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Cavalleria rusticana Pagliacci

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Cavalleria rusticana Pagliacci
Stagione Lirica 2010-2011
Pietro Mascagni
Cavalleria rusticana
Ruggiero Leoncavallo
Pagliacci
Stagione Lirica 2010-2011
Pubblicazione della Fondazione Teatro della Città di Livorno “Carlo Goldoni”
Teatro di Tradizione
a cura di Federico Barsacchi e Vito Tota
Numero unico, gennaio 2011
Si ringraziano per la preziosa e cortese collaborazione
- Alberto Paloscia
- Fulvio Venturi
- Augusto Bizzi per le foto effettuate durante le prove delle opere
- Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino per la disponibilità alla revisione
e pubblicazione dei saggi di Alberto Paloscia, a cura dello stesso autore.
I libretti di Cavalleria rusticana e Pagliacci sono pubblicati su autorizzazione
della Casa Musicale Sonzogno di Pietro Ostali, Milano.
Nell’immagine di copertina un particolare da M. Chagall Lovers in the moonlight
La Fondazione Teatro Goldoni si riserva di rimborsare eventuali diritti
a coloro che non sia riuscita a rintracciare
Grafica e Stampa
Tipografia e Casa Editrice Debatte Otello S.r.l. - Livorno
Pietro Mascagni (Livorno, 7 dicembre 1863 – Roma, 2 agosto 1945)
Teatro Goldoni, Livorno
Giovedì 3 febbraio, ore 20.30 (Anteprima scuole)
Sabato 5 febbraio, ore 20.30
Domenica 6 febbraio, ore 16.30
Cavalleria rusticana
Melodramma in un atto
libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci
dall’omonima novella di Giovanni Verga
musica Pietro Mascagni
Edizioni Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano
Personaggi e interpreti
Santuzza Raffaella Angeletti / Elena Pankratova
Turiddu Javier Palacios / Mickael Spadaccini
Alfio Anooshah Golesorkhi / Leo An
Mamma Lucia Kamelia Kader / Irene Bottaro
Lola Ozge Kalelioglu / Chiara Mattioli
Pagliacci
Dramma in un prologo e due atti
libretto e musica Ruggiero Leoncavallo
Edizioni Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano
Personaggi e interpreti
Nedda Raffaella Angeletti / Esther Andaloro
Canio Ernesto Grisales / Mickael Spadaccini
Tonio Anooshah Golesorkhi / Leo An
Peppe Giulio Pelligra / David Ferri Durà
Silvio Alessandro Luongo / Marcello Rosiello
Contadini Antonio Della Santa, Nicola Vocaturo
con la partecipazione dell’attrice Elena Croce
direttore Jonathan Webb
maestro del coro Marco Bargagna
maestro del coro voci bianche Marisol Carballo
regia Alessio Pizzech
note a margine Maurizio Costanzo
scene Michele Ricciarini
costumi Cristina Aceti
light designer Valerio Alfieri
Coro della Toscana - Coro Voci Bianche Fondazione Goldoni
ORT Orchestra della Toscana
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno
In coproduzione con Teatro del Giglio di Lucca, Teatro di Pisa e Teatro Comunale “L. Pavarotti” di Modena
Ruggiero Leoncavallo (Napoli, 23 aprile 1857 – Montecatini Terme, 9 agosto 1919)
Livorno, Teatro Goldoni - sabato 5 e domenica 6 febbraio
Modena, Teatro Comunale “L. Pavarotti” - sabato 12 e domenica 13 febbraio
Lucca, Teatro del Giglio - sabato 22 e domenica 23 ottobre
Pisa, Teatro Verdi - sabato 29 e domenica 30 ottobre
Cavalleria rusticana
Melodramma in un atto
libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci
dall’omonima novella di Giovanni Verga
musica Pietro Mascagni
Edizioni Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano
Personaggi e interpreti
Santuzza Raffaella Angeletti / Elena Pankratova
Turiddu Javier Palacios / Mickael Spadaccini
Alfio Anooshah Golesorkhi / Leo An
Mamma Lucia Kamelia Kader / Irene Bottaro
Lola Ozge Kalelioglu / Chiara Mattioli
Pagliacci
Dramma in un prologo e due atti
libretto e musica Ruggiero Leoncavallo
Edizioni Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano
Personaggi e interpreti
Nedda Raffaella Angeletti / Esther Andaloro
Canio Ernesto Grisales / Mickael Spadaccini
Tonio Anooshah Golesorkhi / Leo An
Peppe Giulio Pelligra / David Ferri Durà
Silvio Alessandro Luongo / Marcello Rosiello
Contadini Antonio Della Santa, Nicola Vocaturo
con la partecipazione dell’attrice Elena Croce
- gli artisti si alterneranno nelle recite -
direttore Jonathan Webb
maestro del coro Marco Bargagna
maestro del coro voci bianche Marisol Carballo
regia Alessio Pizzech
note a margine Maurizio Costanzo
scene Michele Ricciarini
costumi Cristina Aceti
light designer Valerio Alfieri
Coro della Toscana - Coro Voci Bianche Fondazione Goldoni
ORT Orchestra della Toscana
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno
In coproduzione con Teatro del Giglio di Lucca, Teatro di Pisa e Teatro Comunale “L. Pavarotti” di Modena
Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Regione Toscana
Fondazione Teatro della Città di Livorno Carlo Goldoni
Teatro di Tradizione
Soci Fondatori
Comune di Livorno
Provincia di Livorno
Si ringrazia
Fondazione Cassa di Risparmi di Livorno
Fondazione Teatro della Città di Livorno Carlo Goldoni
Soci Partecipanti
Sostenitori
SPIL S.p.A.
CNA Associazione Provinciale di Livorno
Porto di Livorno 2000 s.r.l.
Vincenzo Capanna s.a.s.
Menicagli Centro Pianoforti
Apige Servizi s.a.s.
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British Schools of English (Livorno)
Whitehead Alenia s.p.a.
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Debatte Otello s.r.l.
Braccini & Cardini s.r.l.
Zaki Design
Fondazione Teatro della Città di Livorno
Carlo Goldoni – Teatro di Tradizione
Consiglio di indirizzo
Presidente
Alessandro Cosimi Sindaco di Livorno
Consiglieri
Mario Tredici Comune di Livorno
Fausto Bonsignori Provincia di Livorno
Roberto Nardi Camera di Commercio di Livorno
Marco Lami Unicoop Tirreno
Guido Asti Porto Livorno 2000
Giovanni Capanna Capanna Group
Marco Valtriani CNA Livorno
Consiglio di Amministrazione
Presidente Marco Bertini
Consiglieri Aldo Bassoni, Gino Baldi, Alessandro Giovannini
Direttore Amministrativo Vittorio Carelli
Comitato Scientifico
Lorenzo Cuccu Direttore Dip. CMT di Pisa
Marco De Marinis Direttore DAMS di Bologna
Roberto Tessari Direttore DAMS di Torino
Franco Carratori Direttore Artistico Premio Ciampi
Guia Farinelli Comunione Eredi Mascagni
Collegio dei Revisori dei Conti
Presidente Erica Ruscelli
Fabrizio Giusti, Riccardo Sbano
Fondazione Teatro della Città di Livorno
Carlo Goldoni – Teatro di Tradizione
Presidente Alessandro Cosimi Sindaco di Livorno
Presidente CdA Marco Bertini
Direttore Amministrativo Vittorio Carelli
Direttore Artistico Alberto Paloscia
Coordinatore Area Affari Generali, Marketing e Comunicazione
Andrea Pardini
Coordinatore Area Attività e Organizzazione Teatrale
Isabella Bartolini
Ufficio Presidenza Michela Citi, Patrizia Santeramo
Area Affari Generali, Marketing e Comunicazione
Ufficio Stampa, Grafica, CED
Vito Tota (capo Ufficio Stampa), Federico Barsacchi
Sara Martini, Alessandro Vangi
Box Office Lara Berni, Simona Picardi
Ragioneria, Bilancio, Amministrazione personale
Laura Demi (responsabile), Paola Biondi,
Paolo Biondi, Paola Maccheroni
Area Attività e Organizzazione Teatrale
Progetti speciali, Programmazione, Scuole
Raffaella Mori (responsabile),
Silvia Doretti, Carlo Da Prato
Concessioni, Produzioni, Logistica
Michela Fiorindi, Maria Rita Laterra,
Laura Tamberi, Fabio Tognetti
Consulenti
Francesco Torrigiani, Fulvio Venturi
Collaborazioni
Daniele Donatini, Antonio Lotti, Paola Martelli,
Franco Micieli, Daniele Salvini, Sergio Valtriani
Renato Natali, Veglione al Teatro Goldoni. 1918 (part.). Olio su tela. (Firenze, Collezione privata)
Indice
15
Cavalleria rusticana e Pagliacci
Pietro Mascagni e Ruggiero Leoncavallo
di Marco Bertini Presidente CdA Fondazione Teatro Goldoni
17
2011. Cavalleria rusticana e Pagliacci
come specchio dell’universo femminile
di Alberto Paloscia Direttore artistico Stagione Lirica della Fondazione Teatro Goldoni
21
Note a margine
di Maurizio Costanzo
23
Tra modernità e tradizione. Riflessioni sulla drammaturgia
e sulla struttura musicale di Cavalleria rusticana
di Alberto Paloscia Direttore artistico Stagione Lirica della Fondazione Teatro Goldoni
37
Cavalleria e Pagliacci, centoventi anni d’applausi e di passioni
e Cronologia delle rappresentazioni al Teatro Goldoni di Livorno
di Fulvio Venturi Consulente artistico della Fondazione Teatro Goldoni
45
Appunti di lavoro per Cavalleria rusticana
di Alessio Pizzech Regista
Cavalleria rusticana
47 La vicenda
51 Il libretto
61
Ruggiero Leoncavallo e il verismo ‘straniato’
Introduzione a Pagliacci
di Alberto Paloscia Direttore artistico Stagione Lirica della Fondazione Teatro Goldoni
71
Note di regia per Pagliacci
di Alessio Pizzech Regista
Pagliacci
73 La vicenda
75 Il libretto
92
Produzione
Sabato 24 gennaio 2004. Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi autografa il manifesto
di Cavalleria rusticana in occasione dell’inaugurazione del Teatro Goldoni (Stagione Lirica 2004).
Marco Bertini
Presidente CdA Fondazione Teatro Goldoni
Cavalleria rusticana e Pagliacci
Pietro Mascagni e Ruggiero Leoncavallo
Certamente è riduttivo che si ricordino due importanti compositori, sebbene di diversa rilevanza tra loro, soprattutto per le loro opere più acclamate, ma così accade ed
è accaduto. Leoncavallo trae ispirazione da Cavalleria, un gran successo di Mascagni
di soli due anni prima, e compone Pagliacci, senza certo pensare che andranno a rappresentare proprio con la stessa il più celebrato dittico a livello internazionale oltre
100 anni dopo.
Anche coloro che non frequentano la lirica hanno sentito parlare magari una volta
di Cavalleria e Pagliacci, pur se non sia così abituale la loro messa in scena. Anche
per questo, insieme alla Regione Toscana ed ai Teatri di Tradizione Pisa, Lucca e
Modena abbiamo voluto off rire questa produzione. Non è solo per raccontare storie
attraverso il melodramma, un’arte che ha reso l’Italia famosa nel mondo ed è, tuttora,
la nostra più raffinata “ambasciatrice”.
Riteniamo che produrre lirica, oggi, significa anche non essere ridotti ad amare la
mediocrità. Nelle pagine che seguono troverete interessanti riflessioni accanto a spigolature, che vi consentiranno di poter apprezzare a pieno questi due capolavori, che
presentati insieme ci hanno consentito di parlare del nostro presente e del nostro
futuro, accompagnati per mano da sublimi melodie.
Noi siamo dell’idea che la cura del nostro essere sia assicurare il bene del nostro
corpo, ma siamo altrettanto convinti che nell’esistenza di ciascuno di noi saranno la
nostra mente, il nostro animo a rappresentare la riuscita della nostra vita nella consapevolezza e nella conoscenza: quando la bellezza del corpo sfiorisce noi potremo
sempre più abbeverarci alle fonti dell’arte e del sapere. Come sì può affermare che
con la cultura non si mangia! Essa è vita, è ciò che ci permette di aff rancarci dalla
mediocrità per costruire comunità sodali.
Ma la cultura e di essa gli spettacoli dal vivo, prima tra tutti il più complesso la lirica,
rappresentano oltretutto una risorsa fondamentale sotto il profilo economico, una
grande industria che non produce scorie e che coinvolge le più diverse professioni
artistiche, artigiane, terziarie e conferisce ai nostri agglomerati urbani, solitamente,
il loro valore aggiunto.
15
La locandina per la rappresentazione di Cavalleria rusticana al Regio Teatro Goldoni, 1935
Alberto Paloscia
Direttore artistico Stagione Lirica e Progetto Mascagni
della Fondazione Teatro Goldoni
Cavalleria rusticana e Pagliacci
come specchio dell’universo femminile
Il ‘filo rosso’ che caratterizza questa nuova produzione di Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo – ‘dittico’ indissolubile e di assoluto riferimento
nella nascita del filone cosiddetto “verista” all’interno del melodramma nazionale postunitario che torna al Teatro Goldoni e nei cartelloni operistici livornesi dopo quasi
trent’anni di assenza - è l’assoluto rilievo protagonistico della figura femminile. Una
donna forte, determinata, padrona delle proprie azioni e del proprio destino, e per
questo emarginata dal conformismo della comunità e della collettività che la circondano la Santuzza di Cavalleria; vittima invece del proprio destino e della violenza del
maschio la Nedda di Pagliacci, che paga con la vita la sua smania di libertà e di indipendenza. Un tema, quella dell’emarginazione e della violenza a cui è soggetto l’universo femminile, che dagli anni Novanta dell’Ottocento – l’epoca della rivoluzione
industriale e della ricostruzione dell’Italia unita in cui le due opere veriste – entrambe
ambientate in un’arcaica realtà mediterranea della Sicilia e Calabria, furono composte – che continua ripetersi ai nostri giorni: lo confermano i riti di violenza, di stupro
e crudeltà che tuttora si consumano non solo nel Sud dell’Italia, e che il ‘prologo’ di
Maurizio Costanzo mette in evidenza con disincantata lucidità.
Le affinità che legano i due titoli si invereranno sulla scena attraverso la diversa impostazione delle due ‘riletture’ registiche firmate dal regista Alessio Pizzech: asciutta,
tragica, inesorabile come una sacra rappresentazione quella di Cavalleria rusticana;
sospesa fra gli umori surreali del cinema felliniano e la poetica ‘crudezza’ di certo
Pasolini quella di Pagliacci.
L’idea registica di Cavalleria rusticana manterrà i luoghi deputati del libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci: l’osteria, la chiesa, la piazza, ma il tutto immerso nella
cupezza di una Sicilia terremotata – come non pensare al Visconti della Terra trema,
sperimentale capolavoro della fase ‘neo-realistica’ del grande cineasta milanese – in
cui spetta alle luci, ai fondali proiettati, alla componente multimediale evocare gli
aspetti naturalistici – il sole, il calore mediterraneo e il mare -, evitando qualsiasi tentazione bozzettistica. La dimensione di sacra rappresentazione ‘tragica’ è accentuata
17
dal ruolo protagonistico di Santuzza: l’esclusa, l’emarginata, la “scomunicata” - come
recitano tanto la pièce teatrale di Verga quanto il libretto musicato da Mascagni,
che di quella pièce è trasposizione fedelissima. Santuzza che non partecipa alle gioie
quotidiane della collettività rappresentate dal coro, il lavoro, la vita nei campi, la vita
di coppia, il tutto realizzato in questa messinscena nella ritualità del matrimonio,
cantato a pieni polmoni nel Coro iniziale “Gli aranci olezzano”, autentica apoteosi
di quell’ ‘isola felice’ rappresentata dalla vita coniugale da cui la ‘peccatrice’ Santuzza
è obbligatoriamente esclusa, che vive in un propria angosciosa solitudine di reietta:
“fate come il Signore a Maddalena” chiede disperatamente a mamma Lucia, paragonandosi alla prostituta perdonata dal Cristo. Ma è pure l’emarginata Santuzza ad
assumere il ruolo del ‘celebrante’ in un rito – quello della Pasqua – il cui tema è quello
del sacrificio e della resurrezione del Salvatore; di qui quel connubio tra tragedia
mediterranea, rito scarificale e solennità religiosa che contraddistingue il capolavoro
di Mascagni e che diviene il punto di partenza di questa nuova lettura registica.
L’aspetto rituale di un’ineluttabile fatalità verranno messi in evidenza dalla dimensione atemporale dei costumi, non riconducibili all’oleografia della tradizione, ma
all’inesorabile ripetizione di un rito.
Affatto diversa la dimensione visiva di Pagliacci, l’opera in cui la temperatura naturalistica inaugurata dal modello di Cavalleria viene immersa dal napoletano Leoncavallo nell’atmosfera del “metateatro”, della finzione, della maschera insieme malinconica
e grottesca: tutte tematiche che saranno care alla poetica delle avanguardie storiche
del Novecento, da Pirandello all’espressionismo, dalle avanguardie pittoriche francesi
al simbolismo, al neoclassicismo di Stravinsky e a Picasso, fino al cinema di Federico
Fellini (si pensi all’esperienza del mondo circense e clownesco dipinto nel 1954 con
malinconica poesia nella Strada). Qui la connotazione temporale sarà molto marcata
rispetto all’arcaica astrattezza di Cavalleria: il riferimento sarà quello della Dolce vita
di Fellini (1960), con una Nedda divisa tra la mortificante routine matrimoniale impostale dal violento e brutale ‘capocomico’ Canio e le seduzioni di un Silvio fascinoso
come un giovane Marcello Mastroianni. Tutta la prima parte dell’opera, quella in cui
si narrano i fatti nudi e crudi di gelosia e tradimento, vedrà l’azione scenica divisa tra
palcoscenico e platea, con la caduta di quella “quarta parete” che si ricostituirà invece
nella parte finale dell’opera, quella della “commedia” e del “teatro nel teatro”. In questa sezione dell’opera, la più avvincente, moderna e ‘pirandelliana’, nella quale i confini tra realtà e finzione si fanno sempre più labili fino a sconfinare nel tragico fatto
di cronaca nera, le movenze settecentesche delle maschere saranno filtrate attraverso
le marionette immortalate da Pasolini in Cosa sono le nuvole (1967); nell’allucinata
immagine finale di una Nedda trucidata e appesa a un filo si concretizzerà l’omaggio
a uno dei cantori più lucidi e tragici della cultura novecentesca.
Questo il segno di quest’attesa riproposta del Teatro Goldoni: una ‘rilettura’ dei due capolavori della “Giovine Scuola Italiana” che senza tradire le ragioni della musica vuole
mettere in piena evidenza l’attualità e la modernità di Cavalleria rusticana e Pagliacci.
18
L’accurato lavoro di drammaturgia effettuato da Pizzech con i suoi collaboratori – lo
scenografo Michele Ricciarini e la costumista Cristina Aceti – è pienamente in linea
con l’accesa e lucida temperatura novecentesca che caratterizza la visione del direttore
d’orchestra Jonathan Webb, prestigioso musicista britannico che ama e conosce l’opera
italiana – dei lavori di Mascagni e Leoncavallo è già stato interprete presso istituzioni
prestigiose quali la New Israeli Opera di Tel Aviv e il Teatro Sao Carlos di Lisbona
– senza lasciarsi tentare dalle certezze della routine. Siamo lieti di poter riunire in
questa produzione i due artefici – Webb e Pizzech appunto – di quella memorabile
edizione di Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Kurt Weill e Brecht che nel 2009
ha rappresentato uno dei prodotti più felici del Progetto Opera Studio e che ha visto
la nostra Fondazione nel ruolo di teatro ‘capofila’. Così come siamo lieti e orgogliosi
di avere assemblato due compagnie di canto di pari livello, dove si amalgamano le
esperienze di artisti emergenti del panorama internazionali, giovani in netta ascesa ed
elementi selezionati attraverso il Progetto Opera Studio dei Teatri del circuito toscano,
le audizioni per voci mascagnane e il Cantiere Lirico, proseguendo nella tendenza
a scoprire e valorizzare giovani talenti vocali propria del Teatro Goldoni. Naturalmente il forte segno ‘al femminile’ della produzione è accentuato dalla scelta delle
protagoniste che si alterneranno nel corso delle recite livornesi e di quelle dei teatri
coproduttori di Lucca, Pisa e Modena. Una grande sfida è quella offerta al soprano
Raffaella Angeletti, vecchia conoscenza del Teatro di Livorno nonché acclamata protagonista della fortunata produzione di Iris allestita nel 2006, che potrà mettere a frutto
le sue attitudini di cantante-attrice cimentandosi nella stessa serata sia nelle vesti di
Santuzza che in quelle di Nedda. Molto atteso è il debutto a Livorno di un’altra voce
importante, quella del soprano drammatico russo Elena Pankratova, segnalatasi qualche anno fa nelle audizioni per voci mascagnane organizzate regolarmente dal Teatro
Goldoni e trionfatrice della produzione della Donna senz’ombra di Richard Strauss che
ha inaugurato il Maggio Musicale Fiorentino del 2010 con Zubin Mehta sul podio;
Pankratova sarà Santuzza, mentre nella stessa occasione il ruolo di Nedda sarà affidato
al soprano Esther Andaloro, ‘scoperta’ dal Progetto Opera Studio con il Paride ed Elena
di Gluck realizzato nel 2008 e attualmente affermatasi come una delle più apprezzate
e giovani interpreti di Pagliacci.
La nostra speranza è che il ritorno al Teatro Goldoni dell’opera prima di Mascagni
accanto alla sua inseparabile ‘gemella’ creata da Leoncavallo – quasi in contemporanea con la produzione del ‘dittico’ verista in scena al Teatro alla Scala di Milano e alla
ripresa del Teatro Bellini di Catania – ridoni una nuova linfa e una nuova vitalità ai
due titoli più ‘nazionalpopolari’ nati dopo la nostra unità nazionale trasmettendole
al pubblico non come “pezzi da museo” bensì come due capolavori degni di essere
riscoperti e amati dalle giovani generazioni.
19
Manifesto delle prime manifestazioni al Teatro Costanzi di Roma (Livorno, collezione prima)
Maurizio Costanzo
Note a margine
Roma, 23 agosto 2010
Signore e Signori buonasera, state per assistere ad una rappresentazione di Cavalleria
rusticana e Pagliacci che, come spesso è accaduto, vengono rappresentate insieme, in
una stessa serata. Ed è giusto, non foss’altro perché gli autori hanno colto nel raccontare il rapporto fra uomo e donna, quello che per almeno un altro secolo si sarebbe
tramandato più o meno con analoghe modalità. Quel che dice Santuzza in Cavalleria
o il comportamento di Nedda e Canio in Pagliacci, fotografano la realtà del rapporto
uomo- donna quando siamo a cavallo fra l’800 e il 900. La prima rappresentazione di
Cavalleria fù nel maggio del 1890 mentre la prima di Pagliacci, sempre a maggio, ma
del 1892. Ebbene, nella primavera/estate del 2010, in Italia il rapporto uomo-donna
ha avuto momenti di grande esasperazione con un ripetersi di omicidi dell’uomo nei
confronti della donna ma con la variante del suicidio, a seguire, dell’uomo. Trascorsi
secoli, in parte cambiati i costumi, le motivazioni di fondo che suggerirono a Giovanni Verga il racconto che poi ispirò Cavalleria rusticana, sono rimasti gli stessi. Cambiano, caso mai, alcune motivazioni successive ma non quelle di partenza. L’uomo, da
sempre, ritiene sua prerogativa assoluta, imposta da non si sa bene quale legge divina,
di avere dominio assoluto sulla propria donna o su quella che lui ha scelto essser tale,
ma ciò non vuol dire che non possa, se lo ritiene opportuno e confacente, orientarsi
anche altrove. Sono evidenti le mancate promesse degli uomini specie in Cavalleria.
È evidente in Pagliacci la gelosia cieca dell’uomo che ritiene un aff ronto il fatto che
in una finzione teatrale la propria donna in qualche modo amoreggi con un estraneo.
Di qui i drammi. Nel 2010, fatte salve queste motivazioni, possiamo aggiungere la,
chiamiamola nevrastenia, dell’uomo che reagisce malamente a possibili diversi interessi della moglie in quanto stressato da problematiche economiche riguardanti
il posto di lavoro. Ripeto, nella primavera del 2010 in Italia, abbiamo assistito ad
una vera e propria mattanza che ha sorpreso in quanto non essendo più alla fine
dell’800 non si poteva supporre che questa diversa esasperazione portasse ad armare
la mano dell’uomo. Ci si può chiedere: ma è sempre colpa dell’uomo? Probabilmente
no. Probabilmente ci sono comportamenti femminili che possono indurre un uomo
particolarmente labile a reazioni incontrollabili, ma è pur vero che quando decadono altre certezze, altre garanzie di vita ecco che riaffiorano prepotenti i sentimenti
21
antichi che parlano di possesso dell’uno sull’altra. Difficile ripetere ancora una volta
che nessuno possiede nessuno. È così e lo sappiamo tutti e lo sapete anche voi che
state per assistere a questo spettacolo. Ma è vero che senza queste reazioni ancestrali,
probabilmente il destino ci avrebbe privato di due opere come Cavalleria rusticana e
Pagliacci. Infine, un’ultima considerazione ci porta a dire che dopo decenni, la natura
di celti uomini come di certe donne, non rimane minimamente scalfita dal passare
del tempo.
Bene, è il momento che il sipario si apra e a voi buono spettacolo!
Gemma Bellincioni (Santuzza) e Roberto Stagno (Turiddu) primi interpreti di Cavalleria rusticana
22
Alberto Paloscia
Direttore artistico Stagione Lirica e Progetto Mascagni
della Fondazione Teatro Goldoni
Tra modernità e tradizione.
