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Inaugurazione dell`anno giudiziario 2010

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Inaugurazione dell`anno giudiziario 2010
Il Presidente ha riferito sia sulla copiosa e stimolante giurisprudenza recentemente
intervenuta in tema di giurisdizione della Corte dei conti, sia sulle norme che – con metodo e
tecnica del tutto estemporanei, come, ormai, abitualmente accade - hanno in parte modificato
la disciplina sostanziale della responsabilità amministrativa e/o dell’ azione tendente a farla
valere. Mi riferisco all’ art. 17, comma 30-ter, del decreto legge 1 luglio 2009, n. 78, convertito
con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nel testo risultante dalle modifiche
apportate dall’ art. 1, comma 1, del decreto legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito con
modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, e non alle notissime “Misure per la tutela del
cittadino contro la durata indeterminata dei processi”, ancora al vaglio della Camera (il c.d.
“processo breve” riguarda anche il giudizio di responsabilità amministrativa innanzi alla Corte
dei conti: art. 4 del testo approvato, attualmente, solo dal Senato).
Da queste norme traiamo spunto per alcune riflessioni.
Le nuove disposizioni, durante la scorsa estate, hanno costituito oggetto di attento
studio da parte dei magistrati della Procura, i quali, a conclusione, sentito anche un illustre
costituzionalista del locale Ateneo, hanno enucleato 46 profili di incostituzionalità. Non si vuole,
peraltro escludere che un ulteriore approfondimento avrebbe evidenziato o evidenzierebbe altri
motivi di contrasto di tali disposizioni con la Carta Costituzionale.
Norme siffatte, frutto di evidente improvvisazione, tanto da essere state oggetto,
appena nate, di repentina modifica – l’ intervento, richiesto dal Presidente della Repubblica non
ha, tuttavia, guarito il malato - dovrebbero essere espunte in toto dall’ ordinamento. Voci
malevole hanno imputato la pessima tecnica di redazione del testo normativo alle molteplici
esigenze di tutela di una pluralità di posizioni individuali (individuate o individuabili),
minacciate da azioni di alcune Procure regionali, cui si sarebbe accorsi in aiuto con disposizioni
“ad personas”, mascherate, come al solito, da norme “generali ed astratte”.
Qualunque sia la “ratio legis”, è palese il contrasto della maggior parte di tali norme
con diverse disposizioni della Costituzione.
La constatazione del detto contrasto - che ha dato e darà origine alla formulazione
di opportune istanze in sede giurisdizionale – ha, ovviamente, valenza esclusivamente giuridica
e non è affatto motivata da una posizione o da una contrapposizione ideologica.
Ciò con buona pace di coloro che, ancora recentemente, hanno affermato che i
giudici e, ancor più, i pubblici ministeri sarebbero soliti ribellarsi alle nuove leggi varate dal
Parlamento. La ribellione, cioè il rifiuto di applicarle, si tradurrebbe, tecnicamente, nel ricorso a
quell’ istituzione, a sua volta definita come politicizzata, che è rappresentata dalla Corte
costituzionale, la quale, per evidente distorsione dell’ ordinamento, ha il potere di demolire ciò
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che la volontà popolare costruisce attraverso il Parlamento. In tal modo, ricorrendo, appunto,
alla Corte costituzionale, i giudici si opporrebbero alla volontà del Popolo espressa dal
Parlamento.
Questa impostazione è, ovviamente, viziata. E’ certamente vero che il Parlamento
fa le leggi e che i giudici devono applicarle, ma è altrettanto vero che il giudice, nel nostro
ordinamento, è soggetto soltanto alla legge e non alla volontà del Parlamento: la prima legge è
la Carta Costituzionale della Repubblica e quella, prioritariamente, il giudice deve rispettare.
Qualunque norma confligga con la Costituzione non deve essere applicata. Il giudice ha l’
obbligo – non la facoltà - di promuovere il giudizio innanzi alla Corte costituzionale per le leggi
che sospetti di contrasto con la Costituzione, mentre deve direttamente disapplicare le
disposizioni incostituzionali di rango inferiore.
Se il legislatore non rispetta la Costituzione non può dolersi che i pubblici ministeri
– ove previsti – prospettino le questioni di costituzionalità e che i giudici adiscano la Corte
costituzionale: devono farlo.
Ma devono proprio farlo?
Questa è la riflessione che vorrei proporre.
La risposta in base all’ ordinamento è ovvia. I giudici, esperito inutilmente il
tentativo di attribuire alla disposizione di legge un significato che sia conforme a Costituzione,
devono proporre la questione di costituzionalità, sollevata dalle parti o d’ ufficio, ogniqualvolta
sia rilevante per il giudizio a quo (art. 1, legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1, e artt. 23 e segg.
della legge 11 marzo 1953, n. 87). In questi termini il sindacato sulla costituzionalità delle
leggi è esteso a tutti i giudici, restando riservata alla Corte costituzionale la pronuncia
definitiva.
La questione deve essere “non manifestamente infondata”. Ma qual è la misura
della “non manifesta infondatezza” necessaria o sufficiente per il promovimento del giudizio di
costituzionalità della legge ordinaria? In positivo: qual è la misura della fondatezza di una
questione che obbliga il giudice a rimetterla al giudizio della Corte costituzionale?
In astratto basterebbe un fumus di fondatezza (ritiene la Corte costituzionale, ad
es. sent. n. 79/1996, sufficiente che il giudice “dubiti” della costituzionalità di una norma). Ma
è così in realtà o il giudice, per contrapporsi al Parlamento pretende una diversa misura della
fondatezza, cioè non il semplice dubbio, ma una prognosi di verosimile accoglimento della
questione? E questa misura di fondatezza, al di sotto della quale il giudice è disposto ad
applicare anche la norma di dubbia costituzionalità varia nel tempo e, nel caso, in ragione di
quali fattori? Una magistratura più debole o più timorosa o più rassegnata (e/o pigra) tende a
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contrapporsi meno al Parlamento e, dunque, ad attivare il giudizio della Corte costituzionale
solo quando la misura della presunta fondatezza della questione sia elevatissima? Il clima
politico–sociale influisce su questa misura?
Assumiamo ad esempio, anche perchè direttamente ci riguarda, il caso delle recenti
disposizioni sulla materia della Corte dei conti: l’ incostituzionalità di quella che limita il danno
all’ immagine delle pubbliche amministrazioni o la sua azionabilità innanzi alla Corte dei conti –
attesa l’ ambiguità del testo della legge è dubbio se si tratti di disposizione sostanziale o
processuale – è così manifesta, che non potrebbe sfuggire neppure al meno accorto degli
operatori del diritto.
La disposizione in parola prevede che possa richiedersi il danno all’ immagine solo
all’ autore di un reato ricompreso fra quelli che il codice penale classifica come reati contro la
pubblica amministrazione e solo a determinate condizioni.
Orbene non è chi non veda che il nocumento all’ immagine dello Stato sia ben più
elevato nel caso del magistrato che fosse condannato per associazione mafiosa, o del poliziotto
che fosse riconosciuto colpevole di violenza sessuale o di omicidio ai danni di una persona
sottoposta a restrizioni della libertà personale, piuttosto che nell’ ipotesi di un economo che si
fosse appropriato di pochi soldi, presi dalla cassa dell’ ufficio, o, addirittura, nell’ ipotesi,
prevista specificamente dalla legge, dell’ impiegato che si fosse assentato illecitamente dall’
ufficio (art. 55 quinquies, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 2001, n. 165,
recentemente introdotto dall’ art.69 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150).
