perdevano d’importanza. La vita per un po’ abbandonava la propria pesantezza.
Certo era difficile mantenere costante quella consapevolezza
quando il mondo sembrava reclamare continuamente la propria realtà.
Comunque poteva essere la risposta conclusiva a tutte le domande, la soluzione definitiva a tutti i problemi.
Subdolamente, però, presto compariva un nuovo interrogativo...
Se è tutto falso, tutto virtuale, che senso ha?...
A che scopo questo sognare?...
Era una specie di malanno spirituale accidentale ...o aveva un
significato ben preciso...?
Riflettendoci, c’era qualcosa che non tornava...
157
Se la Realtà, è solo uno stato onirico, proprio come un sogno
158
notturno...
Era pazzesco... eppure...
...com’era possibile che io avessi tanta fantasia per sognare
tutte queste cose incredibili, così dettagliate e straordinariamente complesse?
Com’era possibile che fossi in grado di produrre dei sogni
così meravigliosi, e degli incubi altrettanto spaventosi?
Io ...tanta fantasia...?
Non era verosimile.
E allora, se non da me, da dove proveniva il sogno?
Era pur necessario un sognatore!
Era necessaria una fantasia straordinaria per sognare tutto
ciò!
Una fantasia sovrumana!
Non può essere...
...non è possibile...
...ma allora io...
...io...
Mi accesi una sigaretta. Aspirai a fondo.
...io...
...un personaggio...
Una cosa simile... avrebbe potuto soltanto...
...soltanto un personaggio...
... avrebbe potuto ...soltanto...
...soltanto....
L’ultimo pezzetto di terraferma - me stesso - mi si sgretolò
sotto i piedi.
Impallidii.
... fantasia sovrumana....?
...soltanto un personaggio...
Un pensiero allucinante mi colpì all’improvviso.
Anzi, una persona...
Oh, mio Dio!
...soltanto una “per-sona”... solo una maschera...
All’improvviso mi sentii cadere la pressione sotto i piedi.
Mi girava la testa.
Una terribile consapevolezza mi schiaffeggiò all’improvviso.
Tutti i dati erano davanti ai miei occhi.
159
...un simulacro...
Ecco il colpo di grazia.
160
“Conoscerete la Verità e la Verità vi renderà liberi...”
Tutto svanito.
Tutto a puttane.
Non restava più niente.
Nemmeno io.
Ci avevo sempre sperato... Oh, quanto ci avevo sperato!...
Ma che ironia...
Ora che avevo intravisto la Verità, non era affatto come me
l’aspettavo.
Era più esatto dire:
Ma no, no... non può essere!...
...è spaventoso!...
Conoscerete la Verità...
Era assurdo, assolutamente assurdo...
...e la Verità...
...no... questo scherzo qui, proprio...
Cercavo... cercavo... un’altra idea... un appiglio...
qualcosa a cui aggrapparmi ... eppure...
Era il pensiero più terribile che mi fosse venuto in mente.
Ero stato trafitto all’improvviso dalla cruda verità.
...vi farà scomparire...
Una persona...
Perché non rimarrà più nessuno che possa porsi la questione
di essere libero o no...
...soltanto una persona...
Rabbi, che brutto scherzo!... che brutto scherzo!...
Che ironia, pensai, ci siamo perfino chiamati “persone” da
soli...
Se all’improvviso mi fossi svegliato all’Inferno sarebbe stato
un gioco, in confronto.
Che fosse un sospetto latente in noi...?
Ripensai a tante teorie, a tanti insegnamenti appresi nel corso
degli anni, cercando un antidoto a quel pensiero.
Per assurdo, ce n’era uno che spiccava su tutti...
161
162
XXIV
LA NAUSEA
Cominciò così un periodo tremendamente difficile.
All'inizio ero stato preso da un senso di disorientamento per
la rivelazione dell'assoluta inconsistenza della mia vita, fondata su interpretazioni di avvenimenti ricostruiti arbitrariamente e fondamentalmente fasulli.
Ero diventato consapevole che viviamo perennemente, non
nella Realtà, ma in un inconsistente mondo mentale soggettivo. La mia stessa identità costruita su eventi e fatti insussistenti era diventata evanescente.
Il senso di smarrimento era aumentato ancora, quando avevo
compreso che la realtà stessa potrebbe addirittura non essere
altro che una specie di grande allucinazione, un lungo sogno
ad occhi aperti.
E aveva raggiunto l’apice quando avevo capito l’aleatorietà e
l’evanescenza dei pensieri su cui non si ha alcun controllo...
Mi trovai così, come a galleggiare nel vuoto, sospeso, senza
più un solo punto fisso, senza più niente a cui potermi aggrappare.
Tutto mi appariva una specie di grande inganno.
Una gran presa per il culo.
Come si poteva apprezzare l’esistenza, quando non si sapeva
nemmeno se fosse vera o fasulla?
163
E la cosa che m’infastidiva di più era dovermi occupare e
preoccupare di tutte le infinite cose meschine di ogni giorno
che continuavano a tediarmi, senza nemmeno sapere se fossero reali o immaginarie.
Si tribolava inutilmente per una montagna d’illusioni! Che
immensa fregatura!
Mi sentivo l’assurdità in persona. Avevo una gran rabbia e un
senso di disgusto e di disprezzo per l’intera esistenza.
Se avessi potuto, avrei dato fuoco all’universo intero.
Fu un periodo duro, molto duro.
Alla mattina quando mi alzavo da letto, mi domandavo perché lo facevo.
