“Abuso del diritto tra lealtà fiscale e certezza delle regole”
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“Abuso del diritto tra lealtà fiscale e certezza delle regole”
“Abuso del diritto tra lealtà fiscale e certezza delle regole” Convegno organizzato dall’Associazione sindacale dei notai della Lombardia Milano, 27 giugno 2012 Intervento di Domenico Cambareri INTRODUZIONE Il mio intervento sarà diviso in due parti. Nella prima svolgerò alcune riflessioni generali sul tema dell'abuso del diritto in una prospettiva di comparazione costituzionalistica che mi é stata suggerita dalla lettura di un articolo di Guido Rossi pubblicato alcune settimane fa. Nella seconda parlerò della difficile posizione del notaio in relazione al risparmio di imposta nella attuale cornice giurisprudenziale e del codice deontologico. Nelle conclusioni cercherò di saldare le due parti con una proposta provocatoria. Chiedo in anticipo venia per il generalismo di questo approccio, ma sono convinto che le cause dell’immeritato successo della teoria del contrasto all’abuso del diritto (almeno così come emerge dall’orientamento della Corte di Cassazione), così come le sue soluzioni, non siano endogiuridiche ma siano da ricercare altrove. Come dicevo i primi giorni di giugno Guido Rossi pubblica un articolo dal titolo “Perché la divisione dei poteri va mantenuta”. Si dice che la tendenza, in tutte le democrazie occidentali, sia l’abbandono della teoria della divisione dei poteri Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, teoria all’ombra delle quale tutti noi siamo cresciuti. Guido Rossi critica un recente libro pubblicato da due noti costituzionalisti americani (Eric Posner e Adrian Vermeule) dal titolo “The Executive Unbound”, traduzione mia, l’Esecutivo senza vincoli. La tesi del libro è che alla “regola della legge” oggi si sia sostituita la “regola della politica” e che i limiti al Potere Esecutivo non debbano essere posti dal Potere Legislativo o Giudiziario ma dalla pubblica opinione e dal processo politico e ciò soprattutto in periodi di crisi. Interessante la conclusione di Guido Rossi: il deficit di democrazia è spesso generato dal “radicamento legale dell’illegalità” definita anche “inosservanza dei principi fondamentali della democrazia 1 costituzionale e delle regole di base del sistema”. E da qui in poi cito testualmente: “In Italia poi, in modo particolare, anche il sistema di corruzione pare venire giustificato e tollerato dall’economia del dono di beni o servizi e non solo con l’ottenimento di favori e con dazioni di denaro, ma semplicemente con una rete di relazioni. Alla fine i forti interessi della finanza riescono via via a condizionare i poteri esecutivi, che spesso li seguono paradossalmente giustificandosi con la loro funzione salvifica nei confronti dei mercati. La lotta serrata alla corruzione, a ogni forma di evasione fiscale e di riciclaggio, dovrebbe quindi essere il primo impellente compito di ogni governo di democrazia costituzionale, che abbia veramente come scopo la crescita e l’interesse di tutti i cittadini. Un appuntamento importante, ad esempio, riguarda la reintroduzione nel nostro sistema di sanzioni adeguate all’importanza del fenomeno per il falso in bilancio.”. PRIMA PARTE: UNO SGUARDO ALL’AMERICA DELLA GRANDE DEPRESSIONE CHE TANTO SOMIGLIA AI GIORNI NOSTRI Il collegamento di Guido Rossi tra gli aspetti strutturali costituzionali dell’ordinamento e la lotta all’evasione mi ha indotto a focalizzare la mia attenzione e ad attingere ai miei ricordi giovanili universitari di diritto comparato costituzionale e formulare le riflessioni che seguono. Alcune brevi premesse. Sono ben conscio che il nostro ordinamento vede la prevalenza delle fonti legislative del diritto e la soggezione dei giudici alla legge; questi ultimi non hanno una funzione creativa del diritto a differenza che nel mondo di common law. Conseguentemente confrontare la fattispecie dell’abuso del diritto, quale ricostruito nel nostro ordinamento, alle fattispecie di un Paese come gli Stati Uniti d’America che non conosce un dualismo delle fonti così marcato potrà sembrare approssimativo. Ma la tesi di fondo del mio intervento, come anticipato, si basa sull’osservazione che la causa del successo, per