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in mezzo scorre il fiume

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in mezzo scorre il fiume
Il Portale del Teatro Italiano
Presenta
IN MEZZO SCORRE IL FIUME
LAOS, VIET NAM E CAMBOGIA: IN VIAGGIO LUNGO IL MEKONG
PARTE 1
di Francesco Rapaccioni
foto di Francesco Rapaccioni
IN MEZZO SCORRE IL FIUME - Parte 1
di Francesco Rapaccioni
Quando comincia un viaggio? O meglio, quando comincia il desiderio di andare in un certo
luogo? Difficile a dirsi, forse impossibile. E non per un difetto di memoria quanto perché il tempo degli
inizi non è mai documentabile. Certo mi affascinava l'Indocina, anche per valutarne i legami con
l'adorata India. Però stavolta, al momento di partire, sono quasi spaventato. Lascio le mie montagne
innevate, vuote e silenziose come nel medioevo. In Qatar invece è già estate e futuro.
Luangprabang – il Vat Pa Phai fra le palme
All'aeroporto di Doha una nuova moschea ha l'affaccio vetrato dalla sala imbarchi: un papà legge
ad alta voce il Corano mentre il figlioletto, addormentato per terra a pancia in sotto, indossa uno
zainetto con un orsacchiotto di peluche da cui pende un guinzaglio. Nella lunga attesa all'aeroporto di
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IN MEZZO SCORRE IL FIUME - Parte 1
di Francesco Rapaccioni
Bangkok dormo lungo sui sedili del gate riscaldato dal sole specchiato dalle vetrate. L'aereo per
Luangprabang è un bimotore a elica e per questo durante il volo la mia vicina piange e urla,
terrorizzata. Dal finestrino vedo la pianura thailandese fittamente coltivata dopo l'alluvione. Atterriamo
in una stretta vallata boscosa, risaie sul fondo, monasteri tra gli alberi. L'aeroporto è minuscolo, gli
sportelli dell'ufficio immigrazione stretti tra la dogana e il ritiro bagagli. All'uscita mi aspetta Andrea,
milanese trasferitosi in Laos per amore, “la stella a cui si riferisce ogni barca alla deriva” secondo
Shakespeare. Scarrozzato su una macchinina scoperta, odoro l'aria umida e vedo dal ponte sul Nam
Khan le prima luci della sera che tremolano sull'acqua veloce. L'hotel Au fil du Mekong è in posizione
strategica al centro della penisola in cui sorge il centro storico, una villa coloniale all'angolo del
Mekong riverside. L'interno ha un sapore etnico per i pavimenti in grandi tavole di tek, i tessuti avorio,
le finestre con manine al posto delle maniglie, gli arredi in giunco e legno. Una doccia è la prima
necessità, dopo un viaggio durato praticamente due giorni, come nell'Ottocento: ma così l'arrivo è
ancora più appagante.
Luangprabang – un monaco solitario nel Vat Sensoukharam
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IN MEZZO SCORRE IL FIUME - Parte 1
di Francesco Rapaccioni
Esco per cena; due passi su Sisavang Vatthana e Sisavangvong mi portano indietro nel tempo:
una sensazione indicibile di pace remota. Le strade sono fiocamente illuminate; ci si muove senza
fretta, a piedi o in bicicletta; sparute auto e moto sono annunciate da sonori fragori. Le case in stile
coloniale si alternano a quelle in stile locale e ai monasteri silenziosi. Villa Santi era la residenza della
moglie del re e appartiene ancora ai discendenti rifugiati in Francia; ospita un ristorante al primo piano
in una sala ariosa con la terrazza sulla via. Sul tavolo c'è già il riso glutinoso che pare di plastica: è una
varietà particolare che viene tenuta ammollo e poi cotta a vapore dentro cesti di bambù appoggiati
sopra pentole d'acqua bollente. La cena è allietata da un musicista che suona strumenti tradizionali e da
una ballerina che si cambia d'abito per ogni danza. Il menu è una teoria di assaggi di piatti tipici a metà
strada tra la cucina cinese e quella indiana; salto la zuppa di funghi e maiale ma subito mi avvento sui
germogli di bambù fritti ripieni di carne di maiale; mi piace il pollo con l'aglio, leggermente piccante;
squisito il mok paa, pesce cotto a vapore dentro una foglia di banano insieme a menta e citronella; le
verdure fritte sono invero crude; stupefacente il dragon fruit: praticamente privo di sapore ma splendido
a vedersi, la buccia fucsia e l'interno bianco con semini neri.
Luangprabang – gli orti rivieraschi lungo il Mekong
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di Francesco Rapaccioni
Al mattino la nebbia si solleva lasciando un velo di soffice umidità su tutto. Per fare colazione
aspetto che apra il piccolo Café Toui; non mi siedo in veranda perché fa freddo; spalmo il burro sul
pancarrè tostato e lo cospargo di zucchero che scricchiola fra i denti. Nel vicino Vat Pa Phai i monaci
mangiano riso in ciotole di plastica colorata seduti per terra fra fili dove sono stesi lunghi rettangoli di
stoffa di varie tonalità di arancione.
Cammino fino al Vat Sensoukharam, la cui facciata risplende al primo sole per il colore rosso
intenso e le lamine dorate. I monaci studiano seduti ai tavoli del giardino. Nel cortile diverse macchine,
una parcheggiata sotto il tamburo rituale; mi stupisco, considerando che i monaci sono poveri, vivono
di elemosina, vanno in giro scalzi e arrotolati nella stoffa arancione: ma le auto sono dei vicini che
pagano una piccola somma ai monaci per usare il cortile come parcheggio.