Che senso aveva tutta questa pantomima? ...tutta questa commedia assurda?...
Perché continuare?
Non era meglio farla finita subito con questa farsa senza senso? Questa grande corsa affannata verso il nulla che comunque ci aspettava alla fine?
Il mondo era diventato completamente grigio e insulso per
me.
Avevo solo una grande nausea.
Era il momento più basso di tutta la mia vita. Ero giù, molto
giù. Molto più che depresso. Immerso fino al collo in una vita
inutile ed insensata.
L’esistenza mi era diventata insostenibile.
Non riuscivo a smettere di pensarci, né a trovare alcuna soluzione, né a trovare pace.
Non c’era scampo. Non c’era via di fuga.
Eppure non volevo arrendermi. Stavo ore sul prato a rifletterci sopra inutilmente, mentre le nuvole si addensavano, si con164
torcevano, si annodavano su se stesse come i miei pensieri.
XXV
IL BLU
Un giorno, mentre la mia mente continuava a macinare in
continuazione sempre gli stessi pensieri come un disco rotto,
un cane che rode un vecchio osso, mi addormentai sul prato,
esausto.
Non so per quanto tempo dormii.
Ricordo che mi risvegliai pian piano e quando aprii gli occhi
non vidi nient’altro che azzurro.
...solo azzurro...
L’intero campo visivo era occupato dal cielo.
Niente nuvole, né colline, né alberi, niente. Soltanto azzurro.
Rimasi per un tempo indefinito come svuotato, senza pensieri.
E la cosa strana era che mi sentivo bene.
Restavo immobile per paura che l’incantesimo si spezzasse.
La mia mente era calma, ferma, immobile... Si era come cortocircuitata. Il pensiero compulsivo si era bloccato.
E ora finalmente stavo bene.
165
Mi fu evidente, allora, che la fonte principale dei miei problemi, erano davvero i miei stessi pensieri.
Erano proprio loro che mi avvelenavano la vita, che me la
166
rendevano un inferno.
L’unica soluzione era di smettere di dar loro peso, se volevo
tirare avanti. Tirare avanti non aveva realmente importanza,
ma almeno, mi sarei sentito meglio. Per questa esistenza effimera, che durava un battito di ciglia, probabilmente fasulla,
preoccuparsi non aveva nemmeno senso. Di questo vuoto nel
vuoto, non era caso di darsi pena.
Che fosse andata come fosse andata... che importanza aveva,
alla fin fine...?
In fondo chi era rimasto davvero da non poter accettare la
nuda realtà? Chi era rimasto quando si era dissolta la mia identità?
Ma sì...
...ma sì... aveva un suo senso...
Così feci. Ricominciai la vita di sempre, di giorno in giorno,
senza rifletterci sopra, come fanno tutti.
Bene, il cerchio si era chiuso.
Ero tornato esattamente al punto di partenza.
Avevo compiuto una specie di giro della morte, che mi aveva
portato esattamente al principio.
Tutto quel casino per ricominciare da capo...
Eppure non ero proprio riuscito a trovare niente di meglio.
Non ce l’avevo fatta ad andare oltre.
Non ero riuscito a trovare alcuna soluzione.
Un caos pericoloso aveva avvolto la mia vita per un po’ e avevo rischiato perfino la pelle.
Adesso era il momento di tornare al nulla ordinato di tutti i
167
giorni.
Di nuovo alla superficie, per continuare a galleggiare.
Avevo perso la speranza di trovare un senso in quel che facevo e alla vita che conducevo.
Così smisi di cercarlo.
Ormai la mia priorità era solo quella di svagarmi, distrarmi.
Ora vedevo la mia vita soltanto come un intermezzo illusorio
che faceva da spartiacque tra due nulla, il grande nulla prima
ed il grande nulla dopo. E il nulla durante.
Ecco tutto.
Cercavo solo di farla passare il meglio possibile.
Mi tagliai i capelli, smisi di fumare, e ricominciai a correre e
ad allenarmi.
Andai a trovare alcuni vecchi amici che era un po’ che non
vedevo, e cominciai a sfogliare gli annunci di lavoro.
Erano i primi di settembre e ormai l’estate stava finendo.
168
...quindici anni...
XXVI
Erano gli anni leggeri, quelli. L’Età della Salsa.
Quanto mi ero divertito!... così, senza tanti problemi...
LA DANZA
...♪ dicen que la fe mueve las montañas ...
Una sera andai a ballare in un locale dove suonavano musica
latina.
Era parecchio che non ballavo, e ne avevo proprio voglia. Distrazione era diventata la mia parola d’ordine.
La musica era bella carica, l’atmosfera allegra, calda.
Avevo fatto bene ad andarci. Proprio bene. Ne era valsa la
pena.
Un paio d’ore di ballo, un paio di habana-cola e mi ero sentito come nuovo. Avevo anche rimediato un numero di telefono...
Seduto al tavolino, osservavo la gente che ballava convinta,
alcuni di piombo, altri tipo orsi con un tempo tutto loro.
Aveva un certo fascino quel movimento caotico. L’osservavo
con curiosità, come un naturalista il comportamento degli animali. Era un bel marasma di suoni, di luci e di persone. Chi
saliva, chi scendeva... qualche diva provinciale da discoteca
che dava spettacolo con movimenti sinuosi, controllando con
rapide occhiate di aver tutti gli occhi puntati addosso...
Sì, un bel guazzabuglio...