In base alle nuove disposizioni, la Corte dei conti nulla può pretendere a titolo di
danno all’ immagine dal magistrato mafioso o dal poliziotto violentatore o omicida, mentre
deve agire verso l’ economo peculatore o verso l’ impiegato assenteista, come espressamente
vuole la c.d. “legge Brunetta”. Indipendentemente dalla pena edittale per il reato commesso,
che già dovrebbe rappresentare un indice sicuro della misura del disvalore che l’ ordinamento
attribuisce ad un determinato comportamento, non sembra neppure comparabile il pregiudizio
al raggiungimento degli scopi istituzionali che i primi comportamenti dell’ esempio provocano
nel cittadino rispetto ai secondi. Come potrà fidarsi il cittadino della giustizia amministrata
dalla mafia ovvero della Polizia, che annovera fra i suoi agenti dei soggetti propensi a
violentare o ad uccidere, come potrà serenamente collaborare con queste Istituzioni?
Conseguenze gravissime, non paragonabili con il tenue disdoro arrecato da un contabile, che
commette un modesto peculato, o da un impiegato, che si assenta illecitamente dal servizio. L’
accresciuta difficoltà di realizzazione del fine pubblico è l’ essenza e la misura del danno
all’ immagine della P.A., la quale non fa profitti, ma esercita attribuzioni per i cittadini e in
rapporto con essi.
Perchè, nonostante ciò, alcuni giudici hanno applicato tali norme?
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Ma, ancora prima, è questa la “Giustizia”? O questa è, nella specie, la giustizia
voluta dal legislatore ordinario, che non corrisponde a quella indicata dalla Costituzione?
Nella Costituzione, come è noto, la materia della giustizia incomincia ad essere
considerata con l’ enunciazione del Principio fondamentale di eguaglianza dei cittadini davanti
alla legge (art. 3), per trovare nella Parte I la formulazione delle regole primarie sulla tutela
giurisdizionale e sulla responsabilità penale e amministrativa negli artt. da 24 a 28 e per
trovare, infine, nella Parte II negli articoli da 100 a 113 la trattazione più specifica sull’
amministrazione della giustizia (senza dimenticare che attengono ancora alla materia della
giustizia la maggior parte delle disposizioni sulla Corte Costituzionale).
Dopo un recente periodo di gravissime ingiustizie e discriminazioni ed essendo
ancora
aperta
la
ferita
delle terribili
diseguaglianze sociali
ed economiche ereditate
dall’ ottocento e dai secoli precedenti, nel comporre le regole della Costituzione post bellica si
era elaborato un concetto di giustizia elevatissimo, che rifletteva quello degli spiriti più
illuminati della società. L’ aspirazione dei Costituenti, tradotta nei Principi fondamentali della
Costituzione e nelle disposizioni della Parte I era quella di una vera giustizia sostanziale. In
primo luogo: tutti uguali di fronte alla legge, senza alcuna discriminazione basata sul sesso,
sulla razza, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche, sulle condizioni personali o
sociali. Ma l’ “eguaglianza” della Costituzione non si fermò al mero egualitarismo: venne
imposta anche la rimozione degli ostacoli, che limitano di fatto la libertà e l’ eguaglianza. Ed
ancora si affermò l’ inviolabilità della persona, del domicilio, della corrispondenza, ecc.
Strettamente connessi all’ eguaglianza di fronte alla legge, nel senso ora
prospettato, sono il diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24 e 25, primo comma), ed anche i
fondamenti della responsabilità penale (artt. 25, secondo e terzo comma, e 27) e della
responsabilità amministrativa (art. 28).
La tutela giurisdizionale dei diritti, in particolare, è l’ essenziale anello che
congiunge la persona al diritto, che le è riconosciuto dalla legge, consentendone l’ effettiva
fruizione: senza la tutela giurisdizionale anche le statuizioni recanti gli altri principi
fondamentali risulterebbero zoppe.
I difetti della tutela giurisdizionale sono, dunque, difetti del sistema complessivo,
con riflessi immediati sull’ applicazione dell’ intero ordinamento. Se non possono essere
adeguatamente esercitati i diritti dei cittadini verso altri cittadini e verso lo Stato e i diritti dello
Stato verso i cittadini, le regole poste dal legislatore, anche dal legislatore costituente,
divengono inutili enunciati.
Tutti concordano sul fatto che il “sistema giustizia” soffra di una crisi profonda e che
occorrano interventi urgenti.
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Il Ministro della giustizia ci informa nella sua ultima relazione annuale che i
procedimenti civili pendenti sono oltre 5.600.000 e i procedimenti penali oltre 3.200.000. Dalle
statistiche risulta che negli ultimi anni i giudizi penali estinti per prescrizione del reato variano
da 150.000 a 170.000 all’ anno. Nella giustizia amministrativa i giudizi pendenti sono circa
700.000 (quantità imponente se rapportata al numero dei giudici amministrativi). Per la
giurisdizione di responsabilità amministrativa e contabile i dati sono apparentemente più
confortanti: meno di 6.000 giudizi pendenti. Questi numeri, tuttavia, mascherano l’ effettiva
profonda carenza della giustizia contabile. Il numero dei giudizi pendenti è così contenuto
perchè è estremamente basso il numero dei giudizi introdotti dalle Procure regionali (meno di
2.000 nel 2009), le quali, prive di organico e di risorse adeguate, sono in grado di istruire
effettivamente solo una parte delle denunce presentate.
Vengono annunciate riforme della giustizia, ma queste non riguardano le regole dei
processi, al fine di renderli più celeri, o l’organizzazione e le dotazioni di mezzi degli uffici
giudiziari, al fine di renderli più efficienti: riguardano, invece, la separazione delle carriere di
giudici e pubblici ministeri, il C.S.M. (struttura, composizione e funzioni), da realizzarsi anche
con “la riscrittura di alcune fondamentali e strategiche regole costituzionali” (così il Ministro
della Giustizia nella recentissima relazione annuale sullo stato della giustizia), nonchè il
dibattutissimo c.d. “processo breve”, già approvato dal Senato, e la disciplina delle
intercettazioni. Per la Corte dei conti in evidenza vi è solo il “processo breve”, nonostante si
attenda da tempo immemorabile almeno un codice di rito (è forse troppo?).
Queste c.d. “riforme della Giustizia” sono caratterizzate da un comune aspetto. Il
pubblico ministero allontanato dal giudice e relegato al ruolo di parte, tenderà ad assumerne l’
atteggiamento mentale: sarà più “di parte” e, quindi, meno “giusto”. Il C.S.M. nelle ventilate
nuove composizioni sarà più assoggettato alla politica e, perciò, tutelerà meno l’ indipendenza
della Magistratura, rendendola più condizionabile e, dunque, meno “giusta”. Con il “processo
breve” i processi che si estingueranno per superamento del limite di durata si aggiungeranno a
quelli – già ora numerosissimi – chiusi per prescrizione del reato: aumenteranno i casi di
negata giustizia. Con la limitazione delle intercettazioni sarà più difficile individuare gli autori
dei reati.
Dunque, paradossalmente, il filo conduttore delle annunciate riforme è: meno
giustizia.
Ciò, in realtà, non deve stupire: anche la giustizia soffre del mutato clima generale.
E perchè dovrebbe esserne esente?
Quanto è veramente forte il nostro desiderio di giustizia, quale è il nostro livello di
indignazione per l’ ingiustizia? Ci indigniamo sinceramente anche per tutte le ingiustizie che ci
avvantaggiano?