Riflessioni sulla drammaturgia
e sulla struttura musicale
di Cavalleria rusticana
[...]
la musica deve essere la espressione della parola.
Pietro Mascagni, 1889
Qualunque genere per me è buono, purché ci sia verità, passione
e soprattutto che ci sia il dramma, il dramma forte.
Pietro Mascagni, 1890
La musica di Cavalleria rivela senza dubbio un talento fresco, energico,
sincero. [...]
Una forte sensualità ed un temperamento passionale arroventano l’opera,
che dall’inizio alla fine avvince ed emoziona.
Eduard Hanslick, 1892
Premessa: l’opera verista come fenomeno culturale di “massa”
… da quel punto l’arte fu fatta di colpi di coltello e di violinate, di camorra e di cicalecci, di bestemmie e di perorazioni. Sotto la pioggia del successo i genii sbocciarono come funghi per le
felici terre del paese dove fiorisce il luogo comune. Sfilarono i duelli, e le feste a mare, e i natali
di sangue, e le pasque di vendetta, tutto il brigantaggio letterario che dieci anni innanzi aveva
appestato la novellistica italiana. E l’esempio fu contagioso. Tutti i capi banda smessi, tutti i
dilettanti di trombone colpiti dall’inguaribile libidine della creazione, tutti i compositori di
mazurche, assaliti dalla frenesia della gloria, si credettero geni, chiamati a illuminare il mondo;
e inalberarono cappelli a cencio, e scriminature apollinee, e si atteggiarono in pose ortiche, e
scrissero libretti, e sbottonarono teorie. [...]1
23
Così un intellettuale ‘wagneriano’ come il Thovez rievocava, con toni aggressivamente polemici, l’autentico boom che caratterizzò la vita musicale e teatrale degli anni
Novanta dell’Ottocento, ovvero l’avvento dell’opera verista e del gruppo di compositori etichettato come “Giovine Scuola Italiana”. L’avanzata dei vari Mascagni, Puccini, Leoncavallo, Giordano e Cilèa - questi i più autorevoli esponenti della nuova
generazione - parte dalla trionfale affermazione dell’atto unico Cavalleria rusticana
di Mascagni (libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci dall’omonima
pièce teatrale di Giovanni Verga) al Teatro Costanzi di Roma nel maggio del 1890
e vede il suo momento di consolidamento con il successo conseguito al Teatro Dal
Verme di Milano esattamente due anni dopo dai due brevi atti di Pagliacci di Leoncavallo (su libretto proprio). Da tale consolidamento sarebbero partite le successive
affermazioni di Puccini con Manon Lescaut (1893) e con la sua trilogia ‘popolare’
(La bohéme 1896; Tosca 1900; Madama Butterfly 1904), Giordano (Andrea Chenier
1896; Fedora 1898) e Cilèa (L’Arlesiana 1892; Adriana Lecouvreur 1901) e la fortuna
di un filone di melodramma ‘popolare’ che avrebbe protratto un dominio pressoché
incontrastato fino agli anni Dieci del Novecento, ovvero fino all’incombere sempre
più pressante di ambizioni e velleità ‘culturalistiche’ nel panorama musicale italiano
(vedi l’interesse per la musica antica e la riscoperta del patrimonio musicale italiano
rinascimentale e classico incoraggiato dai letterati ‘musicofili’ come D’Annunzio e
dalla nuova generazione di compositori incarnata dai vari Respighi, Pizzetti, Casella
e Malipiero).
L’occasione del rientro sul palcoscenico del Teatro Goldoni dopo quasi un trentennio
di assenza dei due titoli ‘capisaldo’ del repertorio verista - Cavalleria e Pagliacci -, ci
consente quindi di fare una rapida ricognizione storica sulla questione del verismo in
musica, incoraggiati anche dall’attuale fase di rilancio della “Giovine Scuola Italiana”
tanto in sede critica quanto in sede esecutiva.
Ci pare che il fenomeno dell’opera verista, oggi che si sono attutite, almeno in parte,
tante prevenzioni e ostilità da parte della critica togata, si imponga a un approfondimento più sereno e obiettivo proprio per una sua valenza storica ben precisa, di cui il
dittico Cavalleria-Pagliacci incarna l’essenza più profonda: quella di avere riportato il
melodramma italiano postunitario, dopo il ventennio di esperimenti iniziati dal 1870
- con l’aggiornamento ‘europeistico’ del nostro teatro d’opera attuato dai letterati e
musicisti gravitanti sulla Scapigliatura milanese (Boito, Faccio, Catalani) e incline
ad abbracciare le diverse lezioni del grand-opéra francese, del sinfonismo romantico
d’oltralpe e del dramma musicale wagneriano -, alla sua dimensione di grande spettacolo ‘popolare’, in grado di aggregare intorno a sé le fasce più vaste di pubblico.
È il momento in cui l’opera, interrotte momentaneamente le complicazioni intellettualistiche dei musicisti dell’età umbertina - dalla concezione ‘totalizzante’, incerta
tra meyerbeerismo e wagnerismo, del Mefistofele dì Boito al gesticolante e bozzettistico impianto della “grande opera”, o grand-opéra all’italiana, incarnato dalla Gioconda di Ponchielli, dal nordicismo umbratile di Edmea e Loreley di Catalani alle
24
introspezioni decadentistiche dell’ultimo Verdi, quello della seconda versione del
Boccanegra, di Don Carlos, Aida e Otello -, torna a recuperare quel rapporto stretto con
il pubblico che aveva intrattenuto negli anni dell’epopea risorgimentale. Sulla scia del
dittico ‘verista’, quindi, il teatro d’opera abbandona - almeno fino al primo decennio
del Novecento, prima che l’avvento della moda del dannunzianesimo spinga il melodramma ad avventurarsi verso le ambizioni del “teatro di poesia”2 - l’inclinazione a
configurarsi come spettacolo d’élite. “Le spalle erano quindi voltate definitivamente
alla forma che l’ansia di modernità aveva preso negli anni successivi all’unità d’Italia,
cioè al programmatico rifiuto del rapporto di confidenza col pubblico, sacrificato a
favore dell’ambizione ad elevarsi verso obiettivi espressivi che lo selezionavano in
base alla sua capacità di rinunciare al diritto di manifestare proprie esigenze e di adeguarsi al modello individualisticamente fondato dall’autore, il quale non era tenuto
ad ottenere la certezza del consenso per motivare la sua azione. Escluso in certo qual
modo dal diritto di pronunciarsi in una situazione di orientamenti instabili, dove
solo l’attesa della gratificazione del capolavoro giustificava la paziente sottomissione
a modi più ammirati che amati, era prevedibile sarebbe tornato a riaffermare le sue
ragioni all’apparire di un’opera deliberatamente impegnata a sollecitarne le emozioni
e a suscitarvi immedesimazione nei fatti rappresentati” (Carlo Piccardi).
L’opera verista si impone quindi come fenomeno ‘di mercato’, legato non solo alle
facoltà creative del compositore e alle capacità di immedesimazione di un pubblico
ormai incarnatosi nella media borghesia, ma addirittura dominato dalla sempre più
invadente figura dell’editore, dalla tutela del diritto d’autore e dalla nascita di un vero
e proprio ‘consumismo’ del prodotto musicale di successo. Tutto questo è stato messo
in evidenza con grande lucidità da uno degli studiosi italiani che più hanno appuntato il loro intesse sui rapporti intrattenuti dal melodramma della “Giovine Scuola”
con gli interessi sociali ed economici dell’Italia dell’ultimo decennio dell’Ottocento e
dei primo Novecento, Piero Santi4, il quale ha sottolineato come l’opera verista, pur
ereditandone certe componenti linguistiche nonché il successo popolare, rappresenti
un autentico momento di crisi, di transizione e di dissoluzione rispetto alla solidità
etica e alla coesione dell’opera romantica:
[…] dell’istituto del melodramma romantico si ereditano, nel periodo in esame, gli ingredienti,
ma con perdita della loro congruità, ossia della organicità in cui la società liberale specchiava
il suo mondo di valori. Il melodramma romantico si presentava come un tutto omogeneo,
in cui vocalità, melodia, accompagnamento sinfonico, libretto, intrigo romanzesco, gestualità
retorica si trovavano reciprocamente integrati e armonicamente organizzati, corrispondendo
a una realtà saldamente posseduta, materialmente e moralmente ben assodata nei suoi valori,
che al suo centro poneva l’idea del patrimonio: non a caso a figura patriarcale di Verdi, proprietaria e paterna insieme, ne sarà elevata a simbolo. Invece il melodramma fiorito tra il 1880
e il 1910 grosso modo chiamato verista o naturalista, si trova a manipolare i ruderi di quel
mondo la cui coerenza viene disfacendosi, interpretando l’imbarazzo di una sovranità culturale
che non dispone d’altro che dei resti dello smantellamento e di quanto vi ha concorso: nella
fattispecie delle suggestioni dell’opéra-lyrique e del dramma wagneriano. I costituenti formali
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del melodramma liberale tendono, nel nuovo, a sviluppare la separazione che esprime la perdita dell’omogeneità sostanziale, mediante pronunciamenti autonomi: la melodia, abbandonata
l’interna regolarità fraseologica, si riduce a misura nucleare o esorbita fuor d’ogni modulo,
l’orchestra si rende ricercata, reclamando per sé un interesse specifico, la vocalità va per conto
suo, off rendosi per se stessa, il libretto, conservando una quantità di scorie romantiche, diventa
ibrido e mescola livelli di lettura molto diversi, l’intrigo perde la sua consequenzialità, puranco
farraginosa, e diventa dispersivo indugiando su particolari accessori, la gestualità si mantiene
retorica, ma si mischia a comportamenti francamente prosaici5
Concludiamo questa digressione introduttiva sottolineando un’altra importante novità sancita dall’avvento del verismo operistico: il ripetersi con qualche decennio di
ritardo di quanto si era perentoriamente affermato nella Francia del Secondo Impero
con il successo dei generi dell’opéra-lyrique del drame lyrique incarnati dalla produzione di Thomas, Gounod e Massenet, ovvero la divulgazione, attraverso il teatro
d’opera, di alcuni importanti ‘classici’ della letteratura europea. Come le scene operistiche parigine avevano riplasmato, a uso e consumo della borghesia, i grandi capolavori di Shakespeare (Hamlet di Thomas, Roméo et Juliette di Gounod), Goethe
(Faust di Gounod, Mignon di Thomas, Werther di Massenet) e Prévost (Manon di
Massenet), così l’avvento della “Giovine Scuola” diffonderà, nella loro versione operistica, la narrativa e il teatro di Verga (Cavalleria rusticana di Mascagni), Murger (le
Bohème di Puccini e di Leoncavallo), Sardou (Tosca di Puccini, Fedora di Giordano),
Tolstoj (Risurrezione di Alfano) e ancora Prévost (Manon Lescaut di Puccini, restituita, a detta dell’autore, con passionalità “disperata” tutta italiana e non “incipriata” alla
francese), oltre a tanti esponenti della letteratura minore, come Belasco (Madama
Butterfly e La fanciulla del West di Puccini). È questa vocazione divulgativa, ci pare,
un altro aspetto fondamentale che garantisce al verismo operistico italiano una forte
incidenza culturale all’interno del tessuto sociale dell’Italia unita: anche se il teatro
musicale verista incarnato da Cavalleria e Pagliacci, pur non disdegnando gli ammiccamenti al folklore, al patrimonio musicale popolaresco e alle inflessioni di un vero
e proprio ‘vernacolo musicale’6 pare trascurare le problematiche sociali esplorate dal
verismo letterario di Verga e di Capuana e dalla coeva opera naturalista francese di
Charpentier e Bruneau, la quale vede il ‘caposcuola’ della narrativa naturalista, Èmile
Zola, impegnato anche nelle vesti di librettista. L’opera verista italiana punta essenzialmente sul realismo delle passioni e dei sentimenti, confinando l’assunto sociale
e l’ambiente in cui la vicenda si svolge al ruolo di fondale ‘pittorico’ o di cornice
‘esotica’. “La ragione per cui né i libretti delle opere veriste né la loro drammaturgia
concordano con gli obiettivi e le tendenze del verismo letterario - scrive Egon Voss
- sta soprattutto nel fatto che essi sono vincolati alla tradizione operistica. [...] Caratteristica dell’opera è la concentrazione sui moti dell’animo, mentre le motivazioni,
le deduzioni e i collegamenti vengono trascurati [...] la [...] esigenza di Verga di uno
sviluppo logico delle passioni e delle azioni che portano alla catastrofe contrasta con
la tradizione dell’opera, a cui è sempre importato solo lo svolgimento dinamico della
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catastrofe. Anche nelle opere veriste il moto dell’animo è la categoria fondamentale;
le sue cause e le sue premesse sono di secondaria importanza. Ciò spiega perché nelle
opere, anche in quelle veriste, gli avvenimenti e il loro corso appaiano tanto spesso
fatali, ineluttabili, e non conseguenza di altri fatti ed eventi spiegabili razionalmente
in modo che se ne possa immaginare un possibile, diverso svolgimento o un diverso
esito. La forza del destino non è solo il titolo di un’opera di Verdi, ma anche la formulazione di una caratteristica tipica dell’opera italiana. Essa è valevole, senza riserve,
anche per l’opera verista”7.
Da Verga a Mascagni
Una vera e propria comunanza d’intenti e una sorta di parallelismo dei rispettivi
itinerari creativi sembra caratterizzare le esperienze dei due fondatori del naturalismo italiano, sia letterario che musicale: Giovanni Verga e Pietro Mascagni. Soltanto
sei anni dividono la trionfale affermazione del teatro verista nostrano con le “scene
popolari” di Verga Cavalleria rusticana, tratte dallo scrittore siciliano dall’omonima
novella pubblicata nel 1880 nella raccolta Vita dei campi e rappresentate dalla compagnia di Cesare Rossi al Teatro Carignano di Torino il 13 gennaio 1884, protagonisti
una giovane ma già carismatica Eleonora Duse e Flavio Andò, e il clamoroso avvio
della “Giovine Scuola Italiana” con l’atto unico mascagnano, risultato vincitore del
Concorso Sonzogno e tenuto a battesimo, con successo a dir poco delirante, sul palcoscenico del Teatro Costanzi di Roma - istituzione che da quella storica serata sarà
destinata a divenire un’autentica ‘roccaforte’ per il musicista livornese - il 17 maggio
1890: direttore Leopoldo Mugnone, ‘mattatori’ la Santuzza di Gemma Bellincioni e
il Turiddu di Roberto Stagno, un duo d’incontenibile forza canora cui sarebbero stati
legati i primi successi del nuovo corso dell’opera italiana fin de siècle.
Il Coro durante le prove di Cavalleria rusticana
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Lo stesso destino sembra accomunare i due lavori anche nella reazioni entusiastiche,
da autentico coup de foudre, che essi seppero suscitare nel pubblico fin dalle prime
apparizioni8. Per entrambi i successi conta un’unica essenziale motivazione, al di là
dei rispettivi meriti degli autori: la clamorosa rottura, tanto nella Cavalleria teatrale
quanto nella sua incarnazione musicale, nei confronti dell’idealismo di stampo romantico (manzoniano e verdiano, per indicare i principali punti di riferimento della
cultura italiana ottocentesca) e l’utilizzazione di un fatto di cronaca nudo e crudo, di
una tranche de vie basata su sentimenti, impulsi, conflitti sanguigni ed elementari e
restituita come in presa diretta, en plen air. Il tutto regolato da una sorta di arcaica
e ineluttabile fatalità, da un destino implacabile che sovrasta le passioni istintive e
spesso incontrollate dei personaggi principali conferendo ad ambedue i lavori il respiro di un’autentica tragedia mediterranea. Ma non sono solo questi i punti di contatto tra la Cavalleria teatrale e quella operistica. La stessa magniloquenza, la stessa
foga straripante e ossessiva, la stessa cantabilità sfogata che i più autorevoli studiosi
hanno riconosciuto nell’atto unico di Verga - riscontrandovi un sapiente equilibrio
tra la cornice ambientale, il quadro collettivo e i ‘primi piani’ passionali dei protagonisti - sembra contrapporre i protagonisti di Cavalleria rusticana di Mascagni in una
tragica incomunicabilità e in un granitico isolamento. Ancora una volta, lo si può
toccare con mano: le due esperienze parallele coincidono e pervengono allo stesso
tipo di concentrazione e asciuttezza drammaturgica9.
Cavalleria rusticana durante le prove
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Stile musicale e drammaturgia
Entrambe le Cavallerie, inoltre, partecipano a una radicale e sconvolgente semplificazione dei mezzi espressivi, perseguita senza rinunciare ad alcune risorse e convenzioni del patrimonio teatrale e musicale preesistente. Anche per l’opera di Mascagni si
potrebbe ripetere quanto aveva affermato Giuseppe Giacosa presentando al pubblico
torinese la pièce di Verga sulle colonne della “Gazzetta Piemontese”, alla vigilia della
première al Carignano: “i congegni della vita vi sono assai meno complicati, ed è
quindi meno temerario di tentare di metterli in azione rinunziando ai vieti amminicoli della tradizione”.
Nelle parole di Giacosa c’è in sostanza la prefigurazione di quello che ha scritto Guido Salvetti a proposito della Cavalleria mascagnana in una delle più intelligenti ricognizioni sulla produzione teatrale del musicista livornese, definendola il momento
della “grande semplificazione”10. Semplificazione che secondo il Salvetti si invererebbe nell’accostamento e nella convivenza di due diversi tipi di drammaturgie: la prima
legata alla musica di scena e ai cosiddetti ‘pezzi di carattere’, ai quali è demandato il
compito di evocare il colore locale mediterraneo e il quadro ambientale e costituiti
dalle pagine che si avvicinano con maggiore evidenza alla fisionomia propria del
pezzo ‘chiuso’ (i cori dei paesani, la sortita di Alfio, lo stornello di Lola, il brindisi di
Turiddu “Viva il vino spumeggiante”, nel quale Mascagni ripropone una delle convenzioni più consolidate del vecchio melodramma ottocentesco, quella della chanson à
boire rinfrescata nella seconda metà del secolo da precedenti illustri quali il brindìsì dì
Hamlet nell’omomìma opéra-lyrique e quello di Jago nell’Otello verdìano); la seconda
invece strettamente legata a quello scavo prosodico e fraseologìco della parola cantata che Mascagni aveva già sperimentato durante la gestazione interrotta di Guglielmo
Ratcliff 11 e che sarà uno dei fili conduttori del melodramma della “Giovine Scuola”.
In tale ricerca di una vera e propria prosodia musicale, legata alle inflessioni della lingua parlata e tutta tesa nell’elaborazione di un declamato melodico che raccoglie ed
esaspera la lezione dell’ultimo Verdi e che in alcune pagine più inconfondibilmente
‘veriste’ di quest’opera prima - si pensi al primo concitato dialogo fra Santuzza e Lucia (“Dite, mamma Lucia”), al racconto di Santuzza (“Voi lo sapete o mamma”) e al
duetto Santuzza-Turiddu (“Tu qui Santuzza?”) - pare dar vita a una nuova concezione del “recitar cantando”, risiede uno degli aspetti più moderni della drammaturgia
musicale mascagnana, tale da apparentarla alle sperimentazioni del declamato vocale
degli operisti russi e dell’Europa dell’Est, da Dargomyžskij a Musorgskij, da Janáček
a Bartók, nonché ai traguardi del canto di conversazione coniato da Puccini e da
Richard Strauss. Una concezione che rende più duttile e dinamica anche la struttura
dei brani che si avvicinano allo schema della tradizionale aria o romanza, quali il
racconto di Santuzza e l’addio alla madre di Turiddu, nei quali Mascagni, come nota
Cesare Orselli, “adotta un tipo di costruzione ‘a episodi’ [..], sono una serie di nuclei
melodici, dei pensieri musicali in sé conclusi, senza rispondenze strofiche, di diversa
ampiezza e di carattere contrastante, che seguono lo svolgersi narrativo del testo”.
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È questo del declamato melodico e dell’intonazione musicale della parola cantata
uno dei punti fermi della poetica di Mascagni, confermata da queste sue dichiarazioni del 1907 due anni dopo il battesimo di una delle sue opere più mature, la
‘wagneriana’ Amica.
Il melodramma è la forma più ricca e più perfetta del dramma in generale. La musica viene a congiungervisi all’arte rappresentativa e alla poesia per penetrarla in uno spirito nuovo.
Alleanza assoluta tra parola e musica per modo che la musica diventi parola, diventi espressione [...]. Il massimo problema dell’arte drammatico-musicale è quello di dare al canto una
linea musicale, possibilmente melodica, pur conservando alle parole tutto il loro carattere, la
loro più alta potenza espressiva, ponendo in rilievo ogni elemento del discorso poetico [...]. I
personaggi acquistano una dilatazione singolare, si ingrandiscono seguendo più la natura del
sentimento preso per la sua essenza che la legge estetica della loro condizione. Divengono
come i simboli del loro dolore.
Tali riflessioni ci sembrano essenziali per captare la novità del naturalismo di Cavalleria: ovvero la capacità di ritrarre a tutto tondo, senza falsi pudori, reticenze o
freni, i sentimenti che animano i suoi personaggi: dai furori della gelosia ai desideri
della carne, dal misticismo all’amor materno, con una varietà di inflessioni che passa
dalla plasticità melodica plasmata sui valori prosodici della parola - un vero e proprio
modello, come si è già detto, di recitazione ‘cantata’, che Mascagni approfondirà e
scaverà ulteriormente, oltre che nella fase ‘sperimentale’ del giovanile Ratcliff nelle
opere della maturità, approdando agli esiti mai più superati dell’approccio con il
teatro di poesia dannunziano con Parisina (1913) e a quelli più discontinui dell’opus
ultimum, quel Nerone (1935) che lo stesso autore definirà “un saggio di espressione
musicale della parola” - alle inflessioni viscerali della vocalità più gridata e alla sintesi
tagliente e drastica dell’urlo vero e proprio: quest’ultimo esaltato dalla rauca maledizione di comare Santa (“A te la mala Pasqua...”) e dall’annuncio en coulisse della
catastrofe finale (“Hanno ammazzato compare Turiddu!”, affidato da Verga alla popolana Pippuzza e destinato eloquentemente da Mascagni alla voce anonima ma ben
più inquietante di una corifea), autentico culmine di catarsi tragica: “quel grido - ha
sottolineato acutamente Mario Morini - che taglia l’opera come una riga di sangue”
e che altro non è che “un lampo imprigionato nella melodia”12.
Il tutto esaltato dalla capacità mediatrice dell’attore-cantante e dalla contrapposizione personaggio-ambiente. Si pensi innanzitutto a quella Santuzza che Mascagni innalza alla statura di una grande peccatrice redenta (“Fate come il Signore a
Maddalena”, recita eloquentemente il libretto di Targioni Tozzetti e Menasci nel
primo colloquio tra la giovane donna e la madre dell’amante fedifrago): capace di
trascorrere dalla veemenza popolana alla solenne staticità della depositaria di un rito
arcaico ed espiatorio, insieme mistico e sacrificale (è il momento famoso dell’innodia
pasquale, quell’“Inneggiamo, il Signor non è morto”, che fa risaltare in Santuzza
l’autentica protagonista, con la funzione propria del ‘celebrante’ della sacra funzione).
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Basti pensare poi a quel Turiddu, che di quel rito è la vittima predestinata e che nel
corso dell’opera è sottoposto a una sorta di maturazione psicologica ed emotiva, passando dalla vacua e superficiale baldanza del duetto-scontro con l’amante tradita alla
consapevolezza delle proprie colpe e del proprio tragico destino prima nel colloquio
con Alfio e poi nello splendido commiato dalla madre.
Unico personaggio, quello di Turiddu, che il musicista sottopone a una più variegata
calibratura psicologica, legata a quell’ipocondria quasi adolescenziale e a quella “tristezza erotica” che uno studioso mascagnano di grande autorevolezza quale Giannotto Bastianelli individuò a suo tempo come una costante alternativa alla sanguigna virulenza di molti ruoli tenorili del teatro di Mascagni. Ma gli altri caratteri, Santuzza
in primis, prototipo dell’eroina fiera e perseguitata tipica di tanta produzione italiana
di fine Ottocento (il modello di riferimento è a nostro avviso quello della Gioconda
ponchielliana, da un lato riplasmato in una dimensione ‘plebea’, dall’altro nobilitato
dalla trasfigurazione mistico-tragica cui abbiamo già accennato), poi Alfio, Lola e
Lucia, che si pongono all’interno dell’intreccio come veri e propri ‘deuteragonisti’,
sono lontani da qualsiasi analisi introspettiva e paiono ergersi in una monolitica staticità. Il musicista livornese, sotto il profilo più strettamente drammaturgico, non
perverrà quasi mai - neppure nei traguardi teatrali della sua maturità creativa - al
realismo psicologico di Verdi e di Puccini, ma esalterà sempre a valenza simbolica ed
emblematica dei protagonisti del suo teatro: autentiche creazioni di passioni, virtù e
vizi dell’umanità, il più delle volte soggetti a una concezione astratta o straniata che
li riduce ad autentici fantocci e li estorce a qualsiasi tipologia concreta e realistica.
L’approdo alle tematiche del simbolismo e della favola in titoli quali Iris, Isabeau, Lodoletta e Il piccolo Marat sono l’eloquente conferma della vocazione ‘anti-naturalistica’
del verismo mascagnano.
Tutto questo ci fa scoprire in modo inatteso all’interno di un’opera che viene universalmente riconosciuta come il momento di partenza del verismo melodrammatico,
una drammaturgia epica e non realistica13.
In ogni caso l’atto unico mascagnano è molto distante dallo spirito e dalla fisionomia
di quello che nella più consolidata e diffusa tradizione dei manuali di storia della
musica viene riconosciuto come il suo modello di riferimento: il crudo verismo di
Carmen di Bizet, titolo che pure si impose con successo nei nostri teatri nella versione
italiana che ne snaturava lo stile musicale e l’impianto drammaturgico in una chiave
‘pre-naturalistica’.