La musica latina mi aveva riportato indietro di quindici anni.
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Sentila Henry, te la ricordi?
Quanto l’hai ballata! Quanti ricordi!
Mi rammentavo bene il periodo, l’atmosfera.
Andavo a ballare praticamente tutte le sere.
Ancora non conoscevo Antonella.
Ogni settimana uscivo con qualche ragazza diversa.
E quella biondina...? Come si chiamava pure...?
Che fine avrà fatto?
... hasta el sol de hoy no la he vuelto a ver ♪...
Quante cose erano cambiate in quei quindici anni.
Che carosello di persone, di volti, di atmosfere.
Quante cose, apparentemente stabili e durature, sfumate...
Quante persone che si erano avvicendate.
Alcuni avevano già messo su famiglia...
...altri...? ...chissà che fine avevano fatto...
Una danza, proprio una danza...
Tentavo di non farmi trascinare dal pensiero, ma neanche a
farlo apposta una serie di salse revival cercavano di
riportarmi di forza nel passato.
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... Cuando la tarde se pone en el malecon... ♪♪
Anche questa... quanti ricordi!...
A Cuba... a la Cueva... una disco in una grotta. Spesso saltava la luce e si rimaneva a lume di candela...
Quante vite erano già passate? Quale incarnazione era?
Quando è stato? Un milione d’anni fa?
Possibile soltanto quindici anni...?
Quante cose cambiate... Ma non in meglio. No, proprio no.
Tutto si era complicato maledettamente.
Se ripensavo a quanti bei sogni avevo, in confronto allo
squallore attuale...
Che brutta piega che aveva preso... che brutta piega...
E ora mi rimaneva soltanto...
STOP!!! Basta coi pensieri inutili e controproducenti!!!
Non sai nemmeno se sia reale ‘sta vita!
Che senso ha il rimpianto?
Ok!, giusto, giusto... basta, basta...
Mi bevvi un altro bel sorso di habana-cola. Mi sentivo già
meglio.
Mi guardai attorno concentrato sull’esteriore, senza più perdermi nei pensieri.
Ma sì, balliamoci sopra...
Adocchiai una ragazza carina ad un tavolo, mi alzai e le chiesi di ballare.
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Accettò con un sorriso. Ecco, così andava bene, fluivo di
nuovo col ritmo.
Musica ...colori ...lampi d’immagini roteanti... le intravedi un
momento e sono già svanite...
...Que importa ?
Que me va aumentar la depresión,
Que vas a vivir en el alcohol, Que importa?.. ♪
La musica operava una misteriosa alchimia. Avvolgeva tutto
in un’atmosfera magica, sognante, ridava colore alla quotidianità, l’insulso pareva diventare espressivo, il grigiore e lo
squallore consueti sembravano diventare improvvisamente
pieni di significato.
L’esistenza stessa sembrava riacquistare una dimensione di
profondità, solitamente smarrita. Invece di un’accozzaglia di
eventi sconnessi ed insignificanti, sembrava comporre un disegno... uno schema sfuggente... Ogni pezzo sembrava trovare una propria collocazione.
Riplasmato dalla musica, tutto, pur nella più assoluta frivolezza, sembrava aver acquisito un’imprevista cadenza logica
e sensata.
Che strano, pensai.
Ogni evento per quanto squallido e mediocre appariva uno
dei tanti aspetti, inscindibili, di una Realtà infinita e perennemente mutevole.
E su tutto quello ci ballavo sopra.
Piroettavo, facevo volteggiare la ballerina, ci divertivamo,
ridevamo, scherzavamo.
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Ma sì. Tutto ok!... Che importa, in fondo?
E va bene allora! Balliamo sui nostri guai... balliamo su tutto
ciò che abbiamo smarrito... balliamo sugli amori perduti e
sugli amori che verranno... balliamo sugli anni passati... balliamo sui ricordi... balliamo sulla vita che se ne va... balliamo sulle mille esperienze senza senso... balliamo dinnanzi al
vuoto e nel vuoto... balliamo sull’assurdità... balliamo su tutto... ma sì...
...Que importa?.. Que importa?.. ♪
Mi sentivo proprio leggero, in pace.
E poi accadde l’imprevisto...
Di fianco a me c’era una coppia che discuteva animatamente.
Lei, un po’ stizzita, gli diceva:
Dopo un paio di brani tornai al tavolo sudato e soddisfatto,
svuotato di pensieri nocivi.
Avevo fatto bene, proprio bene ad andare a ballare.
Mi sedetti rasserenato, con la strana, imprevista sensazione
che stessi vivendo, non per puro caso, ma per una qualche
ragione importante.
“Tu corri, corri... sei frenetico! ...sembra che tu non veda l’ora di finire!...Balli come se non aspettassi altro che
d’arrivare in fondo! Si balla per ballare, non per arrivare
alla fine!”.
Fu una specie di lampo.
Che strano...
...cosa...?
Rimasi un po’ soprappensiero soppesando quella curiosa inaspettata impressione.
Ma ...aspetta... aspetta... cosa?...
Curioso... strano davvero...
Come...?
Be’ comunque fosse, era un pensiero vantaggioso che mi faceva sentire meglio... Che importanza aveva in fondo?
Bevvi ancora un paio di sorsi di Habana Cola ....ahhhhh!...
...e mi sentii rimesso a nuovo, pronto per affrontare anche un
altro migliaio di vite, se necessario.
Cos’è che...?
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...aspetta...
Mi girava la testa...