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E per la coscienza sociale corrente: qual’ è il limite entro il quale la giustizia è
desiderabile? In quali termini e in quale misura la giustizia è un valore condiviso o
condivisibile?
Desideriamo rigore o vogliamo un po’ di tolleranza? Siamo dalla parte di chi applica
le leggi penali e fiscali o, intimamente, non siamo poi così avversi a misure di indulgenza? Non
sarà vero che i pubblici ministeri sono cattivi? E i funzionari delle imposte?
La nostra propensione alla giustizia è tale da superare il timore di essere, per
avventura, la parte soccombente ovvero il perseguito o il “perseguitato”, la “vittima” di un
perfido pubblico ministero?
Una giustizia giusta, ma rigorosa è davvero nelle speranze della collettività o viene
preferita, in fondo, una giustizia edulcorata da condoni, indulti, amnistie (dichiarate o
mascherate), da prescrizioni brevi, da inefficienze che possono salvare chi è in torto, chi deve
pagare .....? Una giustizia, insomma, che tutela meno chi deve far valere un diritto, ma che,
corrispondentemente, è meno “pericolosa” per chi subisce l’ azione?
Ciò vale, ovviamente anche per la giustizia contabile: la tutela delle ragioni della
finanza pubblica realizzata dal P.M. contabile mediante l’ azione di responsabilità, mentre non
interessa, comunque, ai più (che neppure ne conoscono l’ esistenza), se fosse rigorosa ed
efficiente sarebbe, invece, al centro delle preoccupazioni di molti dipendenti ed amministratori
pubblici. Questi ultimi, peraltro, possono influire per colleganza politica su coloro che ne
scrivono le regole.....
Il contesto politico - sociale, dunque, non mi pare molto favorevole ad una
“giustizia giusta” e, conseguentemente, rigorosa, come non pare favorevole all’ effettiva
attuazione di altri “Principi fondamentali” della Costituzione.
Da malferma salute sono afflitti, infatti, oltre alla Giustizia anche gli altri “Principi
fondamentali” della Costituzione, i c.d. supremi principi che sono espressione dei valori
fondanti la Repubblica, e che si ritengono, unanimemente, intangibili e, dunque, non
suscettibili di revisione costituzionale.
I “Principi fondamentali”, infatti, non solo costituiscono i principi supremi dell’
ordinamento costituzionale, ma qualificano altresì la stessa struttura democratica dello Stato,
la quale verrebbe alterata qualora questi fossero erosi o violati. Nella sentenza della Corte
Costituzionale n. 1146 del 1988 si afferma, espressamente e con inusitata enfasi, che “La
Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o
modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre
leggi costituzionali. Questi principi, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non
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assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’ essenza dei valori
supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana ed hanno, quindi, una valenza superiore
rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale”.
Ma
se
nell’
annunciata
stagione
di
riforma
della
Costituzione
–
che,
miracolosamente, dovrebbe risolvere, oltre al problema della giustizia, anche altri problemi e,
complessivamente, regalarci finalmente uno Stato moderno ed efficiente - venissero adottate
norme di revisione della seconda parte della Costituzione, che di fatto fossero ispirate a
“principi” diversi? Nel contrasto fra i Principi fondamentali e le nuove norme, introdotte in sede
di riforma costituzionale, la Corte Costituzionale non potrebbe che tentare un’ opera di
bilanciamento (sul bilanciamento fra valori egualmente garantiti dalla Costituzione, cfr. ad es.
n. 86/74), di ricerca di un ragionevole compromesso, che consentisse di ricomporre il conflitto,
attribuendo alla nuova regola introdotta un significato compatibile con i Principi fondamentali,
di fatto, violati.
Anche i Principi fondamentali, tuttavia, uscirebbero dal conflitto fortemente
ridimensionati.
Pur prescindendo dai possibili esiti e, dunque, dai rischi della prossima revisione
della Costituzione, lo stato di attuazione e la propensione all’ attuazione dei Principi
fondamentali soffrono, comunque, a mio avviso, del mutato clima politico-sociale.
Ho già accennato alla Giustizia, ma nel variato contesto storico, il diminuito livello di
condivisione riguarda gran parte dei valori espressi nei Principi fondamentali.
La condivisione. Non rappresenta un vizio d’ origine la sintesi compromissoria
operata, allora, in seno all’ Assemblea Costituente fra le diverse culture e le rispettive
concezioni della persona, della famiglia, della società e dello Stato. Anzi, quella sintesi fa della
nostra Carta Costituzionale un modello riconosciuto in ambito internazionale. In quel clima di
ricostruzione di uno stato democratico – dove democrazia non significava solo diritto di voto –
ma uguali opportunità e pari dignità sociale di tutti i cittadini – “compromesso” – come
affermava Ruini – non aveva il senso deteriore di baratto, mercato, combinazione oscura di
interessi e non di idee, ma il significato - aderente all’ etimologia del termine di “fare promesse
insieme” - di assumere un impegno, di stipulare un patto. Che corrisponde al significato che
allo stesso temine “compromesso” attribuiva Togliatti: un terreno comune sul quale potessero
confluire correnti ideologiche e politiche diverse, abbastanza solido per costruivi sopra una
Carta costituzionale.
Il problema è, invece, che sia i valori, di cui ciascuna componente era portatrice,
sia quei valori fondanti, condivisi o frutto di compromesso, che hanno trovato espressione nei
primi articoli della Costituzione, già all’ origine, rappresentavano altissimi ideali astratti. Erano
frutto dell’ influenza culturale propria delle punte più colte della classe politica antifascista. Ma
già allora i comportamenti individuali e collettivi, certamente, potevano di fatto discostarsi da
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tali valori di riferimento, valori, di cui nessuno, tuttavia, avrebbe pubblicamente
messo in
dubbio o contestato la validità, la intrinseca bontà. Sono valori che possedevano l’ intangibilità
– in astratto - delle “virtù” di Socrate, delle “Idee”, che da Platone a Kant e oltre, hanno
permeato la filosofia occidentale.
Ma da qualche anno, osservavo, il clima è cambiato e vengono, come oggi si dice,
“sdoganati” altri riferimenti, molto più aderenti alle - in allora - inespresse riserve mentali
individuali. Ora, forze politiche e “culturali”, al fine di consolidare o acquisire consenso,
assumono apertamente come nuovi valori gli umori del momento, abdicando, così, all’
imprescindibile funzione di indirizzare la comunità verso obiettivi di interesse generale e di
lungo periodo, ancorchè impopolari nell’ immediato. Anche il linguaggio di molti soggetti
istituzionali si adegua e si rende consono alle nuove istanze.
Comportamenti ed espressioni
un tempo esecrati vengono dapprima giustificati, poi ammessi e, quindi, assunti a nuovi
modelli. Sono spesso le più urlate e irrazionali spinte della base a guidare la politica. Ciò
rappresenta l’ esatto opposto dello Stato ideale di Platone, governato dai filosofi.
Dunque
i
principi
della
Costituzione,
quei
principi
che,
prima
ancora
di
rappresentare un limite per il Legislatore ordinario, dovrebbero rappresentarne la guida, ben
difficilmente costituiscono e costituiranno il costante riferimento della produzione normativa.
Anzi. Se già nel passato si era tacitamente mediato fra i valori costituzionali e le divergenti
istanze di categorie e lobbies, oggi esplicitamente si assumono a riferimento altri “valori”.
Corrispondentemente, anche il livello dell’ indignazione del singolo individuo e della
c.d. coscienza collettiva di fronte all’ irrisione per i valori fondanti il Patto sociale si è
nettamente abbassato. Di fronte a fatti o a fenomeni estremamente gravi, che calpestano quei
valori, non ci si indigna più.
