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Cavalleria rusticana Pagliacci
Stagione Lirica 2010-2011 Pietro Mascagni Cavalleria rusticana Ruggiero Leoncavallo Pagliacci Stagione Lirica 2010-2011 Pubblicazione della Fondazione Teatro della Città di Livorno “Carlo Goldoni” Teatro di Tradizione a cura di Federico Barsacchi e Vito Tota Numero unico, gennaio 2011 Si ringraziano per la preziosa e cortese collaborazione - Alberto Paloscia - Fulvio Venturi - Augusto Bizzi per le foto effettuate durante le prove delle opere - Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino per la disponibilità alla revisione e pubblicazione dei saggi di Alberto Paloscia, a cura dello stesso autore. I libretti di Cavalleria rusticana e Pagliacci sono pubblicati su autorizzazione della Casa Musicale Sonzogno di Pietro Ostali, Milano. Nell’immagine di copertina un particolare da M. Chagall Lovers in the moonlight La Fondazione Teatro Goldoni si riserva di rimborsare eventuali diritti a coloro che non sia riuscita a rintracciare Grafica e Stampa Tipografia e Casa Editrice Debatte Otello S.r.l. - Livorno Pietro Mascagni (Livorno, 7 dicembre 1863 – Roma, 2 agosto 1945) Teatro Goldoni, Livorno Giovedì 3 febbraio, ore 20.30 (Anteprima scuole) Sabato 5 febbraio, ore 20.30 Domenica 6 febbraio, ore 16.30 Cavalleria rusticana Melodramma in un atto libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci dall’omonima novella di Giovanni Verga musica Pietro Mascagni Edizioni Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano Personaggi e interpreti Santuzza Raffaella Angeletti / Elena Pankratova Turiddu Javier Palacios / Mickael Spadaccini Alfio Anooshah Golesorkhi / Leo An Mamma Lucia Kamelia Kader / Irene Bottaro Lola Ozge Kalelioglu / Chiara Mattioli Pagliacci Dramma in un prologo e due atti libretto e musica Ruggiero Leoncavallo Edizioni Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano Personaggi e interpreti Nedda Raffaella Angeletti / Esther Andaloro Canio Ernesto Grisales / Mickael Spadaccini Tonio Anooshah Golesorkhi / Leo An Peppe Giulio Pelligra / David Ferri Durà Silvio Alessandro Luongo / Marcello Rosiello Contadini Antonio Della Santa, Nicola Vocaturo con la partecipazione dell’attrice Elena Croce direttore Jonathan Webb maestro del coro Marco Bargagna maestro del coro voci bianche Marisol Carballo regia Alessio Pizzech note a margine Maurizio Costanzo scene Michele Ricciarini costumi Cristina Aceti light designer Valerio Alfieri Coro della Toscana - Coro Voci Bianche Fondazione Goldoni ORT Orchestra della Toscana Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno In coproduzione con Teatro del Giglio di Lucca, Teatro di Pisa e Teatro Comunale “L. Pavarotti” di Modena Ruggiero Leoncavallo (Napoli, 23 aprile 1857 – Montecatini Terme, 9 agosto 1919) Livorno, Teatro Goldoni - sabato 5 e domenica 6 febbraio Modena, Teatro Comunale “L. Pavarotti” - sabato 12 e domenica 13 febbraio Lucca, Teatro del Giglio - sabato 22 e domenica 23 ottobre Pisa, Teatro Verdi - sabato 29 e domenica 30 ottobre Cavalleria rusticana Melodramma in un atto libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci dall’omonima novella di Giovanni Verga musica Pietro Mascagni Edizioni Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano Personaggi e interpreti Santuzza Raffaella Angeletti / Elena Pankratova Turiddu Javier Palacios / Mickael Spadaccini Alfio Anooshah Golesorkhi / Leo An Mamma Lucia Kamelia Kader / Irene Bottaro Lola Ozge Kalelioglu / Chiara Mattioli Pagliacci Dramma in un prologo e due atti libretto e musica Ruggiero Leoncavallo Edizioni Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano Personaggi e interpreti Nedda Raffaella Angeletti / Esther Andaloro Canio Ernesto Grisales / Mickael Spadaccini Tonio Anooshah Golesorkhi / Leo An Peppe Giulio Pelligra / David Ferri Durà Silvio Alessandro Luongo / Marcello Rosiello Contadini Antonio Della Santa, Nicola Vocaturo con la partecipazione dell’attrice Elena Croce - gli artisti si alterneranno nelle recite - direttore Jonathan Webb maestro del coro Marco Bargagna maestro del coro voci bianche Marisol Carballo regia Alessio Pizzech note a margine Maurizio Costanzo scene Michele Ricciarini costumi Cristina Aceti light designer Valerio Alfieri Coro della Toscana - Coro Voci Bianche Fondazione Goldoni ORT Orchestra della Toscana Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno In coproduzione con Teatro del Giglio di Lucca, Teatro di Pisa e Teatro Comunale “L. Pavarotti” di Modena Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Regione Toscana Fondazione Teatro della Città di Livorno Carlo Goldoni Teatro di Tradizione Soci Fondatori Comune di Livorno Provincia di Livorno Si ringrazia Fondazione Cassa di Risparmi di Livorno Fondazione Teatro della Città di Livorno Carlo Goldoni Soci Partecipanti Sostenitori SPIL S.p.A. CNA Associazione Provinciale di Livorno Porto di Livorno 2000 s.r.l. Vincenzo Capanna s.a.s. Menicagli Centro Pianoforti Apige Servizi s.a.s. Scorpio s.r.l. Ordinari Alpha Team s.r.l. British Schools of English (Livorno) Whitehead Alenia s.p.a. Aderenti Debatte Otello s.r.l. Braccini & Cardini s.r.l. Zaki Design Fondazione Teatro della Città di Livorno Carlo Goldoni – Teatro di Tradizione Consiglio di indirizzo Presidente Alessandro Cosimi Sindaco di Livorno Consiglieri Mario Tredici Comune di Livorno Fausto Bonsignori Provincia di Livorno Roberto Nardi Camera di Commercio di Livorno Marco Lami Unicoop Tirreno Guido Asti Porto Livorno 2000 Giovanni Capanna Capanna Group Marco Valtriani CNA Livorno Consiglio di Amministrazione Presidente Marco Bertini Consiglieri Aldo Bassoni, Gino Baldi, Alessandro Giovannini Direttore Amministrativo Vittorio Carelli Comitato Scientifico Lorenzo Cuccu Direttore Dip. CMT di Pisa Marco De Marinis Direttore DAMS di Bologna Roberto Tessari Direttore DAMS di Torino Franco Carratori Direttore Artistico Premio Ciampi Guia Farinelli Comunione Eredi Mascagni Collegio dei Revisori dei Conti Presidente Erica Ruscelli Fabrizio Giusti, Riccardo Sbano Fondazione Teatro della Città di Livorno Carlo Goldoni – Teatro di Tradizione Presidente Alessandro Cosimi Sindaco di Livorno Presidente CdA Marco Bertini Direttore Amministrativo Vittorio Carelli Direttore Artistico Alberto Paloscia Coordinatore Area Affari Generali, Marketing e Comunicazione Andrea Pardini Coordinatore Area Attività e Organizzazione Teatrale Isabella Bartolini Ufficio Presidenza Michela Citi, Patrizia Santeramo Area Affari Generali, Marketing e Comunicazione Ufficio Stampa, Grafica, CED Vito Tota (capo Ufficio Stampa), Federico Barsacchi Sara Martini, Alessandro Vangi Box Office Lara Berni, Simona Picardi Ragioneria, Bilancio, Amministrazione personale Laura Demi (responsabile), Paola Biondi, Paolo Biondi, Paola Maccheroni Area Attività e Organizzazione Teatrale Progetti speciali, Programmazione, Scuole Raffaella Mori (responsabile), Silvia Doretti, Carlo Da Prato Concessioni, Produzioni, Logistica Michela Fiorindi, Maria Rita Laterra, Laura Tamberi, Fabio Tognetti Consulenti Francesco Torrigiani, Fulvio Venturi Collaborazioni Daniele Donatini, Antonio Lotti, Paola Martelli, Franco Micieli, Daniele Salvini, Sergio Valtriani Renato Natali, Veglione al Teatro Goldoni. 1918 (part.). Olio su tela. (Firenze, Collezione privata) Indice 15 Cavalleria rusticana e Pagliacci Pietro Mascagni e Ruggiero Leoncavallo di Marco Bertini Presidente CdA Fondazione Teatro Goldoni 17 2011. Cavalleria rusticana e Pagliacci come specchio dell’universo femminile di Alberto Paloscia Direttore artistico Stagione Lirica della Fondazione Teatro Goldoni 21 Note a margine di Maurizio Costanzo 23 Tra modernità e tradizione. Riflessioni sulla drammaturgia e sulla struttura musicale di Cavalleria rusticana di Alberto Paloscia Direttore artistico Stagione Lirica della Fondazione Teatro Goldoni 37 Cavalleria e Pagliacci, centoventi anni d’applausi e di passioni e Cronologia delle rappresentazioni al Teatro Goldoni di Livorno di Fulvio Venturi Consulente artistico della Fondazione Teatro Goldoni 45 Appunti di lavoro per Cavalleria rusticana di Alessio Pizzech Regista Cavalleria rusticana 47 La vicenda 51 Il libretto 61 Ruggiero Leoncavallo e il verismo ‘straniato’ Introduzione a Pagliacci di Alberto Paloscia Direttore artistico Stagione Lirica della Fondazione Teatro Goldoni 71 Note di regia per Pagliacci di Alessio Pizzech Regista Pagliacci 73 La vicenda 75 Il libretto 92 Produzione Sabato 24 gennaio 2004. Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi autografa il manifesto di Cavalleria rusticana in occasione dell’inaugurazione del Teatro Goldoni (Stagione Lirica 2004). Marco Bertini Presidente CdA Fondazione Teatro Goldoni Cavalleria rusticana e Pagliacci Pietro Mascagni e Ruggiero Leoncavallo Certamente è riduttivo che si ricordino due importanti compositori, sebbene di diversa rilevanza tra loro, soprattutto per le loro opere più acclamate, ma così accade ed è accaduto. Leoncavallo trae ispirazione da Cavalleria, un gran successo di Mascagni di soli due anni prima, e compone Pagliacci, senza certo pensare che andranno a rappresentare proprio con la stessa il più celebrato dittico a livello internazionale oltre 100 anni dopo. Anche coloro che non frequentano la lirica hanno sentito parlare magari una volta di Cavalleria e Pagliacci, pur se non sia così abituale la loro messa in scena. Anche per questo, insieme alla Regione Toscana ed ai Teatri di Tradizione Pisa, Lucca e Modena abbiamo voluto off rire questa produzione. Non è solo per raccontare storie attraverso il melodramma, un’arte che ha reso l’Italia famosa nel mondo ed è, tuttora, la nostra più raffinata “ambasciatrice”. Riteniamo che produrre lirica, oggi, significa anche non essere ridotti ad amare la mediocrità. Nelle pagine che seguono troverete interessanti riflessioni accanto a spigolature, che vi consentiranno di poter apprezzare a pieno questi due capolavori, che presentati insieme ci hanno consentito di parlare del nostro presente e del nostro futuro, accompagnati per mano da sublimi melodie. Noi siamo dell’idea che la cura del nostro essere sia assicurare il bene del nostro corpo, ma siamo altrettanto convinti che nell’esistenza di ciascuno di noi saranno la nostra mente, il nostro animo a rappresentare la riuscita della nostra vita nella consapevolezza e nella conoscenza: quando la bellezza del corpo sfiorisce noi potremo sempre più abbeverarci alle fonti dell’arte e del sapere. Come sì può affermare che con la cultura non si mangia! Essa è vita, è ciò che ci permette di aff rancarci dalla mediocrità per costruire comunità sodali. Ma la cultura e di essa gli spettacoli dal vivo, prima tra tutti il più complesso la lirica, rappresentano oltretutto una risorsa fondamentale sotto il profilo economico, una grande industria che non produce scorie e che coinvolge le più diverse professioni artistiche, artigiane, terziarie e conferisce ai nostri agglomerati urbani, solitamente, il loro valore aggiunto. 15 La locandina per la rappresentazione di Cavalleria rusticana al Regio Teatro Goldoni, 1935 Alberto Paloscia Direttore artistico Stagione Lirica e Progetto Mascagni della Fondazione Teatro Goldoni Cavalleria rusticana e Pagliacci come specchio dell’universo femminile Il ‘filo rosso’ che caratterizza questa nuova produzione di Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo – ‘dittico’ indissolubile e di assoluto riferimento nella nascita del filone cosiddetto “verista” all’interno del melodramma nazionale postunitario che torna al Teatro Goldoni e nei cartelloni operistici livornesi dopo quasi trent’anni di assenza - è l’assoluto rilievo protagonistico della figura femminile. Una donna forte, determinata, padrona delle proprie azioni e del proprio destino, e per questo emarginata dal conformismo della comunità e della collettività che la circondano la Santuzza di Cavalleria; vittima invece del proprio destino e della violenza del maschio la Nedda di Pagliacci, che paga con la vita la sua smania di libertà e di indipendenza. Un tema, quella dell’emarginazione e della violenza a cui è soggetto l’universo femminile, che dagli anni Novanta dell’Ottocento – l’epoca della rivoluzione industriale e della ricostruzione dell’Italia unita in cui le due opere veriste – entrambe ambientate in un’arcaica realtà mediterranea della Sicilia e Calabria, furono composte – che continua ripetersi ai nostri giorni: lo confermano i riti di violenza, di stupro e crudeltà che tuttora si consumano non solo nel Sud dell’Italia, e che il ‘prologo’ di Maurizio Costanzo mette in evidenza con disincantata lucidità. Le affinità che legano i due titoli si invereranno sulla scena attraverso la diversa impostazione delle due ‘riletture’ registiche firmate dal regista Alessio Pizzech: asciutta, tragica, inesorabile come una sacra rappresentazione quella di Cavalleria rusticana; sospesa fra gli umori surreali del cinema felliniano e la poetica ‘crudezza’ di certo Pasolini quella di Pagliacci. L’idea registica di Cavalleria rusticana manterrà i luoghi deputati del libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci: l’osteria, la chiesa, la piazza, ma il tutto immerso nella cupezza di una Sicilia terremotata – come non pensare al Visconti della Terra trema, sperimentale capolavoro della fase ‘neo-realistica’ del grande cineasta milanese – in cui spetta alle luci, ai fondali proiettati, alla componente multimediale evocare gli aspetti naturalistici – il sole, il calore mediterraneo e il mare -, evitando qualsiasi tentazione bozzettistica. La dimensione di sacra rappresentazione ‘tragica’ è accentuata 17 dal ruolo protagonistico di Santuzza: l’esclusa, l’emarginata, la “scomunicata” - come recitano tanto la pièce teatrale di Verga quanto il libretto musicato da Mascagni, che di quella pièce è trasposizione fedelissima. Santuzza che non partecipa alle gioie quotidiane della collettività rappresentate dal coro, il lavoro, la vita nei campi, la vita di coppia, il tutto realizzato in questa messinscena nella ritualità del matrimonio, cantato a pieni polmoni nel Coro iniziale “Gli aranci olezzano”, autentica apoteosi di quell’ ‘isola felice’ rappresentata dalla vita coniugale da cui la ‘peccatrice’ Santuzza è obbligatoriamente esclusa, che vive in un propria angosciosa solitudine di reietta: “fate come il Signore a Maddalena” chiede disperatamente a mamma Lucia, paragonandosi alla prostituta perdonata dal Cristo. Ma è pure l’emarginata Santuzza ad assumere il ruolo del ‘celebrante’ in un rito – quello della Pasqua – il cui tema è quello del sacrificio e della resurrezione del Salvatore; di qui quel connubio tra tragedia mediterranea, rito scarificale e solennità religiosa che contraddistingue il capolavoro di Mascagni e che diviene il punto di partenza di questa nuova lettura registica. L’aspetto rituale di un’ineluttabile fatalità verranno messi in evidenza dalla dimensione atemporale dei costumi, non riconducibili all’oleografia della tradizione, ma all’inesorabile ripetizione di un rito. Affatto diversa la dimensione visiva di Pagliacci, l’opera in cui la temperatura naturalistica inaugurata dal modello di Cavalleria viene immersa dal napoletano Leoncavallo nell’atmosfera del “metateatro”, della finzione, della maschera insieme malinconica e grottesca: tutte tematiche che saranno care alla poetica delle avanguardie storiche del Novecento, da Pirandello all’espressionismo, dalle avanguardie pittoriche francesi al simbolismo, al neoclassicismo di Stravinsky e a Picasso, fino al cinema di Federico Fellini (si pensi all’esperienza del mondo circense e clownesco dipinto nel 1954 con malinconica poesia nella Strada). Qui la connotazione temporale sarà molto marcata rispetto all’arcaica astrattezza di Cavalleria: il riferimento sarà quello della Dolce vita di Fellini (1960), con una Nedda divisa tra la mortificante routine matrimoniale impostale dal violento e brutale ‘capocomico’ Canio e le seduzioni di un Silvio fascinoso come un giovane Marcello Mastroianni. Tutta la prima parte dell’opera, quella in cui si narrano i fatti nudi e crudi di gelosia e tradimento, vedrà l’azione scenica divisa tra palcoscenico e platea, con la caduta di quella “quarta parete” che si ricostituirà invece nella parte finale dell’opera, quella della “commedia” e del “teatro nel teatro”. In questa sezione dell’opera, la più avvincente, moderna e ‘pirandelliana’, nella quale i confini tra realtà e finzione si fanno sempre più labili fino a sconfinare nel tragico fatto di cronaca nera, le movenze settecentesche delle maschere saranno filtrate attraverso le marionette immortalate da Pasolini in Cosa sono le nuvole (1967); nell’allucinata immagine finale di una Nedda trucidata e appesa a un filo si concretizzerà l’omaggio a uno dei cantori più lucidi e tragici della cultura novecentesca. Questo il segno di quest’attesa riproposta del Teatro Goldoni: una ‘rilettura’ dei due capolavori della “Giovine Scuola Italiana” che senza tradire le ragioni della musica vuole mettere in piena evidenza l’attualità e la modernità di Cavalleria rusticana e Pagliacci. 18 L’accurato lavoro di drammaturgia effettuato da Pizzech con i suoi collaboratori – lo scenografo Michele Ricciarini e la costumista Cristina Aceti – è pienamente in linea con l’accesa e lucida temperatura novecentesca che caratterizza la visione del direttore d’orchestra Jonathan Webb, prestigioso musicista britannico che ama e conosce l’opera italiana – dei lavori di Mascagni e Leoncavallo è già stato interprete presso istituzioni prestigiose quali la New Israeli Opera di Tel Aviv e il Teatro Sao Carlos di Lisbona – senza lasciarsi tentare dalle certezze della routine. Siamo lieti di poter riunire in questa produzione i due artefici – Webb e Pizzech appunto – di quella memorabile edizione di Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Kurt Weill e Brecht che nel 2009 ha rappresentato uno dei prodotti più felici del Progetto Opera Studio e che ha visto la nostra Fondazione nel ruolo di teatro ‘capofila’. Così come siamo lieti e orgogliosi di avere assemblato due compagnie di canto di pari livello, dove si amalgamano le esperienze di artisti emergenti del panorama internazionali, giovani in netta ascesa ed elementi selezionati attraverso il Progetto Opera Studio dei Teatri del circuito toscano, le audizioni per voci mascagnane e il Cantiere Lirico, proseguendo nella tendenza a scoprire e valorizzare giovani talenti vocali propria del Teatro Goldoni. Naturalmente il forte segno ‘al femminile’ della produzione è accentuato dalla scelta delle protagoniste che si alterneranno nel corso delle recite livornesi e di quelle dei teatri coproduttori di Lucca, Pisa e Modena. Una grande sfida è quella offerta al soprano Raffaella Angeletti, vecchia conoscenza del Teatro di Livorno nonché acclamata protagonista della fortunata produzione di Iris allestita nel 2006, che potrà mettere a frutto le sue attitudini di cantante-attrice cimentandosi nella stessa serata sia nelle vesti di Santuzza che in quelle di Nedda. Molto atteso è il debutto a Livorno di un’altra voce importante, quella del soprano drammatico russo Elena Pankratova, segnalatasi qualche anno fa nelle audizioni per voci mascagnane organizzate regolarmente dal Teatro Goldoni e trionfatrice della produzione della Donna senz’ombra di Richard Strauss che ha inaugurato il Maggio Musicale Fiorentino del 2010 con Zubin Mehta sul podio; Pankratova sarà Santuzza, mentre nella stessa occasione il ruolo di Nedda sarà affidato al soprano Esther Andaloro, ‘scoperta’ dal Progetto Opera Studio con il Paride ed Elena di Gluck realizzato nel 2008 e attualmente affermatasi come una delle più apprezzate e giovani interpreti di Pagliacci. La nostra speranza è che il ritorno al Teatro Goldoni dell’opera prima di Mascagni accanto alla sua inseparabile ‘gemella’ creata da Leoncavallo – quasi in contemporanea con la produzione del ‘dittico’ verista in scena al Teatro alla Scala di Milano e alla ripresa del Teatro Bellini di Catania – ridoni una nuova linfa e una nuova vitalità ai due titoli più ‘nazionalpopolari’ nati dopo la nostra unità nazionale trasmettendole al pubblico non come “pezzi da museo” bensì come due capolavori degni di essere riscoperti e amati dalle giovani generazioni. 