Attraverso vicoli e passaggi segreti, tra orti e casupole dove si cucina all'aperto su fuochi
improvvisati, raggiungo il Vat Xieng Thong, esempio dello stile di Luangprabang coi tetti sovrapposti
spioventi fino a terra che sembrano ali di uccelli. Sulla sommità le insegne reali, lance dorate che
puntano verso il cielo.
Questo monastero ha resistito alla distruzione dei cinesi alla fine dell'Ottocento perché il
comandante delle truppe da giovane vi aveva studiato e lo usò come quartier generale. Il cortile
assolato è dominato dal sim (la chiesa), attorniato da stupa e piccole cappelle; nella prima una statua di
Buddha in piedi, dono del re della Thailandia al re del Laos per risarcirlo del furto del celeberrimo
Buddha di giada oggi a Bangkok.
Le altre due sono decorate esternamente da mosaici di specchi colorati su fondo rosa acceso, che
raccontano storie tradizionali laotiane e scene di vita quotidiana; una contiene il Buddha della pioggia
ma è chiusa, l'altra un Buddha disteso ed è particolarmente venerata. Un albero della vita occupa la
parete absidale del sim, un mosaico di vetri colorati che cambiano colore a seconda della luce che li
colpisce. Dentro un garage il carro funebre degli ultimi re con rampanti pneumatici, sotto una tettoia la
piroga dei monaci.
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di Francesco Rapaccioni
Luangprabang – lo strabiliante tetto a falde del Vat Xieng Thong
Il livello del Mekong è basso: dal monastero devo scendere una lunga scalinata e una scarpata
sterrata per raggiungere l'imbarcadero. Salpo verso il confine cinese con una piroga lunga, stretta e
incurvata come una costola di bambù col tetto di lamiera. Il fiume è in secca; la parte bassa delle rive è
completamente coltivata in orti verdeggianti; affiorano scogli segnalati da torrette di cemento armato.
Al di sopra delle erte scarpate una vegetazione lussureggiante, in mezzo a cui si intravedono
villaggi. Contadini, pescatori, setacciatori di alghe, trasportatori: la vita ferve sopra e intorno all'acqua
marrone del Mekong, il cui nome significa madre acqua.
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di Francesco Rapaccioni
Ban Mouangkham – palafitte, parabole, alghe del Mekong stese a seccare
Nel villaggio di Ban Mouangkham non si fermano i turisti. Gli abitanti seccano al sole le alghe su
piccoli telai quadrati di bambù dopo averle insaporite con peperoncino, spezie e aglio. All'ingresso del
villaggio la Madre Terra si strizza i capelli secondo una popolare tradizione induista: mi piace quando
Andrea mima (con le sue mani curate come un restauratore prestato all’impresa turistica) la posizione
di Buddha che la chiama. La scuola è chiusa per festività, anche se il loro capodanno non coincide con
il nostro. C'è stato da poco un funerale e una portantina di legno per le ceneri, veicolo per l'altro
mondo, è parcheggiata davanti alla chiesa, dove due altissime pertiche di bambù svettano verso il cielo
con nastri bianchi (il colore del lutto) attaccati a pesci di legno, simbolo di offerte agli spiriti: le
tradizioni buddhiste vivono in sincretismo con l'animismo. Il villaggio è costituito da viuzze sconnesse
sterrate e capanne palafittate per le inondazioni e la maggiore freschezza. I tetti sono di lamiera
ondulata arrugginita. Al piano terra, tra i pali di legno che sostengono le case, le donne cucinano e
tessono, gli uomini oziano, i commercianti vendono le cose necessarie alla vita quotidiana, due neonati
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di Francesco Rapaccioni
dormono infagottati dentro culle dondolanti appese al soffitto con funi. Una donna fila utilizzando una
ruota di bicicletta come arcolaio. I bambini giocano con niente e vestono con quello che trovano:
canottiere o pellicciotti sintetici oversize. Ogni capanna ha una grande parabola arrugginita per ricevere
il segnale televisivo dalla Cina. La sosta a Ban Xang Hay è meno affascinante ma utile per il confronto:
qui si fermano i turisti, per cui la strada è costeggiata da bancarelle con souvenir e assaggi di lao lao, la
tipica grappa di riso.
Ban Mouangkham – l'arcolaio con la ruota di bicicletta
Alla confluenza tra Mekong e Nam Ou, su una parete rocciosa di fronte al villaggio di Ban Pak
Ou si aprono due grotte; quella inferiore facilmente raggiungibile dall'approdo, brulicante di visitatori
laotiani e stranieri e inzeppata di statue di Buddha di tutte le grandezze e posizioni possibili, ammassate
in ogni appoggio e incensate da bastoncini; quella superiore più lontana e gravida di antiche preghiere:
l'ingresso è tappato da un vetusto portone di legno e l'interno è buio, silenzioso e meno fitto di statue.
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di Francesco Rapaccioni
Attraverso il fiume in piroga fino al ristorante del villaggio: mi siedo in terrazza con vistafiume, si sta
benissimo e il cibo è un mix di tradizione e semplicità. Ma i bagni sono terribili per il cattivo odore, la
sporcizia e le pareti ad altezza di laotiano, per cui io esco fuori dalle spalle in su come fossi all'aperto
mentre faccio la pipì. Non assaggio la zuppa di morning glory, i fagiolini sono praticamente crudi,
saporiti i noodles con uovo e pesce fritto, buono il manzo con le patate tagliate a zig zag come la papaia
offerta con ananas aspretto e cocomero.