Prendiamo il lavoro, collocato nell’ art. 1 della Costituzione al primo posto nei
Principi fondamentali, accanto e intrinsecamente connesso all’ icastica definizione/affermazione
del carattere democratico della Repubblica (“L’ Italia è una Repubblica democratica, fondata
sul lavoro”), e ulteriormente esplicitato all’ art. 4 come diritto che la Repubblica deve rendere
effettivo. Nel lavoro, secondo Mortati “si realizza la sintesi fra il principio personalista (che
implica la pretesa all’ esercizio di un’ attività lavorativa) e quello solidarista (che conferisce a
tale attività carattere doveroso)”: il lavoro indica “il posto del cittadino nello Stato”.
Il
diritto
al
lavoro,
come
gli
altri
Principi
fondamentali,
trova
ulteriore
considerazione e specificazione nella stessa Costituzione, la quale, come è noto, è strutturata
in modo che, per la trattazione di ciascuna materia, dai Principi fondamentali si passa alla
Parte I (Diritti e doveri dei cittadini) e/o alla Parte II (Ordinamento della Repubblica). Questa
impostazione è dovuta all’ accoglimento della proposta di Aldo Moro, il quale propugnava una
Costituzione che avesse il “profilo di una piramide rovesciata, secondo il criterio della socialità
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progressiva” dai diritti individuali nel quadro della società, ai rapporti con la comunità, alla
sfera del mondo economico e politico.
Se si rileggono gli articoli della Parte I dedicati al lavoro (artt. da 35 a 40), sembra
di entrare in un altro mondo.
Numerose sentenze della Corte costituzionale (45/1965, 81/1969, 189/1980,
15/1983, 108/94) ed anche della Suprema Corte di Cassazione (es. sent. n. 4577 del
12.10.1978)
riprendono
il
concetto
del
diritto
al
lavoro
come
diritto
sociale,
come
fondamentale diritto di libertà, cui fa riscontro da parte dello Stato non solo il divieto di porre o
lasciar sussistere limiti discriminatori nell’ accesso, ma soprattutto l’ obbligo di indirizzare l’
attività di tutti i pubblici poteri, compreso il legislatore, all’ adempimento di rendere effettiva la
realizzazione del diritto, con adeguata tutela sia delle modalità di svolgimento, che di una
retribuzione adeguata.
Ma oggi: la Repubblica realizza il diritto al lavoro? Il legislatore è proteso ad
assicurare l’ effettività di tale diritto o, di fatto, si è relegato questo principio fondamentale
della Repubblica fra i reperti del passato? Qualcuno si ricorda ancora dell’ art. 1 o il nuovo
valore, il nuovo principio imperante non è forse quello del libero mercato del lavoro, nel quale
la realizzazione di tale fondamentale diritto, è affidata ai taumaturgici poteri della legge della
domanda e dell’ offerta, e diviene, in concreto, un problema esclusivamente individuale? Anche
la tutela della continuità del lavoro si è svuotata progressivamente con l’ ingresso e
l’espansione esponenziale di tipologie di contratti che previlegiano la precarietà del rapporto.
Una dimostrazione che i principi di riferimento sono stati di fatto integralmente
sostituiti? Quando, recentemente, il Ministro dell’ Economia – a sorpresa - ha sostenuto che il
posto fisso è un valore, la sua affermazione è suonata in qualche modo stonata, avulsa dal
tempo, controcorrente. Ed, infatti, è rimasta a livello di una bizzarria intellettuale, priva di
alcun riscontro fattuale.
E l’ indignazione? Siamo veramente scossi da un moto di indignazione al vedere le
immagini di centinaia o di migliaia di persone che manifestano perchè il lavoro lo hanno perso
o non riescono ad ottenerlo? O ci siamo abituati? E, a nostra giustificazione, pensiamo all’
ineluttabilità della situazione: c’ è la Cina che avanza, la delocalizzazione conviene all’ industria
... . Non pensiamo più che abbiamo stretto un Patto sociale diverso.
Prendiamo, ancora, la “solidarietà”, che fra i “Principi fondamentali” è collocata nell’
art. 2 e, quindi, subito dopo il lavoro (art. 1), dopo i “diritti inviolabili dell’ uomo” (art.2, primo
periodo), ma, significativamente, prima della giustizia (art. 3): la Repubblica “richiede l’
adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Principio
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molto forte – allora, quando è stato scritto – perchè frutto della confluenza fra solidarismo
cristiano e solidarismo marxista.
Dunque, diritto e dovere di solidarietà, dunque la società come comunità solidale,
tramite la quale viene prestata e ricevuta soddisfazione di prioritari bisogni individuali, con
ruoli reversibili e interscambiabili di chi effettua la prestazione e di chi ne è beneficiario.
La solidarietà è, in primo luogo, a fondamento di tutte le disposizioni nelle quali si
assicura il godimento di un diritto anche a coloro che si trovano in situazione svantaggiata per
fruirne: così devono essere promosse le condizioni per rendere effettivi i diritti al lavoro (art. 4,
38), alla salute (art. 32), all’ istruzione (art. 34). La solidarietà economica impone, poi, che il
concorso alle spese pubbliche sia rapportato alla capacità contributiva (art. 53, con l’ ulteriore
specificazione del principio della progressività dell’ imposizione fiscale), che l’ iniziativa
economica non si svolga in contrasto con l’ utilità sociale e che sia assicurata la funzione
sociale e l’ accesso di tutti alla proprietà privata.
Oggi il legislatore ordinario, alla cui cura la Costituzione affida la realizzazione dei
Principi fondamentali, persegue questi scopi solidaristici o la direzione è opposta?
Allo stato di attuazione della solidarietà applicata al diritto al lavoro ho,
implicitamente, già accennato.
La solidarietà nel campo dell’ istruzione? E’ “fatto notorio” il progressivo degrado
dell’ istruzione pubblica, cardine della realizzazione del diritto allo studio, cui vengono destinate
sempre meno risorse. Contrazione del numero delle classi, degli insegnanti ....
E l’ iniziativa privata?
La Costituzione, ricordo a me stesso, prevede all’ art. 4 che ogni cittadino “ha il
dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’ attività o una funzione
che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Dunque: dovere di solidarietà economica e dovere di svolgere un’ attività che
concorra al progresso materiale della società.
All’ art. 41 viene stabilito che l’ iniziativa economica privata è libera, ma si aggiunge
che “non può svolgersi in contrasto con l’ utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Sempre con l’ art. 41 il Costituente si rivolge
direttamente al legislatore dando un’ istruzione precisa: “la legge determina i programmi e i
controlli opportuni perchè l’ attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e
coordinata a fini sociali”.
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Ma viene effettivamente perseguita la funzione sociale dell’ iniziativa privata?
La recente crisi economica ha messo drammaticamente a nudo la misura dell’
attuazione, in generale, del principio di solidarietà sociale e ha consentito di constatare quale
sia il grado di volontà di perseguirlo per l’ oggi e per il futuro. La crisi ha evidenziato, in
particolare, con inusitata nitidezza, quanto sia attuata e quanto si intenda attuare la funzione
sociale dell’ iniziativa privata.