19 Manifesto delle prime manifestazioni al Teatro Costanzi di Roma (Livorno, collezione prima) Maurizio Costanzo Note a margine Roma, 23 agosto 2010 Signore e Signori buonasera, state per assistere ad una rappresentazione di Cavalleria rusticana e Pagliacci che, come spesso è accaduto, vengono rappresentate insieme, in una stessa serata. Ed è giusto, non foss’altro perché gli autori hanno colto nel raccontare il rapporto fra uomo e donna, quello che per almeno un altro secolo si sarebbe tramandato più o meno con analoghe modalità. Quel che dice Santuzza in Cavalleria o il comportamento di Nedda e Canio in Pagliacci, fotografano la realtà del rapporto uomo- donna quando siamo a cavallo fra l’800 e il 900. La prima rappresentazione di Cavalleria fù nel maggio del 1890 mentre la prima di Pagliacci, sempre a maggio, ma del 1892. Ebbene, nella primavera/estate del 2010, in Italia il rapporto uomo-donna ha avuto momenti di grande esasperazione con un ripetersi di omicidi dell’uomo nei confronti della donna ma con la variante del suicidio, a seguire, dell’uomo. Trascorsi secoli, in parte cambiati i costumi, le motivazioni di fondo che suggerirono a Giovanni Verga il racconto che poi ispirò Cavalleria rusticana, sono rimasti gli stessi. Cambiano, caso mai, alcune motivazioni successive ma non quelle di partenza. L’uomo, da sempre, ritiene sua prerogativa assoluta, imposta da non si sa bene quale legge divina, di avere dominio assoluto sulla propria donna o su quella che lui ha scelto essser tale, ma ciò non vuol dire che non possa, se lo ritiene opportuno e confacente, orientarsi anche altrove. Sono evidenti le mancate promesse degli uomini specie in Cavalleria. È evidente in Pagliacci la gelosia cieca dell’uomo che ritiene un aff ronto il fatto che in una finzione teatrale la propria donna in qualche modo amoreggi con un estraneo. Di qui i drammi. Nel 2010, fatte salve queste motivazioni, possiamo aggiungere la, chiamiamola nevrastenia, dell’uomo che reagisce malamente a possibili diversi interessi della moglie in quanto stressato da problematiche economiche riguardanti il posto di lavoro. Ripeto, nella primavera del 2010 in Italia, abbiamo assistito ad una vera e propria mattanza che ha sorpreso in quanto non essendo più alla fine dell’800 non si poteva supporre che questa diversa esasperazione portasse ad armare la mano dell’uomo. Ci si può chiedere: ma è sempre colpa dell’uomo? Probabilmente no. Probabilmente ci sono comportamenti femminili che possono indurre un uomo particolarmente labile a reazioni incontrollabili, ma è pur vero che quando decadono altre certezze, altre garanzie di vita ecco che riaffiorano prepotenti i sentimenti 21 antichi che parlano di possesso dell’uno sull’altra. Difficile ripetere ancora una volta che nessuno possiede nessuno. È così e lo sappiamo tutti e lo sapete anche voi che state per assistere a questo spettacolo. Ma è vero che senza queste reazioni ancestrali, probabilmente il destino ci avrebbe privato di due opere come Cavalleria rusticana e Pagliacci. Infine, un’ultima considerazione ci porta a dire che dopo decenni, la natura di celti uomini come di certe donne, non rimane minimamente scalfita dal passare del tempo. Bene, è il momento che il sipario si apra e a voi buono spettacolo! Gemma Bellincioni (Santuzza) e Roberto Stagno (Turiddu) primi interpreti di Cavalleria rusticana 22 Alberto Paloscia Direttore artistico Stagione Lirica e Progetto Mascagni della Fondazione Teatro Goldoni Tra modernità e tradizione. Riflessioni sulla drammaturgia e sulla struttura musicale di Cavalleria rusticana [...] la musica deve essere la espressione della parola. Pietro Mascagni, 1889 Qualunque genere per me è buono, purché ci sia verità, passione e soprattutto che ci sia il dramma, il dramma forte. Pietro Mascagni, 1890 La musica di Cavalleria rivela senza dubbio un talento fresco, energico, sincero. [...] Una forte sensualità ed un temperamento passionale arroventano l’opera, che dall’inizio alla fine avvince ed emoziona. Eduard Hanslick, 1892 Premessa: l’opera verista come fenomeno culturale di “massa” … da quel punto l’arte fu fatta di colpi di coltello e di violinate, di camorra e di cicalecci, di bestemmie e di perorazioni. Sotto la pioggia del successo i genii sbocciarono come funghi per le felici terre del paese dove fiorisce il luogo comune. Sfilarono i duelli, e le feste a mare, e i natali di sangue, e le pasque di vendetta, tutto il brigantaggio letterario che dieci anni innanzi aveva appestato la novellistica italiana. E l’esempio fu contagioso. Tutti i capi banda smessi, tutti i dilettanti di trombone colpiti dall’inguaribile libidine della creazione, tutti i compositori di mazurche, assaliti dalla frenesia della gloria, si credettero geni, chiamati a illuminare il mondo; e inalberarono cappelli a cencio, e scriminature apollinee, e si atteggiarono in pose ortiche, e scrissero libretti, e sbottonarono teorie. [...]1 23 Così un intellettuale ‘wagneriano’ come il Thovez rievocava, con toni aggressivamente polemici, l’autentico boom che caratterizzò la vita musicale e teatrale degli anni Novanta dell’Ottocento, ovvero l’avvento dell’opera verista e del gruppo di compositori etichettato come “Giovine Scuola Italiana”. L’avanzata dei vari Mascagni, Puccini, Leoncavallo, Giordano e Cilèa - questi i più autorevoli esponenti della nuova generazione - parte dalla trionfale affermazione dell’atto unico Cavalleria rusticana di Mascagni (libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci dall’omonima pièce teatrale di Giovanni Verga) al Teatro Costanzi di Roma nel maggio del 1890 e vede il suo momento di consolidamento con il successo conseguito al Teatro Dal Verme di Milano esattamente due anni dopo dai due brevi atti di Pagliacci di Leoncavallo (su libretto proprio). Da tale consolidamento sarebbero partite le successive affermazioni di Puccini con Manon Lescaut (1893) e con la sua trilogia ‘popolare’ (La bohéme 1896; Tosca 1900; Madama Butterfly 1904), Giordano (Andrea Chenier 1896; Fedora 1898) e Cilèa (L’Arlesiana 1892; Adriana Lecouvreur 1901) e la fortuna di un filone di melodramma ‘popolare’ che avrebbe protratto un dominio pressoché incontrastato fino agli anni Dieci del Novecento, ovvero fino all’incombere sempre più pressante di ambizioni e velleità ‘culturalistiche’ nel panorama musicale italiano (vedi l’interesse per la musica antica e la riscoperta del patrimonio musicale italiano rinascimentale e classico incoraggiato dai letterati ‘musicofili’ come D’Annunzio e dalla nuova generazione di compositori incarnata dai vari Respighi, Pizzetti, Casella e Malipiero). L’occasione del rientro sul palcoscenico del Teatro Goldoni dopo quasi un trentennio di assenza dei due titoli ‘capisaldo’ del repertorio verista - Cavalleria e Pagliacci -, ci consente quindi di fare una rapida ricognizione storica sulla questione del verismo in musica, incoraggiati anche dall’attuale fase di rilancio della “Giovine Scuola Italiana” tanto in sede critica quanto in sede esecutiva. Ci pare che il fenomeno dell’opera verista, oggi che si sono attutite, almeno in parte, tante prevenzioni e ostilità da parte della critica togata, si imponga a un approfondimento più sereno e obiettivo proprio per una sua valenza storica ben precisa, di cui il dittico Cavalleria-Pagliacci incarna l’essenza più profonda: quella di avere riportato il melodramma italiano postunitario, dopo il ventennio di esperimenti iniziati dal 1870 - con l’aggiornamento ‘europeistico’ del nostro teatro d’opera attuato dai letterati e musicisti gravitanti sulla Scapigliatura milanese (Boito, Faccio, Catalani) e incline ad abbracciare le diverse lezioni del grand-opéra francese, del sinfonismo romantico d’oltralpe e del dramma musicale wagneriano -, alla sua dimensione di grande spettacolo ‘popolare’, in grado di aggregare intorno a sé le fasce più vaste di pubblico. È il momento in cui l’opera, interrotte momentaneamente le complicazioni intellettualistiche dei musicisti dell’età umbertina - dalla concezione ‘totalizzante’, incerta tra meyerbeerismo e wagnerismo, del Mefistofele dì Boito al gesticolante e bozzettistico impianto della “grande opera”, o grand-opéra all’italiana, incarnato dalla Gioconda di Ponchielli, dal nordicismo umbratile di Edmea e Loreley di Catalani alle 24 introspezioni decadentistiche dell’ultimo Verdi, quello della seconda versione del Boccanegra, di Don Carlos, Aida e Otello -, torna a recuperare quel rapporto stretto con il pubblico che aveva intrattenuto negli anni dell’epopea risorgimentale. Sulla scia del dittico ‘verista’, quindi, il teatro d’opera abbandona - almeno fino al primo decennio del Novecento, prima che l’avvento della moda del dannunzianesimo spinga il melodramma ad avventurarsi verso le ambizioni del “teatro di poesia”2 - l’inclinazione a configurarsi come spettacolo d’élite. “Le spalle erano quindi voltate definitivamente alla forma che l’ansia di modernità aveva preso negli anni successivi all’unità d’Italia, cioè al programmatico rifiuto del rapporto di confidenza col pubblico, sacrificato a favore dell’ambizione ad elevarsi verso obiettivi espressivi che lo selezionavano in base alla sua capacità di rinunciare al diritto di manifestare proprie esigenze e di adeguarsi al modello individualisticamente fondato dall’autore, il quale non era tenuto ad ottenere la certezza del consenso per motivare la sua azione. Escluso in certo qual modo dal diritto di pronunciarsi in una situazione di orientamenti instabili, dove solo l’attesa della gratificazione del capolavoro giustificava la paziente sottomissione a modi più ammirati che amati, era prevedibile sarebbe tornato a riaffermare le sue ragioni all’apparire di un’opera deliberatamente impegnata a sollecitarne le emozioni e a suscitarvi immedesimazione nei fatti rappresentati” (Carlo Piccardi). L’opera verista si impone quindi come fenomeno ‘di mercato’, legato non solo alle facoltà creative del compositore e alle capacità di immedesimazione di un pubblico ormai incarnatosi nella media borghesia, ma addirittura dominato dalla sempre più invadente figura dell’editore, dalla tutela del diritto d’autore e dalla nascita di un vero e proprio ‘consumismo’ del prodotto musicale di successo. Tutto questo è stato messo in evidenza con grande lucidità da uno degli studiosi italiani che più hanno appuntato il loro intesse sui rapporti intrattenuti dal melodramma della “Giovine Scuola” con gli interessi sociali ed economici dell’Italia dell’ultimo decennio dell’Ottocento e dei primo Novecento, Piero Santi4, il quale ha sottolineato come l’opera verista, pur ereditandone certe componenti linguistiche nonché il successo popolare, rappresenti un autentico momento di crisi, di transizione e di dissoluzione rispetto alla solidità etica e alla coesione dell’opera romantica: […] dell’istituto del melodramma romantico si ereditano, nel periodo in esame, gli ingredienti, ma con perdita della loro congruità, ossia della organicità in cui la società liberale specchiava il suo mondo di valori. Il melodramma romantico si presentava come un tutto omogeneo, in cui vocalità, melodia, accompagnamento sinfonico, libretto, intrigo romanzesco, gestualità retorica si trovavano reciprocamente integrati e armonicamente organizzati, corrispondendo a una realtà saldamente posseduta, materialmente e moralmente ben assodata nei suoi valori, che al suo centro poneva l’idea del patrimonio: non a caso a figura patriarcale di Verdi, proprietaria e paterna insieme, ne sarà elevata a simbolo. Invece il melodramma fiorito tra il 1880 e il 1910 grosso modo chiamato verista o naturalista, si trova a manipolare i ruderi di quel mondo la cui coerenza viene disfacendosi, interpretando l’imbarazzo di una sovranità culturale che non dispone d’altro che dei resti dello smantellamento e di quanto vi ha concorso: nella fattispecie delle suggestioni dell’opéra-lyrique e del dramma wagneriano. I costituenti formali 25 del melodramma liberale tendono, nel nuovo, a sviluppare la separazione che esprime la perdita dell’omogeneità sostanziale, mediante pronunciamenti autonomi: la melodia, abbandonata l’interna regolarità fraseologica, si riduce a misura nucleare o esorbita fuor d’ogni modulo, l’orchestra si rende ricercata, reclamando per sé un interesse specifico, la vocalità va per conto suo, off rendosi per se stessa, il libretto, conservando una quantità di scorie romantiche, diventa ibrido e mescola livelli di lettura molto diversi, l’intrigo perde la sua consequenzialità, puranco farraginosa, e diventa dispersivo indugiando su particolari accessori, la gestualità si mantiene retorica, ma si mischia a comportamenti francamente prosaici5 Concludiamo questa digressione introduttiva sottolineando un’altra importante novità sancita dall’avvento del verismo operistico: il ripetersi con qualche decennio di ritardo di quanto si era perentoriamente affermato nella Francia del Secondo Impero con il successo dei generi dell’opéra-lyrique del drame lyrique incarnati dalla produzione di Thomas, Gounod e Massenet, ovvero la divulgazione, attraverso il teatro d’opera, di alcuni importanti ‘classici’ della letteratura europea. Come le scene operistiche parigine avevano riplasmato, a uso e consumo della borghesia, i grandi capolavori di Shakespeare (Hamlet di Thomas, Roméo et Juliette di Gounod), Goethe (Faust di Gounod, Mignon di Thomas, Werther di Massenet) e Prévost (Manon di Massenet), così l’avvento della “Giovine Scuola” diffonderà, nella loro versione operistica, la narrativa e il teatro di Verga (Cavalleria rusticana di Mascagni), Murger (le Bohème di Puccini e di Leoncavallo), Sardou (Tosca di Puccini, Fedora di Giordano), Tolstoj (Risurrezione di Alfano) e ancora Prévost (Manon Lescaut di Puccini, restituita, a detta dell’autore, con passionalità “disperata” tutta italiana e non “incipriata” alla francese), oltre a tanti esponenti della letteratura minore, come Belasco (Madama Butterfly e La fanciulla del West di Puccini). È questa vocazione divulgativa, ci pare, un altro aspetto fondamentale che garantisce al verismo operistico italiano una forte incidenza culturale all’interno del tessuto sociale dell’Italia unita: anche se il teatro musicale verista incarnato da Cavalleria e Pagliacci, pur non disdegnando gli ammiccamenti al folklore, al patrimonio musicale popolaresco e alle inflessioni di un vero e proprio ‘vernacolo musicale’6 pare trascurare le problematiche sociali esplorate dal verismo letterario di Verga e di Capuana e dalla coeva opera naturalista francese di Charpentier e Bruneau, la quale vede il ‘caposcuola’ della narrativa naturalista, Èmile Zola, impegnato anche nelle vesti di librettista. L’opera verista italiana punta essenzialmente sul realismo delle passioni e dei sentimenti, confinando l’assunto sociale e l’ambiente in cui la vicenda si svolge al ruolo di fondale ‘pittorico’ o di cornice ‘esotica’. “La ragione per cui né i libretti delle opere veriste né la loro drammaturgia concordano con gli obiettivi e le tendenze del verismo letterario - scrive Egon Voss - sta soprattutto nel fatto che essi sono vincolati alla tradizione operistica. [...] Caratteristica dell’opera è la concentrazione sui moti dell’animo, mentre le motivazioni, le deduzioni e i collegamenti vengono trascurati [...] la [...] esigenza di Verga di uno sviluppo logico delle passioni e delle azioni che portano alla catastrofe contrasta con la tradizione dell’opera, a cui è sempre importato solo lo svolgimento dinamico della 26 catastrofe. Anche nelle opere veriste il moto dell’animo è la categoria fondamentale; le sue cause e le sue premesse sono di secondaria importanza. Ciò spiega perché nelle opere, anche in quelle veriste, gli avvenimenti e il loro corso appaiano tanto spesso fatali, ineluttabili, e non conseguenza di altri fatti ed eventi spiegabili razionalmente in modo che se ne possa immaginare un possibile, diverso svolgimento o un diverso esito. La forza del destino non è solo il titolo di un’opera di Verdi, ma anche la formulazione di una caratteristica tipica dell’opera italiana. Essa è valevole, senza riserve, anche per l’opera verista”7. Da Verga a Mascagni Una vera e propria comunanza d’intenti e una sorta di parallelismo dei rispettivi itinerari creativi sembra caratterizzare le esperienze dei due fondatori del naturalismo italiano, sia letterario che musicale: Giovanni Verga e Pietro Mascagni. Soltanto sei anni dividono la trionfale affermazione del teatro verista nostrano con le “scene popolari” di Verga Cavalleria rusticana, tratte dallo scrittore siciliano dall’omonima novella pubblicata nel 1880 nella raccolta Vita dei campi e rappresentate dalla compagnia di Cesare Rossi al Teatro Carignano di Torino il 13 gennaio 1884, protagonisti una giovane ma già carismatica Eleonora Duse e Flavio Andò, e il clamoroso avvio della “Giovine Scuola Italiana” con l’atto unico mascagnano, risultato vincitore del Concorso Sonzogno e tenuto a battesimo, con successo a dir poco delirante, sul palcoscenico del Teatro Costanzi di Roma - istituzione che da quella storica serata sarà destinata a divenire un’autentica ‘roccaforte’ per il musicista livornese - il 17 maggio 1890: direttore Leopoldo Mugnone, ‘mattatori’ la Santuzza di Gemma Bellincioni e il Turiddu di Roberto Stagno, un duo d’incontenibile forza canora cui sarebbero stati legati i primi successi del nuovo corso dell’opera italiana fin de siècle. Il Coro durante le prove di Cavalleria rusticana 27 Lo stesso destino sembra accomunare i due lavori anche nella reazioni entusiastiche, da autentico coup de foudre, che essi seppero suscitare nel pubblico fin dalle prime apparizioni8. Per entrambi i successi conta un’unica essenziale motivazione, al di là dei rispettivi meriti degli autori: la clamorosa rottura, tanto nella Cavalleria teatrale quanto nella sua incarnazione musicale, nei confronti dell’idealismo di stampo romantico (manzoniano e verdiano, per indicare i principali punti di riferimento della cultura italiana ottocentesca) e l’utilizzazione di un fatto di cronaca nudo e crudo, di una tranche de vie basata su sentimenti, impulsi, conflitti sanguigni ed elementari e restituita come in presa diretta, en plen air. Il tutto regolato da una sorta di arcaica e ineluttabile fatalità, da un destino implacabile che sovrasta le passioni istintive e spesso incontrollate dei personaggi principali conferendo ad ambedue i lavori il respiro di un’autentica tragedia mediterranea. Ma non sono solo questi i punti di contatto tra la Cavalleria teatrale e quella operistica. La stessa magniloquenza, la stessa foga straripante e ossessiva, la stessa cantabilità sfogata che i più autorevoli studiosi hanno riconosciuto nell’atto unico di Verga - riscontrandovi un sapiente equilibrio tra la cornice ambientale, il quadro collettivo e i ‘primi piani’ passionali dei protagonisti - sembra contrapporre i protagonisti di Cavalleria rusticana di Mascagni in una tragica incomunicabilità e in un granitico isolamento. Ancora una volta, lo si può toccare con mano: le due esperienze parallele coincidono e pervengono allo stesso tipo di concentrazione e asciuttezza drammaturgica9. Cavalleria rusticana durante le prove 28 Stile musicale e drammaturgia Entrambe le Cavallerie, inoltre, partecipano a una radicale e sconvolgente semplificazione dei mezzi espressivi, perseguita senza rinunciare ad alcune risorse e convenzioni del patrimonio teatrale e musicale preesistente. Anche per l’opera di Mascagni si potrebbe ripetere quanto aveva affermato Giuseppe Giacosa presentando al pubblico torinese la pièce di Verga sulle colonne della “Gazzetta Piemontese”, alla vigilia della première al Carignano: “i congegni della vita vi sono assai meno complicati, ed è quindi meno temerario di tentare di metterli in azione rinunziando ai vieti amminicoli della tradizione”. Nelle parole di Giacosa c’è in sostanza la prefigurazione di quello che ha scritto Guido Salvetti a proposito della Cavalleria mascagnana in una delle più intelligenti ricognizioni sulla produzione teatrale del musicista livornese, definendola il momento della “grande semplificazione”10. Semplificazione che secondo il Salvetti si invererebbe nell’accostamento e nella convivenza di due diversi tipi di drammaturgie: la prima legata alla musica di scena e ai cosiddetti ‘pezzi di carattere’, ai quali è demandato il compito di evocare il colore locale mediterraneo e il quadro ambientale e costituiti dalle pagine che si avvicinano con maggiore evidenza alla fisionomia propria del pezzo ‘chiuso’ (i cori dei paesani, la sortita di Alfio, lo stornello di Lola, il brindisi di Turiddu “Viva il vino spumeggiante”, nel quale Mascagni ripropone una delle convenzioni più consolidate del vecchio melodramma ottocentesco, quella della chanson à boire rinfrescata nella seconda metà del secolo da precedenti illustri quali il brindìsì dì Hamlet nell’omomìma opéra-lyrique e quello di Jago nell’Otello verdìano); la seconda invece strettamente legata a quello scavo prosodico e fraseologìco della parola cantata che Mascagni aveva già sperimentato durante la gestazione interrotta di Guglielmo Ratcliff 11 e che sarà uno dei fili conduttori del melodramma della “Giovine Scuola”. In tale ricerca di una vera e propria prosodia musicale, legata alle inflessioni della lingua parlata e tutta tesa nell’elaborazione di un declamato melodico che raccoglie ed esaspera la lezione dell’ultimo Verdi e che in alcune pagine più inconfondibilmente ‘veriste’ di quest’opera prima - si pensi al primo concitato dialogo fra Santuzza e Lucia (“Dite, mamma Lucia”), al racconto di Santuzza (“Voi lo sapete o mamma”) e al duetto Santuzza-Turiddu (“Tu qui Santuzza?”) - pare dar vita a una nuova concezione del “recitar cantando”, risiede uno degli aspetti più moderni della drammaturgia musicale mascagnana, tale da apparentarla alle sperimentazioni del declamato vocale degli operisti russi e dell’Europa dell’Est, da Dargomyžskij a Musorgskij, da Janáček a Bartók, nonché ai traguardi del canto di conversazione coniato da Puccini e da Richard Strauss. Una concezione che rende più duttile e dinamica anche la struttura dei brani che si avvicinano allo schema della tradizionale aria o romanza, quali il racconto di Santuzza e l’addio alla madre di Turiddu, nei quali Mascagni, come nota Cesare Orselli, “adotta un tipo di costruzione ‘a episodi’ [..], sono una serie di nuclei melodici, dei pensieri musicali in sé conclusi, senza rispondenze strofiche, di diversa ampiezza e di carattere contrastante, che seguono lo svolgersi narrativo del testo”. 29 È questo del declamato melodico e dell’intonazione musicale della parola cantata uno dei punti fermi della poetica di Mascagni, confermata da queste sue dichiarazioni del 1907 due anni dopo il battesimo di una delle sue opere più mature, la ‘wagneriana’ Amica. Il melodramma è la forma più ricca e più perfetta del dramma in generale. La musica viene a congiungervisi all’arte rappresentativa e alla poesia per penetrarla in uno spirito nuovo. Alleanza assoluta tra parola e musica per modo che la musica diventi parola, diventi espressione [...]. Il massimo problema dell’arte drammatico-musicale è quello di dare al canto una linea musicale, possibilmente melodica, pur conservando alle parole tutto il loro carattere, la loro più alta potenza espressiva, ponendo in rilievo ogni elemento del discorso poetico [...]. I personaggi acquistano una dilatazione singolare, si ingrandiscono seguendo più la natura del sentimento preso per la sua essenza che la legge estetica della loro condizione. Divengono come i simboli del loro dolore. Tali riflessioni ci sembrano essenziali per captare la novità del naturalismo di Cavalleria: ovvero la capacità di ritrarre a tutto tondo, senza falsi pudori, reticenze o freni, i sentimenti che animano i suoi personaggi: dai furori della gelosia ai desideri della carne, dal misticismo all’amor materno, con una varietà di inflessioni che passa dalla plasticità melodica plasmata sui valori prosodici della parola - un vero e proprio modello, come si è già detto, di recitazione ‘cantata’, che Mascagni approfondirà e scaverà ulteriormente, oltre che nella fase ‘sperimentale’ del giovanile Ratcliff nelle opere della maturità, approdando agli esiti mai più superati dell’approccio con il teatro di poesia dannunziano con Parisina (1913) e a quelli più discontinui dell’opus ultimum, quel Nerone (1935) che lo stesso autore definirà “un saggio di espressione musicale della parola” - alle inflessioni viscerali della vocalità più gridata e alla sintesi tagliente e drastica dell’urlo vero e proprio: quest’ultimo esaltato dalla rauca maledizione di comare Santa (“A te la mala Pasqua...”) e dall’annuncio en coulisse della catastrofe finale (“Hanno ammazzato compare Turiddu!”, affidato da Verga alla popolana Pippuzza e destinato eloquentemente da Mascagni alla voce anonima ma ben più inquietante di una corifea), autentico culmine di catarsi tragica: “quel grido - ha sottolineato acutamente Mario Morini - che taglia l’opera come una riga di sangue” e che altro non è che “un lampo imprigionato nella melodia”12. Il tutto esaltato dalla capacità mediatrice dell’attore-cantante e dalla contrapposizione personaggio-ambiente. Si pensi innanzitutto a quella Santuzza che Mascagni innalza alla statura di una grande peccatrice redenta (“Fate come il Signore a Maddalena”, recita eloquentemente il libretto di Targioni Tozzetti e Menasci nel primo colloquio tra la giovane donna e la madre dell’amante fedifrago): capace di trascorrere dalla veemenza popolana alla solenne staticità della depositaria di un rito arcaico ed espiatorio, insieme mistico e sacrificale (è il momento famoso dell’innodia pasquale, quell’“Inneggiamo, il Signor non è morto”, che fa risaltare in Santuzza l’autentica protagonista, con la funzione propria del ‘celebrante’ della sacra funzione). 