Ban Pak Ou – i profili misteriosi dei Buddha sullo sfondo del Mekong
Mi lascio cullare placidamente dal Mekong, limaccioso ma non inquinato, la principale via di
comunicazione, il centro della vita. Un barcone funge da stazione di rifornimento: due le pompe,
benzina e miscela. Approdo sulla riva destra, di fronte a Luangprabang. Due ponti pedonali stagionali
di bambù conducono alla scalinata che sale al Vat Lonkhun; sulla terrazza un monaco e giovani novizi
osservano un muratore che costruisce una statua di Buddha in cemento con abili mosse di cazzuola. Il
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monastero, in mezzo a una fittissima vegetazione, è strutturato in affascinanti edifici in muratura
sospesi sopra pilastri e dai tetti spioventi. Il sim ha le pareti interne completamente rivestite di antichi
affreschi, scampati alla distruzione dei cinesi; sul retro piccoli stupa bianchi per le ceneri dei monaci.
La Madre Terra si strizza i capelli: qualcuno le ha infilato tra le braccia un ombrello aperto. Un
viottolo sterrato conduce al villaggio di Ban Xieng Maen, dove la povertà rispetto a Luangprabang è
impressionante, considerato che siamo solo sull'opposta riva del fiume. La strada è in costruzione con
mattoni e cemento e le donne faticano a camminare coi bilancieri in spalla. Qualche bancarella vende
cibo già pronto, tra cui banane arrosto; davanti alle case si cuoce a vapore il riso glutinoso. Il monastero
è chiuso: alle grondaie sono appesi portavasi di corteccia di bambù da cui spuntano rami di orchidee.
Non ci sono ponti sul Mekong; mentre aspetto la chiatta per attraversare il fiume, muratori e manovali
scaricano cemento e mattoni indossando ciabatte infradito.
Ban Xieng Maen – gli affreschi del sim e il monastero Vat Lonkhun
Approdo sotto la sacra collina di Phu Si, dove mi inerpico per uno sguardo al tramonto sul fiume,
quasi invisibile dietro le teste degli stranieri accalcati da ore. Lungo le scale sette moderni Buddha
dorati, uno per ogni giorno della settimana. Ai piedi della collina, davanti al palazzo reale, la via è
chiusa al traffico dal tardo pomeriggio per consentire un mercatino di souvenir dove non mi piace
nulla.
Cambio i soldi all'ingresso di una guesthouse, vado a pagare il conto di Villa Santi: ieri non
avevo moneta locale. Ceno al Coconut garden, riconoscibile da lontano per la palma che svetta
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altissima e sottile, a cui sono state appese lanterne colorate che mi sembrano impiccate. Non mangio
l'insalata per scelta e salto anche la zuppa, concentrandomi sul resto: manzo con cipolle leggermente
speziato, pesce del Mekong cotto a vapore dentro una foglia di banano insieme a varie erbe
(straordinariamente buono), verdure saltate nel wok con olio di soia e aglio, una piccantissima zuppastufato che stempero nel riso bianco.
Dopo la saporosa frutta fresca, un piccolo torroncino portato dall'Italia: è il giorno di Natale,
anche se qui nulla lo ricorda. Di notte, sui marciapiedi, giovani con handicap si improvvisano artisti:
compero segnalibri realizzati in carta di bambù con le immagini di monaci che mi ricordano le figure
dipinte da Alessandra Giovannoni.
Luangprabang – la rituale questua dei monaci
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Vado a letto presto per alzarmi prima dell'alba e assistere alla questua, uno spettacolo inscenato
lungo la via principale per turisti infreddoliti che comodamente sostano sopra stuoie e cuscini e
regalano cucchiaiate di riso glutinoso (comperato da ambulanti) ai monaci assonnati che,
svogliatamente e con indifferenza, camminano in fila indiana con le sacche a tracolla ogni tanto
svuotate in scatoloni di bambini poverissimi.
Aspetto che il Cafè Toui apra per fare colazione; il tè è amaro ma in compenso il proprietario è
sorridente mentre mi porta l'acqua dove sciogliere antidolorifico e antinfiammatorio che sono costretto
a prendere per un incidente stradale avuto in Italia prima di partire.
Rinvigorito, sfreccio a piedi al palazzo reale. Dopo aver salito una scala di marmo di Carrara ci si
toglie le scarpe e si lasciano gli zaini all'interno di precari armadietti. Un salone ha affreschi realizzati
negli anni Trenta da un francese, interessanti per le vedute minuziose della città all'epoca. La sala del
trono è kitsch: le pareti rosso scuro sono tempestate di rilievi dorati e mosaici con specchietti, dove gli
antenati del popolo lao tagliano l'albero che impedisce al sole di riscaldare e vivificare la terra, una
specie di Adamo ed Eva laotiani (lui ha lunghi baffoni).
Dentro teche sono esposti piccoli Buddha in materiali preziosi, salvati dai saccheggi nei
monasteri. Nei corridoi una collezione di tamburi rituali bronzei di varie epoche, a seconda del numero
di rane sovrapposte sui bordi. Negli appartamenti privati un'ampia camera da letto, la sala da pranzo, lo
studio-biblioteca (stranamente con poca luce naturale): tutto in stile vagamente liberty con il simbolo
della casa reale di Luangprabang, tre teste di elefante.