Nonostante gli evidenti disastri provocati da un certo modo di fare finanza e
impresa, la Repubblica italiana, che pure tali regole si è data come Legge fondamentale dello
Stato, nulla ha fatto e nulla fa, ad esempio, per impedire che attraverso la creazione di società
fiduciarie, di trust companies, di società e fondazioni offshore in paradisi fiscali o in stati con
regole diverse dalle nostre, di scatole cinesi, di bad companies (soluzioni finanziarie creative e
spregiudicate, cui, in parte, ricorrono persino enti pubblici) vengano sistematicamente truffati
coloro (fisco, reali investitori, sottoscrittori di obbligazioni, fornitori, contraenti, ecc.) che
hanno fatto affidamento sull’ apparente effettività dell’ impresa, con eventuali drammatici
“danni collaterali” per i lavoratori dipendenti direttamente o indirettamente dalle società
fantasma.
Come può il legislatore, cui è affidata l’ attuazione della solidarietà sociale, rimanere
inerte mentre pochi (forse non più così pochi) furbi, mediante gli strumenti della finanza e dell’
economia creativa, si mangiano i soldi, le proprietà, il benessere, la vita degli altri?
Abbiamo ricordato che altra espressione della solidarietà sociale è la regola della
“capacità contributiva” (art. 53 Cost.).
Orbene, si sono sempre evase le imposte, ma solo oggi l’ evasione viene
pubblicamente giustificata da altissime cariche dello Stato; sono sempre stati fatti condoni, ma
solo oggi viene concepito e attuato lo “scudo fiscale”, del quale si avvantaggiano solo i più
abbienti, che rientrano, in totale esenzione di imposta, nella piena e legittima disponibilità nel
territorio nazionale di capitali - frutto di attività lecite o illecite - comunque sottratti all’
imposizione.
Questo
l’
atteggiamento
del
legislatore
e,
dunque,
dei
politici.
Ma
io,
personalmente, mi indigno dell’ evasione fiscale? Se il medico, che mi ha in cura, o l’ avvocato,
che mi difende, non mi fanno la ricevuta fiscale o la parcella, le chiedo loro? E nella coscienza
sociale la mia eventuale mancanza è considerata riprovevole? E l’ imprenditore, che
“strangolato dalle tasse”, afferma di dover evadere per non chiudere l’ attività e mandare tutti
a casa, è giustificato o no dalla società?
11
Qual è, dunque, individualmente e collettivamente, il livello di propensione alla
solidarietà?
Pensiamo ai fatti di Rosarno con i cittadini (una gran parte) e le Istituzioni (una
gran parte) lanciati alla caccia e alla cacciata dei più deboli, dei più sfruttati, di esseri umani
senza diritti, con le ruspe che spianano i tuguri e le loro povere cose per impedire il ritorno
degli schiavi, non più desiderati..... Via tutti i “neri”, anche quelli “regolari”: distinzione troppo
sottile!
Un po’ di indignazione – dopo – c’ è stata. Ma non c’ è stata quella clamorosa e
corale presa di posizione dell’ intera comunità nazionale, attraverso la voce dei suoi
rappresentanti e delle sue forme associative, che avrebbe - sia pure solo in parte - riscattato
l’ immagine dell’ Italia e degl’ Italiani, all’ atto di consegnare alla Storia una delle pagine più
buie dei nostri giorni.
Ciascuno, forse, tende al livello di solidarietà che gli consente di essere fra coloro
che dalla “comunità solidale” ricevono benefici, ma, contemporaneamente, nè si sente di dover
essere solidale con chi ha ancora più bisogno, nè è disposto a rinunciare a qualcosa per
qualcun altro.
Vi è, dunque, una misura socialmente accettabile di giustizia, di solidarietà sociale,
ecc., che varia in ragione del clima generale.
Ma i magistrati, di fronte a norme che tradiscono la Giustizia e gli altri Principi
fondamentali della Costituzione, come devono comportarsi? Devono fare acquiescenza –
comoda acquiescenza, aggiungo – a norme contrastanti con i valori della Costituzione o
devono opporvisi con gli strumenti che la stessa Costituzione appresta? Devono adeguarsi al
mutato clima o devono erigersi a custodi dei valori costituzionali?
La risposta, inequivocabile, è nell’ ultima disposizione finale del testo costituzionale
(che non è una mera formula di promulgazione): “La Costituzione dovrà essere fedelmente
osservata come Legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello
Stato”. E i magistrati, in questa accezione, sono “organi dello Stato”.
Ma, si dirà, anche la Costituzione deve essere interpretata e, deve ammettersi che
la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza costituzionale indicano nell’ interpretazione
evolutiva la strada maestra per l’ applicazione dei Principi fondamentali. Si ritiene che la
cristallizzazione del significato della disposizione, quale conseguenza dell’ interpretazione c.d.
“storica” o, addirittura, “originalista” - che attingono esclusivamente al significato testuale
attraverso un’ indagine semantica e/o mediante la ricostruzione dell’ intenzione del legislatore
- sia incompatibile con il necessario adattamento all’ evoluzione politico–sociale di un testo
12
normativo. Ciò appare massimamente valido per la Costituzione, che fissa regole destinate ad
accompagnare la vita dello Stato per lungo tempo.
E l’ interpretazione evolutiva deve tenere conto dello spirito del tempo, del clima
politico - sociale e, dunque, anche della misura socialmente accettabile di “giustizia”, di
“solidarietà”, ecc.?
In questa epoca storica l’ interpretazione evolutiva può avere l’ effetto di
attenuazione della portata dei Principi fondamentali. Se consideriamo, inoltre, come abbiamo
precedentemente rilevato, che appare condizionata dal clima sociale anche la valutazione del
giudice in ordine alla costituzionalità della legge e che, in ragione del mutato rapporto di forza
fra i poteri legislativo e giudiziario, la soglia minima socialmente accettabile di non conformità
a Costituzione si è indubbiamente alzata, possiamo prevedere e/o ammettere che si stemperi
del tutto il potenziale conflitto fra i Principi fondamentali e le altre regole della Costituzione
rigida, da un lato, e la volontà della maggioranza degli eletti, espressa nella e dalla legge
(ordinaria) dall’ altro lato, talchè qualunque legge ordinaria potrebbe uscire indenne dallo
scrutinio di costituzionalità operato dal giudice?
Riterrei, comunque, di no. L’ interpretazione evolutiva – ancorchè il clima sociale e
culturale sia notevolmente mutato - non può spingersi fino a una forzatura eccessiva del dato
letterale e tanto meno a trasformare i valori costituzionali nel loro opposto: la solidarietà
sociale in individualismo o egoismo di classe, il diritto al lavoro in soggezione alle leggi del
mercato, la giustizia in diseguaglianza e mancanza di tutela, ecc.
E il giudice, nei limiti delle sue attribuzioni, deve trovare la forza di onorare il suo
giuramento di
fedeltà alla Costituzione, ricordando che la Costituzione è la “Legge
fondamentale della Repubblica” e che tutti i cittadini e gli organi dello Stato devono osservarla.
Questa regola – il primato della Costituzione - i magistrati di qualunque ordine – e,
in primo luogo, ovviamente, i Giudici costituzionali - dovrebbero avere impressa nella
coscienza ad orientare il loro agire. La Costituzione sopra tutto. Come il Vangelo per il
credente. Certo, la storia insegna cosa capita a chi tenta di applicare davvero il Vangelo. Ma
ciò non può indurre i magistrati a dimenticare il primato della Costituzione e ad adeguarsi,
invece, rassegnati, a nuove regole che tradiscono quei valori.
In questo clima politico–sociale si ripropone, prepotentemen-te, il dilemma se
adeguarsi e rassegnarsi o “resistere”. La risposta l’aveva già data qualcuno incomparabilmente
più titolato di chi scrive.