30 Basti pensare poi a quel Turiddu, che di quel rito è la vittima predestinata e che nel corso dell’opera è sottoposto a una sorta di maturazione psicologica ed emotiva, passando dalla vacua e superficiale baldanza del duetto-scontro con l’amante tradita alla consapevolezza delle proprie colpe e del proprio tragico destino prima nel colloquio con Alfio e poi nello splendido commiato dalla madre. Unico personaggio, quello di Turiddu, che il musicista sottopone a una più variegata calibratura psicologica, legata a quell’ipocondria quasi adolescenziale e a quella “tristezza erotica” che uno studioso mascagnano di grande autorevolezza quale Giannotto Bastianelli individuò a suo tempo come una costante alternativa alla sanguigna virulenza di molti ruoli tenorili del teatro di Mascagni. Ma gli altri caratteri, Santuzza in primis, prototipo dell’eroina fiera e perseguitata tipica di tanta produzione italiana di fine Ottocento (il modello di riferimento è a nostro avviso quello della Gioconda ponchielliana, da un lato riplasmato in una dimensione ‘plebea’, dall’altro nobilitato dalla trasfigurazione mistico-tragica cui abbiamo già accennato), poi Alfio, Lola e Lucia, che si pongono all’interno dell’intreccio come veri e propri ‘deuteragonisti’, sono lontani da qualsiasi analisi introspettiva e paiono ergersi in una monolitica staticità. Il musicista livornese, sotto il profilo più strettamente drammaturgico, non perverrà quasi mai - neppure nei traguardi teatrali della sua maturità creativa - al realismo psicologico di Verdi e di Puccini, ma esalterà sempre a valenza simbolica ed emblematica dei protagonisti del suo teatro: autentiche creazioni di passioni, virtù e vizi dell’umanità, il più delle volte soggetti a una concezione astratta o straniata che li riduce ad autentici fantocci e li estorce a qualsiasi tipologia concreta e realistica. L’approdo alle tematiche del simbolismo e della favola in titoli quali Iris, Isabeau, Lodoletta e Il piccolo Marat sono l’eloquente conferma della vocazione ‘anti-naturalistica’ del verismo mascagnano. Tutto questo ci fa scoprire in modo inatteso all’interno di un’opera che viene universalmente riconosciuta come il momento di partenza del verismo melodrammatico, una drammaturgia epica e non realistica13. In ogni caso l’atto unico mascagnano è molto distante dallo spirito e dalla fisionomia di quello che nella più consolidata e diffusa tradizione dei manuali di storia della musica viene riconosciuto come il suo modello di riferimento: il crudo verismo di Carmen di Bizet, titolo che pure si impose con successo nei nostri teatri nella versione italiana che ne snaturava lo stile musicale e l’impianto drammaturgico in una chiave ‘pre-naturalistica’. Ben poco di francese comunque (se si eccettua qualche inflessione alla Gounod giustamente segnalata anche da Gianandrea Gavazzeni) e quasi nulla del capolavoro di Bizet - che fra l’altro è un’opéra-comique in piena regola, strutturata secondo l’alternanza di numeri musicali e di ‘parlati’ - è trapassato nell’atto unico di Mascagni. Si può riconoscere forse qualche spunto e suggestione nel coro d’apertura dei paesani (“Gli aranci olezzano sui verdi margini”), nel quale la contrapposizione tra donne e uomini può riecheggiare a tratti l’ingresso delle sigaraie nel primo atto di Carmen, e 31 nella tracotanza della sortita di Alfio, che per certi versi pare convertire in virulenza plebea l’irruenza dei celeberrimi couplets di Escamillo nel secondo. Di Carmen l’opera di Mascagni pare forse ereditare, più che lo stile musicale - secco, asciutto e aspro in Bizet quanto invece turgido, carnoso e sinuoso in Mascagni - la dimensione di grande tragedia mediterranea e le ascendenze ‘eschilee’. Carmen e don José, al pari di Santuzza e di Turiddu, sono i capri espiatori di un rito primitivo e tribale, e la loro immolazione, sancita dallo scontro brutale tra i due sessi, si consuma all’interno di una cornice di festa collettiva: pagana in Carmen, mistica e sensuale in Cavalleria, nella quale l’azione inesorabilmente tragica e precipite” si sposa “con l’incedere rituale della festività alla quale si accompagna, dove insieme al culto cristiano della Pasqua si celebra un culto più remoto dell’amore e della morte” (Morini). Una struttura calibratissima Mascagni, chiedendo a Targioni-Tozzetti “un libretto strettamente attaccato all’azione del Verga, aggiungendovi semplicemente qualche brano lirico per vestire la nudità della tragica vicenda”, rivela la profonda unità di concezione che caratterizza l’esperienza creativa di Cavalleria: una traduzione quasi letterale dell’originario lavoro teatrale di Verga, molto vicino allo spirito di quel genere che la musicologia tedesca ha definito Literaturoper, ovvero quel tipo di teatro musicale che utilizza al posto del libretto tradizionale un testo teatrale preesistente e che, prima di approdare ai sommi traguardi novecenteschi di Pelléas et Mélisande di Debussy, di Salome di Strauss e di Wozzeck di Berg, trova nel Ratcliff di Mascagni - autentica ‘prova generale’, per certi versi, dello sperimentalismo di Cavalleria - la prima incarnazione operistica italiana. Per “vestire la nudità della tragica vicenda” Mascagni in parte attinge al suo laboratorio musicale giovanile (la Messa di Gloria composta per Cerignola nel 1888, di cui riprende un inciso tematico tratto dall’“Et incarnatus est” per trasferirlo nella frase di Turiddu “Resta abbandonata”, nella scena con Alfio; un Intermezzo per pianoforte riutilizzato per l’afflato religioso dell’Intermezzo affidato all’orchestra; una lirica da camera fornisce un frammento melodico del racconto di Santuzza, mentre dell’idillio scenico Pinotta, terminato da Mascagni nel 1883 basandosi sul materiale della preesistente cantata In filanda su testo del suo insegnante livornese Soff redini, viene riproposta la struttura a numeri ‘chiusi’, con la sua alternanza di cori, preghiere, stornelli, duetti e concertati), in parte riesce a sintetizzare in poco più di un’ora di musica tutti gli strumenti e i codici messi a disposizione dalla più recente storia del teatro d’opera italiano: dal bozzetto corale allo stornello popolaresco, dal concertato di stampo ponchielliano alla facile melodiosità della canzonetta di consumo, della romanza da salotto e dell’operetta - genere praticato da Mascagni nella sua gavetta di direttore d’orchestra in provincia - e al ruolo fondamentale - insieme descrittivo ed evocativo - dell’orchestra, il cui discorso è sapientemente organizzato secondo la tecnica sorvegliatissima dei temi ricorrenti propria del wagnerismo ‘all’italiana’ codificato dai musicisti della Scapigliatura milanese, come Boito, Faccio e Catalani, sotto 32 l’orbita dei quali Mascagni - come del resto il compagno di studi Puccini - si era formato negli anni di apprendistato nella classe di composizione di Ponchielli. Mascagni, fra l’altro, utilizza i motivi conduttori in Cavalleria non tanto come temireminiscenza (secondo l’accezione pucciniana) ma come ‘motivi-guida’ connessi a varie situazioni drammaturgiche: essi sono costruiti in modo da legare strutturalmente i diversi momenti dell’intreccio e da sottolinearne i nodi cruciali. È il caso dì quello che potremmo definire il tema della gelosia di Santuzza, che dopo avere accompagnato il suo ingresso in scena e gran parte del suo animato colloquio con Lucia, verrà ripetuto con grande violenza dopo la sua invettiva a Turiddu (la celeberrima “mala Pasqua”) e tornerà come inesorabile sigla conclusiva all’annuncio della catastrofe finale, configurandosi come una sorta di tema “del destino” o della “maledizione”. Tale utilizzo mascagnano del leitmotiv diverge comunque da quel rigore costruttivo e da quella ricerca di sottili connessioni timbrico-armoniche che caratterizza il metodo compositivo di Puccini fin dagli juvenilia (dalle Villi a Edgar e a Manon Lescaut): fin da Cavalleria Mascagni impiega idee e nuclei tematici brevi, incisivi, che scaricano immediatamente il loro potenziale di energia melodica e dinamica, giustapponendosi gli uni agli altri senza alcuna interrelazione. La struttura unitaria dell’opera, caratterizzata da sottili rimandi interni - come quei frammenti ritmici del brindisi che vengono riecheggiati, con straordinaria pregnanza drammaturgica, nell’addio di Turiddu alla madre, come reminiscenza di una spensieratezza irrimediabilmente perduta - che smentiscono qualsiasi accusa di rozza improvvisazione, è confermata anche dalle inclinazioni verso il genere del poema sinfonicovocale che caratterizza tante sue pagine. il caso del Preludio, nel quale la vicenda di amore, gelosia e morte è solennemente prefigurata, con l’irruzione di canto virile e popolaresco costituito dalla Siciliana del tenore, incastonata tra i nuclei tematici legati alla Pasqua, alla passione e alla disperazione di Santuzza, in una sorta di Prologo gravido d’attesa e di sapore religioso. Pagina di straordinario respiro, che può essere annoverata tra gli aspetti più nuovi e singolari della partitura: “chi prima di Mascagni - sottolinea il Morini - aveva osato far precedere un melodramma da un così lungo preludio strumentale e vocale che prosegue anche a scena aperta, con un’aria cantata dal tenore a sipario ancora calato, e che è essa stessa antefatto all’azione? Preludio dove non sono semplicemente anticipati i temi principali dell’opera, ma dove - come ha ben avvertito Giulio Confalonieri - ‘codesti temi si sviluppano per conto proprio, su un piano diverso da quello che seguirà poco dopo, così da costituire una misteriosa azione collaterale, una specie di determinazione di quanto vedremo appresso’. Intuizione poetica e drammaturgica che si riproporrà, in una più matura stilizzazione formale, con il prologo sinfonico-corale dell’lris (1898), dove la musica, pur essendo connessa all’azione, è come la rivelazione di un mondo più grande che la conchiude e la sovrasta”15. 33 Altro aspetto che rende quest’opera così profetica e avvincente è quella di fare interferire e sovrapporre, caricandoli di tensione, i momenti drammaturgicamente più incalzanti dell’intreccio, surriscaldandone la tensione narrativa: è un espediente che Mascagni eredita da certi colpi di scena della Gioconda ponchielliana, opera caratterizzata da bruschi trapassi di situazioni teatrali. È proprio questo abile gioco di tensioni e distensioni, questa “esaltazione melodrammatica [...] fremente sotto il freno della concisione dell’azione e dei rallentamenti indotti dai quadri paesani di rito” (Piero Santi)16 a garantire la calibratissima struttura interna del capolavoro mascagnano. Si capisce anche perché Cavalleria abbia avuto un così immediato successo nei paesi della Mitteleuropa, già gravidi di angosce espressionistiche: l’icastica concentrazione di questa ‘piccola grande opera’, che corre rapida e senza inciampi al compimento della tragedia finale, anticipa per molti versi, come ha notato Roman Vlad17, la travolgente tensione drammatica dei due grandi atti unici straussiani, Salome ed Elektra. Il Coro Voci Bianche durante le prove di Cavalleria rusticana 34 1 2 3 4 5 6 7 Enrico Thovez, La leggenda del Wagner, in L’arco d’Ulisse. Prose di combattimento, Ricciardi, Napoli 1921, pp. 117-118. Si pensi all’infatuazione dei musicisti della “Giovine Scuola” per l’opera di soggetto leggendario e di ambientazione medievale o rinascimentale, presagita da titoli quali Medici di Leoncavallo (1893), Zanetto di Mascagni (1896), Gloria di Cilèa (1907) e Paolo e Francesca di Mancinelli (1907) e che culminerà, dopo il 1910, nelle inclinazioni già dannunziane di lsabeau di Mascagni (1911), nelle opere su libretto di D’Annunzio firmate ancora da Mascagni (Parisina, 1913), Zandonai (Francesca da Rimin 1914) e Montemezzi (La nave, 1918) e in quelle ricavate dai ‘sottoprodotti’ dannunziani di Sem Benelli (L’amore dei tre re di Montemezzi, 1913; La cena delle beffe di Giordano, 1924). Cfr. in Carlo Piccardì, “L’artista è un uomo e per gli uomini scri vere ei deve “. Opera e pubblico agli albori della società di massa, in Letteratura, musica e teatro al tempo di Ruggiero Leoncavallo, Atti del 20° Convegno Internazionale di Studi su Ruggero Leoncavallo (Locarno, ottobre 1993), a c. di L. Guiot e J. Maehder, Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1995, pp. 242-243. “Totalitario - scrive il Santi - diventa il potere dell’editore, perché totalizzante va rendendosi il consumo della musica in Italia, dove da sempre domina il melodramma. La crescita della popolazione urbana, conseguente allo sviluppo industriale, che metteva a disposizione un’udienza sempre più vasta, estesa anche verso ceti popolari; la costruzione di nuovi teatri di ampia capienza, previsti per un pubblico meno gerarchizzato e socialmente più livellato [...]; lo sviluppo dei trasporti che permetteva l’esportazione agevole del melodramma italiano, di artisti e di spettacoli, fuori dalle città storiche della penisola, all’estero, non solo in Europa, ma nelle Americhe e negli altri continenti; l’estendersi enorme della trascrizione, in forma di spartito per canto e piano e per pianoforte solo, di pezzi staccati (le romanze), di potpourris, di variazioni per ogni sorta di strumento, non pure ad uso privato, come tradizionalmente, ma ad uso di orchestrine da caffè concerto e similari, di bande, di corali via via sorgenti, con gli utili che ne procuravano la vendita e il noleggio dei materiali; tutto ciò allargava il consumo della musica melodrammatica, sia integrale che polverizzato, e, legato al diritto d’autore, espandeva il potere dell’editore sull’area delle attività inerenti alla musica fino ad occuparla interamente, già, tutto questo, alla vigilia dell’ulteriore sommovimento che avrebbe arrecato l’affermazione dei moderni mezzi di comunicazione di massa (il disco, il cinema sonoro, la televisione)” (cfr. in Piero Santi, Le “Villi” e l”Edgar” nell’economia melodrammatica di transizione, in “Civiltà Musicale”, Quadrimestrale di Musica e Cultura, V, n. 2 (giugno 1991), Milano 1991, pp. 45-46). Quanto all’incidenza dell’opera verista sulla nascita dell’industria discografica e cinematografica, basti ricordare che proprio Cavalleria e Pagliacci, ancora prima dei capolavori verdiani e pucciniani, furono le prime opere a essere registrate integralmente sui dischi; in due casi, la prima incisione di Pagliacci registrata dalla Gramophone nel 1907 con i complessi della Scala di Milano guidati da Carlo Sabajno e affidata alla supervisione di Leoncavallo e la terza edizione completa a 78 giri di Cavalleria rusticana diretta dallo stesso Mascagni nel 1940 in occasione del cinquantenario della prima assoluta, la realizzazione vide il coinvolgimento diretto dei due autori. Per quanto riguarda invece il cinema, l’opera verista non ebbe solo ripercussioni sugli albori del cinema muto (una Cavalleria cinematografica vide impegnata la prima Santuzza dell’opera mascagnana, Gemma Bellincioni, nella duplice veste di attrice e di produttrice) e, nell’era del sonoro, sui film di taglio ‘operistico’ firmati dagli specialisti quali Carmine Gallone, ma ha esercitato la sua influenza anche su grandi capolavori della cinematografia novecentesca: all’ambientazione fra attori e cantanti girovaghi, pagliacci e saltimbanchi cara al Leoncavallo di Pagliacci e Zazà si possono ricondurre tanto l’espressionismo dell’Angelo azzurro di Sternberg quanto il neorealismo de La Strada di Fellini. Cfr. in R Santi, Le “Villi” e l’ “Edgar”nell’economia drammatica di transizione, Op. cit., p. 42. Ancora di Santi si ricordano l’importante contributo Passato prossimo e remoto del rinnovamento musicale italiano del Novecento, pubblicato sulla rivista “Studi Musicali”, I, 1, 1972, Olschki, Firenze, 1972, pp. 161-186. Proprio a tale proposito è importante segnalare, negli anni dell’apprendistato milanese di Mascagni e di Puccini, un fenomeno davvero singolare: la nascita, all’interno delle prime esperienze compositive dei due autori, di un codice stilistico - più che di una vera e propria scuola - di impronta e di ascendenze prettamente toscane. Si tratta di una sorta di dialetto musicale che affonda le sue radici nell’hurnus melodico tirrenico, fra Lucca, la Versilia e la riviera labronica. È un ceppo linguistico comune, preannunciato dalla crepuscolare mestizia di Alfredo Catalani, che sembra accomunare la prima produzione pucciniana (in particolare i due saggi teatrali giovanili, Le Villi ed Edgar) con gli esordi mascagnani (dalla Messa di Gloria alla cantata In filanda, trasformata nell’idillio scenico Pinotta, fino alle prove di Cavalleria rusticana, Amico Fritz e Guglielmo Patcliffl. Cfr. Egon Voss, Il verismo nell’opera, in Cavalleria rusticana 1890-1990: cento anni di un capolavoro, a c. di R e N. Ostali, tr. it. di L. Dallapiccola, Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1990, pp. 51-52. Un’altra lucida analisi dell’opera verista si può riscontrare nel corposo volume di Manfred KeIkel Naturalisme, vérisme et réalisme dans l’opéra, Librairie J. Vrin, Paris 1g84: in questo studio vengono aff rontati non solo i rapporti tra l’opera verista italiana e il melodramma naturalista francese, ma vengono anche approfondite le influenze del verismo sul teatro musicale europeo del Novecento, non escludendo l’area simbolistico-espressionista mitteleuropea rappresentata da Franz Schreker, la “nuova oggettività” del teatro musicale di Schönberg, Weill e Hindemith, il realismo contadino di d’Albert e quello borghese di Richard Strauss, il folklorismo di Janáček e gli umori dimessi e popolareschi di certo teatro da camera di Milhaud. 35 8 Ecco la testimonianza dello stesso Mascagni a proposito dei primi trionfi di Cavalleria al Costanzi: “Rivedo quel teatro Costanzi pieno soltanto a metà per la prima rappresentazione, rivedo, dopo le ultime concitate battute dell’orchestra, tutte quelle braccia del pubblico alzate in aria e gesticolanti come se volessero minacciarmi, e risento nell’anima l’eco di quelle grida che quasi m’atterrivano; l’impressione era tale, che alla seconda rappresentazione dovetti pregare, ogni volta che mi chiamavano fuori, di abbassare i lumi della ribalta, perché tutta quella luce abbagliante mi pareva l’inferno, e mi dava l’immagine di un abisso di fuoco che volesse ingoiarmi (cfr. P. Mascagni, Prima di Cavalleria, in Pietro Mascagni a c.di M. Morini, Sonzogno, Milano 1964, voI. Il, p. 133). Anche per un esegeta e interprete illuminato di Mascagni quali Gianandrea Gavazzeni “il presupposto dell’opera resta uno solo: Giovanni Verga, il suo dramma, le condensazioni fulminee e le verità del suo linguaggio, nel dialogo scenico, e prima, ancora più fortemente, nel linguaggio narrativo della novella (la scabra essenzialità, il ‘vero’ dei dialoghi). Perché Verga è anche voce di quelle situazioni che in misure elementari giungono fino al teatro musicale” (cfr Un’opera di rottura, in Non eseguire Beethoven e altri saggi, Il Saggiatore, Milano 1974, p. 131). Guido Salvetti, Mascagni: la creazione musicale, in Mascagni, Electa, Milano 1984, pp. 34-53. Si rileggano questi stralci dalla famosa lettera inviata da Mascagni all’amicoVittorio Gianfranceschi, detto familiarmente “Vichi”, da Ascoli Piceno il 18 maggio 1886, durante l’infuocata elaborazione di Guglielmo Ratcliff che costituiscono una sorta di manifesto poetico del rapporto musica-testo nell’opera di Mascagni: “Credi, Vichi, che questo quarto atto mi è venuto anche meglio di come credevo, del duetto d’amore sono innamorato. Dio solo sa quanto ho studiato questo pezzo: era di per sé troppo difficile per l’interpretazione non della parola, ma della maniera di esprimerla; quella povera poesia l’ho maneggiata per dei mesi interi, quei poveri versi [..] li ho letti e riletti mille volte, li ho declamati a voce alta, a voce bassa, ho dato a loro mille intonazioni, ho cambiato mille volte l’espressione, li ho letti davanti a uno specchio osservando l’atteggiamento degli occhi, della bocca, del volto, ho chiuso gli occhi, ho creduto di essere Guglielmo, di abbracciare Maria, ho creduto di dirle parole d’amore, le ho sussurrato all’orecchio quei versi ed ho fatto il duello d’amore”. Mario Morini, Introduzione a “Cavalleria rusticana”, in Cavalleria rusticana 1890-1990: cento anni di un capolavoro, Op. cit., p. 11. Cfr. Cesare Orselli, Mascagni tra epos e eros, in Puccini e Mascagni (giornata di studi, Viareggio - 3 agosto 1995), Quaderni della Fondazione Festival Pucciniano, Pacini Editore, Pisa 1996, pp. 21-35. Mario Morini, Introduzione a “Cavalleria rusticana”, cit., p. 11. Mario Morini, Ivi, p. 12. Piero Santi, ll sud, che passione!, in “Lyrica. Opera e dintorni”, III, 26 (febbraio 1996), Ermitage, Bologna 1996, p. 45. Cfr. Roman Vlad, Modernità di “Cavalleria rusticana”, in Cavalleria rusticana 1890-1990..., cit., p. 17. 