così dire, della teoria del contrasto all’abuso del diritto, nasca da un momento di crisi di efficienza del principio della separazione dei poteri. E’ questo un tema molto caro ai costituzionalisti americani che hanno da tempo coniato il termine “GOVERNMENT BY JUDICIARY”, “Governo da parte del potere giudiziario”, sempre secondo la mia traduzione. In alcuni momenti storici nei quali il potere esecutivo e quindi l’attività di governo si dimostra debole ed inefficiente il potere giudiziario oltrepassa i confini suoi propri 2 e, in qualche modo, si sostituisce al potere esecutivo. E’ avvenuto negli Stati Uniti in modo macroscopico negli anni 50 e 60, anni durante i quali la Corte Suprema degli Stati Uniti si è fatta interprete e produttrice di comportamenti normativi per facilitare la desegregazione razziale e la conquista delle libertà civili. Siamo per certi versi in una situazione opposta, ma coerente nella prospettiva, nel nostro Paese, secondo Guido Rossi: l’attuale momento storico vedrebbe un rafforzamento dell’Esecutivo negli Stati Uniti d’America, accompagnata da una sua teorizzazione estrema, mentre da noi è accaduto l’esatto contrario. E’ ben nota a tutti l’inefficienza dell’azione di governo, specie nell’ultimo decennio, nel nostro Paese. Ed è proprio in questo periodo storico politico di debolezza dell’azione di governo, specie sul fronte della lotta all’evasione fiscale, siamo nella prima parte del decennio del terzo millennio, che la Corte di Cassazione sviluppa la tendenza del contrasto all’evasione per il tramite della teoria dell’abuso del diritto, così forse, infrangendo i limiti della separazione dei poteri. La capacità di dettaglio di una efficiente azione amministrativa, sostenuta dall’adozione di norme maturate da attente riflessioni in sede legislativa, sembrano essere il modello su cui basare una corretta politica di contrasto all’evasione e non un ruolo di supplenza giurisprudenziale dalla potenziale pericolosità … Una seconda premessa che utilizzo a mia personale giustificazione. Le mie riflessioni, pur essendo personali e, quindi, fallaci, trovano un supporto nel dibattito sulle teorie elaborate per spiegare il concetto di diritto soggettivo; senza necessariamente attingere alle più moderne il raffronto tra la teoria classica della volontà e quella dell’interesse evidenzia l’enorme elasticità e pericolosità del concetto di abuso del diritto; la mancata puntuale disciplina di un diritto (forse determinata da incertezze sociali o immaturità sociale sul tema) e la ricerca dell’interesse protetto dall’ordinamento per il tramite del riconoscimento del diritto medesimo, giustificano la teoria dell’abuso. E’ evidente il grado di pericolosità. L’individuazione dell’abuso è, per definizione, lasciata all’interprete. Anche gli ordinamenti che hanno introdotto la previsione della categoria dell’abuso del diritto lo hanno fatto in modo estremamente vago demandando l’applicazione all’interprete. Gli approcci nel compiere un’analisi economica del diritto relativo all’evasione fiscale sono quanto mai vari. L’approccio al quale mi ricollego fa chiaramente riferimento al contesto esogeno al diritto, il contesto culturale, economico e politico che può influenzare gli orientamenti giurisprudenziali. Negli studi in materia di abuso del diritto accanto ai criteri soggettivi troviamo quelli economici, quelli morali, quelli teleologici, il giudizio di ponderazione tra diritti e interessi contrapposti e così via, criteri tutti nei quali può trovare spazio quanto da me sostenuto. 3 Faccio ora un piccolo viaggio nel tempo, ed oltreoceano, per andare nella New York della Grande Depressione. Fine anni venti ed inizio trenta. Tempi che tanto somigliano a quelli che stiamo vivendo. La signora Evelyn Gregory era la ricca vedova del segretario privato di un banchiere multimilionario e filantropo. La ricca ereditiera ricevette beni immobili del valore odierno di oltre 4 milioni di dollari. La vedova, unico socio della società A, a sua volta socia della società B, decide di vendere la partecipazione in B: valore approssimativo più di 100.000 dollari (credo più di un attuale valore di 1.000.000 di dollari). La società A avrebbe potuto vendere la sua partecipazione in B ed assegnare il