Ciò premesso, spetta, ora, al Procuratore regionale, nel rispetto delle linee guida
per l’ inaugurazione dell’ anno giudiziario, impartite dal Consiglio di Presidenza per i decorsi
13
anni e confermate anche per questa cerimonia, riferire sulle principali fattispecie, di cui si è
occupata la Procura, con riguardo ad istruttorie concluse e culminate nell’ atto di citazione in
giudizio dei responsabili del danno alla finanza pubblica.
In materia di entrate.
La Corte dei conti persegue frequentemente casi di danno derivante da omesso
accertamento ovvero da omessa riscossione di tributi, sempre, ovviamente, in presenza di dolo
o colpa grave dei funzionari preposti. Più raramente l’ azione della Procura contabile si estende
alla fase del contenzioso tributario, trovando opportuno limite nella necessaria sussistenza dell’
elemento soggettivo qualificato, requisito che ben difficilmente si riscontra
nelle condotte
tipiche di tale settore di attività dell’ Amministrazione finanziaria. La diligenza richiesta nella
trattazione della questione, tuttavia, deve essere proporzionale anche alla rilevanza dell’
importo del tributo oggetto di controversia. Si è, così, portato in giudizio il caso della mancata
impugnazione di una sentenza – palesemente errata - di una Commissione Tributaria di primo
grado, che annullava una cartella esattoriale di notevole ammontare per un – inesistente vizio di notifica dell’ avviso di accertamento, a seguito del quale la cartella era stata emessa. Di
tale danno sono stati ritenuti responsabili il funzionario e il dirigente del servizio contenzioso,
nonchè il capo di un ufficio periferico dell’ Agenzia delle Entrate, i quali non essendosi dati cura
di
effettuare
opportune
ricerche
giurisprudenziali
e
mostrando
di
non
conoscere
la
giurisprudenza di legittimità sul punto, avevano deciso, concordemente, di fare acquiescenza
alla sentenza di primo grado, mentre la decisione avrebbe potuto essere vittoriosamente
appellata.
Ancora nel settore delle entrate è stata proposta un’ azione di responsabilità
amministrativa in materia di “quote latte”. Sono stati chiamati in giudizio n. 34
amministratori di sei cooperative, fittiziamente costituite fra produttori di latte per consentire
ai soci di eludere sistematicamente il regime del prelievo supplementare sulle eccedenze di
produzione rispetto ai quantitativi consentiti. Il danno contestato, al netto di rivalutazione e
interessi, supera i 200 milioni di euro.
Il sistema delle c.d. “quote latte”, come è noto, è stato introdotto in ambito
comunitario al fine di perseguire il riequilibrio tra domanda e offerta di latte e prodotti lattiero
caseari nel mercato europeo, ciò nel più ampio quadro della politica agricola della Comunità
europea.
Le sei cooperative, costituite in Piemonte fra il 1998 e il 2000 hanno rivestito la
qualità di primo acquirente “riconosciuto”, avendo fittiziamente esercitato l’ attività di impresa
– rientrante, appunto, nel novero di quelle che danno titolo alla qualifica di acquirente, ai
sensi, dapprima, dell’ art. 9, lett. e), del regolamento CE n. 3950/92 e, successivamente, dell’
art. 5, lett. e), del regolamento CE n. 1788/03 - consistente nell’ acquisto di latte o di altri
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prodotti lattiero-caseari presso il produttore per cederli a una o più imprese dedite al
trattamento o alla trasformazione del latte o di altri prodotti lattiero-caseari.
Allo scopo di superare gli ostacoli frapposti all’ attività illecita da una sopravvenuta
modifica normativa, venne anche costituita nel 2003 una società finanziaria, che svolse, in via
esclusiva, attività meramente strumentale rispetto a quella di una delle cooperative
“acquirenti”.
Nel sistema delle “quote latte” l’ “acquirente” gestisce denaro pubblico (o,
indifferentemente, stante l’ identità del regime giuridico, “di pertinenza pubblica”). In quanto
gestore di denaro pubblico è “agente contabile”, soggetto alle regole della responsabilità
contabile.
In realtà le persone giuridiche (società cooperative e finanziaria), che sono entrate
nella vicenda, costituivano meri strumenti formali nelle mani degli amministratori, strumenti
creati da questi non solo per raggiungere lo scopo illecito, che si erano prefissi, nella gestione
di risorse pubbliche, ma anche per tentare di porsi personalmente al riparo da responsabilità
patrimoniali. Il progetto delittuoso era, chiaramente, quello di omettere il versamento del
prelievo supplementare e “dare in pasto” all’ amministrazione pubblica, che tentasse di
procedere al recupero, le scatole vuote rappresentate dalle cooperative via via costituite (ad
oggi cinque di queste, prive di attività, sono state dichiarate fallite ed una ha trasferito la sede
in altra regione). La giurisprudenza della Corte dei conti, tuttavia, ha da tempo fatto giustizia
di simili comportamenti, affermando più volte (si ricordano, in particolare, Sez. Molise, sent.
n. 64 del 05.03.1998 e n. 263 del 07.11.2002, Sez. Basilicata, sent. n. 458 del 31.12.2002,
Sez. 2^ Centrale d’ Appello, n. 125 del 20.03.2006, Sez. 1^ Centrale d’ Appello, n. 324 del
15.07.2008) che l’ autonoma gestione di risorse pubbliche da parte di soggetti (persone
fisiche), che assuma un rilievo proprio rispetto all’ organizzazione societaria, determina uno
“sforamento dello schermo societario”, talchè l’ azione di responsabilità deve indirizzarsi verso
gli effettivi responsabili, cioè gli amministratori, che agiscono in nome, per conto e “al riparo”
della persona giuridica.
Tali soggetti – gli amministratori - acquistano la qualità di agenti contabili di fatto
“con funzioni, obblighi di restituzione e responsabilità connesse” (Sez. 1^ Centrale d’ Appello,
n. 324 del 15.07.2008, già ricordata).
In materia di spesa pubblica.
Nel campo dei lavori pubblici, si avverte fortemente l’ esigenza di una rivisitazione
delle norme che regolano la competenza territoriale in ordine all’ accertamento di eventuali
danni che riguardano la realizzazione di grandi opere interessanti il territorio della Regione.
Spesso, infatti, in base all’ attuale disciplina, tali rilevanti fattispecie rientrano nella
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competenza della Sezione Lazio, in quanto il Ministero delle infrastrutture e le società
pubbliche concessionarie delle opere hanno sede in Roma. In queste situazioni, escludere, in
sede di individuazione della Sezione territorialmente competente, il criterio del luogo in cui si
sono verificati i fatti, contrasta con evidenti esigenze di vicinanza dell’ inquirente ai siti delle
opere, ai denuncianti, ai testimoni.
Fra i fenomeni riscontrati nel campo degli appalti di opere pubbliche va ricordato il
non infrequentemente ritardo nelle operazioni di collaudo, e, conseguentemente, nel
pagamento della rata di saldo. Ne deriva un danno c.d. indiretto a seguito della definizione del
contenzioso fra amministrazione appaltante e appaltatore.
Si verificano, inoltre gravi sprechi di risorse pubbliche in dipendenza di repentini
cambiamenti di programma, che si verificano, specialmente nei piccoli comuni, a seguito dell’
avvicendarsi nel governo locale di maggioranze di diversa appartenenza politica. Nel decorso
anno, in particolare, si è portato in giudizio il caso di un comune, nel quale era stato realizzato
da non molti anni un impianto sportivo, già di per sé eccedente i bisogni dell’ utenza.