Mandai giù un sorso di Habana Cola.
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...si balla per ballare, non per arrivare alla fine...
La vita trova un senso in se stessa!
Ma certo!...
La vita è una celebrazione fine a se stessa!
Altri due sorsi e finii il bicchiere.
Ma certo!
Ma certo!!!...
Ecco la risposta che mi permetteva di tornare alla vita!
Ora avevo finalmente capito. Che il contenuto della mia vita
fosse vero o fasullo, che fosse reale o un sogno ad occhi aperti, non aveva importanza.
Non c’era nessun bisogno di alcun altro scopo particolare.
Proprio come un’opera d’arte.
Pur non avendo nessuna utilità, trova il proprio valore in sé.
E allora, che la vita fosse anche un castello di nuvole ...si poteva continuare a costruire su quel castello...
...che fosse anche un’effimera danza di pensieri, di immagini
e di suoni, si poteva continuare a danzare!...
Sembravano pronunciate per me.
Si balla per ballare!...
Ecco la risposta, semplice e profonda.
Dopo tanto riflettere e cercare, in un attimo, nel modo e nel
posto più improbabile, mi era giunta la risposta.
Si danza senza alcuno scopo particolare...
Eppure danziamo... danziamo lo stesso....
Ma certo!...
La danza trova il proprio significato in sé!
Non ha alcun altro scopo!
Ecco la risposta!
Poteva essere applicato anche all’esistenza.
Mi sentii salire un brivido forte lungo la schiena, fin sopra ai
capelli.
Si vive per vivere!... Non è necessario alcun altro scopo!
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Mi prese un gran senso di leggerezza. Mi veniva voglia di
ridere.
Ma certo, ma certo ...una danza... !
soltanto una danza! ...leggera, come una danza...
Non c’è problema!... Solo cambiamenti di ritmo... musiche
allegre e musiche tristi... musiche cupe e musiche solari...
ritmi veloci e ritmi rallentati... ritmi fluidi e ritmi sincopati...
Non c’è proprio altro da fare che danzare!...
Non c’era nessun altro scopo particolare, e proprio quella era
la bellezza! Andava proprio bene così, comunque fosse anda176
ta! Era proprio il pensiero che la vita dovesse avere un altro
scopo al di là di se stessa, a creare problemi.
Fu un giorno benedetto.
Riguardandomi indietro, compresi che tutte le cose pesanti e
sgradevoli che mi erano capitate, erano servite a distaccarmene. La sofferenza me ne aveva allontanato. Mi aveva permesso di osservare tutto da una prospettiva differente. Era
servita a lasciar cadere i rimpianti e le nostalgie.
D’altronde che senso aveva conservare rimpianti per cose o
situazioni che non si sapeva nemmeno se erano davvero esistite?
Era solo un falso problema generato da una mente velata
dall’illusione.
Erano solo fantasmi.
Soltanto immagini fugaci apparse nella mia coscienza...
...come quei lampi di luce mentre ballavo...
...una favola romantica e tragica di quelle che fanno piangere
le donne...
...una favola divertente, una barzelletta, di quelle che fanno
ridere...
...potevamo riconoscerla come una grande avventura...
...oppure vederla semplicemente come un’opera d’arte perennemente mutevole che trovava il proprio valore in sé.
E ogni tocco chiaro o scuro, forte o leggero, allegro o cupo,
ogni cancellatura, serviva ad impreziosirla e renderla unica.
Tutto andava bene così.
Tutto contribuiva a comporre l’opera.
Ogni aspetto ne diventava una parte insostituibile.
Mi fu evidente la libertà insita nella rivelazione. Di fronte
all’impossibilità di una ricostruzione obiettiva degli avvenimenti, di fronte alla catena infinita di cause ed effetti,
all’inaffidabilità della memoria, alla casualità e inconsistenza
intrinseca dei nostri pensieri, tutta la storia della nostra vita, il
nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro diventava
una specie di favola, proprio una favola, né più, né meno...
E potevamo raccontarcela come preferivamo.
Potevamo raccontarci una favola spaventosa di quelle che
fanno paura ai bambini...
177
178
XXVII
ADDIO AL PASSATO
All’improvviso mi sentii come se avessi compiuto un ciclo
completo: nascita, crescita, infanzia, adolescenza, maturità,
anzianità, vecchiaia... Infine mi sembrò di rinascere, pur senza morire.
In verità, mi ero sempre sentito vecchio, come se avessi addosso qualche milione di anni, come se tutta la mia vita fosse
stata un dejà-vu di un’esistenza passata.
Momento dopo momento, avevo anticipato il futuro sapendo
cosa aspettarmi, con la sensazione maligna che la parte bella
e fragrante della vita fosse già passata e irrimediabilmente
perduta...
Ma era stata soltanto un'illusione malefica della mia stessa
mente che aveva velato la realtà con una nebbia di consuetudine e di nostalgia.
Ora mi sembrava di tornare a nuova vita, pur essendo ancora
nella stessa vita di prima, senza ulteriori reincarnazioni.
Non c’era bisogno di cambiare niente.
Non era affatto necessario che rinventassi il mio passato.
Non m’importava più, non mi interessavano più le sue polverose ragnatele, i nidi d’ombra e di nostalgia.
Il mio passato andava bene anche così, perché il mio passato
semplicemente non esisteva più. Erano solo immagini effi179
mere, come a ricordare un sogno al mattino...
Compresi chiaramente che si vive sempre e soltanto nel momento attuale, non nel passato, e nemmeno nel futuro...