9 10 11 12 13 14 15 16 17 Il regista Pizzech e il maestro Webb durante le prove 36 Fulvio Venturi Consulente artistico della Fondazione Teatro Goldoni Cavalleria e Pagliacci, centoventi anni d’applausi e di passioni Appresa la notizia del Concorso Sonzogno per un’opera in un atto, Pietro Mascagni, che si trovava a Cerignola in veste di direttore della filarmonica locale, si rivolse ad un amico livornese, il poeta Giovanni Targioni Tozzetti, per averne il libretto. Il musicista pensò in un primo momento a comporre un’opera dal titolo Serafina, tratta da Marito e sacerdote di Nicola Misasi. Giovanni Targioni Tozzetti suggerì invece la riduzione della novella Cavalleria rusticana di Giovanni Verga, nella sua versione teatrale, che ha visto recitare all’Arena Labronica dalla compagnia di Cesare Rossi. Mascagni, che in precedenza aveva vagheggiato quel soggetto, accettò con entusiasmo. Targioni Tozzetti si mise a lavoro coinvolgendo un altro personaggio livornese, Guido Menasci, insegnante di francese presso il ginnasio. Pittoresco il modo con il quale Mascagni entrò in possesso del testo da musicare, a lui inviato da Targioni Tozzetti e Menasci su cartoline postali, per stati di avanzamento. L’opera fu terminata nel maggio 1889 e posta al vaglio della giuria, fu dichiarata vincitrice del concorso nel marzo successivo e dunque il 27 maggio 1890 andò in scena al Costanzi di Roma, con l’esito trionfale che sappiamo. Ne furono interpreti principali due grandi cantanti, Gemma Bellincioni e Roberto Stagno, ed un celebre direttore d’orchestra, il maestro Leopoldo Mugnone. Nell’agosto 1890 Cavalleria rusticana fu rappresentata al Goldoni dagli stessi interpreti. Fu come un secondo debutto e da quella data, nel volgere di breve tempo, l’opera compì il “giro” delle grandi capitali europee giungendo a Berlino, Londra, Parigi, Vienna per traversare l’oceano ed andare in scena a Philadelphia, New York e Buenos Aires. Una cavalcata trionfale che dura tutt’oggi. Ammantata dal mistero è invece la genesi di Pagliacci, per quanto essa si faccia risalire ad un fatto di sangue accaduto a Montalto Uffugo verso il 1870. L’opera fu presentata al Teatro Dal Verme di Milano nel maggio 1892 (dunque a due anni esatti dalla prima assoluta di Cavalleria rusticana), con un franco successo, auspice l’interessamento di un grande artista, il baritono Victor Maurel, e di un giovane direttore d’orchestra atteso da un cammino diventato mito, Arturo Toscanini. Pagliacci giunsero al Teatro Goldoni sei mesi dopo, con una produzione di buona rilevanza musicale, capeggiata dal direttore 37 d’orchestra livornese Ettore Martini e dal rinomato tenore Vincenzo Ghilardini. Una produzione che fece parlare anche le cronache mondane per la presenza della principessa Alice di Monaco, accompagnata dal compositore Isidore de Lara. Dal 1898, come già era avvenuto in altre città, la rappresentazione delle due opere è stata associata sovente in un’unica serata anche a Livorno. Testimonial d’eccezione Enrico Caruso, che al Politeama dette voce ed interpretazione tanto al personaggio di Turiddu, quanto a quello di Canio con un successo travolgente; onere che nel 1912 (ancora al Politeama) si assunse un altro straordinario esponente dell’arte lirica, il tenore Aureliano Pertile. Il numero veramente ingente e la caratura notevolissima degli artisti impiegati nella lunga trafila esecutiva di Cavalleria e Pagliacci a Livorno è paragonabile solo a quella dei più grandi teatri, ma s’interrompe, prima dell’attuale edizione, al 1983. Analizzando separatamente i due titoli, l’opera di Leoncavallo ha vissuto a Livorno momenti di grande intensità quando ad interpretarla sono stati chiamate cantanti come Rosina Storchio e Juanita Caracciolo, ma il peso della storia spetta a Cavalleria rusticana. Si pongono in evidenza le produzioni dirette dall’autore Pietro Mascagni, e sono cinque in totale, disseminate tra il 1894 ed il 1940, con interpreti rimasti nell’immaginario del pubblico come Beniamino Gigli, Lina Bruna Rasa, Giuseppina Cobelli, Carlo Tagliabue. Poi si devono sottolineare i momenti offerti da cantanti come Roberto Stagno e Gemma Bellincioni, direttori come Leopoldo Mugnone e Antonio Guarnieri, e le prestazioni eccezionali di Eugenia Burzio, Galliano Masini, Mario Del Monaco, Carlo Bergonzi, ma su tutti gli allestimenti sarebbe giusto fermarsi per la passione e la generosità con le quali essi sono stati seguiti dal pubblico. Dal 1990, anno del centenario di Cavalleria, il Progetto Mascagni ha offerto un contributo unico al mantenimento della tradizione esecutiva ed alla ricerca dei valori della musica mascagnana, non solo riproponendo questo capolavoro, ma portando in scena opere come L’amico Fritz, I Rantzau, Guglielmo Ratcliff, Sì, Iris ed il coinvolgimento di cantanti e personaggi, tra gli altri, come Giuseppe Giacomini, Fedora Barbieri, Alberto Mastromarino, Giancarlo Del Monaco, Federico Tiezzi, Lindsay Kemp. Punte di particolare enfasi sono state raggiunte nel 1940, in occasione del cinquantenario dell’opera, con un vero tributo di popolo offerto dalla città natale all’autore, nel 1945, quando una Livorno ferita nell’animo e distrutta dalla guerra volle salutare artisticamente Pietro Mascagni scomparso da un mese con una prestazione memorabile di Galliano Masini nelle vesti di Turiddu, nel 1997 quando Fiorenza Cedolins si rivelò al mondo dell’opera realizzando una Santuzza d’impatto non comune per bellezza di suono, vigore e carico interpretivo, e nel 2004 quando alla presenza del Presidente Ciampi il Teatro Goldoni fu riaperto dopo il lungo restauro sulle note vibranti di Cavalleria rusticana. Un musicista indimenticabile, Massimo de Bernart, guidò l’esecuzione conferendo alla serata un afflato ricco di commozione e di pathos. Da segnalare infine le produzioni tenute recentemente presso la Fortezza vecchia e Piazza XX Settembre, quest’ultima nell’ambito di Effetto Venezia. 38 Cronologia delle rappresentazioni al Teatro Goldoni di Livorno Goldoni, 14 agosto 1890 (5) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Gemma Bellincioni (Santuzza); Ida Nobili (Lola); Federica Casali (Lucia); Roberto Stagno (Turiddu); Mario Ancona (Alfio); dir.: Leopoldo Mugnone; m.° del coro: Giuseppe Cairati, Pietro Gherardi (Società corale «Costanza e Concordia») Goldoni, 7 novembre 1909 (16) rappresentazioni associate a) PAGLIACCI esecutori: Linda Brambilla (Nedda); José Garcia/ Isaia Ganff (Canio); Edoardo Faticanti* (Tonio); Aurelio Sabbi (Silvio); Adrasto Simonti (Peppe) b) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Eugenia Burzio/ Leonia Ogrowska (Santuzza); Dina Tanfani (Lola); Annetta Stocchi (Lucia); Augusto Guarnieri/ Isaia Ganff (Turiddu); Edoardo Faticanti (Alfio); dir.: Antonio Guarnieri/ Ugo Benvenuti Giusti; m.° del coro: Paride Soff ritti note: * per fortuita combinazione, nella soirée del 5 dicembre, Edoardo Faticanti sostenne tutte le parti baritonali (Tonio; Silvio; Alfio) Goldoni, 22 luglio 1916 (13) rappresentazioni associate a) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Argia Romboli (Santuzza); Irma Zappata (Lola); Amelia Biadi (Lucia); Remo Pisoni/ Giuseppe Krismer (Turiddu); Vieri Secci Corsi/ Giuseppe Montanelli (Alfio) b) PAGLIACCI Gemma Bellincioni, Santuzza Goldoni, 12 novembre 1892 (13) PAGLIACCI esecutori: Giuseppina Musiani Rizzini (Nedda); Vincenzo Ghilardini (Canio); Emilio Barbieri (Tonio); Cesare Gaetani (Silvio); Egidio Lorini/ Italo Giovannetti (Peppe); dir.: Ettore Martini/ Tebaldo Bronzini Goldoni, 18 aprile 1897 (9) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Osma Großmann/ Olga Simzis (Nedda); Giovanni Tegonini (Canio); Abelardo Tabanera/ Giuseppe Montanelli, Vieri Secci Corsi (Tonio); Vieri Secci Corsi/ Gino Marengo (Silvio); Irma Zappata (Peppe); dir.: Alfredo Padovani; m.° del coro: Luigi Pratesi Goldoni, 25 agosto 1928 (3) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Lina Bruna Rasa (Santuzza); Berenice Siberi (Lola); Irma Zappata (Lucia); Oreste De Bernardi/ Antonio Melandri (Turiddu); Domenico Viglione Borghese (Alfio); dir: Pietro Mascagni; m.° del coro: Roberto Zucchi; altri maestri: Mario Mascagni, Vincenzo Marini, Enrico Tavani esecutori: Emma Angelini (Santuzza); Dalia Bassich (Lola); Amelia Biadi (Lucia); Franco Mannucci (Turiddu); Francesco Pozzi (Alfio); dir.: Ubaldo Pacchierotti 39 Goldoni, 28 agosto 1935 (3) CAVALLERIA RUSTICANA Goldoni, 10 aprile 1948 (2) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Lina Bruna Rasa (Santuzza); Rosita Salagaray (Lola); Ida Mannarini (Lucia); Nino Bertelli (Turiddu); Giuseppe Noto (Alfio); dir: Pietro Mascagni; m.° del coro: Roberto Zucchi; regia: Mario Frigerio; scene: Edoardo Marchioro, Camillo Parravicini. esecutori: Franca Sacchi (Santuzza); Attilia Antonelli (Lola); Giuseppe Giribaldi (Turiddu); Amleto Melosi (Alfio); resto vedi rappresentazione associata note: associata a L’amico Fritz (Mascagni) Goldoni, 10 dicembre 1940 (2) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Lina Bruna Rasa (Santuzza); Vittoria Palombini (Lola); Ida Mannarini (Lucia); Beniamino Gigli/ Alessandro Ziliani (Turiddu); Carlo Tagliabue (Alfio); dir: Pietro Mascagni; m.° del coro: Andrea Morosini note: nel cinquantenario dell’opera Goldoni, 17 aprile 1943 (2) CAVALLERIA RUSTICANA libretto: Giovanni Targioni Tozzetti, Guido Menasci; musica: Pietro Mascagni esecutori: Liliana Cecchi (Santuzza); Laura Lauri (Lola); Ida Mannarini (Lucia); Mario Del Monaco (Turiddu); Giovanni Bolognesi (Alfio); dir.: Giovanni Frattini note: associata a Il segreto di Susanna (Wolf Ferrari) Goldoni, 6 settembre 1945 (3) CAVALLERIA RUSTICANA Goldoni, 15 febbraio 1950 (1) rappresentazioni associate a) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Luisa D’Angelo (Santuzza); Luciana Vanni (Lola); Oscar Brunel (Turiddu); Leonardo Ciriminna (Alfio) b) PAGLIACCI esecutori: Rinetta Romboli (Nedda); Brenno Ristori (Canio); Di Florimo (Tonio); Alfredo Fineschi (Silvio); dir.: Adolfo Alvisi Goldoni, 30 maggio 1950 (2) rappresentazioni associate a) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Luciana Veroni (Santuzza); Attilia Antonelli (Lola); Salvatore Puma (Turiddu); Gino Orlandini (Alfio) b) PAGLIACCI esecutori: Derna Barellini (Nedda); Galliano Masini (Canio); Danilo Checchi (Tonio); Gino Orlandini (Silvio); Cesare Masini Sperti (Peppe); dir.: Mario Braggio esecutori: Germana Di Giulio (Santuzza); Anna Maria Canali (Lola); Cesarina Berti (Lucia); Galliano Masini (Turiddu); Luigi Dimitri/ Danilo Checchi (Alfio); dir.: Flaminio Contini; m.° del coro: Lido Nistri; altri maestri: Vasco Naldini note: nel trigesimo della scomparsa di Pietro Mascagni Goldoni, 7 aprile 1946 (2) rappresentazioni associate a) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Liliana Cecchi (Santuzza); Mafalda Chiorboli (Lola); Francesco Carrino (Turiddu); Antenore Reali (Alfio) b) PAGLIACCI esecutori: Clara Petrella [in sostituzione di Adriana Perris (Nedda)]; Franco Beval (Canio); Antenore Reali (Tonio); Ottavio Serpo (Silvio); dir.: Mario Parenti produzione: S. I. E. L. fonti: Il Tirreno Galliano Masini, Canio 40 Goldoni, 22 dicembre 1954 (2) a) CAVALLERIA RUSTICANA Goldoni, 17 dicembre 1970 (2) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Germana Di Giulio (Santuzza); Anita Caminada (Lola); Mario Filippi (Turiddu); Amleto Melosi (Alfio) esecutori: Carla Ferrario (Santuzza); Adriana Alinovi Pirali (Lola); Aida Sterlich (Lucia); Danilo Cestari (Turiddu); Gabriele Floresta (Alfio); dir.: Ivan Polidori; m.° del coro: Dario Indrigo; altri maestri: Carlo Lupetti; regia: Franco Vacchi note: associata a Silvano (Mascagni) b) PAGLIACCI esecutori: Fernanda Dal Monte (Nedda); Achille Braschi (Canio); Amleto Melosi (Tonio); Ernesto Vezzosi (Silvio); Cesare Masini Sperti (Peppe); dir.: Mario Braggio Goldoni, 16 aprile 1956 (2) a) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Luciana Veroni (Santuzza); Vera Presti (Lola); Maria Orfei (Lucia); Salvatore Lisitano (Turiddu); Giuseppe Forgione (Alfio) Goldoni, 24 settembre 1972 (1) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Margareta Radulescu (Santuzza); Milca Nistor (Lola); Ana Manciulea (Lucia); Jon Lazar (Turiddu); Constantin Toma (Alfio); dir.: Alexandru Taban; m.° del coro: Emil Maxin; regia: Ilie Balea note: associata a Suor Angelica (Puccini) b) PAGLIACCI esecutori: Dora Carral (Nedda); Salvatore Lisitano (Canio); Giuseppe Forgione (Tonio); Giuseppe Carnacina (Silvio); Salvatore De Tommaso (Peppe); dir.: Mario Pasquariello Goldoni, 28 giugno 1957 (1) rappresentazioni associate PAGLIACCI Goldoni, 23 novembre 1975 (2) rappresentazioni associate a) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Lucia Stanescu (Santuzza); Giovanna Di Rocco (Lola); Rita Bezzi Breda (Lucia); Ciro Pirrotta/ Flaviano Labò (Turiddu); Walter Alberti (Alfio) b) PAGLIACCI esecutori: Lydia Coppola (Nedda); Galliano Masini (Canio); Renzo Scorsoni (Tonio); Augusto Frati (Silvio); Sergio Feliciani (Peppe); dir.: Giuseppe Ruisi note: rappresentazione associata ad Ave Maria (Allegra) esecutori: Marcella Reale (Nedda); Nunzio Todisco (Canio); Walter Alberti (Tonio); Ettore Nova (Silvio); Andrea Elena (Peppe); dir.: Ferruccio Scaglia; m.° del coro: Lido Nistri; altri maestri: Gastone De Ambrogis, Pietro Cavalieri, Lorenzo Parigi; regia: Giampaolo Zennaro Goldoni, 2 dicembre 1965 (2) rappresentazioni associate a) CAVALLERIA RUSTICANA Goldoni, 24 ottobre 1980 (2) rappresentazioni associate CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Teresa Apolei (Santuzza); Anita Caminada (Lola); Gianni Jaja (Turiddu); Silvano Verlinghieri (Alfio) esecutori: Irina Arkhipova (Santuzza); Biancarosa Zanibelli (Lola); Rita Bezzi Breda (Lucia); Carlo Bergonzi (Turiddu); Gabriele Floresta (Alfio); dir.: Vittorio Gajoni; m.° del coro: Gherardo Gherardini; altri maestri: Annarosa Carnieri, Pieralba Soroga, Carlo Ventura; regia: Giuseppe Giuliano note: associata a Silvano (Mascagni) b) PAGLIACCI esecutori: Maria Luisa Barducci/ Mafalda Micheluzzi (Nedda); Gianni Savelli (Canio); Franco Mieli (Tonio); Ettore Cresci/ Guido Mazzini (Silvio); dir.: Manno Wolf Ferrari; m.° del coro: Lido Nistri; altri maestri: Carlo Lupetti; regia: Franco Vacchi 41 Goldoni, 26 novembre 1983 (4) rappresentazioni associate Teatro Goldoni, 24 gennaio 2004 (3) CAVALLERIA RUSTICANA a) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Katia Angeloni/ Michié Akisada [in sostituzione di Jone Jori (Santuzza)]; Biancarosa Zanibelli (Lola); Licena Buizza (Lucia); Antonio Liviero (Turiddu); Antonio Boyer (Alfio) esecutori: Ildiko Komlosi/ Laura Brioli (Santuzza); Alfredo Portilla/ Lance Ryan (Turiddu); Sonia Zaramella/ Maria Cioppi (Lola); Alberto Mastromarino/ Mauro Buda (Alfio); Viorica Cortez (Lucia); dir.: Massimo de Bernart; regia: Marco Gandini; scene: Italo Grassi; costumi Maurizio Millenotti; m° del coro: Marco Bargagna note: riapertura del Teatro Goldoni alla presenza del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi – a partire dal 3 febbraio associata a La vida breve (de Falla) b) PAGLIACCI esecutori: Rita Lantieri (Nedda); Gaetano Scano (Canio); Franco Giovine (Tonio); Armando Ariostini (Silvio); Gabriele De Julis (Peppe); dir.: Gianfranco Rivoli; m.° del coro: Gherardo Gherardini; regia: Giampaolo Zennaro; scenografia: Izzo, Roma; Franco Nonnis (bozzetti) note: nel 120° anniversario della nascita di P. Mascagni Alcune delle rappresentazioni storiche presso altri teatri livornesi: Politeama, 23 luglio 1898 (10) rappresentazioni associate a) CAVALLERIA RUSTICANA Politeama, 9 luglio 1912 (5) rappresentazioni associate a) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Adele Antinori (Santuzza); Elvira Lucca (Lola); Erina Simi Conti (Lucia); Augusto Barbaini/ Enrico Caruso/ Aristide Tranfo (Turiddu); Silvio Arrighetti [in sostituzione di Arturo Romboli (Alfio)]; dir.: Ettore Martini; m.° del coro: Tebaldo Bronzini; altri maestri: Vincenzo Bozzelli, Alberto Montanari esecutori: Italia Appendin Bravi (Santuzza); Vittoria Pamas (Lola); Maria Martelli (Lucia); Aureliano Pertile (Turiddu); Silvio d’Arles/ Gaetano Morellato (Alfio) b) PAGLIACCI esecutori: Maddalena Ticci (Nedda); Aristide Tranfo/ Enrico Caruso (Canio); Emilio Barbieri (Tonio); Silvio Arrighetti [in sostituzione di Arturo Romboli (Silvio)]; Elvira Lucca (Peppe); dir.: Ettore Martini; m.° del coro : Tebaldo Bronzini; altri maestri: Vincenzo Bozzelli, Alberto Montanari b) PAGLIACCI esecutori: Edvige Vaccari (Nedda); Manuel Izquierdo/ Aureliano Pertile (Canio); Silvio d’Arles/ Jago Belloni (Tonio); Gaetano Morellato (Silvio); Maria Martelli (Peppe); dir.: Antonio Gallo; m.° del coro: Luigi Pratesi Aureliano Pertile, Canio 42 Piazza Luigi Orlando, 2 ottobre 1930 (2) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Giuseppina Cobelli (Santuzza); Gianna Pederzini (Lola); Antonio Melandri (Turiddu); Domenico Viglione Borghese (Alfio); dir: Pietro Mascagni; m.° del coro: Vittore Veneziani; dir. dell’allestimento scenico: Giovacchino Forzano note: associata a Zanetto (Mascagni) La gran Guardia, 19 settembre 1997 (3) CAVALLERIA RUSTICANA esecutori: Fiorenza Cedolins/ Lucia Naviglio (Santuzza); Madelyn Monti/ Niky Mazziotta (Lola); Monica Tagliasacchi/ Corina Iustian Schmidt (Lucia); Ignacio Encinas/ Maurizio Graziani (Turiddu); Alberto Mastromarino/ Walter Donati (Alfio); dir.: Massimo de Bernart; m.° del coro: Stefano Visconti; altri maestri: Paolo Filidei, Flora Gagliardi, Andrea Visconti, Marco Bargagna; regia: Marina Bianchi; scenografia: Leila Fteita note: associata a Blue Monday (Gershwin) Fiorenza Cedolins, Santuzza nota generale: il numero fra parentesi tonda dopo la data ed il luogo di rappresentazione indica il numero totale delle rappresentazioni per ogni specifica produzione. Livorno 10 dicembre 1940 - Teatro Goldoni. Mascagni si avvia al podio in occasione del 50° anniversario della 1a rappresentazione di Cavalleria rusticana. 43 Pietro Mascagni (seduto) tra gli interpreti della prima di Cavalleria rusticana: da sinistra Roberto Stagno, Leopoldo Mugnone e Gemma Bellincioni. Alessio Pizzech Regista Appunti di lavoro per Cavalleria rusticana Lavorando oggi su di un’opera di grande repertorio come Cavalleria rusticana, penso che sia necessario uscire dalla rappresentazione di quello che “già conosciamo di quest’opera” e conviene confrontarsi tutti sul terreno di “ciò che non sappiamo” , cercando quello stupore creativo che ci possa far sentire ancora oggi questa straordinaria composizione, capace di ferirci e commuoverci. La mia ricerca artistica quindi tende al superamento della mera narrazione bozzettistica per arrivare ad una sottolineatura, in termini di contemporaneità, di quei sistemi simbolici che possano far riflettere e coinvolgere anche il pubblico d’oggi. Lo spazio scenico che aiuterà questa mia lettura di Cavalleria rusticana sarà legato da una parte alla memoria emotiva della protagonista, narrando il processo narrativo ed il percorso drammatico di Santuzza, allo stesso tempo racconterà la memoria collettiva in cui restano tracce di un paese, di uno spazio appartenuto e vissuto da una comunità. La piazza quindi del paese diverrà l’insieme di una serie di segni, dove all’osteria e alla chiesa, si unirà il luogo privato che potremmo definire come una “Casa di Santuzza”: un’anima segreta ed intima. Santuzza è al centro della propria casa/altare: rifugio dei propri sentimenti, sottratti agli occhi del mondo e dolorosamente vissuti istante dopo istante. In questo spazio privato Santuzza piange e celebra il proprio dolore di donna tradita, di donna in preda ad un desiderio che non trova appagamento. Fuggita dal mondo, Santuzza ha fatto del rifiuto, dell’essere “scomunicata”, la propria identità. Santuzza è l’Esclusa Pirandelliana: colei che non è parte della tribù, colei che sta ai margini del sistema sociale di riferimento. Sarà uno spettacolo che pone la protagonista femminile al centro di un articolato e complesso sistema di rapporti privati e sociali. Santuzza giudica il mondo. Santuzza osserva e dialoga a distanza come una bestia nella gabbia; la libertà viene a mancare ed la repulsione verso il mondo, diventa atto violento e folle. Santuzza vede muoversi gli altri personaggi intorno a lei sentendosene estranea, essi sono come una lunga proiezione del proprio dolore, del proprio Sogno d’amore oramai esploso. 45 Lo spettacolo disegna così un percorso in cui la realtà si deforma e la verità perde i suoi contorni in una visione allucinata: per Santuzza il tradimento, poco importa sia avvenuto o no, resta concretamente il suo orizzonte di pensiero. In questa visione l’ossessione del tradimento, del rifiuto e dell’abbandono, si confermano come segni di quella che definirei “incapacità alla vita”. Santuzza pare uscita da un dramma espressionista tedesco, portatrice di un malessere di vita che troverà voce nella grande poesia novecentesca e dal suo altare canta, come un poeta, con una vocalità che stabilisce relazioni scandalose con la società. Quanto più il suo urlo si leva al cielo con il sapore di un rito sacro di Pasqua, tanto più ella resta sola, impenetrabile nel suo dolore che la pervade tutta. Nell’Intermezzo come una nemesi una bambina e poi una ragazza, età diverse della stessa Santuzza, l’accolgono tra loro. Queste creature partorite dall’anima del canto, rievocate dallo svilupparsi della vicenda, da ora in poi, insieme alla protagonista, osserveranno lo scorrere della seconda parte dell’opera: una sorta di dimensione metateatrale, di rappresentazione catartica del proprio dolore, di un rito antico che deve compiersi e che costantemente si sovrappone al senso di colpa di cui Santuzza rende sé stessa soggetto/oggetto. Un dolore vissuto, tenuto nascosto, che la protagonista può così consegnarci a noi spettatori e testimoni di un paradosso dell’amore: il possesso come assoluta incapacità a vivere l’amore stesso. Lo spazio scenico quindi è il cuore pulsante del dolore. È un luogo dove tutto si conserva, una sorta di placenta che genera vita, pensieri vissuti che trovano nell’azione teatrale il loro concretizzarsi. Qualcosa di ancestrale ci sarà in tutto questo, qualcosa che faccia da ponte tra il dramma espressionista tedesco ed una tragedia greca, portatrici entrambi di una riflessione artistica del rapporto tra singolo e collettività che ci parli anche del conseguente scontro tra volontà ed istinto. Bozzetto dello scenografo Michele Ricciarini per Cavalleria rusticana 46 Alessio Pizzech Regista Premessa al Dittico …una Donna in scena al levarsi del sipario, con la sua presenza, rievoca il peso, il senso dell’emarginazione che isola il mondo femminile, quando esso sia colpevole semplicemente di seguire il proprio Sentire. Corifea, rappresentante della Collettività, essa si fa garante delle ragioni per cui la donna viene emarginata dall’universo sociale che la circonda e che la ritiene “scomunicata”. La Corifea ci conduce quindi attraverso l’universo di Cavalleria e poi di Pagliacci, leggendolo le due opere alla luce del rapporto donna / società, dandoci ragione del contesto attraverso cui si compie la Via Crucis prima di Santuzza e poi di Nedda…. Il regista Alessio Pizzech 47 Verso Cavalleria rusticana Parole e immagini di Fabio Leonardi Vignette del disegnatore livornese Fabio Leonardi pubblicate su “Il Tirreno” , febbraio 2010 Cavalleria rusticana LA VICENDA Atto Unico. In un paese della Sicilia un canto appassionato rompe improvvisamente il silenzio della notte: è la voce del giovane Turiddu, che intona una serenata a Lola, da lui tanto amata prima di partire per il servizio militare, ma che, al suo ritorno, ha trovato sposata al carrettiere Alfio. Inizialmente Turiddu si è consolato con Santuzza, un’altra ragazza del paese, ma poi l’antica passione ha avuto il sopravvento: adesso i due sono di nuovo amanti. La loro relazione segreta non è però sfuggita a Santuzza: disperata per l’oltraggio