Ben poco di francese comunque (se si eccettua qualche inflessione alla Gounod giustamente segnalata anche da Gianandrea Gavazzeni) e quasi nulla del capolavoro di
Bizet - che fra l’altro è un’opéra-comique in piena regola, strutturata secondo l’alternanza di numeri musicali e di ‘parlati’ - è trapassato nell’atto unico di Mascagni. Si
può riconoscere forse qualche spunto e suggestione nel coro d’apertura dei paesani
(“Gli aranci olezzano sui verdi margini”), nel quale la contrapposizione tra donne e
uomini può riecheggiare a tratti l’ingresso delle sigaraie nel primo atto di Carmen, e
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nella tracotanza della sortita di Alfio, che per certi versi pare convertire in virulenza
plebea l’irruenza dei celeberrimi couplets di Escamillo nel secondo.
Di Carmen l’opera di Mascagni pare forse ereditare, più che lo stile musicale - secco,
asciutto e aspro in Bizet quanto invece turgido, carnoso e sinuoso in Mascagni - la
dimensione di grande tragedia mediterranea e le ascendenze ‘eschilee’. Carmen e
don José, al pari di Santuzza e di Turiddu, sono i capri espiatori di un rito primitivo e
tribale, e la loro immolazione, sancita dallo scontro brutale tra i due sessi, si consuma
all’interno di una cornice di festa collettiva: pagana in Carmen, mistica e sensuale in
Cavalleria, nella quale l’azione inesorabilmente tragica e precipite” si sposa “con l’incedere rituale della festività alla quale si accompagna, dove insieme al culto cristiano
della Pasqua si celebra un culto più remoto dell’amore e della morte” (Morini).
Una struttura calibratissima
Mascagni, chiedendo a Targioni-Tozzetti “un libretto strettamente attaccato all’azione del Verga, aggiungendovi semplicemente qualche brano lirico per vestire la nudità della tragica vicenda”, rivela la profonda unità di concezione che caratterizza
l’esperienza creativa di Cavalleria: una traduzione quasi letterale dell’originario lavoro
teatrale di Verga, molto vicino allo spirito di quel genere che la musicologia tedesca
ha definito Literaturoper, ovvero quel tipo di teatro musicale che utilizza al posto del
libretto tradizionale un testo teatrale preesistente e che, prima di approdare ai sommi
traguardi novecenteschi di Pelléas et Mélisande di Debussy, di Salome di Strauss e di
Wozzeck di Berg, trova nel Ratcliff di Mascagni - autentica ‘prova generale’, per certi
versi, dello sperimentalismo di Cavalleria - la prima incarnazione operistica italiana.
Per “vestire la nudità della tragica vicenda” Mascagni in parte attinge al suo laboratorio musicale giovanile (la Messa di Gloria composta per Cerignola nel 1888, di
cui riprende un inciso tematico tratto dall’“Et incarnatus est” per trasferirlo nella
frase di Turiddu “Resta abbandonata”, nella scena con Alfio; un Intermezzo per pianoforte riutilizzato per l’afflato religioso dell’Intermezzo affidato all’orchestra; una
lirica da camera fornisce un frammento melodico del racconto di Santuzza, mentre
dell’idillio scenico Pinotta, terminato da Mascagni nel 1883 basandosi sul materiale
della preesistente cantata In filanda su testo del suo insegnante livornese Soff redini,
viene riproposta la struttura a numeri ‘chiusi’, con la sua alternanza di cori, preghiere,
stornelli, duetti e concertati), in parte riesce a sintetizzare in poco più di un’ora di
musica tutti gli strumenti e i codici messi a disposizione dalla più recente storia del
teatro d’opera italiano: dal bozzetto corale allo stornello popolaresco, dal concertato
di stampo ponchielliano alla facile melodiosità della canzonetta di consumo, della
romanza da salotto e dell’operetta - genere praticato da Mascagni nella sua gavetta
di direttore d’orchestra in provincia - e al ruolo fondamentale - insieme descrittivo
ed evocativo - dell’orchestra, il cui discorso è sapientemente organizzato secondo la
tecnica sorvegliatissima dei temi ricorrenti propria del wagnerismo ‘all’italiana’ codificato dai musicisti della Scapigliatura milanese, come Boito, Faccio e Catalani, sotto
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l’orbita dei quali Mascagni - come del resto il compagno di studi Puccini - si era
formato negli anni di apprendistato nella classe di composizione di Ponchielli.
Mascagni, fra l’altro, utilizza i motivi conduttori in Cavalleria non tanto come temireminiscenza (secondo l’accezione pucciniana) ma come ‘motivi-guida’ connessi a varie situazioni drammaturgiche: essi sono costruiti in modo da legare strutturalmente
i diversi momenti dell’intreccio e da sottolinearne i nodi cruciali.
È il caso dì quello che potremmo definire il tema della gelosia di Santuzza, che dopo
avere accompagnato il suo ingresso in scena e gran parte del suo animato colloquio
con Lucia, verrà ripetuto con grande violenza dopo la sua invettiva a Turiddu (la
celeberrima “mala Pasqua”) e tornerà come inesorabile sigla conclusiva all’annuncio
della catastrofe finale, configurandosi come una sorta di tema “del destino” o della
“maledizione”.
Tale utilizzo mascagnano del leitmotiv diverge comunque da quel rigore costruttivo e
da quella ricerca di sottili connessioni timbrico-armoniche che caratterizza il metodo
compositivo di Puccini fin dagli juvenilia (dalle Villi a Edgar e a Manon Lescaut): fin
da Cavalleria Mascagni impiega idee e nuclei tematici brevi, incisivi, che scaricano
immediatamente il loro potenziale di energia melodica e dinamica, giustapponendosi
gli uni agli altri senza alcuna interrelazione.
La struttura unitaria dell’opera, caratterizzata da sottili rimandi interni - come quei
frammenti ritmici del brindisi che vengono riecheggiati, con straordinaria pregnanza
drammaturgica, nell’addio di Turiddu alla madre, come reminiscenza di una spensieratezza irrimediabilmente perduta - che smentiscono qualsiasi accusa di rozza improvvisazione, è confermata anche dalle inclinazioni verso il genere del poema sinfonicovocale che caratterizza tante sue pagine. il caso del Preludio, nel quale la vicenda di
amore, gelosia e morte è solennemente prefigurata, con l’irruzione di canto virile e
popolaresco costituito dalla Siciliana del tenore, incastonata tra i nuclei tematici legati
alla Pasqua, alla passione e alla disperazione di Santuzza, in una sorta di Prologo gravido d’attesa e di sapore religioso.
Pagina di straordinario respiro, che può essere annoverata tra gli aspetti più nuovi e
singolari della partitura: “chi prima di Mascagni - sottolinea il Morini - aveva osato far
precedere un melodramma da un così lungo preludio strumentale e vocale che prosegue anche a scena aperta, con un’aria cantata dal tenore a sipario ancora calato, e che
è essa stessa antefatto all’azione? Preludio dove non sono semplicemente anticipati i
temi principali dell’opera, ma dove - come ha ben avvertito Giulio Confalonieri - ‘codesti temi si sviluppano per conto proprio, su un piano diverso da quello che seguirà
poco dopo, così da costituire una misteriosa azione collaterale, una specie di determinazione di quanto vedremo appresso’.
Intuizione poetica e drammaturgica che si riproporrà, in una più matura stilizzazione
formale, con il prologo sinfonico-corale dell’lris (1898), dove la musica, pur essendo
connessa all’azione, è come la rivelazione di un mondo più grande che la conchiude e
la sovrasta”15.
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Altro aspetto che rende quest’opera così profetica e avvincente è quella di fare interferire e sovrapporre, caricandoli di tensione, i momenti drammaturgicamente più
incalzanti dell’intreccio, surriscaldandone la tensione narrativa: è un espediente che
Mascagni eredita da certi colpi di scena della Gioconda ponchielliana, opera caratterizzata da bruschi trapassi di situazioni teatrali. È proprio questo abile gioco di tensioni
e distensioni, questa “esaltazione melodrammatica [...] fremente sotto il freno della
concisione dell’azione e dei rallentamenti indotti dai quadri paesani di rito” (Piero
Santi)16 a garantire la calibratissima struttura interna del capolavoro mascagnano. Si
capisce anche perché Cavalleria abbia avuto un così immediato successo nei paesi della Mitteleuropa, già gravidi di angosce espressionistiche: l’icastica concentrazione di
questa ‘piccola grande opera’, che corre rapida e senza inciampi al compimento della
tragedia finale, anticipa per molti versi, come ha notato Roman Vlad17, la travolgente
tensione drammatica dei due grandi atti unici straussiani, Salome ed Elektra.
Il Coro Voci Bianche durante le prove di Cavalleria rusticana
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4
5
6
7
Enrico Thovez, La leggenda del Wagner, in L’arco d’Ulisse. Prose di combattimento, Ricciardi, Napoli 1921, pp. 117-118.
Si pensi all’infatuazione dei musicisti della “Giovine Scuola” per l’opera di soggetto leggendario e di ambientazione medievale o rinascimentale, presagita da titoli quali Medici di Leoncavallo (1893), Zanetto di Mascagni
(1896), Gloria di Cilèa (1907) e Paolo e Francesca di Mancinelli (1907) e che culminerà, dopo il 1910, nelle
inclinazioni già dannunziane di lsabeau di Mascagni (1911), nelle opere su libretto di D’Annunzio firmate
ancora da Mascagni (Parisina, 1913), Zandonai (Francesca da Rimin 1914) e Montemezzi (La nave, 1918) e in
quelle ricavate dai ‘sottoprodotti’ dannunziani di Sem Benelli (L’amore dei tre re di Montemezzi, 1913; La cena
delle beffe di Giordano, 1924).
Cfr. in Carlo Piccardì, “L’artista è un uomo e per gli uomini scri vere ei deve “. Opera e pubblico agli albori della
società di massa, in Letteratura, musica e teatro al tempo di Ruggiero Leoncavallo, Atti del 20° Convegno Internazionale di Studi su Ruggero Leoncavallo (Locarno, ottobre 1993), a c. di L. Guiot e J. Maehder, Casa Musicale
Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1995, pp. 242-243.
“Totalitario - scrive il Santi - diventa il potere dell’editore, perché totalizzante va rendendosi il consumo della
musica in Italia, dove da sempre domina il melodramma. La crescita della popolazione urbana, conseguente
allo sviluppo industriale, che metteva a disposizione un’udienza sempre più vasta, estesa anche verso ceti
popolari; la costruzione di nuovi teatri di ampia capienza, previsti per un pubblico meno gerarchizzato e
socialmente più livellato [...]; lo sviluppo dei trasporti che permetteva l’esportazione agevole del melodramma
italiano, di artisti e di spettacoli, fuori dalle città storiche della penisola, all’estero, non solo in Europa, ma nelle
Americhe e negli altri continenti; l’estendersi enorme della trascrizione, in forma di spartito per canto e piano
e per pianoforte solo, di pezzi staccati (le romanze), di potpourris, di variazioni per ogni sorta di strumento,
non pure ad uso privato, come tradizionalmente, ma ad uso di orchestrine da caffè concerto e similari, di
bande, di corali via via sorgenti, con gli utili che ne procuravano la vendita e il noleggio dei materiali; tutto ciò
allargava il consumo della musica melodrammatica, sia integrale che polverizzato, e, legato al diritto d’autore,
espandeva il potere dell’editore sull’area delle attività inerenti alla musica fino ad occuparla interamente, già,
tutto questo, alla vigilia dell’ulteriore sommovimento che avrebbe arrecato l’affermazione dei moderni mezzi
di comunicazione di massa (il disco, il cinema sonoro, la televisione)” (cfr. in Piero Santi, Le “Villi” e l”Edgar”
nell’economia melodrammatica di transizione, in “Civiltà Musicale”, Quadrimestrale di Musica e Cultura, V,
n. 2 (giugno 1991), Milano 1991, pp. 45-46). Quanto all’incidenza dell’opera verista sulla nascita dell’industria
discografica e cinematografica, basti ricordare che proprio Cavalleria e Pagliacci, ancora prima dei capolavori
verdiani e pucciniani, furono le prime opere a essere registrate integralmente sui dischi; in due casi, la prima
incisione di Pagliacci registrata dalla Gramophone nel 1907 con i complessi della Scala di Milano guidati da
Carlo Sabajno e affidata alla supervisione di Leoncavallo e la terza edizione completa a 78 giri di Cavalleria
rusticana diretta dallo stesso Mascagni nel 1940 in occasione del cinquantenario della prima assoluta, la realizzazione vide il coinvolgimento diretto dei due autori. Per quanto riguarda invece il cinema, l’opera verista
non ebbe solo ripercussioni sugli albori del cinema muto (una Cavalleria cinematografica vide impegnata la
prima Santuzza dell’opera mascagnana, Gemma Bellincioni, nella duplice veste di attrice e di produttrice) e,
nell’era del sonoro, sui film di taglio ‘operistico’ firmati dagli specialisti quali Carmine Gallone, ma ha esercitato
la sua influenza anche su grandi capolavori della cinematografia novecentesca: all’ambientazione fra attori e
cantanti girovaghi, pagliacci e saltimbanchi cara al Leoncavallo di Pagliacci e Zazà si possono ricondurre tanto
l’espressionismo dell’Angelo azzurro di Sternberg quanto il neorealismo de La Strada di Fellini.
Cfr. in R Santi, Le “Villi” e l’ “Edgar”nell’economia drammatica di transizione, Op. cit., p. 42. Ancora di Santi
si ricordano l’importante contributo Passato prossimo e remoto del rinnovamento musicale italiano del Novecento,
pubblicato sulla rivista “Studi Musicali”, I, 1, 1972, Olschki, Firenze, 1972, pp. 161-186.
Proprio a tale proposito è importante segnalare, negli anni dell’apprendistato milanese di Mascagni e di Puccini, un fenomeno davvero singolare: la nascita, all’interno delle prime esperienze compositive dei due autori,
di un codice stilistico - più che di una vera e propria scuola - di impronta e di ascendenze prettamente toscane.
Si tratta di una sorta di dialetto musicale che affonda le sue radici nell’hurnus melodico tirrenico, fra Lucca,
la Versilia e la riviera labronica. È un ceppo linguistico comune, preannunciato dalla crepuscolare mestizia di
Alfredo Catalani, che sembra accomunare la prima produzione pucciniana (in particolare i due saggi teatrali
giovanili, Le Villi ed Edgar) con gli esordi mascagnani (dalla Messa di Gloria alla cantata In filanda, trasformata
nell’idillio scenico Pinotta, fino alle prove di Cavalleria rusticana, Amico Fritz e Guglielmo Patcliffl.
Cfr. Egon Voss, Il verismo nell’opera, in Cavalleria rusticana 1890-1990: cento anni di un capolavoro, a c. di R e
N. Ostali, tr. it. di L. Dallapiccola, Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1990, pp. 51-52. Un’altra
lucida analisi dell’opera verista si può riscontrare nel corposo volume di Manfred KeIkel Naturalisme, vérisme
et réalisme dans l’opéra, Librairie J. Vrin, Paris 1g84: in questo studio vengono aff rontati non solo i rapporti
tra l’opera verista italiana e il melodramma naturalista francese, ma vengono anche approfondite le influenze
del verismo sul teatro musicale europeo del Novecento, non escludendo l’area simbolistico-espressionista mitteleuropea rappresentata da Franz Schreker, la “nuova oggettività” del teatro musicale di Schönberg, Weill e
Hindemith, il realismo contadino di d’Albert e quello borghese di Richard Strauss, il folklorismo di Janáček e
gli umori dimessi e popolareschi di certo teatro da camera di Milhaud.
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Ecco la testimonianza dello stesso Mascagni a proposito dei primi trionfi di Cavalleria al Costanzi: “Rivedo quel
teatro Costanzi pieno soltanto a metà per la prima rappresentazione, rivedo, dopo le ultime concitate battute dell’orchestra, tutte quelle braccia del pubblico alzate in aria e gesticolanti come se volessero minacciarmi, e risento
nell’anima l’eco di quelle grida che quasi m’atterrivano; l’impressione era tale, che alla seconda rappresentazione
dovetti pregare, ogni volta che mi chiamavano fuori, di abbassare i lumi della ribalta, perché tutta quella luce abbagliante mi pareva l’inferno, e mi dava l’immagine di un abisso di fuoco che volesse ingoiarmi (cfr. P. Mascagni,
Prima di Cavalleria, in Pietro Mascagni a c.di M. Morini, Sonzogno, Milano 1964, voI. Il, p. 133).
Anche per un esegeta e interprete illuminato di Mascagni quali Gianandrea Gavazzeni “il presupposto dell’opera
resta uno solo: Giovanni Verga, il suo dramma, le condensazioni fulminee e le verità del suo linguaggio, nel dialogo scenico, e prima, ancora più fortemente, nel linguaggio narrativo della novella (la scabra essenzialità, il ‘vero’
dei dialoghi). Perché Verga è anche voce di quelle situazioni che in misure elementari giungono fino al teatro
musicale” (cfr Un’opera di rottura, in Non eseguire Beethoven e altri saggi, Il Saggiatore, Milano 1974, p. 131).
Guido Salvetti, Mascagni: la creazione musicale, in Mascagni, Electa, Milano 1984, pp. 34-53.
Si rileggano questi stralci dalla famosa lettera inviata da Mascagni all’amicoVittorio Gianfranceschi, detto
familiarmente “Vichi”, da Ascoli Piceno il 18 maggio 1886, durante l’infuocata elaborazione di Guglielmo
Ratcliff che costituiscono una sorta di manifesto poetico del rapporto musica-testo nell’opera di Mascagni:
“Credi, Vichi, che questo quarto atto mi è venuto anche meglio di come credevo, del duetto d’amore sono
innamorato. Dio solo sa quanto ho studiato questo pezzo: era di per sé troppo difficile per l’interpretazione
non della parola, ma della maniera di esprimerla; quella povera poesia l’ho maneggiata per dei mesi interi, quei
poveri versi [..] li ho letti e riletti mille volte, li ho declamati a voce alta, a voce bassa, ho dato a loro mille
intonazioni, ho cambiato mille volte l’espressione, li ho letti davanti a uno specchio osservando l’atteggiamento
degli occhi, della bocca, del volto, ho chiuso gli occhi, ho creduto di essere Guglielmo, di abbracciare Maria, ho
creduto di dirle parole d’amore, le ho sussurrato all’orecchio quei versi ed ho fatto il duello d’amore”.
Mario Morini, Introduzione a “Cavalleria rusticana”, in Cavalleria rusticana 1890-1990: cento anni di un capolavoro, Op. cit., p. 11.
Cfr. Cesare Orselli, Mascagni tra epos e eros, in Puccini e Mascagni (giornata di studi, Viareggio - 3 agosto 1995),
Quaderni della Fondazione Festival Pucciniano, Pacini Editore, Pisa 1996, pp. 21-35.
Mario Morini, Introduzione a “Cavalleria rusticana”, cit., p. 11.
Mario Morini, Ivi, p. 12.
Piero Santi, ll sud, che passione!, in “Lyrica. Opera e dintorni”, III, 26 (febbraio 1996), Ermitage, Bologna 1996, p. 45.
Cfr. Roman Vlad, Modernità di “Cavalleria rusticana”, in Cavalleria rusticana 1890-1990..., cit., p. 17.
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Il regista Pizzech e il maestro Webb durante le prove
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Fulvio Venturi
Consulente artistico della Fondazione Teatro Goldoni
Cavalleria e Pagliacci,
centoventi anni d’applausi e di passioni
Appresa la notizia del Concorso Sonzogno per un’opera in un atto, Pietro Mascagni,
che si trovava a Cerignola in veste di direttore della filarmonica locale, si rivolse
ad un amico livornese, il poeta Giovanni Targioni Tozzetti, per averne il libretto. Il
musicista pensò in un primo momento a comporre un’opera dal titolo Serafina, tratta
da Marito e sacerdote di Nicola Misasi. Giovanni Targioni Tozzetti suggerì invece la
riduzione della novella Cavalleria rusticana di Giovanni Verga, nella sua versione
teatrale, che ha visto recitare all’Arena Labronica dalla compagnia di Cesare Rossi.
Mascagni, che in precedenza aveva vagheggiato quel soggetto, accettò con entusiasmo. Targioni Tozzetti si mise a lavoro coinvolgendo un altro personaggio livornese,
Guido Menasci, insegnante di francese presso il ginnasio. Pittoresco il modo con
il quale Mascagni entrò in possesso del testo da musicare, a lui inviato da Targioni
Tozzetti e Menasci su cartoline postali, per stati di avanzamento.
L’opera fu terminata nel maggio 1889 e posta al vaglio della giuria, fu dichiarata
vincitrice del concorso nel marzo successivo e dunque il 27 maggio 1890 andò in
scena al Costanzi di Roma, con l’esito trionfale che sappiamo. Ne furono interpreti
principali due grandi cantanti, Gemma Bellincioni e Roberto Stagno, ed un celebre
direttore d’orchestra, il maestro Leopoldo Mugnone. Nell’agosto 1890 Cavalleria
rusticana fu rappresentata al Goldoni dagli stessi interpreti. Fu come un secondo debutto e da quella data, nel volgere di breve tempo, l’opera compì il “giro” delle grandi
capitali europee giungendo a Berlino, Londra, Parigi, Vienna per traversare l’oceano
ed andare in scena a Philadelphia, New York e Buenos Aires. Una cavalcata trionfale
che dura tutt’oggi.
Ammantata dal mistero è invece la genesi di Pagliacci, per quanto essa si faccia risalire
ad un fatto di sangue accaduto a Montalto Uffugo verso il 1870. L’opera fu presentata
al Teatro Dal Verme di Milano nel maggio 1892 (dunque a due anni esatti dalla prima
assoluta di Cavalleria rusticana), con un franco successo, auspice l’interessamento di un
grande artista, il baritono Victor Maurel, e di un giovane direttore d’orchestra atteso da
un cammino diventato mito, Arturo Toscanini. Pagliacci giunsero al Teatro Goldoni sei
mesi dopo, con una produzione di buona rilevanza musicale, capeggiata dal direttore
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d’orchestra livornese Ettore Martini e dal rinomato tenore Vincenzo Ghilardini. Una
produzione che fece parlare anche le cronache mondane per la presenza della principessa Alice di Monaco, accompagnata dal compositore Isidore de Lara.
Dal 1898, come già era avvenuto in altre città, la rappresentazione delle due opere è
stata associata sovente in un’unica serata anche a Livorno. Testimonial d’eccezione
Enrico Caruso, che al Politeama dette voce ed interpretazione tanto al personaggio
di Turiddu, quanto a quello di Canio con un successo travolgente; onere che nel 1912
(ancora al Politeama) si assunse un altro straordinario esponente dell’arte lirica, il
tenore Aureliano Pertile. Il numero veramente ingente e la caratura notevolissima
degli artisti impiegati nella lunga trafila esecutiva di Cavalleria e Pagliacci a Livorno
è paragonabile solo a quella dei più grandi teatri, ma s’interrompe, prima dell’attuale
edizione, al 1983. Analizzando separatamente i due titoli, l’opera di Leoncavallo ha
vissuto a Livorno momenti di grande intensità quando ad interpretarla sono stati
chiamate cantanti come Rosina Storchio e Juanita Caracciolo, ma il peso della storia
spetta a Cavalleria rusticana. Si pongono in evidenza le produzioni dirette dall’autore
Pietro Mascagni, e sono cinque in totale, disseminate tra il 1894 ed il 1940, con
interpreti rimasti nell’immaginario del pubblico come Beniamino Gigli, Lina Bruna
Rasa, Giuseppina Cobelli, Carlo Tagliabue. Poi si devono sottolineare i momenti
offerti da cantanti come Roberto Stagno e Gemma Bellincioni, direttori come Leopoldo Mugnone e Antonio Guarnieri, e le prestazioni eccezionali di Eugenia Burzio,
Galliano Masini, Mario Del Monaco, Carlo Bergonzi, ma su tutti gli allestimenti
sarebbe giusto fermarsi per la passione e la generosità con le quali essi sono stati
seguiti dal pubblico.
Dal 1990, anno del centenario di Cavalleria, il Progetto Mascagni ha offerto un contributo unico al mantenimento della tradizione esecutiva ed alla ricerca dei valori della
musica mascagnana, non solo riproponendo questo capolavoro, ma portando in scena
opere come L’amico Fritz, I Rantzau, Guglielmo Ratcliff, Sì, Iris ed il coinvolgimento
di cantanti e personaggi, tra gli altri, come Giuseppe Giacomini, Fedora Barbieri,
Alberto Mastromarino, Giancarlo Del Monaco, Federico Tiezzi, Lindsay Kemp.
Punte di particolare enfasi sono state raggiunte nel 1940, in occasione del cinquantenario dell’opera, con un vero tributo di popolo offerto dalla città natale all’autore,
nel 1945, quando una Livorno ferita nell’animo e distrutta dalla guerra volle salutare
artisticamente Pietro Mascagni scomparso da un mese con una prestazione memorabile di Galliano Masini nelle vesti di Turiddu, nel 1997 quando Fiorenza Cedolins
si rivelò al mondo dell’opera realizzando una Santuzza d’impatto non comune per
bellezza di suono, vigore e carico interpretivo, e nel 2004 quando alla presenza del
Presidente Ciampi il Teatro Goldoni fu riaperto dopo il lungo restauro sulle note
vibranti di Cavalleria rusticana. Un musicista indimenticabile, Massimo de Bernart,
guidò l’esecuzione conferendo alla serata un afflato ricco di commozione e di pathos.
Da segnalare infine le produzioni tenute recentemente presso la Fortezza vecchia e
Piazza XX Settembre, quest’ultima nell’ambito di Effetto Venezia.