Il passato è fatto solo di ombre che si stagliano dietro di noi,
proiettate dalla luce incalzante del presente. E il futuro è solo
una fantasticheria...
Come per incanto tutti quei momenti passati che avevo sentito, già mentre li vivevo, sfuggirmi irrimediabilmente, furono
incatenati al loro posto, bloccati in uno specchio magico che
li conservava immobili come una foto, dove potevo osservarli
senza inquietudini.
Riesaminai quella imponente, ma effimera costruzione mentale chiamata memoria.
Mi venne da sorridere.
Era davvero bella e luccicante. Una bella storia, davvero una
bella storia.
Appariva come una immensa, meravigliosa giostra di suoni,
di luci e di colori, di volti, di paesaggi ...un carosello di situazioni in continuo mutamento... una danza di forme che si accrescevamo e si sgretolavano... come immagini accelerate di
sbocciare di fiori...
E se tendevo l’orecchio mi pareva di sentire pure una melodia... la colonna sonora finale di un film romantico...
...o cos’era...?
Forse piuttosto una fuga di Bach, un contrappunto di note che
s’inseguivano, s’intrecciavano e creavano una figura geometrica incredibilmente complessa e dettagliata, che si dissolveva nell’infinito...
La memoria...
180
...baci a tutti!... vi voglio bene!...
....che bizzarra meravigliosa costruzione!...
Una luce soffusa di nostalgia... una patina di malinconia... un
forte senso di esistenza...
Era tutto quello che avevo creduto di essere.
Ma c’era di più, molto di più, infinitamente di più.
Adesso lo sapevo.
Ora osservavo i ricordi con umorismo, con ironia distaccata,
proprio come a ripensare ad un sogno al mattino.
Ne osservavo le note di colore, come fossero un quadro, una
rappresentazione.
Ma cosa sono alla fin fine?...
...fantasia, soltanto fantasia....
E proprio come un sogno al mattino, viene il momento di lasciarli andare.
Ma in fondo che fretta c’è ?...
M’immaginavo alla stazione ...una lunga fila di ricordi... un
treno che parte pieno di vecchi amici... Ti soffermi a guardarli ancora un attimo con affetto e ironia...
...Addio!...
...agiti la mano col fazzoletto bianco, mentre si allontanano...
...Addio!...
181
...li vedi diventare sempre più piccoli fino a perdersi in lontananza...
Poi ti giri e torni alla tua vita di sempre.
Finalmente fui liberato dalla sensazione maligna che nella
mia vita ci fosse stato qualcosa che era andato maledettamente storto.
Mi abbandonò definitivamente il pensiero malevolo che solo
in un punto del passato avrei potuto cambiarla per renderla
simile a quella che desideravo per me, e che ora non fosse più
possibile farlo.
Così, finalmente libero dal passato, mi sentii leggero e anzi,
mi resi conto che, avevo voglia di vedere ciò che si nascondeva dietro alla svolta successiva.
Cosa mi avrebbe riservato questa imprevedibile, effimera,
danza di forme chiamata esistenza?
Quali meravigliosi sogni luccicanti erano ancora in serbo?
Erano sogni, soltanto sogni, nel vero senso del termine, ora lo
sapevo per certo; sogni nella fantasia prima di viverli, sogni
nel ricostruirli mentre si vivono, e sogni nel ricordarli. Una
rappresentazione, soltanto una rappresentazione nella coscienza...
Ma ora li osservavo proprio come un film: per un po’ ti ci
immedesimi e fai finta di crederci. E anche se non c’è niente
di reale, è divertente lo stesso.
Inaspettatamente, si ricreò un’immagine d’infinite potenziali182
tà come avevo trent’anni prima, quand’ero bambino.
Era una bella sensazione. Mi avrebbe aiutato a trainare la mia
vita, innalzandone la qualità, sollevando in volo il mio animo
al di sopra delle paludi inutili dei malumori, fino a mostrarmi
che al di là, esistevano ancora campi verdi e fertili, vette innevate, oceani immensi.
Ed al di sopra di tutto la sterminata ampiezza del cielo dove
pascolavano nuvole serene.
Mi colse un senso di libertà quasi da vertigine, un’ebbrezza
di pace interiore, ed i miei occhi si volsero definitivamente in
avanti, riaprendosi ad osservare la vita.
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XXVIII
IL CIELO
Di giorno in giorno sentivo la pace diventare più profonda.
Ora i pensieri si addensavano come le nuvole nel cielo, si
agitavano un po’ e sgusciavano via come se non mi riguardassero nemmeno.
Ormai non guardavo più le nuvole.
Non m’interessava più quel gioco di forme inconsistenti.
Piuttosto ero attratto dall’azzurro oltre le nuvole,
quell’infinito spazio silenzioso.
Fissavo lo sguardo nel blu e la mente ne rimaneva assorbita,
si quietava e sembrava perfino fermarsi. Piano piano sembrava diluirsi e dissolversi.
Era uno stato indefinibile. Mi sembrava di perdere i confini
di me stesso.
A volte la cosa mi disorientava, e dopo, quando ci riflettevo,
mi sembrava una cosa strana.
Qualcosa d’insolito era successo davvero.
Quando avevo smesso di pensare compulsivamente, fu come
se avessero tolto un velo grigio e opaco dal mondo.
I colori mi apparvero più vivi, le luci più intense, tutto sembrava più brillante, più nitido.