ricavato, sotto forma di dividendo, alla signora Gregory, dividendo che sarebbe stato tassato nella ordinaria misura. Si sarebbero pagati circa 15.000 dollari in capo alla società cedente e altrettanti ne avrebbe pagati Miss Gregory. Circa il 25% del prezzo di cessione complessivo. Al fine di pagare unicamente la tassa sul capital gain (inferiore alla tassazione ordinaria) Miss Gregory costituisce una nuova società, C (con l’evidente unico scopo di ridurre il prelievo fiscale). Quindi la società A cede la partecipazione in B alla società C (la newco) e la signora Gregory riceve le azioni della società C. Secondo la tesi di Miss Gregory era questa un’operazione di riorganizzazione societaria disciplinata da apposita legge allora vigente (Revenue Act del 1928). La società C, pochi giorni dopo, viene posta in liquidazione e Miss Gregory vende le sue azioni in C. In conseguenza delle modalità di calcolo del capital gain allora vigenti Miss Gregory realizza una plusvalenza di circa 80.000 dollari e paga un’imposta di capital gain inferiore a 10.000 dollari. Come vediamo realizza un risparmio di imposta di due terzi rispetto alle previsioni iniziali. Un risparmio di circa 20.000 dollari (circa 200.000 degli attuali dollari). Vi ricordo che siamo nel periodo della Grande Depressione. PIU’ SI GUARDA A QUESTO CASO E PIU’ SEMBRA DI ESSERE NON SOLO AI GIORNI NOSTRI E NON AL DI LA’ DELL’OCEANO MA A CASA NOSTRA. Il caso che vi ho descritto divenne, naturalmente, un caso giudiziario. E’ tutt’ora considerato una pietra miliare nella giurisprudenza tributaria degli Stati Uniti d’America per aver adottato un approccio sostanziale contro il contribuente. Il caso prese il nome di Gregory v. Helvering e fu deciso da una Corte d’Appello di New York nel 1934 e successivamente pedissequamente confermato dalla Corte Suprema. La sentenza della Corte d’Appello fu scritta da uno dei giudici più noti nella storia americana, Learned Hand, che di lì a poco divenne membro della stessa Corte Suprema. Dalla sentenza emerge chiaramente l’odierna distinzione tra evasione fiscale, elusione fiscale e risparmio d’imposta. Il contrasto interiore nel dover decidere a favore o contro il contribuente traspare in modo chiaro dalla sentenza. Da una 4 parte si dice che “la transazione … non perde la sua esenzione, perché è sorretta dal desiderio di evitare (eludere), o, se si preferisce, evadere, la tassazione. Chiunque può organizzare i suoi affari così da diminuirne il carico fiscale; nessuno è vincolato a scegliere la soluzione più vantaggiosa per il fisco; né esiste un dovere patriottico di aumentare le proprie tasse.” Dall’altra il giudice fa un’interpretazione finalistica della disciplina allora vigente relativamente alle riorganizzazioni (il Revenue Act del 1928), disconoscendo quella di Miss Gregory. Si dice che così come una melodia non è un semplice insieme di note musicali così lo scopo della norma (il Revenue Act del 1928 invocato da Miss Gregory) è quello di mandare esenti da tassazione le operazioni intraprese per “ragioni pertinenti al comportamento” di un’impresa e non per il solo scopo di eludere le imposte. Cosa spinse quel giudice a compiere quella scelta contro il contribuente ed a favore dello Stato? Una prima risposta è legata al rapporto tra la morale ed il diritto. Nei primi due decenni di quel secolo erano frequenti osservazioni quali “gli evasori fiscali non sono patriottici, sono senza fede e detestabili codardi”. L’elusione fiscale comincia dunque ad essere considerato un possibile comportamento immorale a fronte dell’altrettanto sacrosanto morale diritto di ogni cittadino americano di minimizzare le imposte. Anche la Chiesa interviene nel dibattito affermando che il “risparmio fiscale può essere legittimo rispetto alla legge, ma non è etico”. Il Presidente Roosvelt svolge una intensa campagna contro l’elusione fiscale e contro i ricchi. Nel 1937 il New York Times ospita una famosa affermazione di J.P. Morgan, a difesa dei potenti circuiti economico‐finanzari: “la tassazione è una questione legale … non una questione morale.” Inevitabile dunque che istanze di questo tipo approdassero con successo nella dottrina giuridica e nella giurisprudenza dei Tribunali. Una seconda risposta è di tipo strettamente