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Cronologia delle rappresentazioni
al Teatro Goldoni di Livorno
Goldoni, 14 agosto 1890 (5)
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Gemma Bellincioni (Santuzza);
Ida Nobili (Lola); Federica Casali (Lucia);
Roberto Stagno (Turiddu); Mario Ancona (Alfio);
dir.: Leopoldo Mugnone;
m.° del coro: Giuseppe Cairati, Pietro Gherardi
(Società corale «Costanza e Concordia»)
Goldoni, 7 novembre 1909 (16)
rappresentazioni associate
a) PAGLIACCI
esecutori: Linda Brambilla (Nedda);
José Garcia/ Isaia Ganff (Canio);
Edoardo Faticanti* (Tonio); Aurelio Sabbi (Silvio);
Adrasto Simonti (Peppe)
b) CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Eugenia Burzio/ Leonia Ogrowska
(Santuzza); Dina Tanfani (Lola);
Annetta Stocchi (Lucia); Augusto Guarnieri/
Isaia Ganff (Turiddu); Edoardo Faticanti (Alfio);
dir.: Antonio Guarnieri/ Ugo Benvenuti Giusti;
m.° del coro: Paride Soff ritti
note: * per fortuita combinazione, nella soirée del
5 dicembre, Edoardo Faticanti sostenne tutte le
parti baritonali (Tonio; Silvio; Alfio)
Goldoni, 22 luglio 1916 (13)
rappresentazioni associate
a) CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Argia Romboli (Santuzza);
Irma Zappata (Lola); Amelia Biadi (Lucia);
Remo Pisoni/ Giuseppe Krismer (Turiddu);
Vieri Secci Corsi/ Giuseppe Montanelli (Alfio)
b) PAGLIACCI
Gemma Bellincioni, Santuzza
Goldoni, 12 novembre 1892 (13)
PAGLIACCI
esecutori: Giuseppina Musiani Rizzini (Nedda);
Vincenzo Ghilardini (Canio);
Emilio Barbieri (Tonio); Cesare Gaetani (Silvio);
Egidio Lorini/ Italo Giovannetti (Peppe);
dir.: Ettore Martini/ Tebaldo Bronzini
Goldoni, 18 aprile 1897 (9)
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Osma Großmann/ Olga Simzis (Nedda);
Giovanni Tegonini (Canio); Abelardo Tabanera/
Giuseppe Montanelli, Vieri Secci Corsi (Tonio);
Vieri Secci Corsi/ Gino Marengo (Silvio);
Irma Zappata (Peppe); dir.: Alfredo Padovani;
m.° del coro: Luigi Pratesi
Goldoni, 25 agosto 1928 (3)
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Lina Bruna Rasa (Santuzza);
Berenice Siberi (Lola); Irma Zappata (Lucia);
Oreste De Bernardi/ Antonio Melandri (Turiddu);
Domenico Viglione Borghese (Alfio);
dir: Pietro Mascagni; m.° del coro: Roberto Zucchi;
altri maestri: Mario Mascagni, Vincenzo Marini,
Enrico Tavani
esecutori: Emma Angelini (Santuzza);
Dalia Bassich (Lola); Amelia Biadi (Lucia);
Franco Mannucci (Turiddu); Francesco Pozzi (Alfio);
dir.: Ubaldo Pacchierotti
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Goldoni, 28 agosto 1935 (3)
CAVALLERIA RUSTICANA
Goldoni, 10 aprile 1948 (2)
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Lina Bruna Rasa (Santuzza);
Rosita Salagaray (Lola); Ida Mannarini (Lucia);
Nino Bertelli (Turiddu); Giuseppe Noto (Alfio);
dir: Pietro Mascagni; m.° del coro: Roberto Zucchi;
regia: Mario Frigerio; scene: Edoardo Marchioro,
Camillo Parravicini.
esecutori: Franca Sacchi (Santuzza);
Attilia Antonelli (Lola); Giuseppe Giribaldi (Turiddu);
Amleto Melosi (Alfio);
resto vedi rappresentazione associata
note: associata a L’amico Fritz (Mascagni)
Goldoni, 10 dicembre 1940 (2)
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Lina Bruna Rasa (Santuzza);
Vittoria Palombini (Lola); Ida Mannarini (Lucia);
Beniamino Gigli/ Alessandro Ziliani (Turiddu);
Carlo Tagliabue (Alfio); dir: Pietro Mascagni;
m.° del coro: Andrea Morosini
note: nel cinquantenario dell’opera
Goldoni, 17 aprile 1943 (2)
CAVALLERIA RUSTICANA
libretto: Giovanni Targioni Tozzetti,
Guido Menasci; musica: Pietro Mascagni
esecutori: Liliana Cecchi (Santuzza);
Laura Lauri (Lola); Ida Mannarini (Lucia);
Mario Del Monaco (Turiddu);
Giovanni Bolognesi (Alfio); dir.: Giovanni Frattini
note: associata a Il segreto di Susanna (Wolf Ferrari)
Goldoni, 6 settembre 1945 (3)
CAVALLERIA RUSTICANA
Goldoni, 15 febbraio 1950 (1)
rappresentazioni associate
a) CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Luisa D’Angelo (Santuzza);
Luciana Vanni (Lola); Oscar Brunel (Turiddu);
Leonardo Ciriminna (Alfio)
b) PAGLIACCI
esecutori: Rinetta Romboli (Nedda);
Brenno Ristori (Canio); Di Florimo (Tonio);
Alfredo Fineschi (Silvio); dir.: Adolfo Alvisi
Goldoni, 30 maggio 1950 (2)
rappresentazioni associate
a) CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Luciana Veroni (Santuzza);
Attilia Antonelli (Lola); Salvatore Puma (Turiddu);
Gino Orlandini (Alfio)
b) PAGLIACCI
esecutori: Derna Barellini (Nedda);
Galliano Masini (Canio); Danilo Checchi (Tonio);
Gino Orlandini (Silvio); Cesare Masini Sperti (Peppe);
dir.: Mario Braggio
esecutori: Germana Di Giulio (Santuzza);
Anna Maria Canali (Lola); Cesarina Berti (Lucia);
Galliano Masini (Turiddu); Luigi Dimitri/
Danilo Checchi (Alfio); dir.: Flaminio Contini;
m.° del coro: Lido Nistri; altri maestri: Vasco Naldini
note: nel trigesimo della scomparsa di Pietro Mascagni
Goldoni, 7 aprile 1946 (2)
rappresentazioni associate
a) CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Liliana Cecchi (Santuzza);
Mafalda Chiorboli (Lola);
Francesco Carrino (Turiddu); Antenore Reali (Alfio)
b) PAGLIACCI
esecutori: Clara Petrella [in sostituzione di
Adriana Perris (Nedda)]; Franco Beval (Canio);
Antenore Reali (Tonio); Ottavio Serpo (Silvio);
dir.: Mario Parenti
produzione: S. I. E. L.
fonti: Il Tirreno
Galliano Masini, Canio
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Goldoni, 22 dicembre 1954 (2)
a) CAVALLERIA RUSTICANA
Goldoni, 17 dicembre 1970 (2)
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Germana Di Giulio (Santuzza);
Anita Caminada (Lola); Mario Filippi (Turiddu);
Amleto Melosi (Alfio)
esecutori: Carla Ferrario (Santuzza);
Adriana Alinovi Pirali (Lola); Aida Sterlich (Lucia);
Danilo Cestari (Turiddu); Gabriele Floresta (Alfio);
dir.: Ivan Polidori; m.° del coro: Dario Indrigo;
altri maestri: Carlo Lupetti; regia: Franco Vacchi
note: associata a Silvano (Mascagni)
b) PAGLIACCI
esecutori: Fernanda Dal Monte (Nedda);
Achille Braschi (Canio); Amleto Melosi (Tonio);
Ernesto Vezzosi (Silvio); Cesare Masini Sperti (Peppe);
dir.: Mario Braggio
Goldoni, 16 aprile 1956 (2)
a) CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Luciana Veroni (Santuzza);
Vera Presti (Lola); Maria Orfei (Lucia);
Salvatore Lisitano (Turiddu);
Giuseppe Forgione (Alfio)
Goldoni, 24 settembre 1972 (1)
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Margareta Radulescu (Santuzza);
Milca Nistor (Lola); Ana Manciulea (Lucia);
Jon Lazar (Turiddu); Constantin Toma (Alfio);
dir.: Alexandru Taban; m.° del coro: Emil Maxin;
regia: Ilie Balea
note: associata a Suor Angelica (Puccini)
b) PAGLIACCI
esecutori: Dora Carral (Nedda);
Salvatore Lisitano (Canio); Giuseppe Forgione (Tonio);
Giuseppe Carnacina (Silvio);
Salvatore De Tommaso (Peppe);
dir.: Mario Pasquariello
Goldoni, 28 giugno 1957 (1)
rappresentazioni associate
PAGLIACCI
Goldoni, 23 novembre 1975 (2)
rappresentazioni associate
a) CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Lucia Stanescu (Santuzza);
Giovanna Di Rocco (Lola); Rita Bezzi Breda (Lucia);
Ciro Pirrotta/ Flaviano Labò (Turiddu);
Walter Alberti (Alfio)
b) PAGLIACCI
esecutori: Lydia Coppola (Nedda);
Galliano Masini (Canio); Renzo Scorsoni (Tonio);
Augusto Frati (Silvio); Sergio Feliciani (Peppe);
dir.: Giuseppe Ruisi
note: rappresentazione associata ad Ave Maria
(Allegra)
esecutori: Marcella Reale (Nedda);
Nunzio Todisco (Canio); Walter Alberti (Tonio);
Ettore Nova (Silvio); Andrea Elena (Peppe);
dir.: Ferruccio Scaglia; m.° del coro: Lido Nistri;
altri maestri: Gastone De Ambrogis,
Pietro Cavalieri, Lorenzo Parigi;
regia: Giampaolo Zennaro
Goldoni, 2 dicembre 1965 (2)
rappresentazioni associate
a) CAVALLERIA RUSTICANA
Goldoni, 24 ottobre 1980 (2)
rappresentazioni associate
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Teresa Apolei (Santuzza);
Anita Caminada (Lola); Gianni Jaja (Turiddu);
Silvano Verlinghieri (Alfio)
esecutori: Irina Arkhipova (Santuzza);
Biancarosa Zanibelli (Lola); Rita Bezzi Breda (Lucia);
Carlo Bergonzi (Turiddu); Gabriele Floresta (Alfio);
dir.: Vittorio Gajoni;
m.° del coro: Gherardo Gherardini;
altri maestri: Annarosa Carnieri, Pieralba Soroga,
Carlo Ventura; regia: Giuseppe Giuliano
note: associata a Silvano (Mascagni)
b) PAGLIACCI
esecutori: Maria Luisa Barducci/ Mafalda
Micheluzzi (Nedda); Gianni Savelli (Canio);
Franco Mieli (Tonio);
Ettore Cresci/ Guido Mazzini (Silvio);
dir.: Manno Wolf Ferrari; m.° del coro: Lido Nistri;
altri maestri: Carlo Lupetti; regia: Franco Vacchi
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Goldoni, 26 novembre 1983 (4)
rappresentazioni associate
Teatro Goldoni, 24 gennaio 2004 (3)
CAVALLERIA RUSTICANA
a) CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Katia Angeloni/ Michié Akisada
[in sostituzione di Jone Jori (Santuzza)];
Biancarosa Zanibelli (Lola); Licena Buizza (Lucia);
Antonio Liviero (Turiddu); Antonio Boyer (Alfio)
esecutori: Ildiko Komlosi/ Laura Brioli (Santuzza);
Alfredo Portilla/ Lance Ryan (Turiddu);
Sonia Zaramella/ Maria Cioppi (Lola);
Alberto Mastromarino/ Mauro Buda (Alfio);
Viorica Cortez (Lucia); dir.: Massimo de Bernart;
regia: Marco Gandini; scene: Italo Grassi;
costumi Maurizio Millenotti;
m° del coro: Marco Bargagna
note: riapertura del Teatro Goldoni alla presenza
del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio
Ciampi – a partire dal 3 febbraio associata a
La vida breve (de Falla)
b) PAGLIACCI
esecutori: Rita Lantieri (Nedda);
Gaetano Scano (Canio); Franco Giovine (Tonio);
Armando Ariostini (Silvio); Gabriele De Julis (Peppe);
dir.: Gianfranco Rivoli;
m.° del coro: Gherardo Gherardini;
regia: Giampaolo Zennaro;
scenografia: Izzo, Roma; Franco Nonnis (bozzetti)
note: nel 120° anniversario della nascita di P. Mascagni
Alcune delle rappresentazioni storiche presso altri teatri livornesi:
Politeama, 23 luglio 1898 (10)
rappresentazioni associate
a) CAVALLERIA RUSTICANA
Politeama, 9 luglio 1912 (5)
rappresentazioni associate
a) CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Adele Antinori (Santuzza);
Elvira Lucca (Lola); Erina Simi Conti (Lucia);
Augusto Barbaini/ Enrico Caruso/
Aristide Tranfo (Turiddu); Silvio Arrighetti
[in sostituzione di Arturo Romboli (Alfio)];
dir.: Ettore Martini; m.° del coro: Tebaldo Bronzini;
altri maestri: Vincenzo Bozzelli, Alberto Montanari
esecutori: Italia Appendin Bravi (Santuzza);
Vittoria Pamas (Lola); Maria Martelli (Lucia);
Aureliano Pertile (Turiddu);
Silvio d’Arles/ Gaetano Morellato (Alfio)
b) PAGLIACCI
esecutori: Maddalena Ticci (Nedda);
Aristide Tranfo/ Enrico Caruso (Canio);
Emilio Barbieri (Tonio); Silvio Arrighetti
[in sostituzione di Arturo Romboli (Silvio)];
Elvira Lucca (Peppe); dir.: Ettore Martini;
m.° del coro : Tebaldo Bronzini;
altri maestri: Vincenzo Bozzelli, Alberto Montanari
b) PAGLIACCI
esecutori: Edvige Vaccari (Nedda);
Manuel Izquierdo/ Aureliano Pertile (Canio);
Silvio d’Arles/ Jago Belloni (Tonio);
Gaetano Morellato (Silvio); Maria Martelli (Peppe);
dir.: Antonio Gallo; m.° del coro: Luigi Pratesi
Aureliano Pertile, Canio
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Piazza Luigi Orlando, 2 ottobre 1930 (2)
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Giuseppina Cobelli (Santuzza);
Gianna Pederzini (Lola); Antonio Melandri (Turiddu);
Domenico Viglione Borghese (Alfio);
dir: Pietro Mascagni; m.° del coro: Vittore Veneziani;
dir. dell’allestimento scenico: Giovacchino Forzano
note: associata a Zanetto (Mascagni)
La gran Guardia, 19 settembre 1997 (3)
CAVALLERIA RUSTICANA
esecutori: Fiorenza Cedolins/ Lucia Naviglio
(Santuzza); Madelyn Monti/ Niky Mazziotta (Lola);
Monica Tagliasacchi/ Corina Iustian Schmidt (Lucia);
Ignacio Encinas/ Maurizio Graziani (Turiddu);
Alberto Mastromarino/ Walter Donati (Alfio);
dir.: Massimo de Bernart;
m.° del coro: Stefano Visconti;
altri maestri: Paolo Filidei, Flora Gagliardi,
Andrea Visconti, Marco Bargagna;
regia: Marina Bianchi; scenografia: Leila Fteita
note: associata a Blue Monday (Gershwin)
Fiorenza Cedolins, Santuzza
nota generale: il numero fra parentesi tonda dopo la data ed il luogo di rappresentazione
indica il numero totale delle rappresentazioni per ogni specifica produzione.
Livorno 10 dicembre 1940 - Teatro Goldoni. Mascagni si avvia al podio
in occasione del 50° anniversario della 1a rappresentazione di Cavalleria rusticana.
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Pietro Mascagni (seduto) tra gli interpreti della prima di Cavalleria rusticana:
da sinistra Roberto Stagno, Leopoldo Mugnone e Gemma Bellincioni.
Alessio Pizzech
Regista
Appunti di lavoro
per Cavalleria rusticana
Lavorando oggi su di un’opera di grande repertorio come Cavalleria rusticana, penso
che sia necessario uscire dalla rappresentazione di quello che “già conosciamo di
quest’opera” e conviene confrontarsi tutti sul terreno di “ciò che non sappiamo” , cercando quello stupore creativo che ci possa far sentire ancora oggi questa straordinaria
composizione, capace di ferirci e commuoverci.
La mia ricerca artistica quindi tende al superamento della mera narrazione bozzettistica per arrivare ad una sottolineatura, in termini di contemporaneità, di quei sistemi
simbolici che possano far riflettere e coinvolgere anche il pubblico d’oggi.
Lo spazio scenico che aiuterà questa mia lettura di Cavalleria rusticana sarà legato
da una parte alla memoria emotiva della protagonista, narrando il processo narrativo
ed il percorso drammatico di Santuzza, allo stesso tempo racconterà la memoria
collettiva in cui restano tracce di un paese, di uno spazio appartenuto e vissuto da
una comunità. La piazza quindi del paese diverrà l’insieme di una serie di segni, dove
all’osteria e alla chiesa, si unirà il luogo privato che potremmo definire come una
“Casa di Santuzza”: un’anima segreta ed intima.
Santuzza è al centro della propria casa/altare: rifugio dei propri sentimenti, sottratti
agli occhi del mondo e dolorosamente vissuti istante dopo istante.
In questo spazio privato Santuzza piange e celebra il proprio dolore di donna tradita,
di donna in preda ad un desiderio che non trova appagamento. Fuggita dal mondo,
Santuzza ha fatto del rifiuto, dell’essere “scomunicata”, la propria identità.
Santuzza è l’Esclusa Pirandelliana: colei che non è parte della tribù, colei che sta ai
margini del sistema sociale di riferimento. Sarà uno spettacolo che pone la protagonista femminile al centro di un articolato e complesso sistema di rapporti privati e
sociali. Santuzza giudica il mondo.
Santuzza osserva e dialoga a distanza come una bestia nella gabbia; la libertà viene a
mancare ed la repulsione verso il mondo, diventa atto violento e folle.
Santuzza vede muoversi gli altri personaggi intorno a lei sentendosene estranea, essi
sono come una lunga proiezione del proprio dolore, del proprio Sogno d’amore oramai esploso.
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Lo spettacolo disegna così un percorso in cui la realtà si deforma e la verità perde i
suoi contorni in una visione allucinata: per Santuzza il tradimento, poco importa sia
avvenuto o no, resta concretamente il suo orizzonte di pensiero.
In questa visione l’ossessione del tradimento, del rifiuto e dell’abbandono, si confermano come segni di quella che definirei “incapacità alla vita”.
Santuzza pare uscita da un dramma espressionista tedesco, portatrice di un malessere
di vita che troverà voce nella grande poesia novecentesca e dal suo altare canta, come
un poeta, con una vocalità che stabilisce relazioni scandalose con la società.
Quanto più il suo urlo si leva al cielo con il sapore di un rito sacro di Pasqua, tanto
più ella resta sola, impenetrabile nel suo dolore che la pervade tutta.
Nell’Intermezzo come una nemesi una bambina e poi una ragazza, età diverse della
stessa Santuzza, l’accolgono tra loro.
Queste creature partorite dall’anima del canto, rievocate dallo svilupparsi della vicenda, da ora in poi, insieme alla protagonista, osserveranno lo scorrere della seconda
parte dell’opera: una sorta di dimensione metateatrale, di rappresentazione catartica
del proprio dolore, di un rito antico che deve compiersi e che costantemente si sovrappone al senso di colpa di cui Santuzza rende sé stessa soggetto/oggetto.
Un dolore vissuto, tenuto nascosto, che la protagonista può così consegnarci a noi
spettatori e testimoni di un paradosso dell’amore: il possesso come assoluta incapacità a vivere l’amore stesso. Lo spazio scenico quindi è il cuore pulsante del dolore. È
un luogo dove tutto si conserva, una sorta di placenta che genera vita, pensieri vissuti
che trovano nell’azione teatrale il loro concretizzarsi.
Qualcosa di ancestrale ci sarà in tutto questo, qualcosa che faccia da ponte tra il
dramma espressionista tedesco ed una tragedia greca, portatrici entrambi di una riflessione artistica del rapporto tra singolo e collettività che ci parli anche del conseguente scontro tra volontà ed istinto.
Bozzetto dello scenografo Michele Ricciarini per Cavalleria rusticana
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Alessio Pizzech
Regista
Premessa al Dittico
…una Donna in scena al levarsi del sipario, con la sua presenza, rievoca il
peso, il senso dell’emarginazione che isola il mondo femminile, quando esso
sia colpevole semplicemente di seguire il proprio Sentire.
Corifea, rappresentante della Collettività, essa si fa garante delle ragioni
per cui la donna viene emarginata dall’universo sociale che la circonda e che
la ritiene “scomunicata”.
La Corifea ci conduce quindi attraverso l’universo di Cavalleria e poi di
Pagliacci, leggendolo le due opere alla luce del rapporto donna / società, dandoci ragione del contesto attraverso cui si compie la Via Crucis prima di
Santuzza e poi di Nedda….
Il regista Alessio Pizzech
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Verso Cavalleria rusticana
Parole e immagini di Fabio Leonardi
Vignette del disegnatore livornese Fabio Leonardi pubblicate su “Il Tirreno” , febbraio 2010
Cavalleria rusticana
LA VICENDA
Atto Unico. In un paese della Sicilia un canto appassionato rompe improvvisamente
il silenzio della notte: è la voce del giovane Turiddu, che intona una serenata a Lola,
da lui tanto amata prima di partire per il servizio militare, ma che, al suo ritorno, ha
trovato sposata al carrettiere Alfio.
Inizialmente Turiddu si è consolato con Santuzza, un’altra ragazza del paese, ma poi
l’antica passione ha avuto il sopravvento: adesso i due sono di nuovo amanti. La loro
relazione segreta non è però sfuggita a Santuzza: disperata per l’oltraggio subito, la
ragazza cerca con ogni mezzo di riconquistare Turiddu e di convincerlo a troncare il
suo legame adultero.
È intanto spuntato il sole. È la domenica di Pasqua e sulla piazza del paese regna
una festosa animazione. Santuzza si avvicina alla madre di Turiddu, Lucia, chiedendole notizie del figlio. La donna risponde che il giovane si trova fuori paese per
delle commissioni: in realtà Turiddu aveva fatto credere di trovarsi altrove per potersi
incontrare tranquillamente con Lola; infatti durante la notte è stato notato aggirarsi
furtivamente per le strade.
Questa circostanza viene confermata anche da Alfio, ritornato a casa dopo un viaggio
per celebrare la Pasqua, che dice di averlo visto nei pressi di casa sua. Per Santuzza ciò
costituisce una prova definitiva dell’infedeltà di Turiddu; disperata, la ragazza decide
di raccontare tutto a Lucia, pregandola di intercedere presso il figlio affinché voglia
riparare l’offesa.
Nel frattempo iniziano le funzioni religiose e tutti entrano in chiesa. Sulla piazza
rimane solo Santuzza, che scorge Turiddu sopraggiunto a cercare la madre. Invano la
giovane supplica l’amato: questi, anzi, è infastidito dalla scena di gelosia di Santuzza,
e le risponde che ormai tra loro è finita. L’alterco tra i due è interrotto da Lola (intervenuta a cercare il marito), che non manca di schernire Santuzza.
Durante l’incontro Turiddu si mostra gentile e complimentoso con Lola, fornendo
così a Santuzza il pretesto per vendicarsi. Per farlo sceglie il modo peggiore: imbattutasi in Alfio, gli racconta della relazione tra Turiddu e Lola, intuendo subito le
funeste conseguenze della sua confessione.
La funzione pasquale si è intanto conclusa e sulla piazza regna ancora la gioiosa
animazione della solenne festività. Turiddu off re da bere ai suoi amici, inneggiando
al vino e alle donne. Il brindisi è però improvvisamente interrotto da Alfio, il quale
muove minaccioso verso Turiddu. Questi gli si fa incontro off rendogli un bicchiere di
vino, rifiutato seccamente da Alfio. I due si lanciano una sfida mortale: si batteranno
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al coltello in un orto, poco fuori dal paese. La piazza rimane subito deserta e Turiddu,
intuendo la fine, chiama la madre pregandola di benedirlo e di aver cura di Santuzza
come fosse sua figlia, quindi, fingendosi ubriaco, si allontana.
Dopo alcuni minuti un urlo di raccapriccio echeggia tra le case del paese: Turiddu è
stato assassinato dal rivale.
Pietro Mascagni, 1895 - Milano raccolta stampe Bertarelli
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CAVALLERIA RUSTICANA
Melodramma in un atto di
Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci
Tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga
Musica di
PIETRO MASCAGNI
Personaggi
Santuzza, una giovane contadina soprano
Turiddu, un giovane contadino tenore
Lucia, sua madre soprano
Alfio, un carrettiere baritono
Lola, sua moglie mezzosoprano
Contadini e contadine, paesani, ragazzi.
Prima rappresentazione: Roma, Teatro Costanzi, 17 maggio 1890
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ATTO UNICO
La scena rappresenta una piazza in un paese della Sicilia. Nel fondo, a destra, la chiesa con porta praticabile. A sinistra l’osteria e la casa di Mamma Lucia. È il giorno di
Pasqua.
(A sipario calato)
TURIDDU
O Lola ch’ai di latti la cammisa
si bianca e russa comu la cirasa,
quannu t’affacci fai la vucca a risu,
biato cui ti dà lu primu vasu!
Ntra la porta tua lu sangu è sparsu,
e nun me mporta si ce muoru accisu...
e s’iddu muoru e vaju mparadisu
si nun ce truovo a ttia, mancu ce trasu.
(Traduzione)
O Lola, bianca come fior di spino,
quando t’affacci tu s’affaccia il sole;
chi t’ha baciato il labbro porporino
grazia più bella a Dio chieder non vôle.
C’è scritto sangue sopra la tua porta,
ma di restarci a me non me ne importa;
se per te muoio e vado in paradiso,
non c’entro se non vedo il tuo bel viso
Scena Prima
LE CONTADINE
Cessin le rustiche opre:
la Vergine serena allietasi del Salvator;
tempo è si mormori da ognuno il tenero
canto che i palpiti raddoppia al cor.