Mi fu evidente che il pensiero getta un velo opacizzante sul
mondo, una coltre di consuetudine sulle cose, che filtrate da
esso appaiono monotone e insipide.
184
Ora c'era un grande silenzio.
Quando smisi di ragionare incessantemente, fu come se mi
fossi liberato di una zavorra che mi schiacciava a terra. La
mia mente si schiarì e mi sentii liberato dal peso di una
montagna.
Finalmente mi sentii libero, davvero libero, senza obiettivi,
senza mete, senza ricerca incessante e opprimente di risposte,
senza la continua riflessione sul da farsi.
...e pace...
...una grandissima pace... e anche, sì, un sottile senso di
gioia....
Strano...
Avevo smesso di pensare al futuro...
...un sottile, ma profondo senso di gioia...
Avevo dimenticato il passato...
Ecco, quello proprio non me l'aspettavo....
Ora sapevo che non c'era niente, proprio niente da fare in particolare... nessuna meta da raggiungere... nessun obiettivo da
conquistare... Erano solo illusioni, fantasmi...
C’era già così tanta Vita attorno, senza andarla a cercare chissà dove! Ma prima, distratto dal rumore continuo della mente
che ponderava, valutava, giudicava, non ero riuscito ad
apprezzarla.
Ora assaporavo semplicemente l'attimo che sembrava espandersi, espandersi, mentre il tempo sembrava quasi arrestarsi.
Stavo così bene, semplicemente...
...essendo...
Mi guardavo attorno un po' sorpreso e divertito da quell'inaspettato cambiamento.
Mi sembrava di librarmi in aria.
Avevo quasi voglia di ballare. Mi sembrava che fosse stato
tutto uno scherzo divertente.
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186
XXIX
OLTRE LE NUVOLE
Una domenica verso metà settembre l’architetto venne a trovarmi.
Fu davvero una sorpresa e mi fece un gran piacere rivederlo.
Ci sedemmo al tavolino in giardino con una bottiglia di Bianco di Custoza ghiacciata e chiacchierammo a lungo del curioso periodo trascorso in campagna.
Gli raccontai delle strane idee che mi erano venute.
Mi ascoltò a lungo con interesse.
“...quindi vorresti dire che la felicità è solo questione di punto
di vista? È solo questione d’interpretazione?”
siamo. Come, non so ...un qualcosa di triste e cupo ...come
pensare a noi separati da quello che accade ...in una dimensione dove siamo consapevoli, ma non possiamo interagire,
dove guardiamo la vita che va avanti senza di noi, sepolti in
eterno in una specie di dimensione triste e cupa... una specie
di Ade, insomma, dove le anime rimangono come ombre...
Ma la morte non è “un’esperienza”.
Se siamo morti, non c’è nessuno che sia lì ad osservare. E se
siamo coscienti, non siamo morti, ma vivi”.
“Ci devo riflettere...
...ma tu sostieni che non solo l’interpretazione può essere
sbagliata, e quello ci può stare, si sa che a volte sbagliamo a
valutare le cose... ma che addirittura l’intera ricostruzione sia
sempre fasulla! Sempre! Sempre completamente inventata!
Sempre completamente influenzata dai nostri schemi mentali,
che abbiamo appreso dal nostro ambiente”
“Esatto. Ogni evento genera una cascata di altri eventi, in una
sequenza infinita e senza esiti definitivi. Sta solo a noi la
scelta di essere felici o tristi, perché si tratta davvero di una
scelta. Possiamo raccontarci la storia come preferiamo, perché non c’è mai un vero finale”.
“Esatto”
“E la morte, allora?”
“Sempre che accada qualcosa là fuori...”
“La morte è un finale che non si può “vivere” mai. Per noi
c’è soltanto vita. Se non c’è vita non ci siamo noi. La morte
si può solo immaginare mentre si è vivi.
È solo la fantasia che allucina, adesso, un futuro in cui non ci
187
“Cioè?”
“Cioè viviamo in una Realtà, secondo te, completamente
mentale. Senza alcuna attinenza con quello che succede veramente là fuori...”
“Cioè, potrebbe essere tutta pura allucinazione.
Come quando sogniamo di notte. Tutto è creato dalla nostra
188
stessa mente. Crediamo di vedere cose, persone, di interagire
con esse, ma è tutto immaginato. E non ce ne rendiamo conto
fino al risveglio.
Sembra follia, ma se ci si pensa bene, conosciamo la realtà
esterna solo tramite i sensi. Se i sensi c’ingannano, siamo
fregati e non abbiamo alcun modo di saperlo”.
“Ma come? Ma che dici? E gli strumenti, le apparecchiature
scientifiche?”
parola, Le chiedo soltanto di analizzare attentamente il problema da solo e poi di trarre le Sue conclusioni... Stia attento
a come sorgono... da dove provengono... se sono prevedibili...”
“Mah, non so ...ci rifletterò...
...però...
...se fosse vero... sarebbe tutto...” mi guardò perplesso.
“Già...”
“Sono false prove, perché la lettura di un apparecchiatura, il
risultato di un esperimento viene verificato sempre attraverso
i nostri sensi, alla fin fine...
Quindi se i sensi c’ingannano...”
“Tutto quello che facciamo... tutto quello che crediamo di
essere...”
“Già...”
Smaniava sulla sedia, muovendosi in continuazione, come
fosse arroventata.
Si era fatto serio e pensieroso.
“Però... però ci dev’essere...
...adesso non riesco... ma ... c’è qualcosa che non mi torna...
ci dev’essere qualcosa di sbagliato ...”