Successivamente, altri amministratori avevano deliberato lavori di ampliamento e parziale
trasformazione. Decorso un breve lasso temporale, una diversa giunta ne decise lo
smantellamento per far posto ad un’altra struttura (parco pubblico). Il danno, imputato agli
ultimi amministratori è stato quantificato nel costo integrale dell’ impianto smantellato, come
perdita di un bene già acquisito al patrimonio comunale.
In materia di forniture si riscontra la violazione delle norme che disciplinano la
procedura di scelta del contraente. Il fenomeno è particolarmente frequente nella sanità
pubblica: in campo medico si può facilmente giustificare il ricorso alla trattativa privata con
l’ asserita
esclusiva
del
prodotto
ovvero
“pilotare”
le
gare
con
la
valorizzazione
di
caratteristiche dei prodotti, oggetto del bando, che si sanno possedute soltanto da quello
fornito dalla ditta da favorire. Ciò, ovviamente, si accompagna alla percezione di tangenti da
parte dei responsabili delle unità operative interessate.
Nello specifico settore è stata, in particolare, esercitata azione di responsabilità per
gravissimi fatti di corruzione, anche risalenti negli anni e, in parte, non perseguiti penalmente
per avvenuta prescrizione dei reati. Le fattispecie portate in giudizio sono relative ad acquisti
e gare per la fornitura di materiale sanitario per le esigenze della Divisione di Cardiochirurgia di
un’ Azienda Ospedaliera, presso la quale Divisione vigeva un vero e proprio “sistema
tangentizio”, instaurato ad opera di un primario e proseguito da altri primari dopo il
pensionamento del primo. Il danno complessivo alla finanza pubblica è stato determinato in
poco meno di sei milioni di euro (già dedotto il danno causato da un primario deceduto nel
frattempo). Ai convenuti, oltre al danno patrimoniale (c.d. “da tangente”), al danno alla
concorrenza e al danno da disservizio, è stato richiesto anche un ingente danno all’ immagine,
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visto il notevole clamor fori e la elevata posizione dei soggetti coinvolti. Ma questo, ancorchè
evidentissimo, danno all’ immagine dell’ Azienda Ospedaliera, potrebbe in parte cadere in sede
giudiziale per effetto delle recenti disposizioni restrittive: infatti, pur trattandosi di episodi
provati di corruzione, per uno dei convenuti manca la sentenza penale di condanna (essendo
intervenuta la prescrizione del reato), che rappresenta attualmente condizione necessaria per
la promovibilità stessa dell’ azione, ai sensi della già ricordata novella (incostituzionale).
Talvolta, pur non sussistendo nè prova, nè indizio di tangenti, l’ acquisto di
apparecchiature risulta, tuttavia, egualmente viziato. Tale, ad esempio, è stato il caso della
fornitura, deliberata da parte di un Ospedale pubblico, di un costosissimo (oltre 800.000 euro)
strumento chirurgico (“laser ad eccimeri”), su specifica richiesta del Direttore dell’ Unità
Operativa Oculistica, richiesta giustificata con l’ unicità, l’ imprescindibilità e l’ urgenza della
fornitura. L’ apparecchiatura, corrispondente ad altra che il medico aveva appena acquistato
per la sua attività privata, fu impiegata per pochi interventi e, in breve tempo, risultò non più
funzionante. Venne, quindi, riposta in un magazzino e non più utilizzata, anche in quanto il
contratto di acquisto non ricomprendeva alcun obbligo di manutenzione da parte del fornitore.
L’ istruttoria della Procura ha dimostrato che sul mercato esistevano – all’ epoca dell’ acquisto almeno altre tre apparecchiature, che erano sicuramente equivalenti a quella in questione e il
cui prezzo di vendita era notevolmente inferiore a quello pagato dall’ Ospedale.
Non si arresta il ricorso a consulenze esterne in mancanza dei presupposti che le
legittimano, nonostante le note restrizioni e i controlli imposti, ancora da ultimo dal legislatore
(art. 3, comma 1, lett. f – ter, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, nel testo risultante dalle
modificazioni introdotte dall’ art. 17, comma 30, del decreto legge 1 luglio 2009, n. 78,
convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102). Nè, spesso, viene rispettato l’
obbligo, ove previsto, di affidare l’ incarico all’ esito di una procedura comparativa pubblica,
anche perchè frequentemente è lo stesso consulente che propone all’ ente lo svolgimento di
un’ attività che richiede la prestazione professionale.
Dall’ illecito conferimento di incarichi a soggetti non adeguatamente valutati per l’
“alta professionalità” - che si richiede a chi rende prestazioni ad enti pubblici - talora
conseguono
addirittura
altri
danni,
determinati
dalla
condotta
illecita
dello
stesso
professionista. E’ il caso del “mandato professionale” conferito – senza effettuare alcun
controllo sulla professionalità specifica e sulla serietà del destinatario - dal Presidente di una
IPAB, non trasformata in ente di diritto privato, ad una società “per la realizzazione di uno
studio di fattibilità tecnico ed economico finanziario, mirato all’ ottenimento di un intervento
agevolato in base alle normative europee e nazionali”. La società, esplorata, fittiziamente, la
prospettiva di un finanziamento, indusse il presidente dell’ IPAB a disporre il versamento alla
stessa società di un consistente importo, che avrebbe dovuto essere corrisposto all’ ente
finanziatore a titolo di cauzione per l’ ottenimento del contributo. In realtà non era stata
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avviata alcuna procedura per il finanziamento e la fantomatica cauzione rimase nelle tasche dei
truffatori.
Si sono, purtroppo, dovuti registrare numerosi episodi di infedeltà di pubblici
dipendenti, che hanno in vario modo abusato delle loro funzioni per trarne personale profitto.
Il fenomeno ha riguardato “trasversalmente” tutti i settori della pubblica amministrazione:
dipendenti civili e militari, e questi ultimi ripartiti fra tutti i corpi militari. Per rispettare al
massimo la “par condicio” devo precisare che anche la magistratura non è risultata esente dal
fenomeno (ma di questo parlerò nella relazione del prossimo anno). Occorre sottolineare che il
danno all’ immagine patito dall’ amministrazione di appartenenza è massimo nel caso di abusi
commessi da appartenenti alle Forze dell’ Ordine e alla Magistratura, atteso che con i loro
comportamenti delittuosi viene specificamente tradita proprio quella funzione di far rispettare
le leggi, cui gli stessi sono preposti.
Cominciando dai dipendenti civili, accanto a casi di peculato, aventi ad oggetto
anche beni di scarso valore (addirittura libri appartenenti all’ ufficio, un telefono cellulare e il
relativo traffico telefonico, ecc.), per i quali il disdoro patito dall’ amministrazione supera il
danno economico, vi sono fattispecie che denotano maggiore attitudine delittuosa. E’ il caso di
due dipendenti di un ufficio provinciale dell’ ARPA Piemonte, i quali in occasione del controllo di
impianti (prevalentemente termici) di diverse aziende, sotto la minaccia di sanzioni per le
irregolarità riscontrate, imponevano ai titolari delle imprese verificate l’ acquisto di attrezzature
e macchinari da certe ditte, dalle quali si facevano corrispondere una illecita “provvigione”. In
altri casi gli stessi funzionari preannunciavano i propri controlli alle ditte presso le quali si
sarebbero recati - rivelando in tal modo segreti d’ ufficio - al fine di ottenere da queste dei
vantaggi patrimoniali personali.
Ancora significativo è il caso del Direttore della Segreteria di una Commissione
Tributaria Provinciale, che induceva contribuenti, conosciuti in occasione del servizio, a
corrispondergli ingenti somme di denaro in cambio del proprio aiuto per “aggiustare” giudizi in
corso o per evitare futuri controlli fiscali.