Nelle vetrine gli abiti degli ultimi re, le scarpe sono italiane: Magli per lei e Testoni per lui. Dalla
terrazza anteriore si accede all'ala laterale, dove è conservata la copia del Pha Bang, l'antica statuetta di
Buddha in posizione eretta da cui deriva il nome della città e per il cui originale si sta costruendo uno
scintillante edificio vicino al cancello, tripudio di oro e vernici laccate rosse e verdi. Nel garage le
macchine reali, tra cui una scassata Citroen DS senza fanali. In giardino due pompe di benzina
abbandonate come in un quadro di Hopper.
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Luangprabang – un monaco e un gatto si riposano nel Vat Mai
Una via separa il palazzo reale dal Vat Mai, riconoscibile per il tetto spiovente a cinque strati; la
veranda ha dipinte scene del Ramayana e della vita di Buddha; seducenti le Apsara su porte e finestre;
l'interno simile agli altri: rossoscuro e con l'altare strapieno di statue e offerte. Il monastero pulsa di vita
fra classi di religione e ricevimento ospiti; un monaco si è addormentato in poltrona, mi dà le spalle
seduto al sole con la testa velata e un gattino accoccolato vicino.
Vado sempre nei mercati e nei supermercati: osservare le abitudini alimentari fa comprendere le
caratteristiche della gente. A Luangprabang è straordinario il mercato all'aperto, dove si vende tutto
quello che spunta dalla terra e cammina sopra la terra, topi arrosto compresi. La maggior parte delle
cose è esposta sui marciapiedi, sopra pezzi di stoffa o dentro cesti. Molti cuociono e friggono lungo la
strada: piccoli focherelli ardono dentro recipienti di terracotta. Le merci sono trasportate col bilanciere:
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di Francesco Rapaccioni
un’asta di bambù a cui sono appesi due cesti. Un cartello indica che è vietato fumare anche in strada. I
ragazzini giocano a calcio con piccole palle di bambù intrecciato.
Luangprabang – footstep bamboo bridge over the Nam Khan
Il sole è alto e riscalda l'aria, camminare mi fa sempre bene, anche moralmente. Lungo vie
alberate, senza meta, mi stupisco delle palme in mezzo alle montagne. Osservo le case e la vita,
incrociando un sacco di monaci: alcuni passano via veloci, altri si fermano a scambiare due parole.
Alcune abitazioni sono palafitte sospese su pali di legno o pilastri in muratura, altre poggiano a terra su
regolari fondamenta a seconda che appartengano all'etnia lao o mong. I laotiani sfoggiano buffe
pantofole colorate con sopra animaletti di peluche oppure infradito scomodamente indossate coi calzini
(quasi nessuno le scarpe e i monaci sono a piedi nudi). I mezzi di trasporto pubblico sono i cassoni di
piccoli camioncini. Entro in una scuola di cucina che organizza corsi per stranieri. Appese alle aste
molte bandiere rosse con falce e martello, simbolo dell’unico partito. Nei giardini di case e monasteri
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pizze di riso stese a seccare al sole su tavolacci. Attraverso il Nam Khan su un ponte pedonale di
bambù in cui si paga il pedaggio e che viene smontato nella stagione delle piogge. Indimenticabile la
vista dal poggio alla confluenza del Nam Khan nel Mekong con due bambini accovacciati che bevono
dal biberon.
Luangprabang – la confluenza del Nam Khan nel Mekong
Torno indietro con lentezza lungo il riverside canticchiando “Down by the riverside”. Supero il
cancello con le colonne bianche che mi segnala sempre l’incrocio per l’albergo. Il Vat Choumkhong
risplende per i fiori rossi delle stelle di Natale intrecciate alle buganvillee; la villa Xieng Mouane è un
edificio tradizionale su palafitta di tronchi d'albero; il centro di cultura francese è una villa coloniale in
mattoni. I ristoranti lavano piatti e pentole sul retro, direttamente sulla strada. Numerose le lavanderie
casalinghe, famiglie che per mestiere puliscono i panni altrui: il prezzo scende man mano che ci si
allontana dalla via centrale. Pranzo in periferia da Roots & Leaves, tavoli sotto tettoie intorno a un
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di Francesco Rapaccioni
laghetto di ninfee e palme, ma la musica in filodiffusione non copre il frastuono del traffico. Ripulisco
il piatto degli anacardi fritti con foglie di bergamotto (una delizia), non mi piacciono le coriacee
striscioline di carni essiccate e speziate né la moscia insalata piccante di pesce; buono il pollo coi
peperoncini, insipido il pesce a vapore; salto il dolce di zucca ma non l'ananas mescolato al dragon
fruit; come sempre, bevo acqua minerale locale a temperatura ambiente.
Vicino al ristorante due templi affiancati: il Vat Visunarat è dominato dal MarkMo (uno stupa a
forma di cocomero) e merita la visita per l'emozionante collezione di Buddha nella posizione di
invocare la pioggia (in piedi con le mani lungo i fianchi come gocce di pioggia), esposta in penombra
intorno all'altare; curioso il marchingegno ligneo per predire il futuro; utile la foto del tempio prima
della distruzione cinese. Un portale nel recinto conduce al piccolo Vat Aham, il cui interno è
completamente affrescato con colorate e numerate scene della vita di Buddha, biblia pauperum naif e
comprensibile.
