Lidia Are Caverni STUDENTI A VENEZIA S`incontrarono puntuali
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Lidia Are Caverni STUDENTI A VENEZIA S`incontrarono puntuali
Lidia Are Caverni STUDENTI A VENEZIA S’incontrarono puntuali, ognuno sceso dai propri mezzi. Per venire a Venezia Valerio non usava la macchina che non avrebbe saputo dove parcheggiare e a volte si trovavano sullo stesso autobus e insieme facevano la strada, breve del resto, fino ai Tolentini dove c’era la sede della facoltà. Come vide Tina scendere, Valerio le andò incontro sorridendo, i denti bianchi sul viso dalla carnagione scura, le mille piccole rughe che gli increspavano le guance e incorniciavano gli occhi. Incominciarono a camminare a pieno ritmo, poi si imposero di rallentare ridendo. “Se continuavamo così,” disse Tina “in mezz’ora potevamo arrivare a Sant’Elena e ritorno”. Evitavano i percorsi frequentati e per cercarli effettuavano lunghi giri, in campi a volte nudi e spogli, desolatamente ornati di qualche raro albero, ma anche in improvvise meraviglie di calli strette e ombrose, con le case dalle finestre in cui ci si poteva toccare con mano, ornate di minuscoli terrazzi addobbati di gerani fioriti. I colombi tubavano sotto gli occhi sonnolenti dei gatti sazi e sornioni. Tina provava ogni volta l’incanto degli elementi architettonici, i camini, le altane, i pozzi nascosti. La colpivano soprattutto gli intarsi sapienti che evidenziavano i vuoti e i pieni, la raffinata ricerca nell’architrave, nel semplice battente che evidenziava la porta. Davanti a una casa si fermarono, era dipinta di un verde assurdo, color bandiera, reso ancora più vivo dallo sfacciato fiorire dei vasi nelle inferriate delle finestre, a mo’ di balcone. “Ci mancano solo le girandole” disse Tina. Le girandole erano piccole ventole di legno dipinte, costruite come i girellini che tengono in mano i bambini che addobbavano l’intera facciata di una costruzione dietro San Rocco. L’oscuro fabbricante mostrava così un’indole di giocattolaio che l’avrebbe meglio visto a intagliare cavallini e pupazzi, ma che sfogava in mille ammenicoli sporgenti alle pareti. In facoltà l’insieme veniva definito: elemento architettonico fuori del comune. “Anche il grottesco è uno stile” affermò Valerio come inseguendo i suoi pensieri “basta pensare al trucco con cui si mascherano certe donne anziane”. “E’ un modo di travolgere il proprio volto devastato dal tempo, è come dargli un’eternità altrimenti perduta” continuò Tina. “Pensa ad Arcimboldo, il grottesco serve ad esaltare ciò che è nascosto”. A Tina Arcimboldo non piaceva, la sfarzosità rinascimentale capovolta per far apparire umili le forme riservate alle tavole dei ricchi. Pensò a Bruegel, al delizioso Pollicino, col berretto in testa, il piccolo dito in bocca, pensò ai desolati scenari bianchi e neri dove emergevano solitudini e disperazioni, ai volti dei vecchi, ai mille aspetti dei banchetti. “Per me il grottesco è Bruegel” disse poi ad alta voce. “Sì Bruegel è tutta un’altra cosa” Valerio la guardò fisso. Tina volse il viso imbarazzata, c’erano momenti in Valerio che non capiva, che la sconcertavano, quasi volesse studiarla. Per un po’ tacquero camminando rientrando ogni qual volta il caso li riportava tra il frastuono, nei meandri appartati che avevano scelto. Arrivarono dove il sestiere di Cannaregio confluisce in Castello, nelle vicinanze di San Giovanni e Paolo. Sfiorarono di lato la chiesa dei Miracoli che entrambi conoscevano, s’infilarono nei vicoli, così consueti nelle città di mare così insoliti a Venezia, dove da un lato all’altro delle case si tiravano i gran pavesi dei bucati. Si sarebbe potuto volendo scrivere una storia su ogni famiglia attraverso gli indumenti stesi ad asciugare. Valerio propose un gelato, ma i rari bar mostravano chiuse inferriate, dovettero rimandare. Sfociarono infine dalle parti dell’Arsenale e si diressero sulle rive, quasi cercando aria e luce. Sedettero sulle panchine di pietra, il Canal Grande si allargava a ventaglio, presto avrebbe conosciuto le ampiezze del Lido e il mare aperto. Sull’acqua correvano veloci i motoscafi, si alternavano lenti i battelli nelle ultime fermate. Il Lido era l’estremo approdo, una propaggine di Venezia dove ancora fermarsi, come in una terraferma sospesa. Venezia era questo: un insieme di terraferme sospese, eternamente in attesa del mare. Sul lato della riva un dragamine militare ondulava sull’onde. A Venezia ancora: il porto c’era e non c’era, sparpagliato tra mille approdi e niente che facesse pensare ad una insenatura, a un golfo dove quietare tumulti di viaggi. A Venezia i mercanti arrivavano direttamente in Piazza San Marco, l’ignoto diventava noto, senza passare dogane, bacini di carenaggio e gli squeri per le riparazioni erano nel cuore della città. Per ogni ulteriore impegno si aprivano le porte segrete dell’Arsenale. “Vuoi arrivare a Sant’Elena?” chiese Valerio. “Oppure sei stanca?”. “Non sono stanca, impigrita, a Venezia si respira sempre un altro mondo”. Dai canali giungeva l’odore di salso frammisto a quello del petrolio. Qualche gabbiano si tuffava nell’acqua e riusciva col rauco grido, le ali spruzzanti gocce argentate. Nel maggio inoltrato faceva caldo, Tina mentre stava ferma stese le braccia a indorarsi di sole e le onde brillavano agitandosi in variegati riverberi. “Non mi muoverei più” mormorò. Valerio d’un tratto si alzò:“Forza, andiamo a cercare un gelato”. Tina rise, improvvisamente ridestata.