(attraversano la scena ed escono.)
CONTADINI e CONTADINE
(La scena sul principio è vuota. Albeggia)
LE CONTADINE (di dentro)
Gli aranci olezzano sui verdi margini,
cantan le allodole tra i mirti in fior;
tempo è si mormori da ognuno il tenero
canto che i palpiti raddoppia al cor.
(le donne entrano in scena)
I CONTADINI (di dentro)
In mezzo al campo tra le spighe d’oro
giunge il rumore delle vostre spole,
noi stanchi, riposando dal lavoro
a voi pensiamo, o belle occhi-di-sole.
O belle occhi-di sole, a voi corriamo
come vola l’augello al suo richiamo.
(gli uomini entrano in scena)
Scena Seconda
SANTUZZA e LUCIA
(Santuzza entra e si dirige alla casa di Lucia)
SANTUZZA
Dite, mamma Lucia...
LUCIA (sorpresa)
Sei tu?... Che vuoi?
SANTUZZA
Turiddu ov’è?
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LUCIA
Fin qui vieni a cercare il figlio mio?
SANTUZZA
Voglio saper soltanto, perdonatemi voi,
dove trovarlo.
LUCIA
Non lo so, non lo so, non voglio brighe!
SANTUZZA
Mamma Lucia, vi supplico piangendo,
fate come il Signore a Maddalena,
ditemi per pietà dov’è Turiddu...
LUCIA
È andato per il vino a Francofonte.
SANTUZZA
No!... l’han visto in paese ad alta notte...
LUCIA
Che dici?... Se non è tornato a casa!
(avviandosi verso l’uscio di casa)
Entra...
SANTUZZA (disperata)
Non posso entrare in casa vostra...
Sono scomunicata!
LUCIA
E che ne sai del mio figliolo?
SANTUZZA
Quale spina ho in core!
ALFIO (entrando con i Paesani)
Il cavallo scalpita,
i sonagli squillano,
schiocchi la frusta. Ehi là!
Soffi il vento gelido,
cada l’acqua o nevichi,
a me che cosa fa?
I PAESANI
O che bel mestiere
fare il carrettiere
andar di qua e di là!
ALFIO
M’aspetta a casa Lola
che m’ama e mi consola,
ch’è tutta fedeltà
Il cavallo scalpiti,
i sonagli squillino,
È Pasqua, ed io son qua!
(entrano le donne)
TUTTI
O che bel mestiere
fare il carrettiere
andar di qua e di là!
LUCIA
Beato voi, compar Alfio, che siete
sempre allegro così!
ALFIO
Mamma Lucia, n’avete ancora
di quel vecchio vino?
LUCIA
Non so, Turiddu è andato a provvederne.
Scena Terza
LUCIA, SANTUZZA, ALFIO,
PAESANI e PAESANE
(Dall’interno schiocchi di frusta e tintinnio
di sonagli)
ALFIO
Se è sempre qui!... L’ho visto stamattina
vicino a casa mia.
LUCIA (sorpresa)
Come?
SANTUZZA (rapidamente a Lucia)
Tacete.
(dalla chiesa si ode intonare l’Alleluja)
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ALFIO
Io me ne vado, ite voi altre in chiesa.
(esce)
CORO INTERNO (nella chiesa)
Regina coeli laetare...
Alleluja!
Quia quem meruisti portare...
Alleluja!
Resurrexit sicut dixit.
Alleluja!
SANTUZZA
Io son dannata... Io son dannata.
Andate o mamma, ad implorare Iddio,
e pregate per me. Verrà Turiddu,
vo’ supplicarlo un’altra volta ancora!
LUCIA (entrando in chiesa)
Aiutatela voi, Santa Maria!
(Esce.)
Scena Quinta
SANTUZZA, LUCIA
e CORO ESTERNO (sulla piazza)
Inneggiamo, il Signor non è morto!
Ei fulgente ha dischiuso l’avel,
inneggiamo al Signore risorto
oggi asceso alla gloria del Ciel!
SANTUZZA e TURIDDU
TURIDDU (entrando)
Tu qui, Santuzza?
SANTUZZA
Qui t’aspettavo.
CORO INTERNO (nella chiesa)
Alleluja! Alleluja! Alleluja!
(tutti entrano in chiesa tranne Santuzza e Lucia.)
TURIDDU
È Pasqua, in Chiesa non vai?
Scena Quarta
SANTUZZA
Non vo. Debbo parlarti...
LUCIA e SANTUZZA
LUCIA
Perché m’hai fatto segno di tacere?
SANTUZZA
Voi lo sapete, o mamma, prima d’andar soldato,
Turiddu aveva a Lola eterna fe’ giurato.
Tornò, la seppe sposa; e con un nuovo amore
volle spegner la fiamma che gli bruciava il core:
m’amò, l’amai. Quell’invidia d’ogni delizia mia,
del suo sposo dimentica, arse di gelosia...
Me l’ha rapito... priva dell’onor mio rimango.
Lola e Turiddu s’amano, io piango, io piango,
io piango!
LUCIA
Miseri noi, che cosa vieni a dirmi
in questo santo giorno?
TURIDDU
Mamma cercavo.
SANTUZZA
Debbo parlarti...
TURIDDU
Qui no! Qui no!
SANTUZZA
Dove sei stato?
TURIDDU
Che vuoi tu dire? A Francofonte!
SANTUZZA
No, non è ver!
TURIDDU
Santuzza, credimi.
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SANTUZZA
No, non mentire, ti vidi volgere giù dal sentier...
E stamattina, all’alba, t’hanno scorto
presso l’uscio di Lola.
SANTUZZA
Battimi, insultami, t’amo e perdono,
ma è troppo forte l’angoscia mia.
TURIDDU
Ah! mi hai spiato?
Scena Sesta
SANTUZZA
No, te lo giuro. A noi l’ha raccontato
compar Alfio, il marito, poco fa.
LOLA (dentro alla scena)
Fior di giaggiolo,
gli angeli belli stanno a mille in cielo,
ma bello come lui ce n’è uno solo.
(entrando)
Oh! Turiddu... È passato Alfio?
TURIDDU
Così ricambi l’amor che ti porto?
Vuoi che m’uccida?
SANTUZZA
Oh, questo non lo dire.
TURIDDU
Lasciami dunque, invan tenti sopire
il giusto sdegno colla tua pietà.
SANTUZZA
Tu l’ami dunque?
TURIDDU
No...
SANTUZZA
Assai più bella è Lola.
TURIDDU
Taci, non l’amo.
SANTUZZA, TURIDDU e LOLA
TURIDDU
Son giunto ora in piazza. Non so...
LOLA
Forse è rimasto dal maniscalco,
ma non può tardare.
(ironica)
E voi... sentite le funzioni in piazza?
TURIDDU
Santuzza mi narrava...
SANTUZZA (tetra)
Gli dicevo che oggi è Pasqua
e il Signor vede ogni cosa!
LOLA
Non venite alla messa?
SANTUZZA
L’ami, l’ami... Oh! maledetta!
SANTUZZA
Io no, ci deve andar
chi sa di non aver peccato.
TURIDDU
Santuzza!
LOLA
Io ringrazio il Signore e bacio in terra.
SANTUZZA
Quella cattiva femmina ti tolse a me!
SANTUZZA (ironica)
Oh, fate bene, Lola!
TURIDDU
Bada, Santuzza, schiavo non sono
di questa vana tua gelosia!
TURIDDU (a Lola)
Andiamo, andiamo!
Qui non abbiam che fare.
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LOLA (ironica)
Oh! rimanete!
SANTUZZA (a Turiddu)
Sù, resta, resta, ho da parlarti ancora!
LOLA
E v’assista il Signore, io me ne vado.
(entra in chiesa)
Scena Settima
SANTUZZA e TURIDDU
TURIDDU (irato)
Ah, lo vedi, che hai tu detto?
SANTUZZA
L’hai voluto, e ben ti sta.
SANTUZZA
La tua Santuzza piange e t’implora,
come cacciarla così tu puoi?
TURIDDU
Va, ti ripeto, va, non tediarmi,
pentirsi è vano dopo l’offesa!
SANTUZZA (minacciosa)
Bada!...
TURIDDU
Dell’ira tua non mi curo!
(la getta a terra e fugge in chiesa)
SANTUZZA (nel colmo dell’ira)
A te la mala Pasqua, spergiuro!
(cade affranta ed angosciata)
TURIDDU (le s’avventa)
Ah, perdio!
Scena Ottava
SANTUZZA
Squarciami il petto!
(entra Alfio e s’incontra con Santuzza)
TURIDDU (s’avvia)
No!
SANTUZZA (trattenendolo)
Turiddu, ascolta!
TURIDDU
Va.
SANTUZZA
No, no, Turiddu, rimani ancora.
Abbandonarmi dunque tu vuoi?
TURIDDU
Perché seguirmi, perché spiarmi
sul limitare fin della chiesa?
SANTUZZA e ALFIO
SANTUZZA
Oh, il Signore vi manda, compar Alfio.
ALFIO
A che punto è la messa?
SANTUZZA
È tardi ormai, ma per voi
Lola è andata con Turiddu!
ALFIO (sorpreso)
Che avete detto?
SANTUZZA
Che mentre correte all’acqua e al vento
a guadagnarvi il pane, Lola v’adorna il tetto
in malo modo!
ALFIO
Ah, nel nome di Dio, Santa, che dite?
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SANTUZZA
Il ver. Turiddu mi tolse l’onore,
e vostra moglie lui rapiva a me!
ALFIO
Se voi mentite, vo’ schiantarvi il core!
SANTUZZA
Uso a mentire il labbro mio non è!
Per la vergogna mia, pel mio dolore
la triste verità vi dissi, ahimè!
ALFIO
Comare Santa, allor grato vi sono.
SANTUZZA
Infame io son che vi parlai cosi!
ALFIO
Infami loro! Ad essi non perdono;
vendetta avrò pria che tramonti il dì.
Io sangue voglio, all’ira m’abbandono,
in odio tutto l’amor mio finì...
(escono)
LE DONNE
A casa, a casa, amiche, ove ci aspettano
i nostri sposi, andiam.
Or che letizia rasserena gli animi
senza indugio corriam.
TURIDDU (a Lola che s’avvia)
Comare Lola, ve ne andate via
senza nemmeno salutare?
LOLA
Vado a casa, non ho visto compar Alfio!
TURIDDU
Non ci pensate, verrà in piazza.
Intanto, amici, qua, beviamone un bicchiere.
(tutti si avvicinano alla tavola dell’osteria e
prendono i bicchieri)
TURIDDU
Viva il vino spumeggiante
nel bicchiere scintillante,
come il riso dell’amante
mite infonde il giubilo!
Viva il vino ch’è sincero
che ci allieta ogni pensiero,
e che affoga l’umor nero,
nell’ebbrezza tenera.
INTERMEZZO
TUTTI
Viva!
Scena Nona
LOLA, TURIDDU e I PAESANI
TURIDDU (a Lola)
Ai nostri amori!
(beve)
(Tutti escono di chiesa. Lucia entra in casa)
GLI UOMINI
A casa, a casa, amici, ove ci aspettano
le nostre donne, andiam.
Or che letizia rasserena gli animi
senza indugio corriam.
LOLA (a Turiddu)
Alla fortuna vostra!
(beve)
TURIDDU
Beviam!
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TUTTI
Beviam! Rinnovisi la giostra!
Viva il vino spumeggiante
nel bicchiere scintillante,
come il riso dell’amante
mite infonde il giubilo!
Viva il vino ch’è sincero
che ci allieta ogni pensiero,
e che affoga l’umor nero,
nell’ebbrezza tenera.
(entra Alfio)
Scena Decima
I PRECEDENTI e ALFIO
ALFIO
A voi tutti salute!
TUTTI
Compar Alfio, salute.
TURIDDU
Benvenuto! Con noi dovete bere,
(empie un bicchiere)
ecco, pieno è il bicchiere.
TURIDDU
Allora sono agli ordini vostri.
ALFIO
Or ora?
TURIDDU
Or ora!
(Alfio e Turiddu si abbracciano. Turiddu morde
l’orecchio destro di AIfio.)
ALFIO
Compare Turiddu, avete morso a buono...
(con intenzione)
C’intenderemo bene, a quel che pare!
TURIDDU
Compar Alfio... Lo so che il torto è mio,
e ve lo giuro nel nome di Dio
che al par d’un cane mi farei sgozzar,
ma... s’io non vivo, resta abbandonata...
povera Santa... lei che mi s’è data...
(con impeto)
Vi saprò in core il ferro mio piantar!
ALFIO (respingendolo)
Grazie, ma il vostro vino non l’accetto.
Diverrebbe veleno entro il mio petto.
ALFIO (freddamente)
Compare, fate come più vi piace,
io v’aspetto qui fuori, dietro l’orto.
(esce)
TURIDDU (getta il vino)
A piacer vostro!
Scena Undicesima
LUCIA e TURIDDU
LOLA
Ahimè, che mai sarà?
ALCUNE DONNE (a Lola)
Comare Lola, andiamo via di qua.
(tutte le donne escono conducendo Lola)
TURIDDU
Avete altro a dirmi?
ALFIO
Io? Nulla!
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TURIDDU
Mamma...
(entra Lucia)
Mamma, quel vino è generoso, e certo
oggi troppi bicchieri ne ho tracannati...
vado fuori all’aperto.
Ma prima voglio che mi benedite
come quel giorno che partii soldato...
e poi... mamma... sentite...
s’io non tornassi... voi dovrete fare
da madre a Santa, ch’io le avea giurato
di condurla all’altare.
LUCIA
Perché parli così, figliolo mio?
SANTUZZA (getta la braccia al collo di Lucia)
O madre mia!...
(si sente un mormorio lontano)
TURIDDU
Oh nulla, è il vino che mi ha suggerito.
Per me pregate Iddio!
Un bacio, mamma... un altro bacio... addio!
(l’abbraccia ed esce precipitosamente)
Una Donna (gridando da molto lontano)
Hanno ammazzato compare Turiddu!
(alcune donne entrano atterrite correndo)
Scena Dodicesima
Una Donna (gridando)
Hanno ammazzato compare Turiddu!
(tutti gettano un grido. Santuzza cade priva di sensi, Lucia sviene ed è sorretta dalle
donne)
LUCIA, SANTUZZA e I PAESANI
LUCIA (disperata, correndo in fondo)
Turiddu?! Che vuoi dire?
Turiddu! Turiddu! Ah!
(entra Santuzza)
Santuzza!...
(Cala rapidamente il sipario)
FINE DELL’OPERA
Figurini della costumista Cristina Aceti per Cavalleria rusticana
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Ruggiero Leoncavallo
Alberto Paloscia
Direttore artistico Stagione Lirica e Progetto Mascagni
della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno
Ruggiero Leoncavallo
e il verismo ‘straniato’
Introduzione a Pagliacci
[...] Dunque, vedrete amar sì come s’amano
gli esseri umani; vedrete de l’odio
i tristi frutti, Del dolor gli spasimi,
urli di rabbia, udrete, e risa ciniche! [...]
Ruggiero Leoncavallo, Pagliacci. Prologo
Pagliacci di Ruggiero Leoncavallo (prima rappresentazione: Milano, Teatro Dal Verme, 21 maggio 1892)1, come altri capolavori della “Giovine Scuola Italiana”, ha superato da tempo il secolo di vita. La affiancano, in questo itinerario di vita teatrale
ultracentenario, titoli di notevole rilevanza storica e di inscalfibile fortuna esecutiva
quali Cavalleria rusticana di Mascagni (Roma, 1890), Manon Lescaut (Torino, 1893),
La Bohème (Torino, 1896) e Tosca (Roma, 1900) di Puccini, Andrea Chénier (Milano,
1896) e Fedora (Milano, 1898) di Giordano, nonché opere di grande valore ma oggi
scarsamente presenti sui grandi palcoscenici, quali L’Amico Fritz (Roma, 1891), Guglielmo Ratcliff (Milano, 1895) e lris(Roma, 1898) ancora di Mascagni e La Wally di
Catalani (Milano, 1892), quest’ultima praticamente coetanea del dramma lirico di
Leoncavallo. Né si può dimenticare che un anno dopo la première di Pagliacci, ancora
a Milano, il glorioso e intramontabile ‘nume tutelare’ dell’Ottocento operistico italiano, Giuseppe Verdi, si sarebbe congedato dal pubblico con Falstaff.
Si tratta quindi di un momento cruciale della storia del teatro musicale italiano. Il
triennio 1890-93, in particolare, vede consumarsi gli ultimi lasciti del grande patrimonio operistico romantico e della lezione verdiana in un vero e proprio processo di
combustione, nel quale si dissolvono a poco a poco le inquietudini della Scapigliatura
musicale e si dà libero corso all’irruenta e ormai irrefrenabile temperatura naturali61
stica già ampiamente presagita, sotto l’egida librettistica di Arrigo Boito, dal realismo
del Ponchielli della Gioconda e del Verdi di Otello. È la fase di avvio dell’opera verista,
che vede nel trionfale battesimo romano della Cavalleria mascagnana la sua limpida
e perentoria affermazione e nell’altrettanto clamoroso successo di Pagliacci due anni
dopo il suo definitivo consolidamento.
Con Pagliacci il giovane Leoncavallo, nato nel 1857 a Napoli, cresciuto a Montalto
di Uffugo presso Cosenza a causa del trasferimento del padre magistrato, formatosi
musicalmente presso il Conservatorio di San Pietro a Majella della città natale e dal
punto di vista letterario all’Università di Bologna sotto la guida di Carducci, approdava ai clamori e ai fasti della notorietà.
L’improvviso momento di gloria seguiva un periodo oscuro di apprendistato iniziato
alla metà degli anni Settanta con la progettazione di una trilogia operistica di chiara
matrice wagneriana dedicata a grandi personaggi storici del Rinascimento italiano (I
Medici, Savonarola, Cesare Borgia), proseguito con l’elaborazione dell’opera Chatterton
(1877) e la composizione di numerose liriche da camera (1880-82) e culminato negli
anni trascorsi a Parigi (1882-88), nel corso dei quali il musicista-letterato non ancora
trentenne aveva spaziato nei più diversi campi: dall’attività di pianista accompagnatore a quella di maestro di canto, dagli impegni con il café-chantant alla composizione di
poemi sinfonici (per tenore e orchestra, da Alfred de Musset e i frammenti orchestrali
di La Coupe et Ies Lèvres, ancora da de Musset, vengono eseguiti il 3 aprile del 1887
presso la Salle Kriegelstein).
Il secondo titolo ‘storico’ dell’opera verista italiana nasceva dopo un rovello esistenziale e creativo per molti versi non dissimile a quello vissuto dall’autore di Cavalleria: come il collega livornese, diviso alla vigilia del battesimo romano tra l’attività
di direttore d’operetta e quella di direttore della Filarmonica di Cerignola, anche il
musicista napoletano dovette attendere parecchi anni per vedere coronata la propria
vocazione teatrale.
E come Mascagni, che per gettarsi anima e corpo nell’elaborazione dell’atto unico
‘verghiano’ nell’imminenza del Concorso Sonzogno fu costretto a congelare progetti ben più complessi e ambiziosi (si pensi all’esperienza di Guglielmo Ratcliff), così
Leoncavallo accantonerà la gestazione dell’opera ‘prima’ Chatterton (che fu rappresentata a Roma soltanto nel 1896) e i grandiosi Medici (che saranno proposti al Dal
Verme nel novembre del 1893, l’anno successivo alla prima di Pagliacci, anche se
salutati da accoglienze non altrettanto lusinghiere) per dedicarsi al progetto di Pagliacci. Questo poté concretizzarsi grazie all’appoggio del grande baritono francese
Victor Maurel (1848- 1923), prescelto da Verdi per il ruolo di Jago in Otello e futuro
primo interprete di Falstaff presso l’editore e impresario Edoardo Sonzogno: l’opera,
rifiutata da Giulio Ricordi, che pure aveva sottoscritto con Leoncavallo il contratto
per I Medici, viene elaborata, sia per quanto riguarda la stesura librettistica che per
quella musicale, in soli cinque mesi nel 1891.
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Scuola verista e Meridione
L’affermazione di Leoncavallo con la nuova opera apre un nuovo importante capitolo
nella vicenda della “Giovine Scuola Italiana”: alla terna toscana formata da Catalani,
Mascagni e Puccini (un livornese e due lucchesi cui si sarebbe affiancato successivamente
il fiorentino Alberto Franchetti, autore di due “grandi opere” di successo, quali Cristoforo
Colombo e Germania) che ne aveva sancito l’origine si aggiunge il napoletano Leoncavallo, che riconduce la nuova corrente dell’operismo verista a quelle radici meridionalistiche
da cui era scaturito, grazie al contributo di scrittori quali Verga, Capuana, De Roberto
e Di Giacomo, il nostro naturalismo letterario. Cosicché tocca a Leoncavallo e ai suoi
Pagliacci aprire la fase ‘partenopea’ della “Giovine Scuola”, destinata a proseguire con la
produzione di altri due prestigiosi esponenti, entrambi napoletani di formazione o di
adozione, il calabrese Francesco Cilèa e il pugliese Umberto Giordano.
Pagliacci si inserisce nel filone inaugurato da Cavalleria rusticana e definito da alcuni
studiosi come “melodramma delle aeree depresse” (Rodolfo Celletti) o “verismo di
coltello” (Rubens Tedeschi): un tipo di opera imperniato sulla terna eros-adulteriosangue che Mascagni, grazie anche alla granitica compostezza delle “scene popolari”
di Verga cui si era ispirato e alla scarna essenzialità della sua trasfigurazione musicale
e drammaturgica, aveva condotto verso i traguardi di una ieratica tragedia mediterranea: nell’atto unico mascagnano il delitto d’onore, immerso nella festosa cornice
della celebrazione pasquale, assumeva la fisionomia di un vero e proprio rito tribale,
sancito non solo dalla presenza della vittima designata (Turiddu) e del giustiziere
(Alfio), ma anche da quella del celebrante (Santuzza). Anche se Pagliacci ripropone,
su scala ridotta, certe componenti del capolavoro di Mascagni - il Prologo che pare
riallacciarsi al Preludio e alla Siciliana intonata dal tenore en coulisse, autentiche prefigurazioni del dramma che si consumerà sulla scena; l’ambientazione da torrida festa
mediterranea: alla Pasqua siciliana dell’opera mascagnana si sostituisce la calura del
ferragosto calabrese; la parentesi lirica dell’intermezzo sinfonico, nei quale si scaricano le tensioni prima che l’azione precipiti inesorabilmente verso la catastrofe finale
-, la moda che di lì a poco dilagherà nella neonata scuola verista rischierà spesso di
confondere l’affiato tragico e la concentrazione drammaturgica del modello con la
retorica del cuore in mano e con il più trito bozzettismo oleografico. È il caso di
una lunga serie di titoli che scaturiranno in breve tempo dal successo dell’accoppiata
storica del verismo operistico (Cav. & Pag., secondo la celeberrima definizione anglosassone) corrompendo nelle tentazioni del facile folclorismo gli alti traguardi dei
due titoli ‘capofila’. Tale corrente, che da Mala vita di Giordano (1892) e da A basso
porto di Spinelli (1894), entrambe ambientate nei bassifondi di Napoli, si spingeranno, senza tralasciare la stanca ripetizione di Silvano di Mascagni (Milano, 1895: una
versione fiacca ed edulcorata di Cavalleria trasferita dalla rustica Sicilia a una ben più
oleografica riviera pugliese), fino al nuovo secolo, chiudendo la propria parabola con
la tardiva adesione al più sanguigno colorismo partenopeo del ‘neoclassico’ WolfFerrari (I gioielli della Madonna, Berlino 1911)2.
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Oggettivismo e gusto della citazione
Nell’opinione di molti studiosi Pagliacci rappresenterebbe una sorta di manifesto
poetico-programmatico dell’opera verista proprio per la singolare presenza del Prologo, in genere affidato allo stesso baritono scritturato per il ruolo di Tonio “lo scemo”,
ovvero il motore occulto di tutta l’azione: lo stesso personaggio a cui viene affidato
l’ultima laconica frase dell’opera (“La commedia è finita!”), quasi a sottolineare la
coerenza dell’assunto drammaturgico. Il cantante, dopo la brillante introduzione affidata all’orchestra e l’esposizione - ancora in orchestra- dei temi della disperazione
di Canio (il celeberrimo “Ridi pagliaccio”), della sua gelosia e della passione che
lega Nedda a Silvio, appare sul proscenio a sipario ancora calato ed espone i principi
ispiratori dell’opera: la volontà di trasferire sulla scena una tranche de vie (“L’autore ha cercato invece pingervi/uno squarcio di vita”) e di ispirarsi alla vita vissuta
(“Egli ha per massima/sol che l’artista è un uom e che per gli uomini/scrivere ei
deve. - Ed al vero ispiravasi”), le inclinazioni autobiografiche dell’autore che vuole
rievocare un fatto di cronaca vissuto in prima persona durante la sua infanzia3 (“Un
nido di memorie in fondo all’anima/cantava un giorno, ed ei con vere lacrime/scrisse,
e i singhiozzi il tempo gli battevano”), il taglio oggettivo, scientifico, di ascendenza
quasi ‘zoliana’, della descrizione dei sentimenti e delle reazioni spesso esasperate dei
protagonisti (“Dunque, vedrete amar sì come s’amano/gli esseri umani [...]). L’esperimento leoncavalliano, considerato dall’esegesi ufficiale come una delle invenzioni
più audaci di Pagliacci, in realtà era già stato preceduto, come ricorda Mario Morini,
dal Prologo dalla pièce teatrale di Pietro Cossa Nerone, dalla quale Mascagni avrebbe
tratto il suo ultimo lavoro teatrale4; nè si può tacere del già citato modello dell’Introduzione di Cavalleria rusticana, opera da cui Pagliacci deriva tanti codici stilistici ed
elementi strutturali, pur non riproponendone il respiro epico-tragico5.