Luangprabang – i Buddha della pioggia nel Vat Visunarat
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Prima di partire è obbligatorio sostare nel quartiere degli argentieri reali e al mercato coperto
della tessitura nel villaggio di Pha Nom. Durante il check-in si bloccano i computer: carta di imbarco
ed etichette bagaglio vengono scritti a mano, la destinazione è indicata in un cartello appeso con fil di
ferro. Mentre il piccolo atr della Lao aviation decolla, sento già nostalgia per Luangprabang e i suoi
abitanti, miti e gentili. Il volo dura solo un'ora ma mi pare di aver fatto un viaggio nel tempo quando
atterro nel modernissimo aeroporto di Ha Noi: display elettronici, pavimenti specchianti di marmo
nero, aria condizionata, acciaio e vetro. Le pratiche di immigrazione sono abbastanza veloci perché ho
con me la lettera di invito: però gli sportelli sono al contrario, i documenti si lasciano nell'ultimo e si
ritirano nel primo tornando indietro. All'uscita mi aspetta Tuan nella notte buia e fresca di umidità.
Avvicinandoci alla capitale del Viet Nam si vede da lontano la cappa di smog che rende l'aria grigia e
irrespirabile, al punto che la maggior parte delle persone va in giro con una mascherina sul volto con
l’illusione di filtrare i veleni. Le insegne luminose pubblicizzano locali di karaoke. Il Crown plaza è un
lussuoso hotel che per Natale risplende di mille lampadine; le camere sono grandi e dotate di ogni
comfort, un vetro le separa dal bagno in modo assai scenografico. Della cena non ricordo nulla, chissà
perché. A letto finisco “Il fiume dell'oppio”, poderoso romanzo di Amitav Ghosh la cui lettura mi
aveva impegnato nel viaggio di andata.
Ban Xieng Maen – cottura del riso glutinoso lungo la strada
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Luangprabang – il mercato
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Al mattino parto in autobus verso Ha Long. Le strade di Ha Noi sono piene di motorini, che
sbucano dai passi privati e dalle vie laterali senza dare la precedenza; fra i giovani vanno di moda le
Vespe Piaggio che costano il triplo degli scooter giapponesi e coreani.
Un artigiano del gesso espone una Madonnina tra i dinosauri. Impressionanti le case: strette in
larghezza, sviluppate in lunghezza e altissime, una stanza sopra l'altra come torri, praticamente fette di
case spesso condivise da più famiglie (una per piano) in genere apparentate tra loro. Le sedi del partito
unico sono mastodontiche, in cemento armato grigio e squadrato. Le targhe delle macchine usano il
sistema francese dei numeri che identificano le province (Hué, storica capitale del Viet Nam, ha il 75
come Parigi).
Un viale è costeggiato da chilometri di mosaico per celebrare il millenario della fondazione di Ha
Noi, il cui nome significa a river runs through it (in mezzo scorre il fiume). Usciti dalla città il traffico
resta imponente ma scorrevole, ai lati molte ambulanti vendono baguette gommose che costituiscono
una rarità per chi vive in campagna (dove si mangia riso a tutti i pasti) e piccoli ananas aspri già
sbucciati dentro sacchetti di plastica.
Tutto viene trasportato su biciclette e motorini, spesso con carichi fuori misura. Molte tombe
nelle risaie: ai vietnamiti piace avere le tombe dei familiari nei campi in cui lavorano. Una sosta a Sao
Do presso un grande emporio di artigianato realizzato dalle vittime del napalm: un progetto statale
encomiabile a cui contribuisco facendo scorta di segnalibri.
Dopo il flusso costante dei monaci in Laos, qui non ne vedo: la legge obbliga i monaci ad andare
in giro in abiti civili e vieta l'elemosina, perché chi non voleva lavorare si spacciava per monaco. Il
traffico quasi raddoppia il tempo di percorrenza stimato e soltanto all'ora di pranzo sono al porto.
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Ha Long – la baia sotto la grotta della sorpresa
Raggiungo con un motoscafo la giunca ormeggiata a largo, mangio pesce appena pescato cotto a
vapore e arrosto come piace a me, senza salse né condimenti. La giunca accende il motore e si avvia, il
mare è calmo e riflette le nuvole che passano veloci. Il paesaggio è di una bellezza indicibile, montagne
si ergono dal mare fitte e ripide, rocciose e venate dal verde della rada vegetazione. Il pilota regge il
timone coi piedi, sprofondato nel letto della cabina di comando. Mi piace stare sul tetto, sdraiato a
riparo dal vento.
Dopo un'oretta approdiamo in una cala nei pressi della grotta della sorpresa: la vera sorpresa è la
folla di turisti, per cui la visita viene effettuata camminando uno dietro l'altro come una processione.
Non ho molta pazienza e supero il più possibile, dando una rapida occhiata alle formazioni rocciose e
alle concrezioni illuminate da fasci colorati. All’uscita un affaccio dall'alto sulla baia, da cui si vedono
le case galleggianti dei pescatori e un paesaggio che non ha eguali nel mondo. Salto di barca in barca
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fino a un motoscafo che mi porta alla mia giunca ancorata a largo; un po' di navigazione tra le rocce e
poi restiamo a dondolare sull'acqua calma, fino al mattino dopo. Un tempo lento ma utile per spezzare
la frenesia di vivere e viaggiare. Un tempo dedicato a parlare, scrivere, leggere. Un tempo senza tempo
in cui l'uomo si confonde con il luogo e ritrova sé stesso.