politico‐economico. In quegli stessi due decenni, prima dell’inizio della Grande Depressione, il Tesoro americano condusse una generale politica di riduzione delle tasse, sotto la guida di Andrew Mellon, sostenendo che quella politica fosse il miglior modo di combattere l’elusione (e l’evasione) fiscale. Accadde quel che accadde. Il tracollo finanziario ed economico. Il Congresso intraprese quindi numerose iniziative contro l’evasione fiscale dei ricchi americani. Fu così scoperto, in un’indagine condotta nel 1932 e 1933, che i grandi ricchi sfruttavano a loro favore la grave crisi economica attraverso l’utilizzo delle perdite generatesi nel 1929 negli anni a seguire. Molto spesso quelle perdite risultarono fittizie. L’indagine condusse all’emanazione 5 nel maggio del 1934, appena due mesi dopo la pronuncia del caso Gregory, del 1934 Revenue Act che superò le falle di quelle disposizioni che il caso Gregory aveva messo in luce. Ma, negli stessi mesi in cui venne pronunciata la sentenza Gregory, presso la stessa Corte pendeva un giudizio che aveva coinvolto l’opinione pubblica in modo consistente. Quel signor Andrew Mellon che ho poco fa menzionato, Segretario del Tesoro, ricco industriale e banchiere americano, finì sotto accusa: il suo caso venne definito il caso del secolo. Si investigò su di lui, sulle sue società, sui vari livelli di corruzione da lui predisposti. Si parlò di una possibile evasione di circa duecento milioni di dollari in cui sarebbe stato coinvolto Mellon. Quanto il caso Mellon condizionò il caso Gregory? Lo lascio alla Vostra immaginazione e non crediate che il giudice Hand e il giudice che scrisse la sentenza della Corte Suprema fossero dei giudici, diciamo così, di sinistra. L’ultimo era un conservatore ed il primo uno dei più accaniti sostenitori del cosiddetto judicial self‐restraint, contrario dunque a forme di interventismo giudiziale. SECONDA PARTE: IL NOTAIO TRA RESPONSABILITA’ PER IL TRATTAMENTO FISCALE PIU’ FAVOREVOLE E L’ABUSO DEL DIRITTO. IL RISPARMIO D’IMPOSTA E’ UN DIRITTO TUTELABILE DAL NOTAIO? Riporto quindi alla Vostra attenzione il tema classico se il notaio sia tenuto a fare ottenere alle parti il trattamento fiscale più favorevole pure in assenza di esplicito incarico. Seppure con i dovuti distinguo, anche noi notai abbiamo la nostra pietra miliare giurisprudenziale su un tema contiguo. La letteratura notarile cita spesso una sentenza del Tribunale di Roma del 1958 (e Appello di Roma del 1996) che manda esente il notaio da responsabilità per colpa in caso di omissione di inserimento nell’atto pubblico di dichiarazione necessaria per l’ottenimento di un beneficio fiscale. La sentenza si colloca nel filone giurisprudenziale e dottrinario, naturalmente soprattutto di matrice notarile, favorevole al notaio. Come in ogni argomento che si rispetti a quel filone se ne contrappone un altro, contrario al notaio. In questo caso troviamo frequentemente citata una sentenza di merito (Tribunale di Genova del 1969) che riconduce nell’ambito della funzione di adeguamento di cui all’art.47 della legge notarile anche l’individuazione del trattamento fiscale più favorevole. 6 Non è questa la sede per esaminare in dettaglio la posizione complessiva della giurisprudenza al riguardo. Credo che le conclusioni cui si è giunti sino ad oggi, con un discreto grado di sicurezza, possano essere sintetizzate ricordando che la giurisprudenza di Cassazione ha avuto modo di affermare che è responsabile “della violazione dell’obbligo di cui all’art. 1176, secondo comma, c.c. il notaio che non svolga una adeguata ricerca legislativa (ed una successiva consulenza) al fine di far conseguire alle parti il regime più favorevole …” (Cass. 13.1.2003 n.309). Si tratterebbe, dunque, di responsabilità contrattuale. Passatemi il termine, “pura” e , come tale, esclusa nei casi in cui sia adeguatamente comprovata la circostanza che le parti abbiano esonerato il notaio dall’obbligo di ottenere il trattamento fiscale più favorevole. Io non sarei così tranquillo se andiamo a vedere quale è stata l’evoluzione giurisprudenziale su un altro tema per il quale ricorre la responsabilità del notaio e cioè quello di effettuare le visure ipotecarie e catastali. Come è noto le visure ipotecarie servono a