Ma l’aspetto che più differenzia lo stile musicale e la drammaturgia di Pagliacci dai
traguardi degli altri autori della “Giovine Scuola” è il gusto del pastiche che informa
di sè tutta la costruzione dell’opera. Il metodo compositivo leoncavalliano è lontano
sia dalla tecnica analogica di Puccini, sia dall’impeto sperimentale legato alla declamazione del testo tipico di Mascagni, sia dal gusto abile e sintetico del ‘montaggio’
di situazioni teatrali e musicali proprio di Giordano, sia dall’intimismo di marca
massenetiana cui approdò la malinconica vena intrisa di cantabilità ‘partenopea’ di
Cilèa. La vocazione al collage e al potpourri stilistico, all’assemblaggio dei più disparati
materiali musicali, alla citazione di composizioni preesistenti, legate tanto alla grande
letteratura operistica quanto al patrimonio sinfonico e strumentale classico-romantico curiosamente esplorato dagli operisti italiani di fine Ottocento6, si devono necessariamente ricollegare agli anni del suo soggiorno francese, al suo contatto perenne
con il mondo dell’operetta, della commedia musicale e del café-chantant. Un aspetto quest’ultimo che ci porta a ridimensionare non poco la tradizionale reputazione
di un Leoncavallo esplosivo campione di cantabilità e visceralità mediterranea e a
riconoscere, accanto all’infatuazione wagnenana del musicista napoletano, le radici
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inconfondibilmente francesi della sua drammaturgia musicale. Leoncavallo, al pari
di Puccini e in misura forse maggiore rispetto a Mascagni e a Giordano, guarda alla
musica francese come a un modello fondamentale. I suoi punti di riferimento non
sono esclusivamente le oasi liriche di Gounod, di Thomas e di Massenet a cui si ispira
soprattutto il Puccini degli esordi, ma la vena disincantata, parodistica e un po’ cinica
del Bizet di Carmen e dell’operetta di Jacques Offenbach.
Il gusto distaccato della citazione e del calco stilistico si rivela in parecchie situazioni musicali e teatrali di Pagliacci, autentici tòpoi operistici reinventati o riciclati da
Leoncavallo con un’asciuttezza che saremmo tentati di definire ‘neoclassica’. Si pensi,
oltre alla già ricordata cornice di festa paesana desunta da Cavalleria, al personaggio
di Nedda - nome che è già una citazione: probabilmente un omaggio all’omonima
novella di Giovanni Verga -, femme fatale sfrontata e provocatrice che spinta dalla sua
ansia di libertà corre impavida verso la lama omicida del consorte geloso come una
reincarnazione di Carmen, al rapporto subdolo e possessivo che viene a instaurarsi
fra il vendicativo Tonio - che a sua volte unisce la deformità di Rigoletto alla malvagità e alla lascivia di un altro torvo baritono vilain: Barnaba della Gioconda - e il passionale e istintivo Canio, che ripropone la complicità tra il protagonista e Jago nell’
Otello shakespeariano prima e verdiano-boitiano poi. Perfino la coltellata di Canio a
Nedda e a Silvio rinvia al finale di Carmen, immerso com’è l’inatteso fatto di sangue
in un quadro di euforia popolaresca. Anche l’idea del teatro nel teatro, di cui Pagliacci,
ancora prima di lris e delle Maschere mascagnane, di Tosca di Puccini, di Adriana Lecouvreur di Cilèa, di Zazà dello stesso Leoncavallo - gli ultimi titoli sono accomunati
dal fatto di essere dominati dalla figura di una grande ‘diva’ protagonista: una cantante, un attrice della Comédie-Francaise e una canzonettista - rappresenta la prima
incarnazione nel teatro d’opera di marca naturalista, precedendo perfino le scoperte
della drammaturgia pirandelliana, aveva avuto un precedente illustre sempre nel teatro di Shakespeare, nella grande scena catartica della recita di corte organizzata dal
protagonista per il re e la regina madre in Amleto. E ribadirebbe una tendenza propria
di certo teatro musicale del Settecento e del primo Ottocento, incline a mettere in
scena intrecci imperniati su impresari, scrittori, cantanti e attori (dall’Impresario di
Mozart - Stephanie all’Opera seria di Gassmann-Calzabigi fino al Turco in Italia di
Rossini-Romani, alla Cenerentola di Rossini-Ferretti e a Don Pasquale di DonizettiRuffini) anticipando la tematica della “mascherata”, del travestimento, della finzione
e del “metateatro” in parte adottato da Verdi in Falstaff e sempre più rilevante nel
panorama del teatro musicale europeo del Novecento storico: da Arlecchino di Busoni
a Gianni Schicchi di Puccini, da Der Rosenkavaller, Ariadne auf Naxos e Capriccio di
Richard Strauss a Lulu di Berg.
Un tema, quello del metateatro, che si rivela come uno dei più interessanti fili conduttori della poetica del verismo operistico e che in Leoncavallo si tinge, come spesso avviene nella sua produzione teatrale, di tinte fortemente autobiografiche: il suo
amore per gli artisti girovaghi, per la vita bohémienne, per gli spettacoli ‘di strada’ tipo
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circo, music-hall e cabaret costituisce una costante del suo nutrito catalogo di opere,
operette e balletti. Basti ricordare, dopo la fondamentale esperienza di Pagliacci, il
continuo riaffiorare di questi generi teatrali ‘alternativi’ in titoli quali le già ricordate
Bohème e Zazà, i dimenticati Zingari da Puškin, la pantomima cantata Pierrot au
cinéma, il balletto La vita di una marionetta. Tematica quella del “gioco dello spettacolo” che, come scrive Adriana Guarnieri Corazzol, “conferma la contiguità tra narrativa e opera verista, nella quale il ruolo (socialmente basso) di cantante o di attore
di un protagonista off re infinite occasioni di straniamento: nella costante tendenza
di questo tipo operistico all’autorappresentazione, alla dissociazìone dei piani del
rappresentato, alle strategie di simulazione. Pagliacci, Zazà, Tosca, Adriana Lecouvreur
sono drammi che puntano interamente sulla dimensione autoriflessiva a fini drammaturgici; altre opere ricorrono più genericamente alla dimensione autoriflessiva
della musica in scena. La loro ‘verità’ consiste propriamente in uno sdoppiamento
della scena e del tessuto sinfonico: la contaminatio delle lingue, quell’urto di tragico e
di comico, di lirico e di operettistico che è così tipico dell’opera verista (e del realismo
ottocentesco largamente inteso); il suo particolarissimo ‘mezzo carattere”7.
Straniamento e vertigine
Accanto a tale impostazione drammaturgica è importante rilevare un altro forte contrappeso che impedisce a Pagliacci di cadere nei tranelli del verismo più scontato e
plateale: l’impostazione tutta intellettualistica del libretto, dominato da un rigore costruttivo che ha i suoi nuclei ispiratori nel già ricordato tema del teatro nel teatro, in
quello della risata smorfiosa e forzata del buffone e dell’uomo deforme già immortalato
da Victor Hugo in Notre-Dame de Paris, in L’homme qui rite in Le roi s’amuse e ìn quello
della tematica della maschera tragica o allucinata che trapasserà direttamente nella letteratura simbolistico-estetizzante dei poeti parnassiani e maudits (Gautier, de Banville,
Mallarmé, Baudelaire), nella pittura di Picasso e avrà il suo coronamento espressionistico nelle esperienze del Pétrouschka stravinskiano e nel Pierrot Lunaire di Schònberg e
Guiraud8. Come ha sottolineato Folco Portinari a proposito del libretto di Pagliacci:
[...] le intenzioni veristiche sono parzialmente corrette perché vanno a innestarsi non sopra un
tessuto documentario quanto piuttosto simbolico. L’intervento intellettualistico sposta l’asse
strutturale del lavoro e realizza le intenzioni poetiche in un gioco di corrispondenze speculari,
simbolistiche, nello scambio fra finzione e realtà. Perché gli attori sono, sulla scena, contemporaneamente uomini. Gioco antico, questo del teatro nel teatro, gioco colto, ben lontano
dalle istanze veriste ‘fotografiche’. Non basta, del teatro Leoncavallo coglie l’espressione più
ambigua, il pagliaccio, istituzionalmente polimorfo perché ‘truccato’, abilitato da sempre ai
contrasti oppositivi di apparenza e realtà, riso e pianto, farsa e tragedia, radunati nell’unica persona dell’attore-uomo: “Tramuta in lazzi lo spasimo e il pianto;/ In una smorfia il singhiozzo
e il dolor.../Ridi pagliaccio, sul tuo amore infranto!/ Ridi sul duol che t’avvelena il cor!”. Una
condizione turbante, di decadente morbosità, un tema che gira già nell’aria per diventare tra
poco un motivo di moda, quello del clown, del guitto, del saltimbanco, tra Laforgue e Picasso,
tra Severini e Palazzeschi.
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La trouvaille è quella, altrimenti ci troveremmo di fronte al più banale e convenzionale canovaccio, con un marito tradito dalla moglie e che, geloso, la uccide a coltellate assieme all’amante, dopo la delazione vendicativa d’un gobbo respinto dalla donna. Ma a ciò si arriva su un
doppio binario, della realtà aneddotica e della sua parabola e della sua parallela riproduzione
scenica nella piéce recitata dai commedianti: quando Canio uccide Nedda, è anche Pagliaccio
che uccide Colombina. La cosa non mi importerebbe più di tanto e rientrerebbe in un’operazione naturale nell’ambito degli scambi fra verismo e decadentismo se questa ambiguità
e questo gioco non si riflettessero pure nella musica. Infatti mi sembra difficile, benché mi
occupi del libretto, poter dimenticare la musica che l’accompagna, quale l’apertura dei due atti
con cori contadini abbastanza illustri (con intrasentite citazioni di Carmen); l’intermezzo, un
pezzo di colore, evasivo, su parole che dicono poco, ‘Don, din, don, din, don” e l’uso funzionale
e illustrativo degli archi nella successiva aria pascoliana di Nedda; e soprattutto la “commedia”,
con al centro la romanza di Arlecchino “O colombina”, di colta costruzione9.
È proprio da tale ambiguità che la musica di Pagliacci deriva il suo fascino e la sua
modernità. La commìstione di stilemi musicali colti con il triviale e il salottiero10come non riconoscere nella Ballatella di Nedda e in tanti squarci del duetto d’amore
Nedda-Silvio (“Decidi il mio destin,/ Nedda, Nedda rimani!”, “Non mi tentar’ Vuoi
tu perder la vita mia?”, “E allor perché, di’, tu m’hai stregato”) le seduzioni melodiche
della canzone da balera e la cantabilità accorata e sentimentale della romanza da salotto, due generi coltivati ampiamente dall’autore le cui suggestioni ritroveremo anche
nelle migliori pagine della Bohème e dì Zazà? - di ammiccamenti colti - l’Omaggio al
cromatismo wagneriano del leitmotiv strisciante della gelosia di Canio e della vendetta
di Tonio, che riecheggia tanto le cupe atmosfere del Nibelheim quanto l’ansia omicida
dell’Otello verdiano - e di ricercati e preziosi arcaismi - le movenze neoclassiche derivate dallo strumentalismo settecentesco11, che si impongono con l’avvio della commedia
come corpus estraneo alla crudezza da fatto di cronaca della vicenda vera e propria conferiscono all’opera quella cifra di verismo ‘straniato’ che ne costituisce uno dei tratti
più geniali e moderni.
L’ibridismo stilistico, la sovrapposizione fra un linguaggio ‘colto’ e un linguaggio di
‘consumo’, l’invadenza della citazione e del pastiche nell’assunto musicale e drammaturgico che Pagliacci impone per la prima volta nell’iter dell’opera verista creano quel
senso di vertigine e di sospensione che molti studiosi della drammaturgia musicale
leoncavalliana hanno più volte sottolineato e che ci pare particolarmente incisiva
nella scena della commedia del secondo atto.
Non si tratta, come scrive Carlo Piccardi, di “un semplice cambiamento di situazione,
ma è uno scarto richiesto dalla coscienza dello spettatore il quale, invitato dapprima
a lasciarsi coinvolgere nell’impetuoso procedere degli avvenimenti, a questo punto
deve tener presente la distinzione tra i due livelli, quello dell’azione principale e quello appunto del teatro nel teatro, che da una parte ha funzione caratterizzante di momento partecipante all’azione principale (Colombina è pur sempre Nedda, Pagliaccio
è pur sempre Canio), ma che, dall’altra, come procedimento caratterizzato, ha una
sua logica indipendente di svolgimento.
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[...] nei Pagliacci (il teatro nel teatro) viene ad occupare una vasta porzione di un intero atto su un arco in cui si svolge una vera e propria azione parallela ed in cui, per tutta la sua durata, è possibile dimenticare la realtà che ad essa sta intorno. L’insistenza
in tale dimensione ha senz’altro una precisa funzione drammaturgica, di esasperare
il confronto con la brutalità del reale richiamata dalle [...] parole (parlate appunto e
non cantate): ‘la commedia è finita’. Mai come altrove in Leoncavallo i due mondi,
quello della realtà rappresentata e quello della finzione rappresentata, risultano a tal
punto in conflitto, in un modo che, profilando ambedue con uguale credibilità di
gesti, li staglia come prospettive ugualmente percorribili”.
Una drammaturgia, quindi, imperniata su un sottile gioco speculare, la cui “intensa impressione di vertigine [...] è procurata dall’effetto espressionistico generato dal
contrasto fra la prosopopea melodrammatica con cui Leoncavallo presume di interpretare il soggetto grandguignolesco e l’effettiva sensibilità del musicista, ch’è da operetta e da romanza da salon; risultato derivante dall’impasto di atteggiamento dotto,
gusto musicale d’intrattenimento, fondamentale osservanza di un modulario intimamente consunto. Wagnerismo, genere leggero, retorica melodrammatica, folklore di
maniera, spettacolo povero, sgangherato, e artificio intellettualistico di straniamento
e di teatro nel teatro, infine pagliacci, coltellate, sangue: i Pagliacci devono il loro
successo alla fortunata coincidenza del soggetto con la guitteria formale della sua
esposizione, consentita dalla disponibilità dei ritrovati sul campo e di una tradizione
divenuta inerte. [...] “(Piero Santi)12.
Di qui si spiega lo scarso successo di critica che ha sempre accolto Pagliacci nel nostro
paese e in Francia - dove l’opera è stata spesso considerata come l’emblema della più
rozza e sfacciata Trivialmusik - e l’incondizionata ammirazione che il capolavoro di
Leoncavallo ha ottenuto invece nei paesi di area germanica e mitteleuropea fin dalle
sue prime apparizioni; di qui l’appassionata rivalutazione intrapresa in tempi più o
meno recenti dai grandi studiosi della dodecafonia, quali René Leibowitz e Roman
Vlad, che nell’icastica e violenta concentrazione musicale e drammatica di Pagliacci
hanno ravvisato una forma di espressionismo musicale ante litteram.
Scrive il Leibowitz:
I Pagliacci resteranno indubbiamente per molto tempo l’esempio più tipico del ‘gioco tragico’,
concezione che è alla base di Così fan tutte e di tante altre opere liriche, e che qui raggiunge la
più intensa gravità. [...] Nessuna delle opere posteriori sorte sulla scia delle stesse concezioni
drammatiche - neppure forse i successi più brillanti del genere, come Arianna a Nasso e Capriccio di Richard Strauss - saprà farci ritrovare questo prestigioso duplice gioco di una realtà
fittizia che continuamente si risolve in una realtà diversa, ma egualmente illusoria: gioco in
cui i due piani dell’azione scenica tendono continuamente a confondersi, lasciandoci una sola
intensa impressione di vertigine13.
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L’opera, diretta dal giovane Arturo Toscanini, ebbe quali interpreti Adelina Stehle (Nedda), Fiorello Giraud
(Canio),Victor Maurel (Tonio), Francesco Daddi (Peppe) e Mario Roussel (Silvio).
Ci pare interessante sottolineare che gran parte dei titoli scaturiti dalla fortuna di Cavalleria, soprattutto quelli
non ambientati in Sicilia, rifuggano dai toni idilliaci e agresti del modello mascagnano per abbracciare temi più
smaccatamente vicini alla cronaca nera e di più forte impegno sociale. Si pensi alle opere di soggetto napoletano, capeggiate da Mala vita di Giordano - che dopo il trionfale battesimo romano del 1892 sarà accolta dal
pubblico del San Carlo di Napoli con un colossale fiasco - e rappresentate autorevolmente da A Santa Lucia di
Pierantonio Tasca (Berlino, 1892) e A basso porto di Nicola Spinelli (Colonia, 1894), i cui libretti sono imperniati sulle piaghe sociali del ‘ventre’ di Napoli: prostituzione, violenza sessuale, banditismo, alcoolismo. Tra gli
studi più recenti dedicati all’opera verista ‘di coltello’ segnaliamo i contributi di Virgilio Bernardoni (Varianti
“rusticane” nell’opera italiana di fine Ottocento, in Cavalleria rusticana 1890-1990: cento anni di un capolavoro, a c.
di R e N. Ostali, Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1990, pp. 75-85), Rodolfo Celletti (Napoli
verista, in “Rassegna Musicale Italiana. Rivista di Musicologia”, III, n. , Salerno 1998, pp. 6-9) e l’esauriente
monografia di Stefano Scardovi, L’opera dei bassifondi. Il melodramma “plebeo” nel verismo musicale italiano, Libreria Musicale Italiana, Lucca 1994.
Si leggano a tale proposito le pagine tratte dall’autobiografia inedita di Leoncavallo. Ma oltre al fatto di cronaca di cui il giovanissimo Leoncavallo fu testimone involontario, le radici del soggetto di Pagliacci devono essere
necessariamente identificate in due pièces teatrali in voga sulle scene europee di fine Ottocento: la tragicommedia in un atto Le Femme de Tabarin di Catulle Mendès, rappresentata a Parigi nel 1887 - il cui finale, con
il capocomico Tabarin che uccide la moglie adultera di fronte al pubblico che assiste allo spettacolo, si rivela
la fonte primaria del libretto di Leoncavallo - e un Un drama nuevo di Estebañez che, come ricorda Mario
Morini, venne tradotto e rappresentato in Italia fin dal 1868, e fu tra i cavalli di battaglia di grandi attori quali
Ernesto Rossi ed Ermete Novelli. Sul problema delle fonti di Pagliacci, cfr. l’importante contributo di Matteo
Sansone, The ‘Verismo’ of Ruggero Leoncavallo:a source study of “Pagliacci” in “Music and Letters”, LXX, 3, agosto
1989, pp. 342-362.
Nel Prologo di Nerone di Cossa, rappresentato per la prima volta a Roma nel 1871 e considerato una delle
prime manifestazioni di verismo e di uno stile più prosaico all’interno di una tragedia di ispirazione storica,
il buffone Menecrate spiega al pubblico che “l’autor s’attenne/a quella scola che piglia le leggi/del verismo, e
stimando che in ogn’arte/sia bello il vero, bandi dalla scena/ il verso c’ha romore e non idea,/pago se poté trar
voci ed affetti/dal lirismo del cuore” (cfr. Pietro Cossa, Nerone, in Il teatro italiano. La tragedia dell’Ottocento, a
c. di E. Faccioli, Einaudi, Torino 1981).
Scrive a tale proposito Mario Morini: “Concepita dunque sul modello mascagnano, l’opera ‘verista’ di Leoncavallo era nata anch’essa in un solo atto suddiviso da un intermezzo sinfonico, e come ‘dramma in un atto’ era
stato presentato il libretto della prima edizione a stampa: fu durante le prove d’orchestra che si decise, orologio
alla mano, di dividerla in due atti. In origine il titolo dell’opera era Pagliaccio, mentre nel cartellone del Teatro
Dal Verme essa assumeva quello con il quale erroneamente da molti ancora la si indica, ossia I Pagliacci Il titolo
definitivo fu Pagliacci e poiché Cavalleria aveva la novità della ‘Siciliana’ a sipario chiuso, Pagliacci a sipario
chiuso ebbero il ‘prologo’ e non importa che fosse una novità alquanto relativa. Con la sostanziale differenza, a
confermare l’opportunità dell’uno e l’appiccicatura dell’altro, che la ‘Siciliana’ è già parte dell’azione, mentre il
‘prologo’ non è che l’esposizione di concetti risaputi (tanto che all’Hanslick pareva del tutto superfluo), e si salva
solo perché è pur sempre una bella pagina per baritono” (cfr. Mario Morini, “Pagliacci”: anni cento, in Teatro
dell’opera di Roma, Programma di sala Stagione 1991-92, pp. 25-26).
Tale gusto della citazione si può riconoscere anche in plagi più o meno clamorosi. In Pagliacci si ricordano,
accanto a quello di España di Chabrier nel celebre Coro delle Campane, quelli del secondo movimento (Andante con moto) della Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90, Italiana, di Mendelssohn nella melodia di “Un nido
di memorie” nel Prologo (cfr. Michele Girardi, Il verismo musicale alla ricerca dei suoi tutori. Alcuni modelli di
“Pagliacci” nel teatro musicale “Fin de siècle’ in Ruggiero Leoncavallo nel suo tempo, Atti del 1° Convegno Internazionale di Studi su Ruggiero Leoncavallo, a c. di J. Maehder e L. Guiot (Locarno, ottobre 1991), Casa Musicale
Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1993, p. 64), del finale dell’ultimo tempo (Allegro appassionato) dal Trio in
re minore op. 49 ancora di Mendelssohn nella frase di Nedda “A te mi dono; su me solo impera/Ed io ti prendo
e m’abbandono intera” dal duetto d’amore Nedda- Silvio (cfr. Julian Budden, Primi rapporti fra Leoncavallo e
la casa Ricordi: cinque missive ancora sconosciute, in Ruggiero Leoncavallo nel suo tempo, Op. cit., pp. 5 1-52) e del
movimento lento (Lento, con molta espressione) dalla Sonata in mi maggiore per pianoforte op. 7 di Beethoven nella parte iniziale dell’aria di Canio “Un tal gioco, credetemi” (cfr. in Virgilio Bernardoni, Musiche in teatro:
stereotipi strumentali nell’opera italiana di fine ottocento, in Letteratura, musica e teatro al tempo di Ruggiero Leoncavallo, Atti del 2° Convegno Internazionale di Studi su Ruggiero Leoncavallo, a c. di J. Maehder e L. Guiot
(Locarno, ottobre 1993), Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano 1995, pp. 121-1 22). Nè si possono
dimenticare gli omaggi a Bach, Rossini e Meyerbeer nella Bohème e l’intrusione di un’Ave Maria suonata al
pianoforte in una delle ‘scene madri’ di Zazà, l’incontro fra la protagonista e la bambina di Milio Dufresne alla
fine del terzo atto.
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Adriana Guarnieri Corazzol, Opera e verismo: regressione del punta di vista e artificio dello straniamento, in Ruggero Leoncavallo nel suo tempo, Op. cit., p. 26.
Cfr. su questi argomenti l’ampio saggio di Carlo Piccardi, Pierrot-Pagliaccio. La maschera tra naturalismo e
simbolismo, in Ruggiero Leoncavallo nel suo tempo, cit., pp. 201-245.
Folco Portinari, Pari siamo! lo la lingua, egli ha il pugnale. Storia del melodramma ottocentesco attraverso i suoi
libretti, Edt Musica, Torino 1981, pp. 248-249.
La stessa commistione di stili e di linguaggi, con bruschi passaggi dal ‘sublime’ al ‘volgare’, che caratterizza la
scrittura musicale di Pagliacci, è anticipata da Leoncavallo nella scrittura del libretto. Si ricordino certe espressioni plebee ispirate al più concitato e crudo realismo (“Mi fai schifo e ribrezzo”, “Per la Madonna!”, “il ganzo
tornerà”), che convivono con espressioni quasi auliche, francamente poco intonate all’ambientazione rustica
e popolaresca in cui è immerso l’intreccio. Tale polistilismo è stato indicato da Adriana Guarnieri Corazzol
come una delle componenti essenziali dell’opera verista: “L’opera arriva così a sfiorare una poetica del conflitto
di stili come disgregazione dell’organismo espressivo operistico tradizionale. I libretti di Leoncavallo sono
ad esempio caratteristici per quel loro continuo contaminare l’aulico e il plebeo: il plebeo strania l’aulico, e
viceversa. La tecnica è simile a quella che Gozzano attuerà in poesia su un piano letterario alto: l’accostamento
stridente di aulico a quotidiano, a reciproca demistificazione. [...] (cfr. Opera e verismo: regressione del punto di
vista e artificio dello straniamento, Op. cit., p. 26).
L’adozione di forme strumentali di ascendenza settecentesca è un’altra componente stilistica propria degli
operistì della “Giovine Scuola Italiana”, molti dei quali - ad esempio Puccini, Leoncavallo, Giordano e Cilèa
- provenienti da una solida preparazione ‘classica’ e quindi inclini a conferire una forte coerenza strutturale e
formale alle loro opere teatrali grazie all’utilizzazione di stilemi tipici della musica del XVIII secolo. Si pensi
ai ‘settecentismi’ utilizzati, oltre che dal Leoncavallo di Pagliacci e della Bohème, da Mascagni nelle Maschere,
da Puccini in Manon Lescaut, Bohème e Tosca, da Giordano in Andrea Chénier e da Cìlèa in Adriana Lecouvreur. Quanto a Leoncavallo, le movenze di danza settecentesca erano già state sperimentate, ancora prima
che in Pagliacci, in alcuni interessanti lavori giovanili per pianoforte degli anni ‘parigini’, spesso legati al tema
della maschera, del saltimbanco e della marionetta (Gavotte, Sarabande, Cortège de Pulcinella, Pantins vivants,
Menuet d’Harlequin). Su questo aspetto, cfr. il saggio di Johannes Streicher, Del Settecento riscritto. Intorno al
metateatro dei “Pagliacci”, in Letteratura, musica e teatro al tempo di Ruggiero Leoncavallo, Op. cit., pp. 89-101).