Ha Long – al lavoro nell'orto
Di primo mattino, mentre finisco “Zia Antonia sapeva di menta” dell'inconfondibile Andrea
Vitali, la giunca rientra al porto e l'autobus parte subito per Ha Noi. Angosciante, lungo la statale, la
città di Mao Khè, dove le strade sono ricoperte di fango nero e tutto ha una patina densa e scura a causa
delle miniere di carbone e della centrale elettrica a carbone con le ciminiere svettanti. Mi riconcilia la
sosta bucolica in un orto, dove le donne indossano cappelli conici e utilizzano annaffiatoi gemelli
appesi ai bilancieri. Ai margini delle città archi di trionfo con frasi luminose che corrono su nastro
elettronico. Provo orrore quando vedo, trasportati sui motorini, i cestini con dentro i cani destinati alla
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macelleria: è certamente un fatto culturale, ma quei musetti inconsapevoli mi rendono infinitamente
triste.
Ha Noi – interno del tempio della letteratura
Ha Noi è una città trafficata, l'inquinamento rende l'aria irrespirabile e il cielo perennemente
grigio. Davanti al teatro dell’opera, imponente edificio bianco e giallo alleggerito da paraste corinzie,
conto almeno sei coppie di sposi a fotografarsi. In un laghetto, su un'isola collegata da un ponte di
legno rosso, un tempio confuciano ha due stanze separate da un paravento e una ricca decorazione di
statue in legno policromo laccato. In un vano laterale una enorme tartaruga mummificata, animale
sacro secondo la leggenda della spada restituita che ha dato il nome al lago. Di fronte all'altare esterno
del dio del cielo, dentro recipienti metallici e in muratura si bruciano incensi votivi, dollari falsi e
pagine scritte: il vento porta in cielo le offerte e le parole per gli antenati e gli dei. Gli ideogrammi
cinesi sono evidenti perché il vietnamita si scrive in caratteri latini, anche se accenti assurdi lo rendono
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di Francesco Rapaccioni
illeggibile. Nel viale lungolago si stanno allestendo le decorazioni di fiori e luci per il capodanno, che
cade il 23 gennaio. Il centro storico è un groviglio di vie traboccanti di piccoli negozi; il centro
coloniale è invece strutturato in una griglia di ampi viali alberati dove si affacciano ville, ora sedi di
ambasciate e banche. Nei pressi della neogotica cattedrale cattolica di San Giuseppe, il ristorante La
Lua sorprende: fuori un palazzetto anonimo, dentro sale coloniali confortevoli rivisitate con gusto
contemporaneo (alti soffitti, pavimenti di tek, dipinti di giovani artisti persino in bagno, posate e piatti
di design). Il menu raffinato prevede zuppa filamentosa di gamberetti e funghi neri, involtini primavera
con gamberetti e banana (squisiti), maiale arrosto pepato e curry piccante di manzo con cui inzuppo il
mio riso bianco, un pesce agrodolce fritto con salsa di albicocche, la solita morning glory ripassata in
padella con l'aglio come la cicoria nelle Marche, cocomero e melone. Il tè verde è buonissimo ma
servito in tazze piccole come ditali (invece ne vorrei una tazzona).
Ha Noi – il mausoleo di Ho Chi Minh
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di Francesco Rapaccioni
Il cubico mausoleo di Ho Chi Minh è affacciato su un piazzale da manifestazioni di regime, dove
è aperto il cantiere per il nuovo parlamento. Un cambio della guardia poco significativo si svolge con il
vento freddo che arrossa i volti degli sparuti visitatori. A
pochi passi c'è la curiosa, minuscola pagoda che poggia su
un solo pilastro al centro di una vasca d'acqua. Le fa da
sfondo un grigio edificio degli anni Settanta in cemento con
falce e martello: il museo dedicato a Ho Chi Minh, padre
della patria. Bancarelle vendono i tourain, frutti puzzolenti il
cui odore dà il voltastomaco. Più università che monastero, il
tempio della Letteratura ha recinti in successione con specchi
d'acqua, intagli nel legno e nella pietra e soprattutto le stele
con i nomi dei laureati fin dal XV secolo, un archivio unico
di iscrizioni lapidee che poggiano sopra tartarughe. Nelle
aiuole composizioni con parole scritte coi fiori, nelle vetrine
le antiche divise degli studenti. Una strada rialzata tra due
laghi conduce alla pagoda Tran Quoc, preceduta da un
giardino di stupa a torre che è un piacere fotografare (nella
foto qui sopra). Sul ciglio di un viale di scorrimento, il tempio di Quan Thahn è taoista e ha un opulento
interno dove arriva continuo il frastuono del traffico. Nonostante le offerte di fiori, finti e veri, di frutta
fresca e incenso, la sensazione costante è quella di uno scarso sentimento religioso (a Luangprabang
ovunque si percepiva un'aura spirituale).
Puntualissimo il volo interno per Da Nang, il cui avveniristico terminal è stato inaugurato la
settimana scorsa; da qui al centro di Hoi An si impiega meno di un'ora. Nel ristorante dell'hotel Hoi An
un anonimo menu occidentale (passato di zucchine, filetto di sogliola fritto e crème caramel)
interrompe la sequela di pasti tipici. L'albergo è gestito dallo Stato e ha edifici separati che contornano
una piscina e giardini fioriti; non c'è ascensore per salire ai piani. La mia camera è enorme e arredata in
stile coloniale, enorme anche il bagno nella sua essenzialità. Esco per una passeggiata fino al ponte
giapponese: luci fioche rendono la città fiabesca. Stanotte spero di sognare.
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IN MEZZO SCORRE IL FIUME - Parte 1
di Francesco Rapaccioni
My Son – al lavoro nella risaia col bufalo d'acqua
Al mattino mi alzo presto e vado in autobus verso le montagne al confine con il Laos. Approfitto
di una sosta per fare foto alle risaie dove i contadini stanno lavorando con aratri trainati da bufali
d’acqua. Il sito di My Son ha aperto da poco, la distanza tra la biglietteria e le rovine si percorre su un
veicolo a motore elettrico. I templi sono in una suggestiva cornice di vegetazione, immersi fra colline
disabitate: sul dato culturale prevale quello ambientale.