verificare, per il tramite delle risultanze dei registri immobiliari e dei titoli ivi trascritti, la libertà del bene oggetto di commercializzazione. Le visure catastali, per il tramite delle risultanze dei registri catastali e delle planimetrie e mappe ivi depositate, servono all’individuazione del bene negoziato. Prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di cui al noto D.L. 78/2010 nessuna norma prevedeva esplicitamente l’obbligo del notaio di effettuare le visure ipocatastali. La giurisprudenza più risalente negava l’ascrivibilità delle visure fra i compiti, meglio gli obblighi, istituzionali notarili, considerandole, invece, tra quelle funzioni di adeguamento facoltativo che necessitano di un espresso incarico (Cass. 2237/1930); quell’orientamento giurisprudenziale, nonostante qualche isolata pronuncia in senso contrario, ha resistito fino agli anni settanta, anni durante i quali la dottrina ha cominciato ad evidenziare che il notaio oltre ad essere pubblico ufficiale certificatore che non assume responsabilità in ordine alla veridicità delle dichiarazioni delle parti ed esente dagli obblighi predetti è anche libero professionista che riceve dalle parti l’incarico di ricevere l’atto di trasferimento immobiliare; la mancata esecuzione delle visure non costituirebbe pertanto violazione di norme di legge relative allo svolgimento della sua funzione pubblica, ma esprimerebbe una 7 colpa professionale nello svolgimento dell’incarico che gli è stato affidato dalle parti e che sarà valutata in base all’art. 1176 del codice civile. In questo solco sarà definitivamente costruito il filone giurisprudenziale che riconduce la responsabilità del notaio, principalmente, nell’alveo della responsabilità contrattuale. E’ così che da quegli anni in avanti la giurisprudenza si attesta su posizioni di questo tipo: “Ne consegue che … la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale delle risultanze dei registri immobiliari, costituisce, salva l’espressa dispensa degli interessati, un obbligo derivante dall’incarico conferito dal cliente e quindi ricompreso nel rapporto di prestazione di opera professionale (artt. 1176 e 2230 e segg. c.c.) specialmente tesa ad assicurare la serietà e la certezza degli atti giuridici.” Cass. 5946/1999. La Cassazione coniuga quindi, in un legame indissolubile, la funzione pubblica e di libero professionista del notaio. Il Notaio “assicura la serietà e la certezza degli atti giuridici” per il tramite dell’assolvimento sia di obblighi che allo stesso derivano dalla sua funzione istituzionale sia di obbligazioni che ad esso incombono dal rapporto di prestazione d’opera professionale. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha negli anni successivi compiuto una ulteriore operazione interpretativa evolutiva, che costituisce l’orientamento attualmente dominante. La rilevanza del contratto di prestazione d’opera intellettuale si colloca definitivamente in una posizione subalterna rispetto agli obblighi di funzione pubblica laddove gli interessi in gioco sono prevalentemente di portata generale così come quando occorra garantire la sicurezza dei traffici immobiliari. “Secondo la giurisprudenza di questa Corte infatti, nel caso in cui un notaio sia stato richiesto della stipulazione di un contratto di compravendita immobiliare privata autenticata e qualora vi sia stato espresso esonero del notaio, per concorde volontà delle parti, con una clausola inserita nella scrittura, dallo svolgimento delle attività accessorie e successive, necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti e, in particolare, vi sia stato esonero dal compimento delle cosiddette “visure catastali” e ipotecarie allo scopo di individuare esattamente il bene e verificarne la libertà, deve escludersi l’esistenza della responsabilità professionale del notaio, in quanto tale clausola non può essere considerata meramente di stile essendo stata parte integrante del negozio. Ciò sempre che appaia giustificata da esigenze concrete delle parti e, come, nella specie, da ragioni di urgenza di stipula dell’atto da esse addotto.” Cass. 25270/2009. Da ultimo Vi ricordo l’art.42 lettera a) del codice deontologico che prescrive: “il notaio è tenuto, in particolare, a svolgere, anche