subito, la ragazza cerca con ogni mezzo di riconquistare Turiddu e di convincerlo a troncare il suo legame adultero. È intanto spuntato il sole. È la domenica di Pasqua e sulla piazza del paese regna una festosa animazione. Santuzza si avvicina alla madre di Turiddu, Lucia, chiedendole notizie del figlio. La donna risponde che il giovane si trova fuori paese per delle commissioni: in realtà Turiddu aveva fatto credere di trovarsi altrove per potersi incontrare tranquillamente con Lola; infatti durante la notte è stato notato aggirarsi furtivamente per le strade. Questa circostanza viene confermata anche da Alfio, ritornato a casa dopo un viaggio per celebrare la Pasqua, che dice di averlo visto nei pressi di casa sua. Per Santuzza ciò costituisce una prova definitiva dell’infedeltà di Turiddu; disperata, la ragazza decide di raccontare tutto a Lucia, pregandola di intercedere presso il figlio affinché voglia riparare l’offesa. Nel frattempo iniziano le funzioni religiose e tutti entrano in chiesa. Sulla piazza rimane solo Santuzza, che scorge Turiddu sopraggiunto a cercare la madre. Invano la giovane supplica l’amato: questi, anzi, è infastidito dalla scena di gelosia di Santuzza, e le risponde che ormai tra loro è finita. L’alterco tra i due è interrotto da Lola (intervenuta a cercare il marito), che non manca di schernire Santuzza. Durante l’incontro Turiddu si mostra gentile e complimentoso con Lola, fornendo così a Santuzza il pretesto per vendicarsi. Per farlo sceglie il modo peggiore: imbattutasi in Alfio, gli racconta della relazione tra Turiddu e Lola, intuendo subito le funeste conseguenze della sua confessione. La funzione pasquale si è intanto conclusa e sulla piazza regna ancora la gioiosa animazione della solenne festività. Turiddu off re da bere ai suoi amici, inneggiando al vino e alle donne. Il brindisi è però improvvisamente interrotto da Alfio, il quale muove minaccioso verso Turiddu. Questi gli si fa incontro off rendogli un bicchiere di vino, rifiutato seccamente da Alfio. I due si lanciano una sfida mortale: si batteranno 49 al coltello in un orto, poco fuori dal paese. La piazza rimane subito deserta e Turiddu, intuendo la fine, chiama la madre pregandola di benedirlo e di aver cura di Santuzza come fosse sua figlia, quindi, fingendosi ubriaco, si allontana. Dopo alcuni minuti un urlo di raccapriccio echeggia tra le case del paese: Turiddu è stato assassinato dal rivale. Pietro Mascagni, 1895 - Milano raccolta stampe Bertarelli 50 CAVALLERIA RUSTICANA Melodramma in un atto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci Tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga Musica di PIETRO MASCAGNI Personaggi Santuzza, una giovane contadina soprano Turiddu, un giovane contadino tenore Lucia, sua madre soprano Alfio, un carrettiere baritono Lola, sua moglie mezzosoprano Contadini e contadine, paesani, ragazzi. Prima rappresentazione: Roma, Teatro Costanzi, 17 maggio 1890 51 ATTO UNICO La scena rappresenta una piazza in un paese della Sicilia. Nel fondo, a destra, la chiesa con porta praticabile. A sinistra l’osteria e la casa di Mamma Lucia. È il giorno di Pasqua. (A sipario calato) TURIDDU O Lola ch’ai di latti la cammisa si bianca e russa comu la cirasa, quannu t’affacci fai la vucca a risu, biato cui ti dà lu primu vasu! Ntra la porta tua lu sangu è sparsu, e nun me mporta si ce muoru accisu... e s’iddu muoru e vaju mparadisu si nun ce truovo a ttia, mancu ce trasu. (Traduzione) O Lola, bianca come fior di spino, quando t’affacci tu s’affaccia il sole; chi t’ha baciato il labbro porporino grazia più bella a Dio chieder non vôle. C’è scritto sangue sopra la tua porta, ma di restarci a me non me ne importa; se per te muoio e vado in paradiso, non c’entro se non vedo il tuo bel viso Scena Prima LE CONTADINE Cessin le rustiche opre: la Vergine serena allietasi del Salvator; tempo è si mormori da ognuno il tenero canto che i palpiti raddoppia al cor. (attraversano la scena ed escono.) CONTADINI e CONTADINE (La scena sul principio è vuota. Albeggia) LE CONTADINE (di dentro) Gli aranci olezzano sui verdi margini, cantan le allodole tra i mirti in fior; tempo è si mormori da ognuno il tenero canto che i palpiti raddoppia al cor. (le donne entrano in scena) I CONTADINI (di dentro) In mezzo al campo tra le spighe d’oro giunge il rumore delle vostre spole, noi stanchi, riposando dal lavoro a voi pensiamo, o belle occhi-di-sole. O belle occhi-di sole, a voi corriamo come vola l’augello al suo richiamo. (gli uomini entrano in scena) Scena Seconda SANTUZZA e LUCIA (Santuzza entra e si dirige alla casa di Lucia) SANTUZZA Dite, mamma Lucia... LUCIA (sorpresa) Sei tu?... Che vuoi? SANTUZZA Turiddu ov’è? 52 LUCIA Fin qui vieni a cercare il figlio mio? SANTUZZA Voglio saper soltanto, perdonatemi voi, dove trovarlo. LUCIA Non lo so, non lo so, non voglio brighe! SANTUZZA Mamma Lucia, vi supplico piangendo, fate come il Signore a Maddalena, ditemi per pietà dov’è Turiddu... LUCIA È andato per il vino a Francofonte. SANTUZZA No!... l’han visto in paese ad alta notte... LUCIA Che dici?... Se non è tornato a casa! (avviandosi verso l’uscio di casa) Entra... SANTUZZA (disperata) Non posso entrare in casa vostra... Sono scomunicata! LUCIA E che ne sai del mio figliolo? SANTUZZA Quale spina ho in core! ALFIO (entrando con i Paesani) Il cavallo scalpita, i sonagli squillano, schiocchi la frusta. Ehi là! Soffi il vento gelido, cada l’acqua o nevichi, a me che cosa fa? I PAESANI O che bel mestiere fare il carrettiere andar di qua e di là! ALFIO M’aspetta a casa Lola che m’ama e mi consola, ch’è tutta fedeltà Il cavallo scalpiti, i sonagli squillino, È Pasqua, ed io son qua! (entrano le donne) TUTTI O che bel mestiere fare il carrettiere andar di qua e di là! LUCIA Beato voi, compar Alfio, che siete sempre allegro così! ALFIO Mamma Lucia, n’avete ancora di quel vecchio vino? LUCIA Non so, Turiddu è andato a provvederne. Scena Terza LUCIA, SANTUZZA, ALFIO, PAESANI e PAESANE (Dall’interno schiocchi di frusta e tintinnio di sonagli) ALFIO Se è sempre qui!... L’ho visto stamattina vicino a casa mia. LUCIA (sorpresa) Come? SANTUZZA (rapidamente a Lucia) Tacete. (dalla chiesa si ode intonare l’Alleluja) 53 ALFIO Io me ne vado, ite voi altre in chiesa. (esce) CORO INTERNO (nella chiesa) Regina coeli laetare... Alleluja! Quia quem meruisti portare... Alleluja! Resurrexit sicut dixit. Alleluja! SANTUZZA Io son dannata... Io son dannata. Andate o mamma, ad implorare Iddio, e pregate per me. Verrà Turiddu, vo’ supplicarlo un’altra volta ancora! LUCIA (entrando in chiesa) Aiutatela voi, Santa Maria! (Esce.) Scena Quinta SANTUZZA, LUCIA e CORO ESTERNO (sulla piazza) Inneggiamo, il Signor non è morto! Ei fulgente ha dischiuso l’avel, inneggiamo al Signore risorto oggi asceso alla gloria del Ciel! SANTUZZA e TURIDDU TURIDDU (entrando) Tu qui, Santuzza? SANTUZZA Qui t’aspettavo. CORO INTERNO (nella chiesa) Alleluja! Alleluja! Alleluja! (tutti entrano in chiesa tranne Santuzza e Lucia.) TURIDDU È Pasqua, in Chiesa non vai? Scena Quarta SANTUZZA Non vo. Debbo parlarti... LUCIA e SANTUZZA LUCIA Perché m’hai fatto segno di tacere? SANTUZZA Voi lo sapete, o mamma, prima d’andar soldato, Turiddu aveva a Lola eterna fe’ giurato. Tornò, la seppe sposa; e con un nuovo amore volle spegner la fiamma che gli bruciava il core: m’amò, l’amai. Quell’invidia d’ogni delizia mia, del suo sposo dimentica, arse di gelosia... Me l’ha rapito... priva dell’onor mio rimango. Lola e Turiddu s’amano, io piango, io piango, io piango! LUCIA Miseri noi, che cosa vieni a dirmi in questo santo giorno? TURIDDU Mamma cercavo. SANTUZZA Debbo parlarti... TURIDDU Qui no! Qui no! SANTUZZA Dove sei stato? TURIDDU Che vuoi tu dire? A Francofonte! SANTUZZA No, non è ver! TURIDDU Santuzza, credimi. 54 SANTUZZA No, non mentire, ti vidi volgere giù dal sentier... E stamattina, all’alba, t’hanno scorto presso l’uscio di Lola. SANTUZZA Battimi, insultami, t’amo e perdono, ma è troppo forte l’angoscia mia. TURIDDU Ah! mi hai spiato? Scena Sesta SANTUZZA No, te lo giuro. A noi l’ha raccontato compar Alfio, il marito, poco fa. LOLA (dentro alla scena) Fior di giaggiolo, gli angeli belli stanno a mille in cielo, ma bello come lui ce n’è uno solo. (entrando) Oh! Turiddu... È passato Alfio? TURIDDU Così ricambi l’amor che ti porto? Vuoi che m’uccida? SANTUZZA Oh, questo non lo dire. TURIDDU Lasciami dunque, invan tenti sopire il giusto sdegno colla tua pietà. SANTUZZA Tu l’ami dunque? TURIDDU No... SANTUZZA Assai più bella è Lola. TURIDDU Taci, non l’amo. SANTUZZA, TURIDDU e LOLA TURIDDU Son giunto ora in piazza. Non so... LOLA Forse è rimasto dal maniscalco, ma non può tardare. (ironica) E voi... sentite le funzioni in piazza? TURIDDU Santuzza mi narrava... SANTUZZA (tetra) Gli dicevo che oggi è Pasqua e il Signor vede ogni cosa! LOLA Non venite alla messa? SANTUZZA L’ami, l’ami... Oh! maledetta! SANTUZZA Io no, ci deve andar chi sa di non aver peccato. TURIDDU Santuzza! LOLA Io ringrazio il Signore e bacio in terra. SANTUZZA Quella cattiva femmina ti tolse a me! SANTUZZA (ironica) Oh, fate bene, Lola! TURIDDU Bada, Santuzza, schiavo non sono di questa vana tua gelosia! TURIDDU (a Lola) Andiamo, andiamo! Qui non abbiam che fare. 55 LOLA (ironica) Oh! rimanete! SANTUZZA (a Turiddu) Sù, resta, resta, ho da parlarti ancora! LOLA E v’assista il Signore, io me ne vado. (entra in chiesa) Scena Settima SANTUZZA e TURIDDU TURIDDU (irato) Ah, lo vedi, che hai tu detto? SANTUZZA L’hai voluto, e ben ti sta. SANTUZZA La tua Santuzza piange e t’implora, come cacciarla così tu puoi? TURIDDU Va, ti ripeto, va, non tediarmi, pentirsi è vano dopo l’offesa! SANTUZZA (minacciosa) Bada!... TURIDDU Dell’ira tua non mi curo! (la getta a terra e fugge in chiesa) SANTUZZA (nel colmo dell’ira) A te la mala Pasqua, spergiuro! (cade affranta ed angosciata) TURIDDU (le s’avventa) Ah, perdio! Scena Ottava SANTUZZA Squarciami il petto! (entra Alfio e s’incontra con Santuzza) TURIDDU (s’avvia) No! SANTUZZA (trattenendolo) Turiddu, ascolta! TURIDDU Va. SANTUZZA No, no, Turiddu, rimani ancora. Abbandonarmi dunque tu vuoi? TURIDDU Perché seguirmi, perché spiarmi sul limitare fin della chiesa? SANTUZZA e ALFIO SANTUZZA Oh, il Signore vi manda, compar Alfio. ALFIO A che punto è la messa? SANTUZZA È tardi ormai, ma per voi Lola è andata con Turiddu! ALFIO (sorpreso) Che avete detto? SANTUZZA Che mentre correte all’acqua e al vento a guadagnarvi il pane, Lola v’adorna il tetto in malo modo! ALFIO Ah, nel nome di Dio, Santa, che dite? 56 SANTUZZA Il ver. Turiddu mi tolse l’onore, e vostra moglie lui rapiva a me! ALFIO Se voi mentite, vo’ schiantarvi il core! SANTUZZA Uso a mentire il labbro mio non è! Per la vergogna mia, pel mio dolore la triste verità vi dissi, ahimè! ALFIO Comare Santa, allor grato vi sono. SANTUZZA Infame io son che vi parlai cosi! ALFIO Infami loro! Ad essi non perdono; vendetta avrò pria che tramonti il dì. Io sangue voglio, all’ira m’abbandono, in odio tutto l’amor mio finì... (escono) LE DONNE A casa, a casa, amiche, ove ci aspettano i nostri sposi, andiam. Or che letizia rasserena gli animi senza indugio corriam. TURIDDU (a Lola che s’avvia) Comare Lola, ve ne andate via senza nemmeno salutare? LOLA Vado a casa, non ho visto compar Alfio! TURIDDU Non ci pensate, verrà in piazza. Intanto, amici, qua, beviamone un bicchiere. (tutti si avvicinano alla tavola dell’osteria e prendono i bicchieri) TURIDDU Viva il vino spumeggiante nel bicchiere scintillante, come il riso dell’amante mite infonde il giubilo! Viva il vino ch’è sincero che ci allieta ogni pensiero, e che affoga l’umor nero, nell’ebbrezza tenera. INTERMEZZO TUTTI Viva! Scena Nona LOLA, TURIDDU e I PAESANI TURIDDU (a Lola) Ai nostri amori! (beve) (Tutti escono di chiesa. Lucia entra in casa) GLI UOMINI A casa, a casa, amici, ove ci aspettano le nostre donne, andiam. Or che letizia rasserena gli animi senza indugio corriam. LOLA (a Turiddu) Alla fortuna vostra! (beve) TURIDDU Beviam! 57 TUTTI Beviam! Rinnovisi la giostra! Viva il vino spumeggiante nel bicchiere scintillante, come il riso dell’amante mite infonde il giubilo! Viva il vino ch’è sincero che ci allieta ogni pensiero, e che affoga l’umor nero, nell’ebbrezza tenera. (entra Alfio) Scena Decima I PRECEDENTI e ALFIO ALFIO A voi tutti salute! TUTTI Compar Alfio, salute. TURIDDU Benvenuto! Con noi dovete bere, (empie un bicchiere) ecco, pieno è il bicchiere. TURIDDU Allora sono agli ordini vostri. ALFIO Or ora? TURIDDU Or ora! (Alfio e Turiddu si abbracciano. Turiddu morde l’orecchio destro di AIfio.) ALFIO Compare Turiddu, avete morso a buono... (con intenzione) C’intenderemo bene, a quel che pare! TURIDDU Compar Alfio... Lo so che il torto è mio, e ve lo giuro nel nome di Dio che al par d’un cane mi farei sgozzar, ma... s’io non vivo, resta abbandonata... povera Santa... lei che mi s’è data... (con impeto) Vi saprò in core il ferro mio piantar! ALFIO (respingendolo) Grazie, ma il vostro vino non l’accetto. Diverrebbe veleno entro il mio petto. ALFIO (freddamente) Compare, fate come più vi piace, io v’aspetto qui fuori, dietro l’orto. (esce) TURIDDU (getta il vino) A piacer vostro! Scena Undicesima LUCIA e TURIDDU LOLA Ahimè, che mai sarà? ALCUNE DONNE (a Lola) Comare Lola, andiamo via di qua. (tutte le donne escono conducendo Lola) TURIDDU Avete altro a dirmi? ALFIO Io? Nulla! 58 TURIDDU Mamma... (entra Lucia) Mamma, quel vino è generoso, e certo oggi troppi bicchieri ne ho tracannati... vado fuori all’aperto. Ma prima voglio che mi benedite come quel giorno che partii soldato... e poi... mamma... sentite... s’io non tornassi... voi dovrete fare da madre a Santa, ch’io le avea giurato di condurla all’altare. LUCIA Perché parli così, figliolo mio? SANTUZZA (getta la braccia al collo di Lucia) O madre mia!... (si sente un mormorio lontano) TURIDDU Oh nulla, è il vino che mi ha suggerito. Per me pregate Iddio! Un bacio, mamma... un altro bacio... addio! (l’abbraccia ed esce precipitosamente) Una Donna (gridando da molto lontano) Hanno ammazzato compare Turiddu! (alcune donne entrano atterrite correndo) Scena Dodicesima Una Donna (gridando) Hanno ammazzato compare Turiddu! (tutti gettano un grido. Santuzza cade priva di sensi, Lucia sviene ed è sorretta dalle donne) LUCIA, SANTUZZA e I PAESANI LUCIA (disperata, correndo in fondo) Turiddu?! Che vuoi dire? Turiddu! Turiddu! Ah! (entra Santuzza) Santuzza!... (Cala rapidamente il sipario) FINE DELL’OPERA Figurini della costumista Cristina Aceti per Cavalleria rusticana 59 Ruggiero Leoncavallo Alberto Paloscia Direttore artistico Stagione Lirica e Progetto Mascagni della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno Ruggiero Leoncavallo e il verismo ‘straniato’ Introduzione a Pagliacci [...] Dunque, vedrete amar sì come s’amano gli esseri umani; vedrete de l’odio i tristi frutti, Del dolor gli spasimi, urli di rabbia, udrete, e risa ciniche! [...] Ruggiero Leoncavallo, Pagliacci. Prologo Pagliacci di Ruggiero Leoncavallo (prima rappresentazione: Milano, Teatro Dal Verme, 21 maggio 1892)1, come altri capolavori della “Giovine Scuola Italiana”, ha superato da tempo il secolo di vita. La affiancano, in questo itinerario di vita teatrale ultracentenario, titoli di notevole rilevanza storica e di inscalfibile fortuna esecutiva quali Cavalleria rusticana di Mascagni (Roma, 1890), Manon Lescaut (Torino, 1893), La Bohème (Torino, 1896) e Tosca (Roma, 1900) di Puccini, Andrea Chénier (Milano, 1896) e Fedora (Milano, 1898) di Giordano, nonché opere di grande valore ma oggi scarsamente presenti sui grandi palcoscenici, quali L’Amico Fritz (Roma, 1891), Guglielmo Ratcliff (Milano, 1895) e lris(Roma, 1898) ancora di Mascagni e La Wally di Catalani (Milano, 1892), quest’ultima praticamente coetanea del dramma lirico di Leoncavallo. Né si può dimenticare che un anno dopo la première di Pagliacci, ancora a Milano, il glorioso e intramontabile ‘nume tutelare’ dell’Ottocento operistico italiano, Giuseppe Verdi, si sarebbe congedato dal pubblico con Falstaff. Si tratta quindi di un momento cruciale della storia del teatro musicale italiano. Il triennio 1890-93, in particolare, vede consumarsi gli ultimi lasciti del grande patrimonio operistico romantico e della lezione verdiana in un vero e proprio processo di combustione, nel quale si dissolvono a poco a poco le inquietudini della Scapigliatura musicale e si dà libero corso all’irruenta e ormai irrefrenabile temperatura naturali61 stica già ampiamente presagita, sotto l’egida librettistica di Arrigo Boito, dal realismo del Ponchielli della Gioconda e del Verdi di Otello. È la fase di avvio dell’opera verista, che vede nel trionfale battesimo romano della Cavalleria mascagnana la sua limpida e perentoria affermazione e nell’altrettanto clamoroso successo di Pagliacci due anni dopo il suo definitivo consolidamento. Con Pagliacci il giovane Leoncavallo, nato nel 1857 a Napoli, cresciuto a Montalto di Uffugo presso Cosenza a causa del trasferimento del padre magistrato, formatosi musicalmente presso il Conservatorio di San Pietro a Majella della città natale e dal punto di vista letterario all’Università di Bologna sotto la guida di Carducci, approdava ai clamori e ai fasti della notorietà. L’improvviso momento di gloria seguiva un periodo oscuro di apprendistato iniziato alla metà degli anni Settanta con la progettazione di una trilogia operistica di chiara matrice wagneriana dedicata a grandi personaggi storici del Rinascimento italiano (I Medici, Savonarola, Cesare Borgia), proseguito con l’elaborazione dell’opera Chatterton (1877) e la composizione di numerose liriche da camera (1880-82) e culminato negli anni trascorsi a Parigi (1882-88), nel corso dei quali il musicista-letterato non ancora trentenne aveva spaziato nei più diversi campi: dall’attività di pianista accompagnatore a quella di maestro di canto, dagli impegni con il café-chantant alla composizione di poemi sinfonici (per tenore e orchestra, da Alfred de Musset e i frammenti orchestrali di La Coupe et Ies Lèvres, ancora da de Musset, vengono eseguiti il 3 aprile del 1887 presso la Salle Kriegelstein). Il secondo titolo ‘storico’ dell’opera verista italiana nasceva dopo un rovello esistenziale e creativo per molti versi non dissimile a quello vissuto dall’autore di Cavalleria: come il collega livornese, diviso alla vigilia del battesimo romano tra l’attività di direttore d’operetta e quella di direttore della Filarmonica di Cerignola, anche il musicista napoletano dovette attendere parecchi anni per vedere coronata la propria vocazione teatrale. E come Mascagni, che per gettarsi anima e corpo nell’elaborazione dell’atto unico ‘verghiano’ nell’imminenza del Concorso Sonzogno fu costretto a congelare progetti ben più complessi e ambiziosi (si pensi all’esperienza di Guglielmo Ratcliff), così Leoncavallo accantonerà la gestazione dell’opera ‘prima’ Chatterton (che fu rappresentata a Roma soltanto nel 1896) e i grandiosi Medici (che saranno proposti al Dal Verme nel novembre del 1893, l’anno successivo alla prima di Pagliacci, anche se salutati da accoglienze non altrettanto lusinghiere) per dedicarsi al progetto di Pagliacci. Questo poté concretizzarsi grazie all’appoggio del grande baritono francese Victor Maurel (1848- 1923), prescelto da Verdi per il ruolo di Jago in Otello e futuro primo interprete di Falstaff presso l’editore e impresario Edoardo Sonzogno: l’opera, rifiutata da Giulio Ricordi, che pure aveva sottoscritto con Leoncavallo il contratto per I Medici, viene elaborata, sia per quanto riguarda la stesura librettistica che per quella musicale, in soli cinque mesi nel 1891. 62 Scuola verista e Meridione L’affermazione di Leoncavallo con la nuova opera apre un nuovo importante capitolo nella vicenda della “Giovine Scuola Italiana”: alla terna toscana formata da Catalani, Mascagni e Puccini (un livornese e due lucchesi cui si sarebbe affiancato successivamente il fiorentino Alberto Franchetti, autore di due “grandi opere” di successo, quali Cristoforo Colombo e Germania) che ne aveva sancito l’origine si aggiunge il napoletano Leoncavallo, che riconduce la nuova corrente dell’operismo verista a quelle radici meridionalistiche da cui era scaturito, grazie al contributo di scrittori quali Verga, Capuana, De Roberto e Di Giacomo, il nostro naturalismo letterario. Cosicché tocca a Leoncavallo e ai suoi Pagliacci aprire la fase ‘partenopea’ della “Giovine Scuola”, destinata a proseguire con la produzione di altri due prestigiosi esponenti, entrambi napoletani di formazione o di adozione, il calabrese Francesco Cilèa e il pugliese Umberto Giordano. Pagliacci si inserisce nel filone inaugurato da Cavalleria rusticana e definito da alcuni studiosi come “melodramma delle aeree depresse” (Rodolfo Celletti) o “verismo di coltello” (Rubens Tedeschi): un tipo di opera imperniato sulla terna eros-adulteriosangue che Mascagni, grazie anche alla granitica compostezza delle “scene popolari” di Verga cui si era ispirato e alla scarna essenzialità della sua trasfigurazione musicale e drammaturgica, aveva condotto verso i traguardi di una ieratica tragedia mediterranea: nell’atto unico mascagnano il delitto d’onore, immerso nella festosa cornice della celebrazione pasquale, assumeva la fisionomia di un vero e proprio rito tribale, sancito non solo dalla presenza della vittima designata (Turiddu) e del giustiziere (Alfio), ma anche da quella del celebrante (Santuzza). Anche se Pagliacci ripropone, su scala ridotta, certe componenti del capolavoro di Mascagni - il Prologo che pare riallacciarsi al Preludio e alla Siciliana intonata dal tenore en coulisse, autentiche prefigurazioni del dramma che si consumerà sulla scena; l’ambientazione da torrida festa mediterranea: alla Pasqua siciliana dell’opera mascagnana si sostituisce la calura del ferragosto calabrese; la parentesi lirica dell’intermezzo sinfonico, nei quale si scaricano le tensioni prima che l’azione precipiti inesorabilmente verso la catastrofe finale -, la moda che di lì a poco dilagherà nella neonata scuola verista rischierà spesso di confondere l’affiato tragico e la concentrazione drammaturgica del modello con la retorica del cuore in mano e con il più trito bozzettismo oleografico. È il caso di una lunga serie di titoli che scaturiranno in breve tempo dal successo dell’accoppiata storica del verismo operistico (Cav. & Pag., secondo la celeberrima definizione anglosassone) corrompendo nelle tentazioni del facile folclorismo gli alti traguardi dei due titoli ‘capofila’. Tale corrente, che da Mala vita di Giordano (1892) e da A basso porto di Spinelli (1894), entrambe ambientate nei bassifondi di Napoli, si spingeranno, senza tralasciare la stanca ripetizione di Silvano di Mascagni (Milano, 1895: una versione fiacca ed edulcorata di Cavalleria trasferita dalla rustica Sicilia a una ben più oleografica riviera pugliese), fino al nuovo secolo, chiudendo la propria parabola con la tardiva adesione al più sanguigno colorismo partenopeo del ‘neoclassico’ WolfFerrari (I gioielli della Madonna, Berlino 1911)2. 