Rientrando a Hoi An l'autobus mi lascia nella piazzetta dove si paga il biglietto per l'ingresso alla
città: circolano finalmente biciclette e non motorini. Il Tam Tam Cafè è dentro un magazzino
ristrutturato con gusto, vicino al ponte giapponese. Mangio al piano terra, sul retro. Salto la zuppa
d'uovo, molliccia e biancastra; mi scateno con gli involtini primavera; sbrano le rose bianche di Hoi An
e i won ton fritti, due cose buonissime di cui non identifico gli ingredienti; poi pesce grigliato dentro
foglie di banano e riso cantonese dentro fiori di loto. All'uscita mi aspetta un risciò: mi accomodo
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IN MEZZO SCORRE IL FIUME - Parte 1
di Francesco Rapaccioni
davanti mentre il conducente pedala dietro, illustrandomi in inglese le vie, il lungofiume (evidenziando
le case dei giapponesi che qui si sono stabiliti), le lavanderie, il retro di negozi e abitazioni. Nonostante
il sole accecante, lascio la cappotta abbassata per vedere tutto. Sul fiume passa una barchetta con due
che si baciano e la conducente, seduta in sdraia, lavora a maglia coi ferri e un gomitolo rosso
manovrando il timone coi piedi. Incontriamo un americano con il figlioletto, il pedalatore lo conosce, si
è trasferito nella casa circondata dal giardino: mi chiede se ho intenzione di comperare una casa a Hoi
An.
Hoi An – ponte giapponese e case nel centro storico
Visito la casa Tan Ky, che appartiene alla stessa famiglia da sette generazioni: l'interno è un mix
di stili vietnamita, cinese e giapponese (favolosi i pannelli dei pilastri con gli ideogrammi che sono
disegni di uccelli in volo). Dall'ingresso si dipartono due stanze aperte, poi un patio e sul retro i locali
di servizio, dove è segnato sul muro il livello dell'acqua e la data delle numerose esondazioni del fiume
che si ripetono più volte l'anno (l'ultima un mese fa): ecco perché la casa ha due piani e i mobili sono
facilmente trasportabili. Il sole totale, il cielo azzurro, una lieve brezza dal fiume: situazione ideale per
passeggiare senza meta per Hoi An ammirando templi, piccole case a schiera, ambulanti, artigiani e
vita quotidiana vietnamita. Nel mercato mucchi di grandi foglie di tè verde. Mi attirano i ristoranti
improvvisati per strada: si cucina dove capita e si mangia seduti su sgabellini e microtavolini di plastica
che sembrano quelli delle bambole. Nella pagoda di Thien Hau (nostra Signora dei mari) zampironi
d’incenso alti un metro pendono dai soffitti. Imperdibile la casa dell’artigianato, anche per la gentilezza
delle commesse: esco con sciarpe di seta e una lanterna rossa che si chiude come un ombrello.
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di Francesco Rapaccioni
Hoi An – spirali d'incenso nella pagoda Thien Hau
Di fronte all'hotel Hoi An aspetto l'autobus per Da Nang. Ammiro dal finestrino la Montagna di
marmo; trovo assurdo aver costruito case e hotel lussuosi attaccati al vecchio aeroporto militare il cui
terreno è stato avvelenato dalle bombe chimiche degli americani. Il museo delle sculture Cham è
chiuso, proseguo direttamente per Hué. Dopo il lungomare dominato da una statuona bianca che pare
una Madonna, il viaggio è più veloce grazie al nuovo avveniristico ponte che attraversa il porto canale
e a un traforo sotto le montagne, ma, anche così, mi pare di non arrivare mai. Ogni tanto mi soffocano
ventate di puzza dai camion che sorpassiamo e che trasportano maiali, nonostante il divieto di passare
nel tunnel di 7 km con animali vivi. È notte quando arrivo a Hué per andare direttamente a cena
all'hotel Mercure; non ho molta fame, salto il cocktail di scampi e la zuppa di zucca, mescolo il riso con
il petto di pollo arrosto dopo averlo ripulito della salsa cremosa; la tortina di ciliegia è in realtà un
mignon. Dopo la doccia non esco, approfitto del collegamento internet per scaricare le emails e
controllare se ci sono novità per i “miei” teatri di Sanseverino. Quando scendo alla reception,
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di Francesco Rapaccioni
dall'ascensore vetrato vedo le arcate illuminate del ponte che si riflettono nell'ampio fiume; quando
salgo è tutto spento e buio. Life ain't always what it seems to be.
Huè – in barca sul fiume dei profumi
Come nelle previsioni, piove per tutto il giorno. Hué, città imperiale e universitaria, cantata da
poeti e scrittori, è ancora più grigia con le sue pietre annerite dall'umidità. Davanti al Mercure c'è un
imbarcadero per chiatte con la prua con due teste di drago che trasportano persone e merci lungo il
fiume dei Profumi. Salgo su una che ha il volante come un'automobile ed è attrezzata per trasporto
turisti: si vendono souvenir e abbigliamento made in China, io mi innamoro di pupazzetti magnetici che
hanno gli occhi grandi e tondi come le figure ingenue e illuse dipinte da Vera Santarelli.