Piero Santi, Il Sud, che passione!, in “Lyrica. Opera e dintorni”, Anno 3 n. 23, febbraio 1996, Ermitage, Bologna
1996, p. 46.
René Leibowitz, Histoire de l’opéra, Buchet- Castel Corrèa, Paris 1957, tr. it. M. Galli de’ Furlani, Garzanti,
Milano 1966, p. 314.
Caricature di Leoncavallo disegnate da Enrico Caruso, New York, 1907
70
Alessio Pizzech
Regista
Note di regia per Pagliacci
Poesia felliniana nel compiersi della vicenda di Pagliacci.
Allo stesso tempo un sottile filo ci riconduce a Pirandello: i comici vengono dal fondo della sala teatrale ed occupano la spazio facendolo vivere nella sua completezza; la
storia si snoda tra palcoscenico e platea, distruggendo la quarta parete.
Il Clown con la sua malinconia racconta della maschera umana della brutalità che si
colora di sogno e di fantasia.
Le piccole luci del Circo che calano sulla scena evocano il gioco dell’illusione e di una
bellezza a cui Nedda non può e sopratutto non deve dare risposte.
La crudeltà delle relazioni si sovrappone al racconto scenico di una finzione sublimata e portata a poesia.
La marionetta legata al filo di un destino che va oltre la sua volontà è fonte d’ispirazione in questa lettura dell’opera tutta virata verso le avanguardie del novecento.
Il Teatro si colora di illusione e di sogno, vestendo la realtà drammatica del sentire
umano: Pagliacci indaga lo straordinario rapporto tra Arte e Vita.
Conflitto, questo, che si risolve in una lotta continua all’interno della quale l’individuo si scinde dei tanti Io.
La narrazione scenica si snoda con una tale concretezza di relazioni che ben crea
contrasto con il mondo della rappresentazione.
Sento di leggere Pagliacci come metafora, come sintomo di quel fermento creativo
dei primi del novecento che trova consistenza nella riflessione artistica intorno al
rapporto volto/maschera; in Leoncavallo tale intuizione si colora di un dato tipicamente mediterraneo disegnando un mondo dove l’istinto maschile sottrae indipendenza e dignità all’universo femminile.
Maschera e volto sono i due aspetti di questa poetica di Leoncavallo e sono i motori
di una visione complessiva di quest’opera che la pone al centro di una complessa
sensibilità europea che ben dipinge un aff resco impietoso dell’uomo uscito dalle temperie ottocentesche: di quanto egli possa “non essere educato al proprio sentire”.
Nedda prigioniera quindi di un universo che ha regole date e condivise dagli uomini.
Nedda drammaticamente legata da un vincolo economico agli uomini.
Nedda che cerca un riscatto ed in esso muore quasi che per lei non ci sia possibile
redenzione.
71
La violenza diventa così espressione di un rapporto di forza che domina il sistema di
relazioni interpersonali tra i personaggi e che ancora oggi ci parla del difficile dialogo
tra maschile e femminile.
72
Pagliacci
LA VICENDA
Prologo. Tonio, nel costume di Taddeo, come nea commedia che si reciterà in seguito,
si presenta come il Prologo e dichiara le intenzioni dell’autore in una sorta dì manifesto verista. Anche se i personaggi vestiranno panni d’istrioni, il pubblico dovrà
considerare, oltre i finti sentimenti della scena, le loro reali passioni e la loro profonda
umanità.
Atto I
L’azione si svolge a Montalto, un paese della Calabria, attorno al 1865. È la metà
di agosto, la festa dell’Assunta, e alle porte del paese, in uno spiazzo, è montato un
teatrino. Giunge il carro dei comici: Canio, capo della compagnia, spesso interrotto
dalle urla di una piccola folla, invita i presenti ad intervenire allo spettacolo che si
terrà la sera, “a ventitré ore”. Tonio, un altro attore, gobbo e vendicativo, con fare galante cerca di aiutare Nedda, la bella moglie di Canio, a scendere dal carro, ma viene
schiaffeggiato e cacciato dal geloso marito. Quando dal pubblico qualcuno lancia
insinuazioni sulla galanteria di Tonio, Canio, cupo, ribatte con estrema serietà: “il
teatro e la vita non son la stessa cosa”. Se egli, sulla scena nei panni di Pagliaccio,
è disposto, per far ridere il pubblico, a lasciarsi ingannare da Nedda-Colombina e
da Arlecchino, nella realtà, se scoprisse il tradimento della moglie, la commedia sì
muterebbe in tragedia. Le campane suonano il vespro e tutti si allontanano. Rimasta
sola, Nedda ripensa con terrore alle parole del marito, quando è raggiunta da Tonio,
che, goffamente, le dichiara il suo amore; quindi, acceso dal desiderio agli sprezzanti
dinieghi della donna, tenta di baciarla: Nedda lo respinge, colpendolo al volto con
una frustata. Tonio giura vendetta. Giunge allora Silvio, un contadino dei dintorni
amante di Nedda, ed esorta la giovane a liberarsi del marito geloso e a fuggire con lui
l’indomani, quando la compagnia abbandonerà il paese. Nedda, dapprima rifiuta, poi
cede. I due sono sorpresi da Tonio, che subito corre ad avvertire Canio; pur precipitandosi immediatamente, egli non riesce a vedere Silvio in faccia, ma sente le ultime
parole di Nedda all’amante: “A stanotte, e per sempre sarò tua”. Si avventa allora, folle
di gelosia, sulla moglie, intimandole di rivelare il nome dell’amante: al rifiuto della
donna, fa per colpirla con un coltello, ma Peppe accorre a fermarlo. Bisogna prepararsi per la recita: il teatro ha le sue leggi. Mentre si trucca e veste i panni di Pagliaccio,
Canio riflette amaramente sulla condizione dell’attore, costretto a far ridere anche
quando il suo cuore è spezzato dal dolore.
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Atto II
Di fronte ad un pubblico festante, la commedia ha inizio: presso una tavola imbandita Colombina (Nedda) ascolta la serenata che, da fuori, le rivolge Arlecchino (Peppe),
quando entra Taddeo (Tonio) a dichiararle il suo amore. Respinto, ironizza pesantemente sulla virtù della donna. Arlecchino entra dalla finestra per cenare con Colombina e le consegna un filtro per far addormentare Pagliaccio (Canio): annunciato da
Taddeo, Pagliaccio entra sconvolto e ascolta Colombina congedare l’amante con le
solite fatali parole: “A stanotte, e per sempre sarò tua”. L’azione teatrale ripete le situazioni della vita reale. In preda ad un’agitazione crescente, Canio riesce con sempre
maggior difficoltà a proseguire nella commedia: il piano della finzione scenica e la
realtà si mischiano nella sua mente ed egli si scaglia con violenza sulla moglie perché
confessi il nome dell’amante. Anche il pubblico comincia ad accorgersi che qualcosa
d’imprevisto sta avvenendo in palcoscenico, mentre Nedda, in preda al terrore, cerca
invano di continuare nella finzione della commedia. Ma Canio si avventa su di lei,
stravolto dalla gelosia, urlando: “Il nome! il nome!“; poi la trafigge col suo coltello.
Nedda muore invocando Silvio, che si slancia sul palcoscenico: Canio colpisce anche
lui. Tonio, allora, rivolto al pubblico, annuncia freddamente: “la commedia è finita!”
Il maestro Jonathan Webb durante le prove
74
PAGLIACCI
Dramma lirico in due atti
Parole e musica di
RUGGIERO LEONCAVALLO
Personaggi
Nedda (nella commedia Colombina),
attrice da fiera, moglie di Canio soprano
Canio, (nella commedia Pagliaccio),
capo della compagnia tenore
Tonio, (nella commedia Taddeo lo scemo),
commediante, gobbo baritono
Peppe, (nella commedia Arlecchino),
commediante tenore
Silvio, campagnolo baritono
Un contadino basso
Un altro contadino tenore
Contadini e contadine, paesani
La scena ha luogo in Calabria presso Montalto, il giorno della festa di Mezzagosto,
fra il 1865 e il 1870.
Prima rappresentazione: Milano, Teatro Del Verme, 21 maggio 1892
75
PROLOGO
(Tonio, in costume da Taddeo come nella commedia, esce dal sipario)
TONIO
Si può?... (salutando) Signore! Signori!...
Scusatemi
se da sol me presento... - io sono il Prologo:
Poiché in iscena ancor le antiche maschere
mette l’autore, in parte ei vuoi riprendere
le vecchie usanze, e a voi di nuovo inviami.
Ma non per dirvi come pria: “Le lacrime
che noi versiam son false! Degli spasimi
e dei nostri martir non allarmatevi!”
No. L’autore ha cercato invece pingervi
uno squarcio di vita. Egli ha per massima
sol che l’artista è un uom e che per gli
uomini
scrivere ei deve. - Ed al vero ispiravasi.
Figurini della costumista Cristina Aceti per Pagliacci
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Un nido di memorie in fondo a l’anima
cantava un giorno, ed ei con vere lacrime
scrisse, e i singhiozzi il tempo gli battevano!
Dunque, vedrete amar sì come s’amano
gli esseri umani; vedrete de l’odio
i tristi frutti. Del dolor gli spasimi,
urli di rabbia, udrete, e risa ciniche!
E voi, piuttosto che le nostre povere
gabbane d’istrioni, le nostr’anime
considerate, poiché siam uomini
di carne e d’ossa, e che di quest’orfano
mondo al pari di voi spiriamo l’aere!
Il concetto vi dissi. - Or ascoltate
com’egli è svolto.
(gridando verso la scena)
Andiam. incominciate!
(Rientra e si alza il sipario)
ATTO PRIMO
La scena rappresenta un bivio di strada in campagna, all’entrata di un villaggio. A sinistra una
strada, che si perde fra le quinte, fa gomito nel centro della scena e continua in un viale circondato
da alberi che va verso la destra in prospettiva. In fondo al viale si scorgeranno, fra gli alberi, due, o
tre casette. Al punto ove la strada fa gomito, sul terreno scosceso, un grosso albero; dietro di esso una
scorciatoia, sentiero praticabile che parte dal viale verso le piante delle quinte a sinsitra. Quasi dinnanzi all’albero, sulla via, è piantata una rozza pertica, in cima alla quale sventola una bandiera,
come si usa per le feste popolari e più in giù, in fondo al viale, si vedono due o tre file di lampioncini
di carta colorata sospesi attraverso la via da un albero all’altro. La destra della scena è quasi tutta
occupata obliquamente da un teatro di fiera. Il sipario è calato. E su di uno dei lati della prospettiva è
appiccicato un gran cartello sul quale è scritto rozzamente, imitando la stampa: Quest’ogi gran rappresentazione. Poi a lettere cubitali: Pagliaccio, indi delle linee illeggibili. Il sipario è rozzamente
attaccato a due alberi, che si trovano disposti obliquamente sul davanti. L‘ingresso alle scene è, dal
lato destro in faccia allo spettatore, nascosto da una rozza tela. Indi un muretto che, partendo di dietro
al teatro, si perde dietro la prima quinta a destra ed indica che il sentiero scoscende ancora, poiché si
vedono al disopra di esso le cime degli alberi di una fitta boscaglia.
Scena Prima
NEDDA, CANIO, TONIO, PEPPE, CONTADINI e CONTADINE
(All’alzarsi del sipario si sentono squilli di tromba stonata alternantisi con dei colpi di cassa, ed insieme risate, grida allegre, fischi di monelli e vociare che vanno appressandosi. Attirati dal suono e dal
frastuono i contadini di ambo i sessi in abito da festa, accorrono a frotte dal viale, mentre Tonio lo
scemo va a guardare verso la strada a sinistra, poi, annoiato dalla folla che arriva, si sdraia, dinnanzi
al teatro. Sono tre ore dopo mezzogiorno; il sole di agosto splende cocente.)
I CONTADINI
(arrivano a poco a poco)
- Son qua!
- Ritornano!
Pagliaccio è là!
-Tutti Io seguono,
grandi e ragazzi,
ai motti, ai lazzi
applaude ognun.
- Ed egli serio
saluta e passa
e torna a battere sulla
gran cassa.
I RAGAZZI
(di dentro)
- Ehi, sferza l’asino,
bravo Arlecchino!
77
CANIO
(di dentro)
Itene al diavolo!
PEPPE
(di dentro)
To’, biricchino!
(I ragazzi fischiano e gridano all‘interno
ed entrano in scena correndo)
RAGAZZI E CONTADINI
- Indietro, arrivano...
- Ecco il carretto...
- Che diavolerio!
Dio benedetto!
(Arriva una pittoresca carretta dipinta a vari
colori e tirata da un asino che Peppe, in abito
da Arlecchino, guida a mano camminando,
mentre collo scudiscio allontana i ragazzi.
Sulla carretta sul davanti è sdraìata Nedda
in un costume tra la zingara e l’acrobata.
Dietro ad essa è piazzata la gran cassa.
Sul di dietro della carretta è Canio in piedi,
in costume da Pagliaccio, tenendo nella destra
una tromba e nella sinistra la mazza della gran
cassa. I contadini e le contadine attorniano
festosamente la carretta.)
TUTTI
Viva Pagliaccio!
Evviva! il principe
sei dei pagliacci.
I guai discacci tu
col lieto umore!
Evviva!
CANIO
Grazie...
TUTTI
Bravo!
CANIO
Vorrei...
TUTTI
E lo spettacolo?
78
CANIO
(picchiando forte e ripetutamente
sulla cassa per dominar le voci)
Signori miei!
TUTTI
(accostandosi e turandosi le orecchie)
Uh! ci assorda... finiscila!
CANIO
(affettando cortesia e togliendosi il berretto
con un gesto comico)
Mi accordan di parlar?
TUTTI
(ridendo)
Ah! Con lui si dee cedere, tacere ed ascoltar!
CANIO
Un grande spettacolo
a ventitré ore
prepara il vostr’umile
e buon servitore!
(riverenza comica)
Vedrete le smanie
del bravo Pagliaccio;
e com’ei si vendica
e tende un bel laccio.
Vedrete di Tonio
tremar la carcassa,
e quale matassa
d’intrighi ordirà.
Venite, onorateci,
signori e signore.
A ventitré ore!
TUTTI
Verremo, e tu serbaci
il tuo buon umore.
A ventitré ore!
(Tonio si avanza per aiutare Nedda
a discendere dal carretto;
ma Canio, che è già saltato giù, gli dà un ceffone)
CANIO
Via di lì!
(Poi prende fra le braccia Nedda e la depone a
terra. Peppe porta via il carretto dietro al teatro)
LE DONNE
(ridendo, a Tonio)
Prendi questo, bel galante!
I RAGAZZI
(fischiando)
Con salute!
(Tonio mostra il pugno ai monelli che scappano,
poi si allontana brontolando)
TONIO
(a parte)
La pagherai!... brigante!
(scompare sotto la tenda a destra del teatro.
Quattro o cinque contadini si avvicinano a Canio)
UN CONTADINO
(a Canio)
Di’, con noi vuoi bevere
un buon bicchiere sulla crocevia?
Di’, vuoi tu?
CANIO
Con piacere.
PEPPE
(ricompare di dietro al teatro e getta la frusta che
ha ancora in mano dinnanzi alla scena)
Aspettatemi... Anch’io ci sto!
(entra dall’altro lato del teatro per cambiar costume)
CANIO
(gridando verso il fondo)
Di’, Tonio, vieni via?
TONIO
(di dentro)
lo netto il somarello. Precedetemi.
UN CONTADINO
(ridendo)
Bada, Pagliaccio, ei solo vuoi restare
per far la corte a Nedda.
CANIO
(sorridendo, ma con cipiglio)
Eh! Eh! Vi pare?
Un tal gioco, credetemi, è meglio non giocarlo
con me, miei cari; e a Tonio...
e un poco a tutti or parlo.
Il teatro e la vita non son la stessa cosa;
no..., non son la stessa cosa!
E se lassù Pagliaccio sorprende la sua sposa
col bel galante in camera, fa un comico sermone,
poi si calma od arrendesi ai colpi di bastone!...
Ed il pubblico applaude, ridendo allegramente.
Ma se Nedda sul serio sorprendessi... altramente
finirebbe la storia, com’è ver che vi parlo...
Un tal gioco, credetemi, è meglio non giocarlo.
NEDDA
(a parte)
Confusa io son!
CONTADINI
(a Canio)
Sul serio pigli dunque la cosa?
CANIO
(un po’ commosso)
Io?... Vi pare!... Scusatemi!...
Adoro la mia sposa!
(Canio va a baciar Nedda in fronte.
Un suono di cornamusa si fa sentire all’interno;
tutti si precipitano verso la sinistra, guardando
fra le quinte)
I RAGAZZI
(gridando)
I zampognari!... I zampognari!...
I VECCHI
Verso la chiesa vanno i compari.
(Le campane suonano a vespero da lontano)
GLI UOMINI
Essi accompagnano la comitiva
che a coppie al vespero sen va giuliva.
I VECCHI
Le campane...
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LE DONNE
Andiam. La campana
ci appella al Signore.
TUTTI
Andiamo!
CANIO
Ma poi... ricordatevi!
A ventitré ore!
(Gli zampognari arrivano dalla sinistra
in abito da festa, con nastri dai colori vivaci
e fiori ai cappelli acuminati. Li seguono una
frotta di contadini e contadine anch’essi parati
a festa. Il coro, che è sulla scena, scambia
con questi saluti e sorrisi poi tutti si dispongono
a coppie ed a gruppi, si uniscono alla comitiva
e si allontanano, cantando, pel viale del fondo,
dietro al teatro)
TUTTI
Don, din don, din don,
Din don - suona vespero,
ragazze e garzon.
A coppie al tempio
ci aff rettiam.
Din don - diggià i culmini
il sci vuoi baciar.
Le mamme ci adocchiano,
attenti, compar!
Din don - tutto irradiasi
di luce e d’amor,
Ma i vecchi sorvegliano
gli arditi amador!
(Durante il coro, Canio entra dietro al teatro
e va a lasciarla sua giubba da Pagliaccio, poi
ritorna, e dopo aver fatto sorridendo un cenno
d’addio a Nedda, parte con Peppe e cinque o sei
contadini per la sinistra. Nedda resta sola)
Scena Seconda
NEDDA sola, poi TONIO
NEDDA
(pensierosa)
Qual fiamma avea nel guardo!
Gli occhi abbassai per tema ch’ei leggesse
il mio pensier segreto!
Oh! s’ei mi sorprendesse...
brutale come egli è... Ma basti, orvia.
Son questi sogni paurosi e fole!
O che bel sole
di mezz’agosto! lo son piena di vita,
e, tutta illanguidita
per arcano desìo, non so che bramo!
(guardando in cielo)
Oh! che volo d’augelli, e quante strida!
Che chiedon? dove van? chissà... La mamma
mia, che la buona ventura annunziava,
comprendeva il lor canto e a me bambina
così cantava:
Hui! Stridono lassù, liberamente
lanciati a vol, a voi come frecce, gli augei.
Dìsfidano le nubi e il sol cocente,
e vanno, e vanno per le vie del cìel.
Lasciateli vagar per l’atmosfera,
questi assetati d’azzurro e di splendor:
seguono anch’essi un sogno, una chimera,
e vanno, e vanno fra le nubi d’or!
Che incalzi il vento e latri la tempesta,
con l’ali aperte san tutto sfidar;
la pioggia, i lampi, nulla mai li arresta,
e vanno, e vanno sugli abissi e i mar.
Vanno laggiù verso un paese strano
che sognan forse e che cercano invan.
Ma i boèmi del ciel, seguon l’arcano
poter che li sospinge... e van... e van!
(Tonio durante la canzone sarà uscito di dietro
al teatro e sarà andato ad appoggiarsi all’albero,
ascoltando beato. Nedda, finito il canto, fa per
rientrare e lo scorge.)
NEDDA
(bruscamente, contrariata)
Sei là? credea che te ne fossi andato!
80
TONIO
(con dolcezza)
È colpa del tuo canto. Affascinato
io mi beava!
NEDDA
Hai tempo...
Facendo le smorfie colà!
Per ora tal pena...
NEDDA
(ridendo con scherno)
Ah! Quanta poesia!...
TONIO
Nedda?... Nedda?...
TONIO
Non rider, Nedda..
NEDDA
Va, va all’osteria!
TONIO
So ben che difforme, contorto son io;
che desto soltanto lo scherno e l’orror.
Eppure ha il pensiero un sogno, un desìo,
e un palpito il cor!
Allor che sdegnosa mi passi d’accanto,
non sai tu che pianto mi spreme il dolor!
Perché, mio malgrado, subito ho l’incanto,
m’ha vinto l’amor!
(appressandosi)
Oh! lasciami, lasciami
or dirti...
NEDDA
(interrompendo e beffeggìandolo)
Che m’ami?
Hai tempo a ridirmelo
stassera, se brami!...
TONIO
Nedda!
NEDDA
Stassera! Facendo le smorfie
colà, sulla scena!
TONIO
Non rider, Nedda!
Non sai tu che pianto mi spreme il dolore!
Non rider, no! Non rider!
Subito ho l’incanto, m’ha vinto l’amor!
NEDDA
(ridendo)
...Tal pena ti puoi risparmiar!
TONIO
(delirante con impeto)
No, è qui che voglio dirtelo,
e tu m’ascolterai,
che t’amo e ti desidero,
e che tu mia sarai!
NEDDA
(seria ed insolente)
Eh! dite, mastro Tonio!
La schiena oggi vi prude, o una tirata
d’orecchi è necessaria
al vostro ardor?!
TONIO
Ti beffi?! Sciagurata!
Per la croce di Dio! Bada che puoi
pagana cara!!
NEDDA
Minacci?...
Vuoi che vada a chiamar Canio?
TONIO
(muovendo verso di lei)
Non prima ch’io ti baci!
NEDDA
(retrocedendo)
Bada!
TONIO
(S’avanza ancora aprendo le braccia per ghermirla)
Oh, tosto sarai mia!
81
NEDDA
(Sale retrocedendo verso il teatrino, vede la frusta lasciata da Peppe, l’afferra e dà un colpo in
faccia a Tonio)
Miserabile!...
NEDDA
Il gobbo è da temersi!
M’ama... Ora qui me! disse... e nel bestial
delirio suo, baci chiedendo, ardiva
correr su me...
TONIO
(Dà un urlo e retrocede.)
Ah! Per la Vergin pia di mezz’agosto,
Nedda, lo giuro... me la pagherai!...
(Esce, minacciando dalla sinistra.)
SILVIO
Per Dio!
NEDDA
(immobile guardandolo allontanarsi)
Aspide! Va! Paura non mi fai,
io t’ho compreso. Hai l’animo
siccome il corpo tuo difforme... lurido!...
Scena Terza
SILVIO, NEDDA e poi TONIO
SILVIO
(sporgendo la metà dei corpo arrampicandosi dal
muretto a destra, e chiamando a bassa voce)
Nedda!
NEDDA
(affrettandosi verso di lui)
Sìlvio! a quest’ora, che imprudenza...
SILVIO
(saltando allegramente e venendo verso di lei)
Ah bah! Sapea ch’io non rischiavo nulla.
Canio e Peppe da lunge a la taverna,
ho scorto!... Ma prudente
per la macchia a me nota qui ne venni.
NEDDA
E ancora un poco in Tonio t’imbattevi!
SILVIO
(ridendo)
Oh! Tonio il gobbo!
82
NEDDA
Ma con la frusta
del cane immondo la foga calmai!
SILVIO
(appressandosi mestamente e con amore a Nedda)
E fra quest’ansie in eterno vivrai?!
Nedda! Nedda!
(le prende la mano e la conduce sul davanti)
Decidi il mio destin,
Nedda! Nedda, rimani!
Tu il sai, la festa ha fin
e parte ognun domani.
E quando tu di qui sarai partita,
che addiverrà di me... della mia vita?!
NEDDA
(commossa)
Silvio!
SILVIO
Nedda, Nedda, rispondimi:
s’è ver che Canio non amasti mai,
s’è ver che t’è in odio
il ramingar è mestier che tu fai,
se l’immenso amor tuo una fola non è
questa notte partiam!... fuggi, fuggi con me!
NEDDA
Non mi tentar! ... Vuoi tu perder la vita mia?
Taci Silvio, non più... È delirio,.. è follia!
Io mi confido a te, a te cui diedi il cor!
Non abusar di me, del mio febbrile amor!
Non mi tentar! Pietà di me!
Non mi tentar! E poi... Chissà! meglio è partir.
Sta il destin contro noi, è vano il nostro dir.
Eppure dal mio cor strapparti non poss’io,
vivrà sol de l’amor ch’hai destato al cor mio!
(Tonio appare dal fondo a sinistra)
SILVIO
No, più non m’ami!
NEDDA
Che!
TONIO
(scorgendoli, a parte)
Ah! T’ho colta, sgualdrina!
(Fugge dal sentiero minacciando)
SILVIO
Ti guardo, ti bacio.
(stringendola fra le braccia)
Verrai?
NEDDA
Sì... Baciami!
Sì, mi guarda e mi bacia! T’amo!
SILVIO
Sì, ti guardo e ti bacio! T’amo!
SILVIO
Più non m’ami!
Scena Quarta
NEDDA
Sì, t’amo! t’amo!...
NEDDA, SILVIO, CANIO, TONIO, poi
PEPPE
SILVIO
E parti domattina?
(amorosamente, cercando ammalliarla)
E allor perché, di’, tu m’hai stregato,
se vuoi lasciarmi senza pietà?
Quel bacio tuo perché me l’hai dato
fra spasmi ardenti di voluttà?
Se tu scordasti l’ore fugaci,
io non lo posso, e voglio ancor
quei spasmi ardenti, quei caldi baci,
che tanta febbre m’han messo in cor!
(Mentre Silvio e Nedda s’avviano parlando
verso il muricciuolo, arrivano, camminando
furtivamente dalla scorciatoia, Canio e Tonio)
NEDDA
(vinta e smarrita)
Nulla scordai... sconvolta e turbata
m’ha questo amor che nel guardo ti sfavilla!