63 Oggettivismo e gusto della citazione Nell’opinione di molti studiosi Pagliacci rappresenterebbe una sorta di manifesto poetico-programmatico dell’opera verista proprio per la singolare presenza del Prologo, in genere affidato allo stesso baritono scritturato per il ruolo di Tonio “lo scemo”, ovvero il motore occulto di tutta l’azione: lo stesso personaggio a cui viene affidato l’ultima laconica frase dell’opera (“La commedia è finita!”), quasi a sottolineare la coerenza dell’assunto drammaturgico. Il cantante, dopo la brillante introduzione affidata all’orchestra e l’esposizione - ancora in orchestra- dei temi della disperazione di Canio (il celeberrimo “Ridi pagliaccio”), della sua gelosia e della passione che lega Nedda a Silvio, appare sul proscenio a sipario ancora calato ed espone i principi ispiratori dell’opera: la volontà di trasferire sulla scena una tranche de vie (“L’autore ha cercato invece pingervi/uno squarcio di vita”) e di ispirarsi alla vita vissuta (“Egli ha per massima/sol che l’artista è un uom e che per gli uomini/scrivere ei deve. - Ed al vero ispiravasi”), le inclinazioni autobiografiche dell’autore che vuole rievocare un fatto di cronaca vissuto in prima persona durante la sua infanzia3 (“Un nido di memorie in fondo all’anima/cantava un giorno, ed ei con vere lacrime/scrisse, e i singhiozzi il tempo gli battevano”), il taglio oggettivo, scientifico, di ascendenza quasi ‘zoliana’, della descrizione dei sentimenti e delle reazioni spesso esasperate dei protagonisti (“Dunque, vedrete amar sì come s’amano/gli esseri umani [...]). L’esperimento leoncavalliano, considerato dall’esegesi ufficiale come una delle invenzioni più audaci di Pagliacci, in realtà era già stato preceduto, come ricorda Mario Morini, dal Prologo dalla pièce teatrale di Pietro Cossa Nerone, dalla quale Mascagni avrebbe tratto il suo ultimo lavoro teatrale4; nè si può tacere del già citato modello dell’Introduzione di Cavalleria rusticana, opera da cui Pagliacci deriva tanti codici stilistici ed elementi strutturali, pur non riproponendone il respiro epico-tragico5. Ma l’aspetto che più differenzia lo stile musicale e la drammaturgia di Pagliacci dai traguardi degli altri autori della “Giovine Scuola” è il gusto del pastiche che informa di sè tutta la costruzione dell’opera. Il metodo compositivo leoncavalliano è lontano sia dalla tecnica analogica di Puccini, sia dall’impeto sperimentale legato alla declamazione del testo tipico di Mascagni, sia dal gusto abile e sintetico del ‘montaggio’ di situazioni teatrali e musicali proprio di Giordano, sia dall’intimismo di marca massenetiana cui approdò la malinconica vena intrisa di cantabilità ‘partenopea’ di Cilèa. La vocazione al collage e al potpourri stilistico, all’assemblaggio dei più disparati materiali musicali, alla citazione di composizioni preesistenti, legate tanto alla grande letteratura operistica quanto al patrimonio sinfonico e strumentale classico-romantico curiosamente esplorato dagli operisti italiani di fine Ottocento6, si devono necessariamente ricollegare agli anni del suo soggiorno francese, al suo contatto perenne con il mondo dell’operetta, della commedia musicale e del café-chantant. Un aspetto quest’ultimo che ci porta a ridimensionare non poco la tradizionale reputazione di un Leoncavallo esplosivo campione di cantabilità e visceralità mediterranea e a riconoscere, accanto all’infatuazione wagnenana del musicista napoletano, le radici 64 inconfondibilmente francesi della sua drammaturgia musicale. Leoncavallo, al pari di Puccini e in misura forse maggiore rispetto a Mascagni e a Giordano, guarda alla musica francese come a un modello fondamentale. I suoi punti di riferimento non sono esclusivamente le oasi liriche di Gounod, di Thomas e di Massenet a cui si ispira soprattutto il Puccini degli esordi, ma la vena disincantata, parodistica e un po’ cinica del Bizet di Carmen e dell’operetta di Jacques Offenbach. Il gusto distaccato della citazione e del calco stilistico si rivela in parecchie situazioni musicali e teatrali di Pagliacci, autentici tòpoi operistici reinventati o riciclati da Leoncavallo con un’asciuttezza che saremmo tentati di definire ‘neoclassica’. Si pensi, oltre alla già ricordata cornice di festa paesana desunta da Cavalleria, al personaggio di Nedda - nome che è già una citazione: probabilmente un omaggio all’omonima novella di Giovanni Verga -, femme fatale sfrontata e provocatrice che spinta dalla sua ansia di libertà corre impavida verso la lama omicida del consorte geloso come una reincarnazione di Carmen, al rapporto subdolo e possessivo che viene a instaurarsi fra il vendicativo Tonio - che a sua volte unisce la deformità di Rigoletto alla malvagità e alla lascivia di un altro torvo baritono vilain: Barnaba della Gioconda - e il passionale e istintivo Canio, che ripropone la complicità tra il protagonista e Jago nell’ Otello shakespeariano prima e verdiano-boitiano poi. Perfino la coltellata di Canio a Nedda e a Silvio rinvia al finale di Carmen, immerso com’è l’inatteso fatto di sangue in un quadro di euforia popolaresca. Anche l’idea del teatro nel teatro, di cui Pagliacci, ancora prima di lris e delle Maschere mascagnane, di Tosca di Puccini, di Adriana Lecouvreur di Cilèa, di Zazà dello stesso Leoncavallo - gli ultimi titoli sono accomunati dal fatto di essere dominati dalla figura di una grande ‘diva’ protagonista: una cantante, un attrice della Comédie-Francaise e una canzonettista - rappresenta la prima incarnazione nel teatro d’opera di marca naturalista, precedendo perfino le scoperte della drammaturgia pirandelliana, aveva avuto un precedente illustre sempre nel teatro di Shakespeare, nella grande scena catartica della recita di corte organizzata dal protagonista per il re e la regina madre in Amleto. E ribadirebbe una tendenza propria di certo teatro musicale del Settecento e del primo Ottocento, incline a mettere in scena intrecci imperniati su impresari, scrittori, cantanti e attori (dall’Impresario di Mozart - Stephanie all’Opera seria di Gassmann-Calzabigi fino al Turco in Italia di Rossini-Romani, alla Cenerentola di Rossini-Ferretti e a Don Pasquale di DonizettiRuffini) anticipando la tematica della “mascherata”, del travestimento, della finzione e del “metateatro” in parte adottato da Verdi in Falstaff e sempre più rilevante nel panorama del teatro musicale europeo del Novecento storico: da Arlecchino di Busoni a Gianni Schicchi di Puccini, da Der Rosenkavaller, Ariadne auf Naxos e Capriccio di Richard Strauss a Lulu di Berg. Un tema, quello del metateatro, che si rivela come uno dei più interessanti fili conduttori della poetica del verismo operistico e che in Leoncavallo si tinge, come spesso avviene nella sua produzione teatrale, di tinte fortemente autobiografiche: il suo amore per gli artisti girovaghi, per la vita bohémienne, per gli spettacoli ‘di strada’ tipo 65 circo, music-hall e cabaret costituisce una costante del suo nutrito catalogo di opere, operette e balletti. Basti ricordare, dopo la fondamentale esperienza di Pagliacci, il continuo riaffiorare di questi generi teatrali ‘alternativi’ in titoli quali le già ricordate Bohème e Zazà, i dimenticati Zingari da Puškin, la pantomima cantata Pierrot au cinéma, il balletto La vita di una marionetta. Tematica quella del “gioco dello spettacolo” che, come scrive Adriana Guarnieri Corazzol, “conferma la contiguità tra narrativa e opera verista, nella quale il ruolo (socialmente basso) di cantante o di attore di un protagonista off re infinite occasioni di straniamento: nella costante tendenza di questo tipo operistico all’autorappresentazione, alla dissociazìone dei piani del rappresentato, alle strategie di simulazione. Pagliacci, Zazà, Tosca, Adriana Lecouvreur sono drammi che puntano interamente sulla dimensione autoriflessiva a fini drammaturgici; altre opere ricorrono più genericamente alla dimensione autoriflessiva della musica in scena. La loro ‘verità’ consiste propriamente in uno sdoppiamento della scena e del tessuto sinfonico: la contaminatio delle lingue, quell’urto di tragico e di comico, di lirico e di operettistico che è così tipico dell’opera verista (e del realismo ottocentesco largamente inteso); il suo particolarissimo ‘mezzo carattere”7. Straniamento e vertigine Accanto a tale impostazione drammaturgica è importante rilevare un altro forte contrappeso che impedisce a Pagliacci di cadere nei tranelli del verismo più scontato e plateale: l’impostazione tutta intellettualistica del libretto, dominato da un rigore costruttivo che ha i suoi nuclei ispiratori nel già ricordato tema del teatro nel teatro, in quello della risata smorfiosa e forzata del buffone e dell’uomo deforme già immortalato da Victor Hugo in Notre-Dame de Paris, in L’homme qui rite in Le roi s’amuse e ìn quello della tematica della maschera tragica o allucinata che trapasserà direttamente nella letteratura simbolistico-estetizzante dei poeti parnassiani e maudits (Gautier, de Banville, Mallarmé, Baudelaire), nella pittura di Picasso e avrà il suo coronamento espressionistico nelle esperienze del Pétrouschka stravinskiano e nel Pierrot Lunaire di Schònberg e Guiraud8. Come ha sottolineato Folco Portinari a proposito del libretto di Pagliacci: [...] le intenzioni veristiche sono parzialmente corrette perché vanno a innestarsi non sopra un tessuto documentario quanto piuttosto simbolico. L’intervento intellettualistico sposta l’asse strutturale del lavoro e realizza le intenzioni poetiche in un gioco di corrispondenze speculari, simbolistiche, nello scambio fra finzione e realtà. Perché gli attori sono, sulla scena, contemporaneamente uomini. Gioco antico, questo del teatro nel teatro, gioco colto, ben lontano dalle istanze veriste ‘fotografiche’. Non basta, del teatro Leoncavallo coglie l’espressione più ambigua, il pagliaccio, istituzionalmente polimorfo perché ‘truccato’, abilitato da sempre ai contrasti oppositivi di apparenza e realtà, riso e pianto, farsa e tragedia, radunati nell’unica persona dell’attore-uomo: “Tramuta in lazzi lo spasimo e il pianto;/ In una smorfia il singhiozzo e il dolor.../Ridi pagliaccio, sul tuo amore infranto!/ Ridi sul duol che t’avvelena il cor!”. Una condizione turbante, di decadente morbosità, un tema che gira già nell’aria per diventare tra poco un motivo di moda, quello del clown, del guitto, del saltimbanco, tra Laforgue e Picasso, tra Severini e Palazzeschi. 66 La trouvaille è quella, altrimenti ci troveremmo di fronte al più banale e convenzionale canovaccio, con un marito tradito dalla moglie e che, geloso, la uccide a coltellate assieme all’amante, dopo la delazione vendicativa d’un gobbo respinto dalla donna. Ma a ciò si arriva su un doppio binario, della realtà aneddotica e della sua parabola e della sua parallela riproduzione scenica nella piéce recitata dai commedianti: quando Canio uccide Nedda, è anche Pagliaccio che uccide Colombina. La cosa non mi importerebbe più di tanto e rientrerebbe in un’operazione naturale nell’ambito degli scambi fra verismo e decadentismo se questa ambiguità e questo gioco non si riflettessero pure nella musica. Infatti mi sembra difficile, benché mi occupi del libretto, poter dimenticare la musica che l’accompagna, quale l’apertura dei due atti con cori contadini abbastanza illustri (con intrasentite citazioni di Carmen); l’intermezzo, un pezzo di colore, evasivo, su parole che dicono poco, ‘Don, din, don, din, don” e l’uso funzionale e illustrativo degli archi nella successiva aria pascoliana di Nedda; e soprattutto la “commedia”, con al centro la romanza di Arlecchino “O colombina”, di colta costruzione9. È proprio da tale ambiguità che la musica di Pagliacci deriva il suo fascino e la sua modernità. La commìstione di stilemi musicali colti con il triviale e il salottiero10come non riconoscere nella Ballatella di Nedda e in tanti squarci del duetto d’amore Nedda-Silvio (“Decidi il mio destin,/ Nedda, Nedda rimani!”, “Non mi tentar’ Vuoi tu perder la vita mia?”, “E allor perché, di’, tu m’hai stregato”) le seduzioni melodiche della canzone da balera e la cantabilità accorata e sentimentale della romanza da salotto, due generi coltivati ampiamente dall’autore le cui suggestioni ritroveremo anche nelle migliori pagine della Bohème e dì Zazà? - di ammiccamenti colti - l’Omaggio al cromatismo wagneriano del leitmotiv strisciante della gelosia di Canio e della vendetta di Tonio, che riecheggia tanto le cupe atmosfere del Nibelheim quanto l’ansia omicida dell’Otello verdiano - e di ricercati e preziosi arcaismi - le movenze neoclassiche derivate dallo strumentalismo settecentesco11, che si impongono con l’avvio della commedia come corpus estraneo alla crudezza da fatto di cronaca della vicenda vera e propria conferiscono all’opera quella cifra di verismo ‘straniato’ che ne costituisce uno dei tratti più geniali e moderni. L’ibridismo stilistico, la sovrapposizione fra un linguaggio ‘colto’ e un linguaggio di ‘consumo’, l’invadenza della citazione e del pastiche nell’assunto musicale e drammaturgico che Pagliacci impone per la prima volta nell’iter dell’opera verista creano quel senso di vertigine e di sospensione che molti studiosi della drammaturgia musicale leoncavalliana hanno più volte sottolineato e che ci pare particolarmente incisiva nella scena della commedia del secondo atto. Non si tratta, come scrive Carlo Piccardi, di “un semplice cambiamento di situazione, ma è uno scarto richiesto dalla coscienza dello spettatore il quale, invitato dapprima a lasciarsi coinvolgere nell’impetuoso procedere degli avvenimenti, a questo punto deve tener presente la distinzione tra i due livelli, quello dell’azione principale e quello appunto del teatro nel teatro, che da una parte ha funzione caratterizzante di momento partecipante all’azione principale (Colombina è pur sempre Nedda, Pagliaccio è pur sempre Canio), ma che, dall’altra, come procedimento caratterizzato, ha una sua logica indipendente di svolgimento. 67 [...] nei Pagliacci (il teatro nel teatro) viene ad occupare una vasta porzione di un intero atto su un arco in cui si svolge una vera e propria azione parallela ed in cui, per tutta la sua durata, è possibile dimenticare la realtà che ad essa sta intorno. L’insistenza in tale dimensione ha senz’altro una precisa funzione drammaturgica, di esasperare il confronto con la brutalità del reale richiamata dalle [...] parole (parlate appunto e non cantate): ‘la commedia è finita’. Mai come altrove in Leoncavallo i due mondi, quello della realtà rappresentata e quello della finzione rappresentata, risultano a tal punto in conflitto, in un modo che, profilando ambedue con uguale credibilità di gesti, li staglia come prospettive ugualmente percorribili”. Una drammaturgia, quindi, imperniata su un sottile gioco speculare, la cui “intensa impressione di vertigine [...] è procurata dall’effetto espressionistico generato dal contrasto fra la prosopopea melodrammatica con cui Leoncavallo presume di interpretare il soggetto grandguignolesco e l’effettiva sensibilità del musicista, ch’è da operetta e da romanza da salon; risultato derivante dall’impasto di atteggiamento dotto, gusto musicale d’intrattenimento, fondamentale osservanza di un modulario intimamente consunto. Wagnerismo, genere leggero, retorica melodrammatica, folklore di maniera, spettacolo povero, sgangherato, e artificio intellettualistico di straniamento e di teatro nel teatro, infine pagliacci, coltellate, sangue: i Pagliacci devono il loro successo alla fortunata coincidenza del soggetto con la guitteria formale della sua esposizione, consentita dalla disponibilità dei ritrovati sul campo e di una tradizione divenuta inerte. [...] “(Piero Santi)12. Di qui si spiega lo scarso successo di critica che ha sempre accolto Pagliacci nel nostro paese e in Francia - dove l’opera è stata spesso considerata come l’emblema della più rozza e sfacciata Trivialmusik - e l’incondizionata ammirazione che il capolavoro di Leoncavallo ha ottenuto invece nei paesi di area germanica e mitteleuropea fin dalle sue prime apparizioni; di qui l’appassionata rivalutazione intrapresa in tempi più o meno recenti dai grandi studiosi della dodecafonia, quali René Leibowitz e Roman Vlad, che nell’icastica e violenta concentrazione musicale e drammatica di Pagliacci hanno ravvisato una forma di espressionismo musicale ante litteram. Scrive il Leibowitz: I Pagliacci resteranno indubbiamente per molto tempo l’esempio più tipico del ‘gioco tragico’, concezione che è alla base di Così fan tutte e di tante altre opere liriche, e che qui raggiunge la più intensa gravità. [...] Nessuna delle opere posteriori sorte sulla scia delle stesse concezioni drammatiche - neppure forse i successi più brillanti del genere, come Arianna a Nasso e Capriccio di Richard Strauss - saprà farci ritrovare questo prestigioso duplice gioco di una realtà fittizia che continuamente si risolve in una realtà diversa, ma egualmente illusoria: gioco in cui i due piani dell’azione scenica tendono continuamente a confondersi, lasciandoci una sola intensa impressione di vertigine13. 68 1 2 3 4 5 6 L’opera, diretta dal giovane Arturo Toscanini, ebbe quali interpreti Adelina Stehle (Nedda), Fiorello Giraud (Canio),Victor Maurel (Tonio), Francesco Daddi (Peppe) e Mario Roussel (Silvio). Ci pare interessante sottolineare che gran parte dei titoli scaturiti dalla fortuna di Cavalleria, soprattutto quelli non ambientati in Sicilia, rifuggano dai toni idilliaci e agresti del modello mascagnano per abbracciare temi più smaccatamente vicini alla cronaca nera e di più forte impegno sociale. Si pensi alle opere di soggetto napoletano, capeggiate da Mala vita di Giordano - che dopo il trionfale battesimo romano del 1892 sarà accolta dal pubblico del San Carlo di Napoli con un colossale fiasco - e rappresentate autorevolmente da A Santa Lucia di Pierantonio Tasca (Berlino, 1892) e A basso porto di Nicola Spinelli (Colonia, 1894), i cui libretti sono imperniati sulle piaghe sociali del ‘ventre’ di Napoli: prostituzione, violenza sessuale, banditismo, alcoolismo. Tra gli studi più recenti dedicati all’opera verista ‘di coltello’ segnaliamo i contributi di Virgilio Bernardoni (Varianti “rusticane” nell’opera italiana di fine Ottocento, in Cavalleria rusticana 1890-1990: cento anni di un capolavoro, a c. di R e N. Ostali, Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1990, pp. 75-85), Rodolfo Celletti (Napoli verista, in “Rassegna Musicale Italiana. Rivista di Musicologia”, III, n. , Salerno 1998, pp. 6-9) e l’esauriente monografia di Stefano Scardovi, L’opera dei bassifondi. Il melodramma “plebeo” nel verismo musicale italiano, Libreria Musicale Italiana, Lucca 1994. Si leggano a tale proposito le pagine tratte dall’autobiografia inedita di Leoncavallo. Ma oltre al fatto di cronaca di cui il giovanissimo Leoncavallo fu testimone involontario, le radici del soggetto di Pagliacci devono essere necessariamente identificate in due pièces teatrali in voga sulle scene europee di fine Ottocento: la tragicommedia in un atto Le Femme de Tabarin di Catulle Mendès, rappresentata a Parigi nel 1887 - il cui finale, con il capocomico Tabarin che uccide la moglie adultera di fronte al pubblico che assiste allo spettacolo, si rivela la fonte primaria del libretto di Leoncavallo - e un Un drama nuevo di Estebañez che, come ricorda Mario Morini, venne tradotto e rappresentato in Italia fin dal 1868, e fu tra i cavalli di battaglia di grandi attori quali Ernesto Rossi ed Ermete Novelli. Sul problema delle fonti di Pagliacci, cfr. l’importante contributo di Matteo Sansone, The ‘Verismo’ of Ruggero Leoncavallo:a source study of “Pagliacci” in “Music and Letters”, LXX, 3, agosto 1989, pp. 342-362. Nel Prologo di Nerone di Cossa, rappresentato per la prima volta a Roma nel 1871 e considerato una delle prime manifestazioni di verismo e di uno stile più prosaico all’interno di una tragedia di ispirazione storica, il buffone Menecrate spiega al pubblico che “l’autor s’attenne/a quella scola che piglia le leggi/del verismo, e stimando che in ogn’arte/sia bello il vero, bandi dalla scena/ il verso c’ha romore e non idea,/pago se poté trar voci ed affetti/dal lirismo del cuore” (cfr. Pietro Cossa, Nerone, in Il teatro italiano. La tragedia dell’Ottocento, a c. di E. Faccioli, Einaudi, Torino 1981). Scrive a tale proposito Mario Morini: “Concepita dunque sul modello mascagnano, l’opera ‘verista’ di Leoncavallo era nata anch’essa in un solo atto suddiviso da un intermezzo sinfonico, e come ‘dramma in un atto’ era stato presentato il libretto della prima edizione a stampa: fu durante le prove d’orchestra che si decise, orologio alla mano, di dividerla in due atti. In origine il titolo dell’opera era Pagliaccio, mentre nel cartellone del Teatro Dal Verme essa assumeva quello con il quale erroneamente da molti ancora la si indica, ossia I Pagliacci Il titolo definitivo fu Pagliacci e poiché Cavalleria aveva la novità della ‘Siciliana’ a sipario chiuso, Pagliacci a sipario chiuso ebbero il ‘prologo’ e non importa che fosse una novità alquanto relativa. Con la sostanziale differenza, a confermare l’opportunità dell’uno e l’appiccicatura dell’altro, che la ‘Siciliana’ è già parte dell’azione, mentre il ‘prologo’ non è che l’esposizione di concetti risaputi (tanto che all’Hanslick pareva del tutto superfluo), e si salva solo perché è pur sempre una bella pagina per baritono” (cfr. Mario Morini, “Pagliacci”: anni cento, in Teatro dell’opera di Roma, Programma di sala Stagione 1991-92, pp. 25-26). Tale gusto della citazione si può riconoscere anche in plagi più o meno clamorosi. In Pagliacci si ricordano, accanto a quello di España di Chabrier nel celebre Coro delle Campane, quelli del secondo movimento (Andante con moto) della Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90, Italiana, di Mendelssohn nella melodia di “Un nido di memorie” nel Prologo (cfr. Michele Girardi, Il verismo musicale alla ricerca dei suoi tutori. Alcuni modelli di “Pagliacci” nel teatro musicale “Fin de siècle’ in Ruggiero Leoncavallo nel suo tempo, Atti del 1° Convegno Internazionale di Studi su Ruggiero Leoncavallo, a c. di J. Maehder e L. Guiot (Locarno, ottobre 1991), Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1993, p. 64), del finale dell’ultimo tempo (Allegro appassionato) dal Trio in re