Il figlio della proprietaria-conducente indossa jeans moderni con la cerniera obliqua. Un paio di
volte accostano barche, mi par di capire che si deve pagare il pizzo. L'approdo al pontile della pagoda
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di Francesco Rapaccioni
della fata Thien Mu è sotto la torre a sette piani simbolo di Hué; si salgono scale, mi pare una crescita
spirituale. Sul tetto una svastica e la ruota della vita. Dopo tre cortili, nel luogo più sacro i tre Buddha
del presente, del passato e del futuro con davanti quello opulento e ridanciano che io non riconosco mai
come Buddha.
Nel cortile vasi con bonsai le cui chiome spoglie paiono radici: mi rendono triste per le
costrizioni innaturali a cui sono forzati. In un'aula ragazzini orfani scrivono seduti a un tavolo,
indossano divise marrone in stile Mao e hanno i capelli rasati con un ciuffo lunghissimo che parte dalla
fronte e passa dietro l’orecchio pendendo sul collo: regalo loro penne e colori. Commovente l'Austin
con cui un monaco si recò a Saigon nel 1963 per darsi fuoco in segno di protesta contro il regime
sudvietnamita ostile ai monasteri.
Huè – pagoda Thien Mu e porta della città proibita
Torno in centro in autobus e scendo davanti alla cittadella, invero un’enorme città per secoli
capitale del Viet Nam con molte parti ancora in ricostruzione dopo la guerra e i saccheggi. Poca
l'atmosfera, seppure alcuni padiglioni siano interessanti: ma la pioggia rende tutto piatto e grigio. Dal
teatro reale provengono canti e musiche: sono in corso le prove e non riesco a entrare. Come nelle
favole, i campanelli delle porte della città proibita suonano al vento.
Il ristorante è un rifugio sicuro dopo le ore sotto la pioggia: Là Thong è un posto all'americana,
con salette separate. Originale l'accostamento per la zuppa tra legumi e frutti di mare; croccanti i
gamberetti fritti; saporiti gli involtini primavera con maiale e patate dolci; stomachevole il pesce fritto
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di Francesco Rapaccioni
in agrodolce; superlativo il pollo grigliato con citronella, accompagnato da verdure alla piastra e riso
cantonese fritto con pezzetti di carne e semi di loto. Sono talmente pieno che non mangio il crème
caramel (evidente eredità francese) ma bevo tè verde (tiepido, a me piace bollente).
Huè – mandarini d'onore e interno della tomba di Khai Dinh
Mi armo di coraggio: non c'è alternativa ad aprire l'ombrello. I mausolei imperiali di Huè invero
sono dei complessi. La tomba di Tu Duc mi fa ridere ancora oggi perché Tuan pronuncia il nome senza
vocali e pare un colpo di piedi per terra.
Dentro le mura la quiete è sovrannaturale, esaltata romanticamente da nebbia e pioggia sottile.
Fra pini e frangipane un lago dalle morbide curve contorna edifici decorati con frammenti di porcellane
antiche. Pagoda dopo pagoda, scala dopo scala, si arriva alla finta tomba, severa ed essenziale (il sito
della vera è a tutt'oggi sconosciuto).
La tomba di Khai Dinh è assai diversa, verticalmente arrampicata sul fianco di una collina. Lungo
un'ampia scalinata archi, loggette e una terrazza con le statue dei mandarini d'onore; in cima la pagoda
leggiadramente liberty nelle linee sinuose del cemento armato annerito e negli interni lampeggianti di
specchietti colorati e mosaici. Tenerissime le foto del re ragazzino in abiti tradizionali e occidentali.
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di Francesco Rapaccioni
Saigon – rumori e smog del traffico
L'aeroporto di Huè è piccolo e poco trafficato, in un soffio il check-in è fatto; la sala imbarchi è
mezza vuota, io leggo “Il lungo nastro rosso” infagottato in una lunga sciarpa rossa: oggi l'umidità mi è
entrata dentro. Il volo è in anticipo; le hostess sono tra le più eleganti mai viste, flessuose nei lunghi
camicioni aderenti con spacchi laterali sopra i morbidi pantaloni. L'aereo, nuovissimo e grande, arriva
da Ha Noi e prosegue per Saigon (nessuno la chiama Ho Chi Minh City), dove la temperatura di trenta
gradi mi ristabilisce in pochi istanti. Non lontano dall'aeroporto, il lussuoso Movenpick è lungo un
trafficato viale. Le camere hanno il bagno separato da un vetro, come a Ha Noi e Huè; dormo qui
diverse notti e, per la prima volta, tiro fuori tutto dalla valigia: per chi entra, sembra che la mia
Samsonite sia esplosa. Però è necessario, perché devo verificarne attentamente il contenuto per regalare
quello che non mi serve. Per cena mi sembra di essere nel paradiso di una certa pubblicità: il buffet
dell'hotel è stratosferico. C'è una festa di compleanno di chiassosi e volgari adolescenti, evidentemente
ricchi per permettersi tanto, che si fotografano in pose da calendario erotico. Nonostante ci sia ogni
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bendiddio, mangio solo pesce ma fino a scoppiare; assaggio la mela vietnamita e il jackfruit, la cui
polpa gialla e gommosa, amarognola, poco mi piace. Per digerire vorrei fare una passeggiata ma,
mentre esco, inizia a piovere: che sia uno scherzo? Sconsolato, torno in camera e finisco il romanzo
cambogiano girando le pagine verso l'atteso lieto fine.
My Son – controsole nelle risaie
(continua..)
22 dicembre 2011 / 07 gennaio 2012
FRANCESCO RAPACCIONI
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