“La nostra realtà : puramente mentale...
...è assurdo...
...follia...”
Si passò una mano sul viso.
Si fermò un momento a riflettere.
Rimase in silenzio per un po’
“E tu sostieni anche che i pensieri sono casuali, completamente casuali...
Ma sei sicuro?
È assurdo... pazzesco...!”
“Una follia...
A ben pensarci, però...
...ma no...no... ...così diventa tutto inconsistente...
...è angosciante!”
“Lo so”, gli dissi sorridendo.
“Lo so. Me ne rendo conto. Non Le chiedo di credermi sulla
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“Sei andato troppo in là col pensiero...
... troppo in là...
Torna qui tra noi!”
pezzetti di qualcosa, nel senso comune: sono soltanto energia. Qualcosa d’impalpabile, indefinito, sfumato.
Questa è la realtà scientifica di noi stessi e di tutto ciò che ci
circonda”.
Mi fece ridere.
Bevvi un sorso.
“E poi dove ti porta?... Dove.. ?”
Si versò un altro bicchiere di vino.
Mi veniva da ridere.
Poveraccio. Mi vedevo in lui. Capivo bene come si sentiva.
Mi aveva fatto esattamente lo stesso effetto solo qualche
tempo prima. Ma adesso mi sembrava tutto soltanto un grande scherzo.
“Se ci pensiamo bene, la Scienza stessa ci mostra che c’è
qualcosa di strano nella Realtà...”, dissi.
Alzò gli occhi a guardarmi, attento.
“La fisica insegna che tutto è fatto di atomi, noi compresi.
Ogni oggetto, anche il più compatto, è una specie di reticolato di atomi molto distanziati, tenuto insieme da forze elettromagnetiche.
Lo spazio “vuoto” tra gli atomi è talmente grande che si può
tranquillamente affermare che praticamente siamo fatti interamente di vuoto. Sei poi analizziamo l’interno degli atomi,
tra il nucleo centrale e l’orbita degli elettroni la distanza è
enorme ed è tutto spazio “vuoto”. E perfino i neutroni e i protoni che formano il nucleo sono costituiti da quark, che a loro
volta sono piccolissimi. E i quark e gli elettroni non sono
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“Vuoto nel vuoto”, continuai. O, in altre parole ...siamo fatti
della stessa sostanza dei sogni...
L’avevano già capito centinaia d’anni fa”.
Si era fatto molto serio. Deglutì e bevve un altro sorso di vino.
“Mi stai facendo girare la testa...
Ma allora tutto questo ... cos’è?
...tu dici che è vuoto... che è fasullo...
Se tutto è vuoto...
...ma...che senso ha...?” disse con un ampio cerchio della mano.
Gli sorrisi.
“È così come è”, risposi.
“Ma deve pur avere un significato?!”
Gli sorrisi.
“Eh?! in tutte le tue elucubrazioni... con tutte le tue domande...” disse, sporgendosi in avanti.
192
Sorrisi.
Colto da un’improvvisa intuizione, rimase a bocca aperta.
Cominciai a ridere.
“...eh? e allora dimmi ...che senso ha?”
“Oh, andiamo... Non mi dirai... non mi dirai...”
Riempii il bicchiere d’acqua e lo bevvi. Adesso mi sembrava
tutto uno scherzo così divertente...
Lo guardai serio e poi annuii lentamente con la testa.
“O mio Dio! Vorresti dire... vorresti dire...”
“Ma poi quando dici che è un sogno... proprio...”, disse guardandomi, “...mi spaventi... hai proprio toccato il limite...
...un sogno...
Risi forte per l’espressione che aveva.
Uno scherzo... uno scherzo meraviglioso!!
Si fece silenzioso e rimase per un po’ a fissarmi.
Era sbiancato.
Tutto questo potrebbe essere soltanto un sogno, secondo te...
Ma.... ma... come fai a dire una cosa così...? Ma te ne rendi
conto? ...
E poi... se anche fosse vero quel che dici...
... se fosse vero...
...il sogno di chi?”
Sorrisi e lo fissai negli occhi.
Mi veniva da ridere. Era davvero un grande scherzo. Il più
grande scherzo che si potesse immaginare.
“Di chi? ...beh, io un’idea ce l’avrei...”, risposi.
Mi guardò perplesso.
Lo guardai fisso con un mezzo sorriso per un po’ e poi strizzai un occhio.
193
“Ma allora...? Allora...?”, riprese,
“Qual’è il senso?... Se è un sogno... soltanto un sogno...
...qual’è il senso di tutto questo...?
Qual’è il senso di questa vita?
Eh? ...non mi dirai che non ha significato!... Eh?”
“Beh, detta così... Il Senso della Vita... Cacchio!
È la domanda delle domande!..”, dissi ridacchiando.
Rimanemmo un po’ in silenzio.
Si stava proprio bene, il sole obliquo di settembre scaldava
ancora. Una farfalla color vinaccia con disegni blu, tipo occhi, si appoggiò sul mio bicchiere sbattendo le ali, ammiccando allegra.
“Qual’è, allora? Con tutte le tue elucubrazioni...
Qual’è il senso?...”
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La destinazione è proprio il viaggio stesso.”
Lo guardai negli occhi.
Sorrisi.
Il senso della vita...
Mi sembrava così incredibile fino a poco tempo prima...
...una risposta impossibile...
Adesso mi sentivo così in pace. Mi sembrava che io e il blu
del cielo fossimo una cosa sola.