minore op. 49 ancora di Mendelssohn nella frase di Nedda “A te mi dono; su me solo impera/Ed io ti prendo e m’abbandono intera” dal duetto d’amore Nedda- Silvio (cfr. Julian Budden, Primi rapporti fra Leoncavallo e la casa Ricordi: cinque missive ancora sconosciute, in Ruggiero Leoncavallo nel suo tempo, Op. cit., pp. 5 1-52) e del movimento lento (Lento, con molta espressione) dalla Sonata in mi maggiore per pianoforte op. 7 di Beethoven nella parte iniziale dell’aria di Canio “Un tal gioco, credetemi” (cfr. in Virgilio Bernardoni, Musiche in teatro: stereotipi strumentali nell’opera italiana di fine ottocento, in Letteratura, musica e teatro al tempo di Ruggiero Leoncavallo, Atti del 2° Convegno Internazionale di Studi su Ruggiero Leoncavallo, a c. di J. Maehder e L. Guiot (Locarno, ottobre 1993), Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1995, pp. 121-1 22). Nè si possono dimenticare gli omaggi a Bach, Rossini e Meyerbeer nella Bohème e l’intrusione di un’Ave Maria suonata al pianoforte in una delle ‘scene madri’ di Zazà, l’incontro fra la protagonista e la bambina di Milio Dufresne alla fine del terzo atto. 69 7 8 9 10 11 12 13 Adriana Guarnieri Corazzol, Opera e verismo: regressione del punta di vista e artificio dello straniamento, in Ruggero Leoncavallo nel suo tempo, Op. cit., p. 26. Cfr. su questi argomenti l’ampio saggio di Carlo Piccardi, Pierrot-Pagliaccio. La maschera tra naturalismo e simbolismo, in Ruggiero Leoncavallo nel suo tempo, cit., pp. 201-245. Folco Portinari, Pari siamo! lo la lingua, egli ha il pugnale. Storia del melodramma ottocentesco attraverso i suoi libretti, Edt Musica, Torino 1981, pp. 248-249. La stessa commistione di stili e di linguaggi, con bruschi passaggi dal ‘sublime’ al ‘volgare’, che caratterizza la scrittura musicale di Pagliacci, è anticipata da Leoncavallo nella scrittura del libretto. Si ricordino certe espressioni plebee ispirate al più concitato e crudo realismo (“Mi fai schifo e ribrezzo”, “Per la Madonna!”, “il ganzo tornerà”), che convivono con espressioni quasi auliche, francamente poco intonate all’ambientazione rustica e popolaresca in cui è immerso l’intreccio. Tale polistilismo è stato indicato da Adriana Guarnieri Corazzol come una delle componenti essenziali dell’opera verista: “L’opera arriva così a sfiorare una poetica del conflitto di stili come disgregazione dell’organismo espressivo operistico tradizionale. I libretti di Leoncavallo sono ad esempio caratteristici per quel loro continuo contaminare l’aulico e il plebeo: il plebeo strania l’aulico, e viceversa. La tecnica è simile a quella che Gozzano attuerà in poesia su un piano letterario alto: l’accostamento stridente di aulico a quotidiano, a reciproca demistificazione. [...] (cfr. Opera e verismo: regressione del punto di vista e artificio dello straniamento, Op. cit., p. 26). L’adozione di forme strumentali di ascendenza settecentesca è un’altra componente stilistica propria degli operistì della “Giovine Scuola Italiana”, molti dei quali - ad esempio Puccini, Leoncavallo, Giordano e Cilèa - provenienti da una solida preparazione ‘classica’ e quindi inclini a conferire una forte coerenza strutturale e formale alle loro opere teatrali grazie all’utilizzazione di stilemi tipici della musica del XVIII secolo. Si pensi ai ‘settecentismi’ utilizzati, oltre che dal Leoncavallo di Pagliacci e della Bohème, da Mascagni nelle Maschere, da Puccini in Manon Lescaut, Bohème e Tosca, da Giordano in Andrea Chénier e da Cìlèa in Adriana Lecouvreur. Quanto a Leoncavallo, le movenze di danza settecentesca erano già state sperimentate, ancora prima che in Pagliacci, in alcuni interessanti lavori giovanili per pianoforte degli anni ‘parigini’, spesso legati al tema della maschera, del saltimbanco e della marionetta (Gavotte, Sarabande, Cortège de Pulcinella, Pantins vivants, Menuet d’Harlequin). Su questo aspetto, cfr. il saggio di Johannes Streicher, Del Settecento riscritto. Intorno al metateatro dei “Pagliacci”, in Letteratura, musica e teatro al tempo di Ruggiero Leoncavallo, Op. cit., pp. 89-101). Piero Santi, Il Sud, che passione!, in “Lyrica. Opera e dintorni”, Anno 3 n. 23, febbraio 1996, Ermitage, Bologna 1996, p. 46. René Leibowitz, Histoire de l’opéra, Buchet- Castel Corrèa, Paris 1957, tr. it. M. Galli de’ Furlani, Garzanti, Milano 1966, p. 314. Caricature di Leoncavallo disegnate da Enrico Caruso, New York, 1907 70 Alessio Pizzech Regista Note di regia per Pagliacci Poesia felliniana nel compiersi della vicenda di Pagliacci. Allo stesso tempo un sottile filo ci riconduce a Pirandello: i comici vengono dal fondo della sala teatrale ed occupano la spazio facendolo vivere nella sua completezza; la storia si snoda tra palcoscenico e platea, distruggendo la quarta parete. Il Clown con la sua malinconia racconta della maschera umana della brutalità che si colora di sogno e di fantasia. Le piccole luci del Circo che calano sulla scena evocano il gioco dell’illusione e di una bellezza a cui Nedda non può e sopratutto non deve dare risposte. La crudeltà delle relazioni si sovrappone al racconto scenico di una finzione sublimata e portata a poesia. La marionetta legata al filo di un destino che va oltre la sua volontà è fonte d’ispirazione in questa lettura dell’opera tutta virata verso le avanguardie del novecento. Il Teatro si colora di illusione e di sogno, vestendo la realtà drammatica del sentire umano: Pagliacci indaga lo straordinario rapporto tra Arte e Vita. Conflitto, questo, che si risolve in una lotta continua all’interno della quale l’individuo si scinde dei tanti Io. La narrazione scenica si snoda con una tale concretezza di relazioni che ben crea contrasto con il mondo della rappresentazione. Sento di leggere Pagliacci come metafora, come sintomo di quel fermento creativo dei primi del novecento che trova consistenza nella riflessione artistica intorno al rapporto volto/maschera; in Leoncavallo tale intuizione si colora di un dato tipicamente mediterraneo disegnando un mondo dove l’istinto maschile sottrae indipendenza e dignità all’universo femminile. Maschera e volto sono i due aspetti di questa poetica di Leoncavallo e sono i motori di una visione complessiva di quest’opera che la pone al centro di una complessa sensibilità europea che ben dipinge un aff resco impietoso dell’uomo uscito dalle temperie ottocentesche: di quanto egli possa “non essere educato al proprio sentire”. Nedda prigioniera quindi di un universo che ha regole date e condivise dagli uomini. Nedda drammaticamente legata da un vincolo economico agli uomini. Nedda che cerca un riscatto ed in esso muore quasi che per lei non ci sia possibile redenzione. 71 La violenza diventa così espressione di un rapporto di forza che domina il sistema di relazioni interpersonali tra i personaggi e che ancora oggi ci parla del difficile dialogo tra maschile e femminile. 72 Pagliacci LA VICENDA Prologo. Tonio, nel costume di Taddeo, come nea commedia che si reciterà in seguito, si presenta come il Prologo e dichiara le intenzioni dell’autore in una sorta dì manifesto verista. Anche se i personaggi vestiranno panni d’istrioni, il pubblico dovrà considerare, oltre i finti sentimenti della scena, le loro reali passioni e la loro profonda umanità. Atto I L’azione si svolge a Montalto, un paese della Calabria, attorno al 1865. È la metà di agosto, la festa dell’Assunta, e alle porte del paese, in uno spiazzo, è montato un teatrino. Giunge il carro dei comici: Canio, capo della compagnia, spesso interrotto dalle urla di una piccola folla, invita i presenti ad intervenire allo spettacolo che si terrà la sera, “a ventitré ore”. Tonio, un altro attore, gobbo e vendicativo, con fare galante cerca di aiutare Nedda, la bella moglie di Canio, a scendere dal carro, ma viene schiaffeggiato e cacciato dal geloso marito. Quando dal pubblico qualcuno lancia insinuazioni sulla galanteria di Tonio, Canio, cupo, ribatte con estrema serietà: “il teatro e la vita non son la stessa cosa”. Se egli, sulla scena nei panni di Pagliaccio, è disposto, per far ridere il pubblico, a lasciarsi ingannare da Nedda-Colombina e da Arlecchino, nella realtà, se scoprisse il tradimento della moglie, la commedia sì muterebbe in tragedia. Le campane suonano il vespro e tutti si allontanano. Rimasta sola, Nedda ripensa con terrore alle parole del marito, quando è raggiunta da Tonio, che, goffamente, le dichiara il suo amore; quindi, acceso dal desiderio agli sprezzanti dinieghi della donna, tenta di baciarla: Nedda lo respinge, colpendolo al volto con una frustata. Tonio giura vendetta. Giunge allora Silvio, un contadino dei dintorni amante di Nedda, ed esorta la giovane a liberarsi del marito geloso e a fuggire con lui l’indomani, quando la compagnia abbandonerà il paese. Nedda, dapprima rifiuta, poi cede. I due sono sorpresi da Tonio, che subito corre ad avvertire Canio; pur precipitandosi immediatamente, egli non riesce a vedere Silvio in faccia, ma sente le ultime parole di Nedda all’amante: “A stanotte, e per sempre sarò tua”. Si avventa allora, folle di gelosia, sulla moglie, intimandole di rivelare il nome dell’amante: al rifiuto della donna, fa per colpirla con un coltello, ma Peppe accorre a fermarlo. Bisogna prepararsi per la recita: il teatro ha le sue leggi. Mentre si trucca e veste i panni di Pagliaccio, Canio riflette amaramente sulla condizione dell’attore, costretto a far ridere anche quando il suo cuore è spezzato dal dolore. 73 Atto II Di fronte ad un pubblico festante, la commedia ha inizio: presso una tavola imbandita Colombina (Nedda) ascolta la serenata che, da fuori, le rivolge Arlecchino (Peppe), quando entra Taddeo (Tonio) a dichiararle il suo amore. Respinto, ironizza pesantemente sulla virtù della donna. Arlecchino entra dalla finestra per cenare con Colombina e le consegna un filtro per far addormentare Pagliaccio (Canio): annunciato da Taddeo, Pagliaccio entra sconvolto e ascolta Colombina congedare l’amante con le solite fatali parole: “A stanotte, e per sempre sarò tua”. L’azione teatrale ripete le situazioni della vita reale. In preda ad un’agitazione crescente, Canio riesce con sempre maggior difficoltà a proseguire nella commedia: il piano della finzione scenica e la realtà si mischiano nella sua mente ed egli si scaglia con violenza sulla moglie perché confessi il nome dell’amante. Anche il pubblico comincia ad accorgersi che qualcosa d’imprevisto sta avvenendo in palcoscenico, mentre Nedda, in preda al terrore, cerca invano di continuare nella finzione della commedia. Ma Canio si avventa su di lei, stravolto dalla gelosia, urlando: “Il nome! il nome!“; poi la trafigge col suo coltello. Nedda muore invocando Silvio, che si slancia sul palcoscenico: Canio colpisce anche lui. Tonio, allora, rivolto al pubblico, annuncia freddamente: “la commedia è finita!” Il maestro Jonathan Webb durante le prove 74 PAGLIACCI Dramma lirico in due atti Parole e musica di RUGGIERO LEONCAVALLO Personaggi Nedda (nella commedia Colombina), attrice da fiera, moglie di Canio soprano Canio, (nella commedia Pagliaccio), capo della compagnia tenore Tonio, (nella commedia Taddeo lo scemo), commediante, gobbo baritono Peppe, (nella commedia Arlecchino), commediante tenore Silvio, campagnolo baritono Un contadino basso Un altro contadino tenore Contadini e contadine, paesani La scena ha luogo in Calabria presso Montalto, il giorno della festa di Mezzagosto, fra il 1865 e il 1870. Prima rappresentazione: Milano, Teatro Del Verme, 21 maggio 1892 75 PROLOGO (Tonio, in costume da Taddeo come nella commedia, esce dal sipario) TONIO Si può?... (salutando) Signore! Signori!... Scusatemi se da sol me presento... - io sono il Prologo: Poiché in iscena ancor le antiche maschere mette l’autore, in parte ei vuoi riprendere le vecchie usanze, e a voi di nuovo inviami. Ma non per dirvi come pria: “Le lacrime che noi versiam son false! Degli spasimi e dei nostri martir non allarmatevi!” No. L’autore ha cercato invece pingervi uno squarcio di vita. Egli ha per massima sol che l’artista è un uom e che per gli uomini scrivere ei deve. - Ed al vero ispiravasi. Figurini della costumista Cristina Aceti per Pagliacci 76 Un nido di memorie in fondo a l’anima cantava un giorno, ed ei con vere lacrime scrisse, e i singhiozzi il tempo gli battevano! Dunque, vedrete amar sì come s’amano gli esseri umani; vedrete de l’odio i tristi frutti. Del dolor gli spasimi, urli di rabbia, udrete, e risa ciniche! E voi, piuttosto che le nostre povere gabbane d’istrioni, le nostr’anime considerate, poiché siam uomini di carne e d’ossa, e che di quest’orfano mondo al pari di voi spiriamo l’aere! Il concetto vi dissi. - Or ascoltate com’egli è svolto. (gridando verso la scena) Andiam. incominciate! (Rientra e si alza il sipario) ATTO PRIMO La scena rappresenta un bivio di strada in campagna, all’entrata di un villaggio. A sinistra una strada, che si perde fra le quinte, fa gomito nel centro della scena e continua in un viale circondato da alberi che va verso la destra in prospettiva. In fondo al viale si scorgeranno, fra gli alberi, due, o tre casette. Al punto ove la strada fa gomito, sul terreno scosceso, un grosso albero; dietro di esso una scorciatoia, sentiero praticabile che parte dal viale verso le piante delle quinte a sinsitra. Quasi dinnanzi all’albero, sulla via, è piantata una rozza pertica, in cima alla quale sventola una bandiera, come si usa per le feste popolari e più in giù, in fondo al viale, si vedono due o tre file di lampioncini di carta colorata sospesi attraverso la via da un albero all’altro. La destra della scena è quasi tutta occupata obliquamente da un teatro di fiera. Il sipario è calato. E su di uno dei lati della prospettiva è appiccicato un gran cartello sul quale è scritto rozzamente, imitando la stampa: Quest’ogi gran rappresentazione. Poi a lettere cubitali: Pagliaccio, indi delle linee illeggibili. Il sipario è rozzamente attaccato a due alberi, che si trovano disposti obliquamente sul davanti. L‘ingresso alle scene è, dal lato destro in faccia allo spettatore, nascosto da una rozza tela. Indi un muretto che, partendo di dietro al teatro, si perde dietro la prima quinta a destra ed indica che il sentiero scoscende ancora, poiché si vedono al disopra di esso le cime degli alberi di una fitta boscaglia. Scena Prima NEDDA, CANIO, TONIO, PEPPE, CONTADINI e CONTADINE (All’alzarsi del sipario si sentono squilli di tromba stonata alternantisi con dei colpi di cassa, ed insieme risate, grida allegre, fischi di monelli e vociare che vanno appressandosi. Attirati dal suono e dal frastuono i contadini di ambo i sessi in abito da festa, accorrono a frotte dal viale, mentre Tonio lo scemo va a guardare verso la strada a sinistra, poi, annoiato dalla folla che arriva, si sdraia, dinnanzi al teatro. Sono tre ore dopo mezzogiorno; il sole di agosto splende cocente.) I CONTADINI (arrivano a poco a poco) - Son qua! - Ritornano! Pagliaccio è là! -Tutti Io seguono, grandi e ragazzi, ai motti, ai lazzi applaude ognun. - Ed egli serio saluta e passa e torna a battere sulla gran cassa. I RAGAZZI (di dentro) - Ehi, sferza l’asino, bravo Arlecchino! 77 CANIO (di dentro) Itene al diavolo! PEPPE (di dentro) To’, biricchino! (I ragazzi fischiano e gridano all‘interno ed entrano in scena correndo) RAGAZZI E CONTADINI - Indietro, arrivano... - Ecco il carretto... - Che diavolerio! Dio benedetto! (Arriva una pittoresca carretta dipinta a vari colori e tirata da un asino che Peppe, in abito da Arlecchino, guida a mano camminando, mentre collo scudiscio allontana i ragazzi. Sulla carretta sul davanti è sdraìata Nedda in un costume tra la zingara e l’acrobata. Dietro ad essa è piazzata la gran cassa. Sul di dietro della carretta è Canio in piedi, in costume da Pagliaccio, tenendo nella destra una tromba e nella sinistra la mazza della gran cassa. I contadini e le contadine attorniano festosamente la carretta.) TUTTI Viva Pagliaccio! Evviva! il principe sei dei pagliacci. I guai discacci tu col lieto umore! Evviva! CANIO Grazie... TUTTI Bravo! CANIO Vorrei... TUTTI E lo spettacolo? 78 CANIO (picchiando forte e ripetutamente sulla cassa per dominar le voci) Signori miei! TUTTI (accostandosi e turandosi le orecchie) Uh! ci assorda... finiscila! CANIO (affettando cortesia e togliendosi il berretto con un gesto comico) Mi accordan di parlar? TUTTI (ridendo) Ah! Con lui si dee cedere, tacere ed ascoltar! CANIO Un grande spettacolo a ventitré ore prepara il vostr’umile e buon servitore! (riverenza comica) Vedrete le smanie del bravo Pagliaccio; e com’ei si vendica e tende un bel laccio. Vedrete di Tonio tremar la carcassa, e quale matassa d’intrighi ordirà. Venite, onorateci, signori e signore. A ventitré ore! TUTTI Verremo, e tu serbaci il tuo buon umore. A ventitré ore! (Tonio si avanza per aiutare Nedda a discendere dal carretto; ma Canio, che è già saltato giù, gli dà un ceffone) CANIO Via di lì! (Poi prende fra le braccia Nedda e la depone a terra. Peppe porta via il carretto dietro al teatro) LE DONNE (ridendo, a Tonio) Prendi questo, bel galante! I RAGAZZI (fischiando) Con salute! (Tonio mostra il pugno ai monelli che scappano, poi si allontana brontolando) TONIO (a parte) La pagherai!... brigante! (scompare sotto la tenda a destra del teatro. Quattro o cinque contadini si avvicinano a Canio) UN CONTADINO (a Canio) Di’, con noi vuoi bevere un buon bicchiere sulla crocevia? Di’, vuoi tu? CANIO Con piacere. PEPPE (ricompare di dietro al teatro e getta la frusta che ha ancora in mano dinnanzi alla scena) Aspettatemi... Anch’io ci sto! (entra dall’altro lato del teatro per cambiar costume) CANIO (gridando verso il fondo) Di’, Tonio, vieni via? TONIO (di dentro) lo netto il somarello. Precedetemi. UN CONTADINO (ridendo) Bada, Pagliaccio, ei solo vuoi restare per far la corte a Nedda. CANIO (sorridendo, ma con cipiglio) Eh! Eh! Vi pare? Un tal gioco, credetemi, è meglio non giocarlo con me, miei cari; e a Tonio... e un poco a tutti or parlo. Il teatro e la vita non son la stessa cosa; no..., non son la stessa cosa! E se lassù Pagliaccio sorprende la sua sposa col bel galante in camera, fa un comico sermone, poi si calma od arrendesi ai colpi di bastone!... Ed il pubblico applaude, ridendo allegramente. Ma se Nedda sul serio sorprendessi... altramente finirebbe la storia, com’è ver che vi parlo... Un tal gioco, credetemi, è meglio non giocarlo. NEDDA (a parte) Confusa io son! CONTADINI (a Canio) Sul serio pigli dunque la cosa? CANIO (un po’ commosso) Io?... Vi pare!... Scusatemi!... Adoro la mia sposa! (Canio va a baciar Nedda in fronte. Un suono di cornamusa si fa sentire all’interno; tutti si precipitano verso la sinistra, guardando fra le quinte) I RAGAZZI (gridando) I zampognari!... I zampognari!... I VECCHI Verso la chiesa vanno i compari. (Le campane suonano a vespero da lontano) GLI UOMINI Essi accompagnano la comitiva che a coppie al vespero sen va giuliva. I VECCHI Le campane... 79 LE DONNE Andiam. La campana ci appella al Signore. TUTTI Andiamo! CANIO Ma poi... ricordatevi! A ventitré ore! (Gli zampognari arrivano dalla sinistra in abito da festa, con nastri dai colori vivaci e fiori ai cappelli acuminati. Li seguono una frotta di contadini e contadine anch’essi parati a festa. Il coro, che è sulla scena, scambia con questi saluti e sorrisi poi tutti si dispongono a coppie ed a gruppi, si uniscono alla comitiva e si allontanano, cantando, pel viale del fondo, dietro al teatro) TUTTI Don, din don, din don, Din don - suona vespero, ragazze e garzon. A coppie al tempio ci aff rettiam. Din don - diggià i culmini il sci vuoi baciar. Le mamme ci adocchiano, attenti, compar! Din don - tutto irradiasi di luce e d’amor, Ma i vecchi sorvegliano gli arditi amador! (Durante il coro, Canio entra dietro al teatro e va a lasciarla sua giubba da Pagliaccio, poi ritorna, e dopo aver fatto sorridendo un cenno d’addio a Nedda, parte con Peppe e cinque o sei contadini per la sinistra. Nedda resta sola) Scena Seconda NEDDA sola, poi TONIO NEDDA (pensierosa) Qual fiamma avea nel guardo! Gli occhi abbassai per tema ch’ei leggesse il mio pensier segreto! Oh! s’ei mi sorprendesse... brutale come egli è... Ma basti, orvia. Son questi sogni paurosi e fole! O che bel sole di mezz’agosto! lo son piena di vita, e, tutta illanguidita per arcano desìo, non so che bramo! (guardando in cielo) Oh! che volo d’augelli, e quante strida! Che chiedon? dove van? chissà... La mamma mia, che la buona ventura annunziava, comprendeva il lor canto e a me bambina così cantava: Hui! Stridono lassù, liberamente lanciati a vol, a voi come frecce, gli augei. Dìsfidano le nubi e il sol cocente, e vanno, e vanno per le vie del cìel. Lasciateli vagar per l’atmosfera, questi assetati d’azzurro e di splendor: seguono anch’essi un sogno, una chimera, e vanno, e vanno fra le nubi d’or! Che incalzi il vento e latri la tempesta, con l’ali aperte san tutto sfidar; la pioggia, i lampi, nulla mai li arresta, e vanno, e vanno sugli abissi e i mar. Vanno laggiù verso un paese strano che sognan forse e che cercano invan. Ma i boèmi del ciel, seguon l’arcano poter che li sospinge... e van... e van! (Tonio durante la canzone sarà uscito di dietro al teatro e sarà andato ad appoggiarsi all’albero, ascoltando beato. Nedda, finito il canto, fa per rientrare e lo scorge.) NEDDA (bruscamente, contrariata) Sei là? credea che te ne fossi andato! 80 TONIO (con dolcezza) È colpa del tuo canto. Affascinato io mi beava! NEDDA Hai tempo... Facendo le smorfie colà! Per ora tal pena... NEDDA (ridendo con scherno) Ah! Quanta poesia!... TONIO Nedda?... Nedda?... TONIO Non rider, Nedda.. NEDDA Va, va all’osteria! TONIO So ben che difforme, contorto son io; che desto soltanto lo scherno e l’orror. Eppure ha il pensiero un sogno, un desìo, e un palpito il cor! Allor che sdegnosa mi passi d’accanto, non sai tu che pianto mi spreme il dolor! Perché, mio malgrado, subito ho l’incanto, m’ha vinto l’amor! (appressandosi) Oh! lasciami, lasciami or dirti... NEDDA (interrompendo e beffeggìandolo) Che m’ami? Hai tempo a ridirmelo stassera, se brami!... TONIO Nedda! NEDDA Stassera! Facendo le smorfie colà, sulla scena! TONIO Non rider, Nedda! Non sai tu che pianto mi spreme il dolore! Non rider, no! Non rider! Subito ho l’incanto, m’ha vinto l’amor! NEDDA (ridendo) ...Tal pena ti puoi risparmiar! TONIO (delirante con impeto) No, è qui che voglio dirtelo, e tu m’ascolterai, che t’amo e ti desidero, e che tu mia sarai! NEDDA (seria ed insolente) Eh! dite, mastro Tonio! La schiena oggi vi prude, o una tirata d’orecchi è necessaria al vostro ardor?! TONIO Ti beffi?! Sciagurata! Per la croce di Dio! Bada che puoi pagana cara!! NEDDA Minacci?... Vuoi che vada a chiamar Canio? TONIO (muovendo verso di lei) Non prima ch’io ti baci! NEDDA (retrocedendo) Bada! TONIO (S’avanza ancora aprendo le braccia per ghermirla) Oh, tosto sarai mia! 81 NEDDA (Sale retrocedendo verso il teatrino, vede la frusta lasciata da Peppe, l’afferra e dà un colpo in faccia a Tonio) Miserabile!... NEDDA Il gobbo è da temersi! M’ama... Ora qui me! disse... e nel bestial delirio suo, baci chiedendo, ardiva correr su me... TONIO (Dà un urlo e retrocede.) Ah! Per la Vergin pia di mezz’agosto, Nedda, lo giuro... me la pagherai!... (Esce, minacciando dalla sinistra.) SILVIO Per Dio! NEDDA (immobile guardandolo allontanarsi) Aspide! Va! Paura non mi fai, io t’ho compreso. Hai l’animo siccome il corpo tuo difforme... lurido!... Scena Terza SILVIO, NEDDA e poi TONIO SILVIO (sporgendo la metà dei corpo arrampicandosi dal muretto a destra, e chiamando a bassa voce) Nedda! NEDDA (affrettandosi verso di lui) Sìlvio! a quest’ora, che imprudenza... SILVIO (saltando allegramente e venendo verso di lei) Ah bah! Sapea ch’io non rischiavo nulla. Canio e Peppe da lunge a la taverna, ho scorto!... Ma prudente per la macchia a me nota qui ne venni. NEDDA E ancora un poco in Tonio t’imbattevi! SILVIO (ridendo) Oh! Tonio il gobbo! 