Viver voglio a te avvinta, affascinata,
una vita d’amor calma e tranquilla!
A te mi dono; su me solo impera.
Ed io ti prendo e m’abbandono intera!
Tutto scordiam!
SILVIO
Tutto scordiam!
NEDDA
Negli occhi mi guarda! Baciami!
TONIO
(ritenendo Canio)
Cammina adagio e li sorprenderai!
(Canio s’avanza cautamente sempre ritenuto
da Tonio, non potendo vedere, dal punto ove si
trova, Silvio che scavalca il muricciuolo)
SILVIO
(che ha già la metà del corpo dall’altro lato,
ritenendosi al muro)
Ad alta notte laggiù mi terrò.
Cauta discendi e mi ritroverai.
(Silvio scompare e Canio si appressa all’angolo
del teatro)
NEDDA
(a Silvio che sarà scomparso di sotto)
A stanotte e per sempre tua sarò.
CANIO
(che dal punto ove si trova ode queste parole, dà
un urlo)
Ah!
83
NEDDA
(si volge spaventata e, scorgendo Canio, grida
verso il muro)
Fuggi!
(D’un balzo Canio arriva anch‘esso al muro;
Nedda gli si para dinnanzi, ma dopo breve lotta
egli la respinge, scavalca il muro e scompare.
Tonio resta a sinistra guardando Nedda, che
come inchiodata presso il muro, cerca sentire se si
ode rumore di lotta)
Aitalo... Signor!...
CANIO
(di dentro)
Vile! t’ascondi!
TONIO
(ridendo cinicamente)
Ah! Ah! Ah!
NEDDA
(al riso di Tonio si volta con disprezzo, fissandolo)
Bravo! Bravo il mio Tonio!
TONIO
(cinico)
Fo’ quel che posso!
NEDDA
È quello che pensavo!
TONIO
(con intenzione)
Ma di far assai meglio non dispero...
NEDDA
Mi fai schifo e ribrezzo!
TONIO
(violento)
Oh, non sai come lieto ne son!
(Canio intanto scavalca di nuovo il muro e ritorna in scena ansante e pallido, asciugandosi il
sudore con un fazzoletto di colore oscuro)
84
CANIO
(con rabbia concentrata)
Derisione e scherno!
Nulla! Ei ben lo conosce quel sentiero.
Fa lo stesso: poiché del drudo il nome
or mi dirai.
NEDDA
(volgendosi turbata)
Chi?
CANIO
(furente)
Tu, pel Padre Eterno!...
(cavando dalla cinta lo stiletto)
E se in questo momento qui scannata
non t’ho già, gli è perché, pria di lordarla
nel tuo fetido sangue, o svergognata,
codesta lama, io vo’ il suo nome. Parla!
NEDDA
Vano è l’insulto. È muto il labbro mio.
CANIO
(urlando)
Il nome, il nome, non tardare, o donna!
NEDDA
No! No, nol dirò giammai...
CANIO
(slanciandosi furente col pugnale alzato)
Per la Madonna!
(Peppe, che sarà entrato dalla sinistra, sulla
risposta di Nedda corre a Canio e gli strappa
il pugnale che getta via tra gli alberi)
PEPPE
Padron! che fate!... Per l’amor di Dio...
La gente esce di chiesa e allo spettacolo
qui muove... andiamo,.. via, calmatevi!
CANIO
(dibattendosì)
Lasciami, Peppe! Il nome! Il nome!
PEPPE
Tonio, vieni a tenerlo.
CANIO
Il nome!
(Tonio prende Canio per la mano mentre Peppe
sì volge a Nedda)
PEPPE
Andiamo, arriva il pubblico.
Vi spiegherete!
(volgendosi a Nedda e andando verso di lei)
E voi di lì tiratevi, andatevi a vestir.
Sapete, Canio è violento, ma buon...
(spinge Nedda sotto la tenda del teatro e scompare
con essa)
CANIO
(stringendosi il capo fra le mani)
Infamia! infamia!
CANIO
Recitar!... Mentre preso dal delirio
non so più quel che dico e quel che faccio!
Eppur... è d’uopo... sforzati!
Bah! sei tu forse un uom? Tu se’ Pagliaccio!
(stringe disperatamente il capo fra le mani)
Vesti la giubba e la faccia infarina.
La gente paga e rider vuole qua.
E se Arlecchin t’invola Colombina,
ridi, Pagliaccio.., e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto;
in una smorfia il singhiozzo e il dolor...
Ah! Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto!
Ridi del duol che t’avvelena il cor!
(muove lentamente verso il teatrino piangendo;
però giunto alla cortina, che mena all’interno,
la respinge violentemente come se non volesse
entrare; poi preso da un nuovo accesso di pianto
riprende il capo fra le mani celandosi il volto, rifà
tre o quattro passi verso la cortina dalla quale si
era allontanato con rabbia, entra e scompare)
TONIO
(piano a Canio, spingendolo sul davanti della
scena)
Calmatevi padrone... È meglio fingere;
il ganzo tornerà. Di me fidatevi!
(Canio ha un gesto disperato, ma Tonio
spingendolo col gomito prosegue piano)
lo la sorveglio. Ora facciam la recita.
Chissà ch’egli non venga allo spettacolo
e si tradisca! Or via. Bisogna fingere
per riuscir...
PEPPE
(uscendo dalla tenda)
Andiamo, via, vestitevi, padrone.
E tu batti la cassa, Tonio!
(Tonio va dietro al teatro e Peppe anch’esso
ritorna all’interno, mentre Canio accasciato
si avvia lentamente)
85
ATTO SECONDO
La stessa scena dell’atto primo
Scena Prima
TONIO, NEDDA, SILVIO, PEPPE
CANIO, PAESANI, CONTADINI
(Tonio compare dall’altro lato del teatro colla
gran cassa e va a piazzarsi sull’angolo sinistro
del proscenio del teatrino. Intanto la gente arriva
da tutte le parti per lo spettacolo e Peppe viene a
mettere dei banchi per le donne)
LE DONNE
(arrivando)
Presto aff rettiamoci,
svelto, compare,
ché lo spettacolo
dee cominciare.
Cerchiam di metterci
ben sul davanti.
TONIO
(picchiando la gran cassa)
Avanti, avanti!
Si dà principio,
avanti, avanti!
Pigliate posto! Su!
GLI UOMINI
Veh, come corrono
le bricconcelle!
Accomodatevi,
comari belle!
O Dio che correre
per giunger tosto!
(Silvio arriva dal fondo e va a pigliar posto sul
davanti a sinistra salutando gli amici)
86
LE DONNE
(cercando sedersi, spingendosi)
- Ma non pigiatevi,
fa caldo tanto!
- Su, Peppe, aiutaci!
V’è posto accanto!
(Nedda esce vestita da Colombina col piatto per
incassare. Peppe cerca di mettere a posto le donne, Tonio rientra nel teatro portando via la gran
cassa)
PEPPE
Sedete, via, senza gridar.
TUTTI
Via, su, spicciatevi, incominciate.
Perché tardate? Siam tutti là!
Veh! s’accapigliano... chiamano aiuto!
Ma via, sedetevi, senza gridar!
(Silvio, vedendo Nedda che gira col piatto per
incassare, le va incontro)
SILVIO
(piano a Nedda, pagando il posto)
Nedda!
NEDDA
Sii cauto! Non t’ha veduto!
SILVIO
Verrò ad attenderti. Non obliar.
TUTTI
Suvvia, spicciatevi i Perché indugiate?
Incominciate!
PEPPE
Che furia! Diavolo!
Prima pagate! Nedda incassate.
TUTTI
(volendo pagare nella stesso tempo)
Di qua, di qua, di qua.
(Nedda dopo aver lasciato Silvio riceve ancora il
prezzo delle sedie da altri, e poi rientra anch‘essa
nel teatro con Peppe)
Questa commedia
incominciate.
Perché tardar?
Facciamo strepito,
facciam rumore,
diggià suonaron
ventitré ore! Allo spettacolo
ognun anela!
(Si ode una lunga e forte scampanellata
all’interno del teatrino)
Ah! S’alza la tela!
Silenzio! Olà!
(Le donne sono parte sedute sui banchi, situati
obliquamente, volgendo la faccia alla scena del
teatrino; parte in piedi formano gruppo cogli
uomini sul rialzo di terra ov’è il grosso albero.
Altri uomini in piedi lungo le prime quinte
a sinistra. Silvio è innanzi ad essi)
Scena Seconda
COMMEDIA
(La tela del teatrino si alza. La scena, mal
dipinta, rappresenta una stanzetta con due porte
laterali ed una finestra praticabile in fondo. Un
tavolo e due sedie rozze di paglia sono sulla destra
del teatrino. Nedda in costume da Colombina
passeggia ansiosa, va a sedersi al tavolo, si rialza,
va alla finestra, torna a sedersi inquieta)
COLOMBINA
Pagliaccio mio marito
a tarda notte sol ritornerà.
E quello scimunito
di Taddeo perché mai non è ancor qua?!
(si ode un pizzicar di chitarra all’interno;
Colombina corre alla finestra e dà segni
d’amorosa impazienza)
LA VOCE Dl ARLECCHINO
(Peppe, di dentro)
O Colombina, il tenero
fido Arlecchin
è a te vicin!
Di te chiamando,
e sospirando - aspetta il poverin!
La tua faccetta mostrami,
ch’io vo’ baciar
senza tardar...
la tua boccuccia.
Amor mi cruccia e mi sta a tormentar!
O Colombina, schiudimi
il finestrin,
ché a te vicin
di te chiamando,
e sospirando - è il povero Arlecchin!
A te vicin, è Arlecchin!
COLOMBINA
(ritornando ansiosa sul davanti)
Di fare il segno convenuto appressa
l’istante, ed Arlecchino aspetta!
(Siede ansiosa volgendo le spalle alla porta di
destra. Questa sì apre e Tonio entra sotto le
spoglie del servo Taddeo, con un paniere infilato
al braccio sinistro. Egli si arresta a contemplare
Nedda con aria esageratamente tragica)
TADDEO
È dessa!
(poi levando bruscamente al cielo le mani ed il
paniere)
Dèi, come è bella!
(il pubblico ride)
Se a la rubella
io disvelassi
l’amor mio che commuove fino i sassi!
Lungi è lo sposo:
perché non oso?
Soli noi siamo
e senza alcun sospetto! Orsù! Proviamo!
(sospiro lungo, esagerato)
Ah!
(il pubblico ride)
87
COLOMBINA
(volgendosi, sprezzante)
Sei tu, bestia?
TADDEO
(immobile)
Quell’io son, sì!
COLOMBINA
E Pagliaccio è partito?
TADDEO
(come sopra)
Egli partì!
COLOMBINA
Che fai così impalato?
Il pollo hai tu comprato?
TADDEO
(a Colombina, con intenzione)
So che sei pura
e casta al par di neve! E ben che dura,
ti mostri, ad obliarti non riesco!
ARLECCHINO
(Lo piglia per l’orecchio dandogli un calcio e lo
obbliga a levarsi)
Va a pig!iar fresco!
(il pubblico ride)
TADDEO
(retrocedendo comicamente verso la porta di destra)
Numi! s’aman! m’arrendo ai detti tuoi.
(ad Arlecchino)
Vi benedico!... là... veglio su voi!
(Taddeo esce. Il pubblico ride ed applaude)
TADDEO
Eccolo, vergin divina!
(precipitandosi in ginocchio, offrendo colle due
mani il paniere a Colombina che si appressa)
Ed anzi, eccoci entrambi ai piedi tuoi,
poiché l’ora è suonata, o Colombina,
di svelarti il mio cor. Di’, udirmi vuoi?
Dal dì...
COLOMBINA
Arlecchin!
COLOMBINA
(interrompendolo gli strappa il paniere
e lo depone sul tavolo)
Quanto spendesti dal trattore?
(Colombina va alla finestra, la schiude e fa un
segno; poi va verso Taddeo)
COLOMBINA
Facciam merenda!
(Colombina prende dal tiretto due posate e due
coltellì. Arlecchino va a prendere la bottiglia, poi
entrambi siedono a tavola uno in faccia all’altro)
Guarda, amor mio, che splendida
cenetta preparai!
TADDEO
Uno e cinquanta. Da quel dì il mio core...
COLOMBINA
(presso alla tavola)
Non seccarmi Taddeo!
(Arlecchino, scavalcata la finestra, depone
a terra una bottiglia che ha sotto il braccio,
e poi va verso Taddeo mentre questi finge
non vederlo)
88
ARLECC H IN O
(con affetto esagerato)
Colombina! Alfin s’arrenda
ai nostri prieghi amor!
(si stringono comicamente fra le braccia)
ARLECCHINO
Guarda, amor mio, che nettare
divino t’apportai!
(a due)
L’amore ama gli effluvii
del vin, de la cucina!
ARLECCHINO
Mia ghiotta Colombina!
COLOMBINA
Amabile beone!
ARLECCHINO
(prendendo una boccetta che ha nella tunica)
Prendi questo narcotico,
dallo a Pagliaccio pria che s’addormenti,
e poi fuggiamo insiem.
COLOMBINA
Sì, porgi!
TADDEO
(spalanca la porta a destra e traversa la scena
tremando esageratamente)
Attenti! Pagliaccio... è là... tutto stravolto... ed armi
cerca! Ei sa tutto... lo corro a barricarmi!
(Entra precipitoso a sinistra e chiude la porta.
Il pubblico ride)
COLOMBINA
(ad Arlecchino)
Via!
ARLECCHINO
(scavalcando la finestra)
Versa il filtro nella tazza sua!
(Scompare. Canio in costume da Pagliaccio,
entra dalla porta a destra)
COLOMBINA
(alla finestra)
A stanotte... e per sempre io sarò tua!
CANIO
(porta la mano al cuore e mormora a parte)
Nome di Dio!... quelle stesse parole!...
(avanzandosi per dir la sua parte)
Coraggio!
(forte)
Un uomo era con te.
NEDDA
Che fole! Sei briaco?
CANIO
(serio, fissandola con intenzione)
Briaco! sì... da un’ora!...
NEDDA
(riprendendo la commedia)
Tornasti presto.
CANIO
(con intenzione)
Ma in tempo! T’accora? T’accora, dolce sposina!
(riprende la commedia)
Ah! sola io ti credea
(mostrando la tavola)
e due posti son là!
NEDDA
Con me sedea
Taddeo che là si chiuse per paura!
(verso la porta a sinistra)
Orsù, parla!...
TADDEO
(di dentro, fingendo di tremare,
ma con intenzione)
Credetela! Credetela! Essa è pura!...
E abborre dal mentir quel labbro pio!!
(il pubblico ride forte)
CANIO
(rabbioso al pubblico)
Per la morte!
(poi a Nedda sordamente)
Smettiam! Ho dritto anch’io
d’agir come ogn’altr’uomo. Il nome Suo...
NEDDA
(fredda e sorridente)
Di chi?
CANIO
Vo’ il nome dell’amante tuo,
del drudo infame a cui ti desti in braccio,
o turpe donna!
89
NEDDA
(sempre recitando la commedia, scherzando)
Pagliaccio! Pagliaccio!
CANIO
No! Pagliaccio non son; se il viso è pallido,
è di vergogna, e smania di vendetta!
L’uom riprende i suoi dritti, e il cor che sanguina
vuol sangue a lavar l’onta, o maledetta!...
No, Pagliaccio non son!... Son quei che stolido
ti raccolse orfanella in su la via
quasi morta di fame, e un nome off riati,
ed un amor ch’era febbre e follia!...
(cade come affranto sulla seggiola)
GRUPPI DI DONNE
- Comare, mi fa piangere!
- Par vera questa scena!
GRUPPI DI UOMINI
- Zitte laggiù!
- Che diamine!
SILVIO
(a parte)
lo mi ritengo appena!
CANIO
(riprendendosi ed animandosi a poco a poco)
Sperai, tanto il delirio
accecato m’aveva,
se non amor, pietà... mercé!
Ed ogni sacrifizio
al cor lieto, imponeva,
e fidente credeva più che in Dio stesso, in te!
Ma il vizio alberga sol nell’alma tua negletta:
tu viscere non hai... sol legge è il senso a te!...
Va, non merti il mio duol, o meretrice abbietta,
vo’ ne lo sprezzo mio schiacciarti sotto i piè!...
LA FOLLA
(entusiasta)
Bravo!...
90
NEDDA
(fredda, ma seria)
Ebben! Se mi giudichi
di te indegna, mi scaccia in questo istante.
CANIO
(sogghignando)
Ah! ah! Di meglio chiedere
non dèi che correr tosto al caro amante.
Sei furba! No, per Dio, tu resterai
e il nome del tuo ganzo mi dirai.
NEDDA
(cercando di riprendere la commedia sorridendo
forzatamente)
Suvvia, così terribile
davver non ti credea!
Qui nulla v’ha di tragico.
(verso la porta a sinistra)
Vieni a dirgli, o Taddeo,
che l’uom seduto or dianzi a me vicino
era... il pauroso ed innocuo Arlecchino!
(Risa tra la folla tosto represse dall’attitudine di
Canio)
CANIO
(terribile)
Ah! tu mì sfidi! E ancor non l’hai capita
ch’io non tì cedo? Il nome, o la tua vita!
Il nome!
NEDDA
(prorompendo)
Ah! No, per mia madre! Indegna esser poss’io,
quello che vuoi, ma vil non son, per Dio!
VOCI FRA LA FOLLA
- Fanno davvero?
- Seria è la cosa?
- Seria è a cosa e scura!
- Zitti, zitti laggiù!
SILVIO
Io non resisto più!
Oh, la strana commedia!
(Peppe vuoi uscire dalla porta a sinistra,
ma Tonio lo trattiene)
PEPPE
Bisogna uscire, Tonio.
TONIO
Taci, sciocco!
PEPPE
Ho paura!
NEDDA
Di que! tuo sdegno è l’amor mio più forte...
Non parlerò. No... a costo della morte!
CANIO
(urlando dà di piglio a un coltello sul tavolo)
Il nome! Il nome!
NEDDA
(sfidandolo)
No!
SILVIO
(snodando il pugnale)
Santo diavolo! Fa davvero...
(Le donne che indietreggiano spaventate,
rovesciano i banchi ed impediscono agli uomini
di avanzare, ciò che obbliga Silvio a lottare
per arrivare alla scena. Intanto Canio, al
parossismo della collera, ha afferrato Nedda in
un attimo e la colpisce per di dietro, mentre essa
cerca di conere verso il pubblico)
SILVIO
(che è quasi arrivato alla scena)
Nedda!
(Alla voce di Silvio, Canio si volge come una
belva, balza presso di lui e in un attimo lo ferisce)
CANIO
Ah! Sei tu? Ben venga!
(Silvio cade come fulminato)
GLI UOMINI
Arresta!
LE DONNE
(urlando)
Gesummaria!
(Mentre parecchi si precipitano verso Canio
per disarmarlo ed arrestano, egli, immobile,
istupidito, lascia cadere il coltello)
TONIO
La commedia è finita!...
(Il sipario cala rapidamente)
CANIO
(a Nedda)
A te! A te! Di morte negli spasimi lo dirai!
LA FOLLA E PEPPE
(che cerca svincolarsi da Tonio)
Che fai? Ferma! Ferma!
NEDDA
(cadendo agonizzante)
Soccorso... Silvio!
91
ORT Orchestra della Toscana
Violini Primi
Andrea Tacchi*
Daniele Giorgi*
Paolo Gaiani**
Angela Asioli
Patrizia Bettotti
Francesco Di Cuonzo
Marian Elleman
Chiara Foletto
Gianluca Stupia
Violini Secondi
Chiara Morandi*
Marcello D’Angelo**
Davide Domenico Alogna
Gabriella Colombo
Alessandro Giani
Susanna Pasquariello
Sara Scalabrelli
Viole
Stefano Zanobini*
Pier Paolo Ricci**
Caterina Cioli
Elena Favilla
Alessandro Franconi
Agostino Mattioni
Violoncelli
Luca Provenzani*
Simone Tieppo*
Christine Dechaux**
Stefano Battistini
Giovanni Simeone
Contrabbassi
Gianpietro Zampella*
Luigi Giannoni*
Vincenzo Venneri
Flauti
Michele Marasco*
Angela Camerini
Matteo Armando Sampaolo
Oboi
Alessio Galiazzo*
Flavio Giuliani*
Marco Del Cittadino
Clarinetti
Marco Ortolani*
Antonio Duca*
Rocco Sbardella
Fagotti
Paolo Carlini*
Umberto Codecà*
Corni
Andrea Albori*
Paolo Faggi*
Giulia Montorsi
Gianluca Mugnai
Tromba
Donato De Sena*
Filippo D’Asta*
Stefano Benedetti
Tromboni
Antonio Sicoli*
Rodolfo Bonfilio
Sergio Bertellotti
Basso Tuba
Riccardo Tarlini*
Timpani
Morgan M.Tortelli*
Percussioni
Andrea Bindi
Francesca Boccacci
Arpe
Cinzia Conte*
Diana Colosi
Ispettore d’Orchestra e Archivista Alfredo Vignoli
92
* Prime parti
** Concertino
Coro della Toscana
Tenori
Leonardo Andreotti
Matteo Bagni
Davide Battilani
Daniele Bonotti
Aldo Caroppo
Fabrizio Corucci
Giambini Maurizio
Paolo Pepe
Riccardo Pera
Alessandro Poletti
Francesco Segnini
Antonio Tirrò
Alfio Vacanti
Nicola Vocaturo
Soprani
Monica Arcangeli
Maria Caterina Bonucci
Chiung Wen Chang
Laura Dalfino
Emanuela Dell’Acqua
Marcella Gozzi
Elisabetta Lombardo
Rosalba Mancini
Federica Nardi
Yvonne Schnitzer
Francesca Secondino
Mezzosoprani
Patrizia Amoretti
Sara Bacchelli
Fabiola Blandina
Aurora Brancaccio
Margherita Porretti
Baritoni
Antonio Della Santa
Andrea Paolucci
Giuseppe Pinochi
Pasquale Russo
Contralti
Cinzia Borsotti
Sabrina Ciavattini
Sandra Mellace
Donatella Riosa
Bassi
Antonio Candia
Marco Innamorati
Alessandro Manghesi
Giorgio Marcello
Ispettore del Coro Cristina Menozzi
Coro Voci Bianche Fondazione Teatro Goldoni
Allegro - Vivace
Silvia Aloi
Viviana Battista
Lorenzo Bencreati
Ginevra Calvani
Agnese Casarosa
Sveva Caschili
Elena Cavallini
Chiara Ceccotti
Alice Cristiani
Marta Dal Canto
Elisa Dell’Agnello
Adrian Di Maio
Martina Dini
Asia Giustini
Aurora Iannette
Jessica Mandolfi
Valentina Pardini
Alessia Pezzini
Maria Elisa Sammaciccio
Caterina Sapuppo
Giovanile
Mariangela Baroncelli
Marica Bonetti
Letizia Cappellini
Margherita Carnicelli
Virginia Cavallini
Margherita Di Rosa
Ginevra Guarnotta
Beatrice Luschi
Alessio Mannelli
Rosanna Mazzi
Martina Niccolini
Glenda Tamburini
Sara Zenti
93
Produzione
Direttore di produzione
Franco Micieli
Assistente alla regia
Valentina Escobar
Elettricisti “Benedetti Delta Service”
Capo elettricista
Vincenzo Turini
Elettricisti
Cristiano Cerretini
Michele Rombolini
Genti Shtjefni
Assistente costumista
Debora Baudoni
Responsabile trucco e parrucche
Sabine Brunner
Videomaker
Luca Dal Canto
Trucco e parrucche
Patrizia Bonicoli
Rosy Favaloro
Direttore degli allestimenti
Daniele Donatini
M° collaboratore di sala
Anna Cognetta
Maestro collaboratore
Chiara Mariani
Maestro collaboratore alle luci
Lorenza Mazzei
Maestro ai sovratitoli
Giovanni Guastini
Luca Stornello
Direttore di palcoscenico
Michela Fiorindi
Capo macchinista
Riccardo Maccheroni
Mirco Pacini
Macchinisti
Gabriele Grossi
Massimiliano Jovino
Pompeo Passaro
Servizi complementari di palcoscenico
Daniele Bani
Andrè Baroni
Stefano Ilari
Filippo Papucci
Andrea Penco
Lorenzo Scalsi
Attrezzista
Donatella Bertone
Realizzazione sovratitoli
Sergio Licursi
94
Capo sarta
Santina Busoni
Sarta
Clarita Fornari
Gloria Bimbocci
Allegra Montanelli
Figurante
Sergio Licursi
Ditte Fornitrici
Scene
Laboratorio Scenografico Fondazione Goldoni
Laboratorio Theatralia
Costumi
Sartoria Tirelli – Roma
Attrezzeria
Fondazione Goldoni
Si ringraziano
- Banda Città di Livorno
- Fabrizio Di Pietrantonio liutaio
Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Regione Toscana
Provincia di Livorno
Comune di Livorno
Fondazione Teatro della Città di Livorno Carlo Goldoni
Teatro di Tradizione
Soci Fondatori
Sostenitori
SPIL S.p.A. - CNA Associazione Provinciale di Livorno
Porto di Livorno 2000 s.r.l. - Vincenzo Capanna s.a.s.
Menicagli Centro Pianoforti - Apige Servizi s.a.s. - Scorpio s.r.l.
Ordinari
Alpha Team s.r.l. - British Schools of English (Livorno)
Whitehead Alenia s.p.a.
Aderenti
Debatte Otello s.r.l. - Braccini & Cardini s.r.l. - Zaki Design
Si ringrazia
Fondazione Cassa di Risparmi di Livorno
Fondazione Teatro Goldoni
Via Goldoni 83 - 57125 Livorno - Tel. 0586 204237 - Fax 0586 899920
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Coordinamento editoriale
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Finito di stampare
nel mese di gennaio 2011
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