nell’autenticazione delle firme nelle scritture private, in modo adeguato e fattivo le seguenti attività: a) informare le parti sulle possibili conseguenze della prestazione richiesta, in 8 tutti gli aspetti della normale indagine giuridica demandatagli e consigliare professionalmente le stesse, anche con la proposizione di impostazioni autonome rispetto alla loro volontà e intenzione.” Dalla ultima ricordata sentenza della Cassazione c’è da aspettarsi una possibile conclusione del seguente tenore: così come l’obbligazione/obbligo di eseguire le visure ipotecarie e catastali presidia contemporaneamente un interesse privato, quello delle parti di vedersi garantito il loro acquisto ed un interesse pubblico, dello Stato, di avere assicurata la serietà e la certezza degli atti giuridici, allo stesso modo l’adeguata ricerca legislativa sul trattamento fiscale (per dirla con le parole della Cassazione), presidia da una parte l’interesse privato al regime fiscale più favorevole e dall’altra l’interesse pubblico alla riscossione della giusta imposta. Il notaio, maestro di maieutica, attraverso la funzione dell’adeguamento che gli compete, dotato dello straordinario forcipe del contrasto all’abuso del diritto, dovrebbe partorire ad ogni atto un’imposta perfettamente calcolata e pagata. Mi avvio alla conclusione. Il notaio si trova dunque tra l’incudine del cliente (che vuole il trattamento fiscale più favorevole), tra il martello dello Stato (che pretende l’esercizio della funzione di adeguamento nella sua accezione più ampia possibile) e da ultimo sotto lo schiacciasassi a doppio rullo della Corte di Cassazione e della sua teoria sull’abuso del diritto. Rimedi? Parafrasando il testo di una nota canzone, direi che “solo una sana e consapevole libidine salva il notaio dallo stress e dalla Corte di Cassazione.” All’incudine ed il martello ci siamo abituati. Non ci ha mai spaventato né ci spaventa oggi. La Repubblica ne ha fatto persino un’effige sulle nostre monete. Allo schiacciasassi non vorremmo abituarci. Al di là dell’ironia ciò che mi preoccupa è la possibilità che il notaio possa essere in futuro chiamato a compiere scelte non sorrette da criteri giuridici ma determinate da spinte morali o da qualunque altro criterio che non risponda ai requisiti della certezza. I criteri diversi da quelli giuridici competono ad altri protagonisti dello Stato. Per concludere ritorno al pragmatismo americano, riecheggiato nella prima parte del mio intervento, per ricordare l’ultima evoluzione del pensiero di Alexander Bickel, un costituzionalista americano il cui pensiero mi ha molto colpito, scomparso a metà degli anni settanta. Nel suo ultimo lavoro, “La Morale del consenso”, ha ricostruito un raffinato concetto giuridico di disobbedienza civile. Pur essendo un democratico, un kennedyano, era un giurista fortemente conservatore, difensore del cosiddetto “judicial self‐restraint”, contrario cioè ad un attivismo giudiziale irrispettoso dei poteri e dei ruoli dei poteri dello 9 Stato. Un sostenitore della necessità della condivisione dei valori attraverso “un processo politico” nato e condiviso dal basso e non imposto da vie giudiziali slegate dal “processo politico”, intendendosi per tale, quello che è determinato e determina a sua volta una morale di valori condivisi e quindi il consenso necessario ad una azione di governo efficiente. La frequente impossibilità di trovare una giustificazione razionale – quando ci si trovi di fronte alla necessità di effettuare una scelta tra valori configgenti (come nel nostro caso tra il valore del diritto al risparmio di imposta del contribuente ed il valore del diritto dello Stato di percepire la giusta imposta) – spinge Bickel verso un “maturo scetticismo”, intriso di pragmatismo e relativismo. Cosa intende egli per disobbedienza civile? “l’atto di disobbedire a disposizioni generali di legge sulla base di principi morali e politici senza contestare la validità della legge stessa”. Disobbedienza civile, per quel che mi riguarda, vuol dire continuare ad assistere il cittadino‐contribuente nel conseguire un risparmio di imposta attraverso i criteri interpretativi previsti dalla legge e non attraverso l’utilizzo di strumenti di misurazione delle distorsioni del diritto. 10