82 NEDDA Ma con la frusta del cane immondo la foga calmai! SILVIO (appressandosi mestamente e con amore a Nedda) E fra quest’ansie in eterno vivrai?! Nedda! Nedda! (le prende la mano e la conduce sul davanti) Decidi il mio destin, Nedda! Nedda, rimani! Tu il sai, la festa ha fin e parte ognun domani. E quando tu di qui sarai partita, che addiverrà di me... della mia vita?! NEDDA (commossa) Silvio! SILVIO Nedda, Nedda, rispondimi: s’è ver che Canio non amasti mai, s’è ver che t’è in odio il ramingar è mestier che tu fai, se l’immenso amor tuo una fola non è questa notte partiam!... fuggi, fuggi con me! NEDDA Non mi tentar! ... Vuoi tu perder la vita mia? Taci Silvio, non più... È delirio,.. è follia! Io mi confido a te, a te cui diedi il cor! Non abusar di me, del mio febbrile amor! Non mi tentar! Pietà di me! Non mi tentar! E poi... Chissà! meglio è partir. Sta il destin contro noi, è vano il nostro dir. Eppure dal mio cor strapparti non poss’io, vivrà sol de l’amor ch’hai destato al cor mio! (Tonio appare dal fondo a sinistra) SILVIO No, più non m’ami! NEDDA Che! TONIO (scorgendoli, a parte) Ah! T’ho colta, sgualdrina! (Fugge dal sentiero minacciando) SILVIO Ti guardo, ti bacio. (stringendola fra le braccia) Verrai? NEDDA Sì... Baciami! Sì, mi guarda e mi bacia! T’amo! SILVIO Sì, ti guardo e ti bacio! T’amo! SILVIO Più non m’ami! Scena Quarta NEDDA Sì, t’amo! t’amo!... NEDDA, SILVIO, CANIO, TONIO, poi PEPPE SILVIO E parti domattina? (amorosamente, cercando ammalliarla) E allor perché, di’, tu m’hai stregato, se vuoi lasciarmi senza pietà? Quel bacio tuo perché me l’hai dato fra spasmi ardenti di voluttà? Se tu scordasti l’ore fugaci, io non lo posso, e voglio ancor quei spasmi ardenti, quei caldi baci, che tanta febbre m’han messo in cor! (Mentre Silvio e Nedda s’avviano parlando verso il muricciuolo, arrivano, camminando furtivamente dalla scorciatoia, Canio e Tonio) NEDDA (vinta e smarrita) Nulla scordai... sconvolta e turbata m’ha questo amor che nel guardo ti sfavilla! Viver voglio a te avvinta, affascinata, una vita d’amor calma e tranquilla! A te mi dono; su me solo impera. Ed io ti prendo e m’abbandono intera! Tutto scordiam! SILVIO Tutto scordiam! NEDDA Negli occhi mi guarda! Baciami! TONIO (ritenendo Canio) Cammina adagio e li sorprenderai! (Canio s’avanza cautamente sempre ritenuto da Tonio, non potendo vedere, dal punto ove si trova, Silvio che scavalca il muricciuolo) SILVIO (che ha già la metà del corpo dall’altro lato, ritenendosi al muro) Ad alta notte laggiù mi terrò. Cauta discendi e mi ritroverai. (Silvio scompare e Canio si appressa all’angolo del teatro) NEDDA (a Silvio che sarà scomparso di sotto) A stanotte e per sempre tua sarò. CANIO (che dal punto ove si trova ode queste parole, dà un urlo) Ah! 83 NEDDA (si volge spaventata e, scorgendo Canio, grida verso il muro) Fuggi! (D’un balzo Canio arriva anch‘esso al muro; Nedda gli si para dinnanzi, ma dopo breve lotta egli la respinge, scavalca il muro e scompare. Tonio resta a sinistra guardando Nedda, che come inchiodata presso il muro, cerca sentire se si ode rumore di lotta) Aitalo... Signor!... CANIO (di dentro) Vile! t’ascondi! TONIO (ridendo cinicamente) Ah! Ah! Ah! NEDDA (al riso di Tonio si volta con disprezzo, fissandolo) Bravo! Bravo il mio Tonio! TONIO (cinico) Fo’ quel che posso! NEDDA È quello che pensavo! TONIO (con intenzione) Ma di far assai meglio non dispero... NEDDA Mi fai schifo e ribrezzo! TONIO (violento) Oh, non sai come lieto ne son! (Canio intanto scavalca di nuovo il muro e ritorna in scena ansante e pallido, asciugandosi il sudore con un fazzoletto di colore oscuro) 84 CANIO (con rabbia concentrata) Derisione e scherno! Nulla! Ei ben lo conosce quel sentiero. Fa lo stesso: poiché del drudo il nome or mi dirai. NEDDA (volgendosi turbata) Chi? CANIO (furente) Tu, pel Padre Eterno!... (cavando dalla cinta lo stiletto) E se in questo momento qui scannata non t’ho già, gli è perché, pria di lordarla nel tuo fetido sangue, o svergognata, codesta lama, io vo’ il suo nome. Parla! NEDDA Vano è l’insulto. È muto il labbro mio. CANIO (urlando) Il nome, il nome, non tardare, o donna! NEDDA No! No, nol dirò giammai... CANIO (slanciandosi furente col pugnale alzato) Per la Madonna! (Peppe, che sarà entrato dalla sinistra, sulla risposta di Nedda corre a Canio e gli strappa il pugnale che getta via tra gli alberi) PEPPE Padron! che fate!... Per l’amor di Dio... La gente esce di chiesa e allo spettacolo qui muove... andiamo,.. via, calmatevi! CANIO (dibattendosì) Lasciami, Peppe! Il nome! Il nome! PEPPE Tonio, vieni a tenerlo. CANIO Il nome! (Tonio prende Canio per la mano mentre Peppe sì volge a Nedda) PEPPE Andiamo, arriva il pubblico. Vi spiegherete! (volgendosi a Nedda e andando verso di lei) E voi di lì tiratevi, andatevi a vestir. Sapete, Canio è violento, ma buon... (spinge Nedda sotto la tenda del teatro e scompare con essa) CANIO (stringendosi il capo fra le mani) Infamia! infamia! CANIO Recitar!... Mentre preso dal delirio non so più quel che dico e quel che faccio! Eppur... è d’uopo... sforzati! Bah! sei tu forse un uom? Tu se’ Pagliaccio! (stringe disperatamente il capo fra le mani) Vesti la giubba e la faccia infarina. La gente paga e rider vuole qua. E se Arlecchin t’invola Colombina, ridi, Pagliaccio.., e ognun applaudirà! Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto; in una smorfia il singhiozzo e il dolor... Ah! Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol che t’avvelena il cor! (muove lentamente verso il teatrino piangendo; però giunto alla cortina, che mena all’interno, la respinge violentemente come se non volesse entrare; poi preso da un nuovo accesso di pianto riprende il capo fra le mani celandosi il volto, rifà tre o quattro passi verso la cortina dalla quale si era allontanato con rabbia, entra e scompare) TONIO (piano a Canio, spingendolo sul davanti della scena) Calmatevi padrone... È meglio fingere; il ganzo tornerà. Di me fidatevi! (Canio ha un gesto disperato, ma Tonio spingendolo col gomito prosegue piano) lo la sorveglio. Ora facciam la recita. Chissà ch’egli non venga allo spettacolo e si tradisca! Or via. Bisogna fingere per riuscir... PEPPE (uscendo dalla tenda) Andiamo, via, vestitevi, padrone. E tu batti la cassa, Tonio! (Tonio va dietro al teatro e Peppe anch’esso ritorna all’interno, mentre Canio accasciato si avvia lentamente) 85 ATTO SECONDO La stessa scena dell’atto primo Scena Prima TONIO, NEDDA, SILVIO, PEPPE CANIO, PAESANI, CONTADINI (Tonio compare dall’altro lato del teatro colla gran cassa e va a piazzarsi sull’angolo sinistro del proscenio del teatrino. Intanto la gente arriva da tutte le parti per lo spettacolo e Peppe viene a mettere dei banchi per le donne) LE DONNE (arrivando) Presto aff rettiamoci, svelto, compare, ché lo spettacolo dee cominciare. Cerchiam di metterci ben sul davanti. TONIO (picchiando la gran cassa) Avanti, avanti! Si dà principio, avanti, avanti! Pigliate posto! Su! GLI UOMINI Veh, come corrono le bricconcelle! Accomodatevi, comari belle! O Dio che correre per giunger tosto! (Silvio arriva dal fondo e va a pigliar posto sul davanti a sinistra salutando gli amici) 86 LE DONNE (cercando sedersi, spingendosi) - Ma non pigiatevi, fa caldo tanto! - Su, Peppe, aiutaci! V’è posto accanto! (Nedda esce vestita da Colombina col piatto per incassare. Peppe cerca di mettere a posto le donne, Tonio rientra nel teatro portando via la gran cassa) PEPPE Sedete, via, senza gridar. TUTTI Via, su, spicciatevi, incominciate. Perché tardate? Siam tutti là! Veh! s’accapigliano... chiamano aiuto! Ma via, sedetevi, senza gridar! (Silvio, vedendo Nedda che gira col piatto per incassare, le va incontro) SILVIO (piano a Nedda, pagando il posto) Nedda! NEDDA Sii cauto! Non t’ha veduto! SILVIO Verrò ad attenderti. Non obliar. TUTTI Suvvia, spicciatevi i Perché indugiate? Incominciate! PEPPE Che furia! Diavolo! Prima pagate! Nedda incassate. TUTTI (volendo pagare nella stesso tempo) Di qua, di qua, di qua. (Nedda dopo aver lasciato Silvio riceve ancora il prezzo delle sedie da altri, e poi rientra anch‘essa nel teatro con Peppe) Questa commedia incominciate. Perché tardar? Facciamo strepito, facciam rumore, diggià suonaron ventitré ore! Allo spettacolo ognun anela! (Si ode una lunga e forte scampanellata all’interno del teatrino) Ah! S’alza la tela! Silenzio! Olà! (Le donne sono parte sedute sui banchi, situati obliquamente, volgendo la faccia alla scena del teatrino; parte in piedi formano gruppo cogli uomini sul rialzo di terra ov’è il grosso albero. Altri uomini in piedi lungo le prime quinte a sinistra. Silvio è innanzi ad essi) Scena Seconda COMMEDIA (La tela del teatrino si alza. La scena, mal dipinta, rappresenta una stanzetta con due porte laterali ed una finestra praticabile in fondo. Un tavolo e due sedie rozze di paglia sono sulla destra del teatrino. Nedda in costume da Colombina passeggia ansiosa, va a sedersi al tavolo, si rialza, va alla finestra, torna a sedersi inquieta) COLOMBINA Pagliaccio mio marito a tarda notte sol ritornerà. E quello scimunito di Taddeo perché mai non è ancor qua?! (si ode un pizzicar di chitarra all’interno; Colombina corre alla finestra e dà segni d’amorosa impazienza) LA VOCE Dl ARLECCHINO (Peppe, di dentro) O Colombina, il tenero fido Arlecchin è a te vicin! Di te chiamando, e sospirando - aspetta il poverin! La tua faccetta mostrami, ch’io vo’ baciar senza tardar... la tua boccuccia. Amor mi cruccia e mi sta a tormentar! O Colombina, schiudimi il finestrin, ché a te vicin di te chiamando, e sospirando - è il povero Arlecchin! A te vicin, è Arlecchin! COLOMBINA (ritornando ansiosa sul davanti) Di fare il segno convenuto appressa l’istante, ed Arlecchino aspetta! (Siede ansiosa volgendo le spalle alla porta di destra. Questa sì apre e Tonio entra sotto le spoglie del servo Taddeo, con un paniere infilato al braccio sinistro. Egli si arresta a contemplare Nedda con aria esageratamente tragica) TADDEO È dessa! (poi levando bruscamente al cielo le mani ed il paniere) Dèi, come è bella! (il pubblico ride) Se a la rubella io disvelassi l’amor mio che commuove fino i sassi! Lungi è lo sposo: perché non oso? Soli noi siamo e senza alcun sospetto! Orsù! Proviamo! (sospiro lungo, esagerato) Ah! (il pubblico ride) 87 COLOMBINA (volgendosi, sprezzante) Sei tu, bestia? TADDEO (immobile) Quell’io son, sì! COLOMBINA E Pagliaccio è partito? TADDEO (come sopra) Egli partì! COLOMBINA Che fai così impalato? Il pollo hai tu comprato? TADDEO (a Colombina, con intenzione) So che sei pura e casta al par di neve! E ben che dura, ti mostri, ad obliarti non riesco! ARLECCHINO (Lo piglia per l’orecchio dandogli un calcio e lo obbliga a levarsi) Va a pig!iar fresco! (il pubblico ride) TADDEO (retrocedendo comicamente verso la porta di destra) Numi! s’aman! m’arrendo ai detti tuoi. (ad Arlecchino) Vi benedico!... là... veglio su voi! (Taddeo esce. Il pubblico ride ed applaude) TADDEO Eccolo, vergin divina! (precipitandosi in ginocchio, offrendo colle due mani il paniere a Colombina che si appressa) Ed anzi, eccoci entrambi ai piedi tuoi, poiché l’ora è suonata, o Colombina, di svelarti il mio cor. Di’, udirmi vuoi? Dal dì... COLOMBINA Arlecchin! COLOMBINA (interrompendolo gli strappa il paniere e lo depone sul tavolo) Quanto spendesti dal trattore? (Colombina va alla finestra, la schiude e fa un segno; poi va verso Taddeo) COLOMBINA Facciam merenda! (Colombina prende dal tiretto due posate e due coltellì. Arlecchino va a prendere la bottiglia, poi entrambi siedono a tavola uno in faccia all’altro) Guarda, amor mio, che splendida cenetta preparai! TADDEO Uno e cinquanta. Da quel dì il mio core... COLOMBINA (presso alla tavola) Non seccarmi Taddeo! (Arlecchino, scavalcata la finestra, depone a terra una bottiglia che ha sotto il braccio, e poi va verso Taddeo mentre questi finge non vederlo) 88 ARLECC H IN O (con affetto esagerato) Colombina! Alfin s’arrenda ai nostri prieghi amor! (si stringono comicamente fra le braccia) ARLECCHINO Guarda, amor mio, che nettare divino t’apportai! (a due) L’amore ama gli effluvii del vin, de la cucina! ARLECCHINO Mia ghiotta Colombina! COLOMBINA Amabile beone! ARLECCHINO (prendendo una boccetta che ha nella tunica) Prendi questo narcotico, dallo a Pagliaccio pria che s’addormenti, e poi fuggiamo insiem. COLOMBINA Sì, porgi! TADDEO (spalanca la porta a destra e traversa la scena tremando esageratamente) Attenti! Pagliaccio... è là... tutto stravolto... ed armi cerca! Ei sa tutto... lo corro a barricarmi! (Entra precipitoso a sinistra e chiude la porta. Il pubblico ride) COLOMBINA (ad Arlecchino) Via! ARLECCHINO (scavalcando la finestra) Versa il filtro nella tazza sua! (Scompare. Canio in costume da Pagliaccio, entra dalla porta a destra) COLOMBINA (alla finestra) A stanotte... e per sempre io sarò tua! CANIO (porta la mano al cuore e mormora a parte) Nome di Dio!... quelle stesse parole!... (avanzandosi per dir la sua parte) Coraggio! (forte) Un uomo era con te. NEDDA Che fole! Sei briaco? CANIO (serio, fissandola con intenzione) Briaco! sì... da un’ora!... NEDDA (riprendendo la commedia) Tornasti presto. CANIO (con intenzione) Ma in tempo! T’accora? T’accora, dolce sposina! (riprende la commedia) Ah! sola io ti credea (mostrando la tavola) e due posti son là! NEDDA Con me sedea Taddeo che là si chiuse per paura! (verso la porta a sinistra) Orsù, parla!... TADDEO (di dentro, fingendo di tremare, ma con intenzione) Credetela! Credetela! Essa è pura!... E abborre dal mentir quel labbro pio!! (il pubblico ride forte) CANIO (rabbioso al pubblico) Per la morte! (poi a Nedda sordamente) Smettiam! Ho dritto anch’io d’agir come ogn’altr’uomo. Il nome Suo... NEDDA (fredda e sorridente) Di chi? CANIO Vo’ il nome dell’amante tuo, del drudo infame a cui ti desti in braccio, o turpe donna! 89 NEDDA (sempre recitando la commedia, scherzando) Pagliaccio! Pagliaccio! CANIO No! Pagliaccio non son; se il viso è pallido, è di vergogna, e smania di vendetta! L’uom riprende i suoi dritti, e il cor che sanguina vuol sangue a lavar l’onta, o maledetta!... No, Pagliaccio non son!... Son quei che stolido ti raccolse orfanella in su la via quasi morta di fame, e un nome off riati, ed un amor ch’era febbre e follia!... (cade come affranto sulla seggiola) GRUPPI DI DONNE - Comare, mi fa piangere! - Par vera questa scena! GRUPPI DI UOMINI - Zitte laggiù! - Che diamine! SILVIO (a parte) lo mi ritengo appena! CANIO (riprendendosi ed animandosi a poco a poco) Sperai, tanto il delirio accecato m’aveva, se non amor, pietà... mercé! Ed ogni sacrifizio al cor lieto, imponeva, e fidente credeva più che in Dio stesso, in te! Ma il vizio alberga sol nell’alma tua negletta: tu viscere non hai... sol legge è il senso a te!... Va, non merti il mio duol, o meretrice abbietta, vo’ ne lo sprezzo mio schiacciarti sotto i piè!... LA FOLLA (entusiasta) Bravo!... 90 NEDDA (fredda, ma seria) Ebben! Se mi giudichi di te indegna, mi scaccia in questo istante. CANIO (sogghignando) Ah! ah! Di meglio chiedere non dèi che correr tosto al caro amante. Sei furba! No, per Dio, tu resterai e il nome del tuo ganzo mi dirai. NEDDA (cercando di riprendere la commedia sorridendo forzatamente) Suvvia, così terribile davver non ti credea! Qui nulla v’ha di tragico. (verso la porta a sinistra) Vieni a dirgli, o Taddeo, che l’uom seduto or dianzi a me vicino era... il pauroso ed innocuo Arlecchino! (Risa tra la folla tosto represse dall’attitudine di Canio) CANIO (terribile) Ah! tu mì sfidi! E ancor non l’hai capita ch’io non tì cedo? Il nome, o la tua vita! Il nome! NEDDA (prorompendo) Ah! No, per mia madre! Indegna esser poss’io, quello che vuoi, ma vil non son, per Dio! VOCI FRA LA FOLLA - Fanno davvero? - Seria è la cosa? - Seria è a cosa e scura! - Zitti, zitti laggiù! SILVIO Io non resisto più! Oh, la strana commedia! (Peppe vuoi uscire dalla porta a sinistra, ma Tonio lo trattiene) PEPPE Bisogna uscire, Tonio. TONIO Taci, sciocco! PEPPE Ho paura! NEDDA Di que! tuo sdegno è l’amor mio più forte... Non parlerò. No... a costo della morte! CANIO (urlando dà di piglio a un coltello sul tavolo) Il nome! Il nome! NEDDA (sfidandolo) No! SILVIO (snodando il pugnale) Santo diavolo! Fa davvero... (Le donne che indietreggiano spaventate, rovesciano i banchi ed impediscono agli uomini di avanzare, ciò che obbliga Silvio a lottare per arrivare alla scena. Intanto Canio, al parossismo della collera, ha afferrato Nedda in un attimo e la colpisce per di dietro, mentre essa cerca di conere verso il pubblico) SILVIO (che è quasi arrivato alla scena) Nedda! (Alla voce di Silvio, Canio si volge come una belva, balza presso di lui e in un attimo lo ferisce) CANIO Ah! Sei tu? Ben venga! (Silvio cade come fulminato) GLI UOMINI Arresta! LE DONNE (urlando) Gesummaria! (Mentre parecchi si precipitano verso Canio per disarmarlo ed arrestano, egli, immobile, istupidito, lascia cadere il coltello) TONIO La commedia è finita!... (Il sipario cala rapidamente) CANIO (a Nedda) A te! A te! Di morte negli spasimi lo dirai! LA FOLLA E PEPPE (che cerca svincolarsi da Tonio) Che fai? Ferma! Ferma! NEDDA (cadendo agonizzante) Soccorso... Silvio! 91 ORT Orchestra della Toscana Violini Primi Andrea Tacchi* Daniele Giorgi* Paolo Gaiani** Angela Asioli Patrizia Bettotti Francesco Di Cuonzo Marian Elleman Chiara Foletto Gianluca Stupia Violini Secondi Chiara Morandi* Marcello D’Angelo** Davide Domenico Alogna Gabriella Colombo Alessandro Giani Susanna Pasquariello Sara Scalabrelli Viole Stefano Zanobini* Pier Paolo Ricci** Caterina Cioli Elena Favilla Alessandro Franconi Agostino Mattioni Violoncelli Luca Provenzani* Simone Tieppo* Christine Dechaux** Stefano Battistini Giovanni Simeone Contrabbassi Gianpietro Zampella* Luigi Giannoni* Vincenzo Venneri Flauti Michele Marasco* Angela Camerini Matteo Armando Sampaolo Oboi Alessio Galiazzo* Flavio Giuliani* Marco Del Cittadino Clarinetti Marco Ortolani* Antonio Duca* Rocco Sbardella Fagotti Paolo Carlini* Umberto Codecà* Corni Andrea Albori* Paolo Faggi* Giulia Montorsi Gianluca Mugnai Tromba Donato De Sena* Filippo D’Asta* Stefano Benedetti Tromboni Antonio Sicoli* Rodolfo Bonfilio Sergio Bertellotti Basso Tuba Riccardo Tarlini* Timpani Morgan M.Tortelli* Percussioni Andrea Bindi Francesca Boccacci Arpe Cinzia Conte* Diana Colosi Ispettore d’Orchestra e Archivista Alfredo Vignoli 92 * Prime parti ** Concertino Coro della Toscana Tenori Leonardo Andreotti Matteo Bagni Davide Battilani Daniele Bonotti Aldo Caroppo Fabrizio Corucci Giambini Maurizio Paolo Pepe Riccardo Pera Alessandro Poletti Francesco Segnini Antonio Tirrò Alfio Vacanti Nicola Vocaturo Soprani Monica Arcangeli Maria Caterina Bonucci Chiung Wen Chang Laura Dalfino Emanuela Dell’Acqua Marcella Gozzi Elisabetta Lombardo Rosalba Mancini Federica Nardi Yvonne Schnitzer Francesca Secondino Mezzosoprani Patrizia Amoretti Sara Bacchelli Fabiola Blandina Aurora Brancaccio Margherita Porretti Baritoni Antonio Della Santa Andrea Paolucci Giuseppe Pinochi Pasquale Russo Contralti Cinzia Borsotti Sabrina Ciavattini Sandra Mellace Donatella Riosa Bassi Antonio Candia Marco Innamorati Alessandro Manghesi Giorgio Marcello Ispettore del Coro Cristina Menozzi Coro Voci Bianche Fondazione Teatro Goldoni Allegro - Vivace Silvia Aloi Viviana Battista Lorenzo Bencreati Ginevra Calvani Agnese Casarosa Sveva Caschili Elena Cavallini Chiara Ceccotti Alice Cristiani Marta Dal Canto Elisa Dell’Agnello Adrian Di Maio Martina Dini Asia Giustini Aurora Iannette Jessica Mandolfi Valentina Pardini Alessia Pezzini Maria Elisa Sammaciccio Caterina Sapuppo Giovanile Mariangela Baroncelli Marica Bonetti Letizia Cappellini Margherita Carnicelli Virginia Cavallini Margherita Di Rosa Ginevra Guarnotta Beatrice Luschi Alessio Mannelli Rosanna Mazzi Martina Niccolini Glenda Tamburini Sara Zenti 93 Produzione Direttore di produzione Franco Micieli Assistente alla regia Valentina Escobar Elettricisti “Benedetti Delta Service” Capo elettricista Vincenzo Turini Elettricisti Cristiano Cerretini Michele Rombolini Genti Shtjefni Assistente costumista Debora Baudoni Responsabile trucco e parrucche Sabine Brunner Videomaker Luca Dal Canto Trucco e parrucche Patrizia Bonicoli Rosy Favaloro Direttore degli allestimenti Daniele Donatini M° collaboratore di sala Anna Cognetta Maestro collaboratore Chiara Mariani Maestro collaboratore alle luci Lorenza Mazzei Maestro ai sovratitoli Giovanni Guastini Luca Stornello Direttore di palcoscenico Michela Fiorindi Capo macchinista Riccardo Maccheroni Mirco Pacini Macchinisti Gabriele Grossi Massimiliano Jovino Pompeo Passaro Servizi complementari di palcoscenico Daniele Bani Andrè Baroni Stefano Ilari Filippo Papucci Andrea Penco Lorenzo Scalsi Attrezzista Donatella Bertone Realizzazione sovratitoli Sergio Licursi 94 Capo sarta Santina Busoni Sarta Clarita Fornari Gloria Bimbocci Allegra Montanelli Figurante Sergio Licursi Ditte Fornitrici Scene Laboratorio Scenografico Fondazione Goldoni Laboratorio Theatralia Costumi Sartoria Tirelli – Roma Attrezzeria Fondazione Goldoni Si ringraziano - Banda Città di Livorno - Fabrizio Di Pietrantonio liutaio Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Regione Toscana Provincia di Livorno Comune di Livorno Fondazione Teatro della Città di Livorno Carlo Goldoni Teatro di Tradizione Soci Fondatori Sostenitori SPIL S.p.A. - CNA Associazione Provinciale di Livorno Porto di Livorno 2000 s.r.l. - Vincenzo Capanna s.a.s. 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