Il senso della vita...
Un falco veleggiava alto nel cielo in ampi cerchi.
C’era un silenzio carico d’attesa.
Mi sembrava che il mondo avesse un’espressione beffarda.
Bevvi un sorso d’acqua.
Lo fissai negli occhi.
Mi guardò pensieroso e fu sul punto di farmi una domanda.
“La Vita è una celebrazione fine a se stessa”, proseguii,
“Semplicemente.
Come un’Opera d’Arte ...di nessuna utilità... ma apprezzata
per la sua bellezza...
Come un’Aria, una Melodia Fuggente.
Bella in sé, senza alcun altro scopo particolare”.
Sorrise. Sembrava sollevato. Si appoggiò allo schienale e rimase in silenzio per un po’ con un sorriso sulle labbra.
“E ogni nota, ogni accordo, allegro o triste, grave o leggero ,
armonico o stridente, serve a comporre la sinfonia”, continuai.
Sembrava soddisfatto. Gli occhi gli brillavano di vitalità.
“La vita trova senso in se stessa”.
L’architetto mi guardò perplesso.
“Anche se è destinata a terminare, e tutto quello che facciamo
svanirà nel nulla.
Trova senso mentre la si vive”, continuai.
“Non c’è nessuno scopo, nessuna meta da raggiungere. Niente da fare in particolare, se non vivere.
Ci si può porre degli obiettivi, ma non bisogna credere di dover aspettare di averli raggiunti per cominciare a vivere. È
saggio vivere Ora.
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“In qualche modo, l’ho sempre pensato anch’io. Ma non ero
mai riuscito ad esprimerlo così”.
Gli sorrisi. C’era una certa allegria contagiosa nell’aria.
Alzò il bicchiere, “Alla Vita allora!”
Mi versai un bicchiere di vino e lo sollevai, “Alla Vita!”.
Bevve un sorso di vino e poi prese un bel respiro profondo.
Guardò lontano verso le colline, “Si sta bene. È proprio un
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bel posto”.
XXX
Gli sorrisi.
SERENO
“ E adesso che farai?”
Mandai giù un sorso di vino. Una nuvoletta passò rapida davanti al sole.
“Boh? Non ci ho ancora pensato. Non ha molta importanza.
Comunque sia, va sempre bene”.
Bevve un ultimo sorso.
“Beh, se ti va... c’è parecchio lavoro da fare in studio, adesso...
Che ne dici? Te la senti?”
Ecco che il cerchio si chiudeva...
Sorrisi. “Ma certo! Volentieri!”
197
Così sul finire dell’estate, rividi il cortile interno con gli antichi archi color mattone, le finestre su cui si riflettevano le
nuvole, l’antico orologio dal quadrante bianco e i miei gelsomini azzurri che mi aspettavano allegri sul davanzale.
Dalla finestra spalancata dell’ufficio, contro lo sfondo blu del
cielo oltre i tetti rossi, rividi le nuvole rosa illuminate dal
tramonto, udii le grida delle ultime rondini che danzavano
nell'aria ...e mi sentii a casa, di ritorno dopo un lungo viaggio
sul far della sera.
Vissi piacevoli momenti di armonia in quegli ultimi giorni di
settembre.
La sera uscivo dallo studio sereno, sotto interminabili tramonti rossi.
Le giornate si accorciavano sempre di più e presto la notte
avrebbe sovrastato il giorno. Stormi di uccelli già migravano
verso sud e di rondini ce n’erano rimaste ormai poche.
Infine un giorno l’estate si arrese all’autunno.
Quei bei settembri tiepidi con giornate limpide e luminose,
spazzate dal vento e solcate da grandi nuvole bianche, divennero presto un ricordo.
La pioggia cadde per giorni interi infradiciando ogni cosa.
Nubi pesanti e vapori densi avvolgevano la cima delle colline, tingendo il paesaggio di sfumature di grigio.
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L’autunno era arrivato impietoso, anzi l’inverno, visto il
freddo che faceva. La pioggia ticchettava contro i vetri, sciogliendo e impastando i colori del paesaggio, e di notte le luci
lontane che colavano lungo il finestrino dell’auto.
Il maltempo non mi metteva più di cattivo umore, ero sereno,
in pace. Però quel clima non mi piaceva affatto.
Perché il vero sole risplende dentro.
Bologna 1994 – 31/12/2013
18/02/2015
Certo, tutta la nostra realtà è mentale, e quindi non aveva
davvero importanza dove mi trovassi...
Ma volevo scegliermi come raffigurarmi la mia realtà ...anche se ormai non ero affatto sicuro che avesse senso
un’affermazione così.
Comunque... che importanza aveva?
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Nel quadro che avevo cominciato a dipingere fin da bambino,
mi ero sempre visto su uno sfondo di palme, al sole, su isole
tropicali.
L’avevo dipinto di toni d’azzurro e di verde. L’avevo dipinto
di luce e di toni caldi. Col mare, le nuvole primaverili che
correvano leggere tutto l’anno, e le rondini anche d’inverno.
Era solo questione di tempo... prima o poi me ne sarei andato
da quella regione col suo schifo di clima.
Nuove avventure mi attendevano, ne ero certo.
Ero tranquillo, perché sapevo che, anche in quel momento, da
qualche parte nel mondo, il sole splendeva ancora, e anche
sopra di me, oltre le nuvole, il cielo era sereno : bastava solo
che mi sforzassi col pensiero e mi sembrava di vederlo.
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