Anche la Polizia di Stato ha le sue “mele marce”. Emblematico è il caso di funzionari
e agenti della polizia Stradale che verbalizzavano, come realmente avvenuti e constatati,
incidenti automobilistici simulati, allo scopo di lucrare – con la complicità di titolari di
autocarrozzerie - indebiti rimborsi dalle società di assicurazione. Da tali comportamenti è
derivato grave danno all’ immagine del Corpo.
Certamente ancora più rilevante è il danno all’ identità pubblica dell’ Arma dei
Carabinieri, causato dai ripetuti gravissimi fatti di peculato posti in essere da due militari dell’
Arma, i quali, in veste di pubblici ufficiali, in occasione e durante lo svolgimento di diversi
accertamenti - eseguiti in Torino nei confronti di cittadini extracomunitari, spesso irregolari sul
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territorio dello Stato e, quindi, in posizione di sottomissione e sudditanza rispetto all’operato
delle Forze dell’ Ordine - si sono appropriati di somme di denaro (e, talvolta, anche di sostanze
stupefacenti) appartenenti agli stessi soggetti controllati.
Il fenomeno dell’ infedeltà, come ho accennato, interessa tutti i corpi militari. Per la
Guardia di Finanza significativo è il caso di un maresciallo che, con la minaccia di chiudere
sfavorevolmente verifiche fiscali o di farne effettuare ulteriori più approfondite, estorceva
denaro ai titolari delle imprese soggette a controlli fiscali.
Per l’ Esercito Italiano deve ricordarsi, infine, in ragione dell’ entità particolarmente
cospicua dell’ illecito guadagno (oltre 1.500.000 euro), lo stratagemma posto in essere da un
infedele sottufficiale, il quale invitava varie imprese a partecipare a inesistenti gare di appalto,
allo scopo di riscuotere – apparentemente - per conto dell’ amministrazione e trattenere,
invece, per sè gli importi che le ditte versavano a titolo di cauzione per l’ esecuzione dei lavori,
di cui fittiziamente risultavano aggiudicatarie.
Una menzione particolare merita, ancora, il fenomeno, che purtroppo, pare
persistere - nonostante le ripetute sentenze di condanna del giudice penale e di quello
contabile - degli illeciti commerci perpetrati ai danni dei parenti di soggetti deceduti presso
strutture ospedaliere, noto come il fenomeno del “caro estinto”, con riferimento all’ artificioso
aumento dei costi delle esequie, ovvero delle “salme libere”, per tali intendendosi quelle non
ancora “accaparrate” da un’ impresa di onoranze funebri. Nel corso del 2009 sono stati citati in
giudizio alcuni addetti alle camere mortuarie - in servizio in qualità di infermieri ovvero con
altra qualifica presso un’ Azienda Sanitaria Ospedaliera di Torino - per aver illecitamente
percepito somme di denaro, ottenute da alcune imprese di onoranze funebri a fronte della
segnalazione di decessi, ovvero ottenute dalle stesse imprese e/o dai parenti dei deceduti per
curare la vestizione delle salme.
Nei casi più gravi di infedeltà l’ aspetto del danno patrimoniale è talvolta
trascurabile, mentre assume netta prevalenza il danno all’ immagine dell’ amministrazione.
Nel perseguire tali comportamenti, appunto, sotto il profilo del pregiudizio all’ identità pubblica
dell’ ente di appartenenza, pare indubitabile che alla finalità storicamente e tipicamente
risarcitoria dell’ azione di responsabilità si connetta – se non una funzione, quanto meno – un
effetto
sanzionatorio
con
valenza
di
prevenzione
e
deterrenza
rispetto
ad
analoghi
comportamenti. Ciò risulta coerente con l’ evoluzione giurisprudenziale in ordine all’
inquadramento sistematico del giudizio di responsabilità. Ricordo a me stesso che la Corte
Costituzionale già in passato aveva ammesso una funzione latu sensu sanzionatoria dell’ azione
di responsabilità amministrativa (sentenze nn. 371 e 453 del 1998, ord. n. 392 del 2007). Ora,
da ultimo, si aggiunge la voce della Corte di Cassazione (sent. n. 26806/09 del 19.12.2009)
19
che
attibuisce
all’
azione
di
responsabilità
amministrativa
addirittura,
una
“finalità
essenzialmente sanzionatoria”.
Contributi pubblici, comunitari e non, come è noto, sono frequentemente
oggetto di vere e proprie frodi preordinate all’ illecita appropriazione dei fondi. In altri casi,
invece, vengono utilizzati per scopi in tutto o in parte diversi da quelli per i quali sono stati
richiesti ed erogati.
La Procura regionale si astiene dall’ intervenire – per evitare duplicazioni di attività
- quando già la procedura di recupero del contributo è stata intrapresa dall’ ente concedente. L’
azione del pubblico ministero contabile viene esercitata, dunque, nei soli casi in cui la
situazione appare controversa e vi sono, conseguentemente, ostacoli all’ integrale recupero da
parte dell’ amministrazione. Nel corrente anno sono stati richiesti danni, corrispondenti a
contributi illegittimamente erogati, per oltre tre milioni di euro.
Pur essendo ormai consolidata la giurisprudenza della Corte di Cassazione
(ord. 4511 del 1° marzo 2006 e successive pronunce conformi), con la quale è stata
riconosciuta la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti dell’ illecito percettore di
finanziamenti pubblici, nell’ applicazione in concreto dei principi stabiliti dalla Suprema Corte,
permangono interpretazioni non uniformi. Si è, in particolare, verificato un contrasto
interpretativo fra la Sezione e la Procura piemontesi sulla giurisdizione della Corte dei conti in
materia di contributi regionali a imprese alluvionate. Nella specie la Sezione ha negato la
sussistenza della giurisdizione del giudice contabile, ritenendo che l’ impresa destinataria del
finanziamento non sia chiamata a “gestire risorse pubbliche” secondo “finalità pubbliche”, ma
rappresenti semplicemente il destinatario finale di risorse di mera provenienza pubblica per la
realizzazione di interventi su beni privati. Sostiene, invece, la Procura – con questa
motivazione è stato proposto appello – che la finalità che ha ispirato il legislatore - di
assicurare il rapido ripristino della funzionalità degli impianti e la ripresa delle attività
produttive in zona, e, dunque, il soddisfacimento di un preciso interesse collettivo affidato alle
cure della Regione, come ente esponenziale della comunità stanziata sul territorio – rende per
ciò solo il soggetto beneficiario della contribuzione “terminale di una attività di gestione di fondi
pubblici” e, quindi soggetto agente nell’ interesse della Pubblica Amministrazione, con
conseguente radicamento della giurisdizione della Corte dei conti.
In materia di conti giudiziali
Lo strumento giuridico dell’ istanza per resa di conto (artt. 45 R.D. 12 luglio
1934, n. 1214 e 39 R.D. 13 agosto 1933, n. 1038) è, di solito, utilizzato per ottenere l’
adempimento della presentazione del conto giudiziale da parte di agenti contabili negligenti,
che ritardano a rendere il conto. In un caso, rilevante sotto il profilo tecnico ed economico, si
è, invece, proposto un ricorso per resa di conto nei confronti di un istituto di credito, quale
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incaricato del servizio di tesoreria di una ex IPAB, la quale non aveva optato per la
trasformazione in persona giuridica di diritto privato. Si è affermata la qualità di agente
contabile dell’ Istituto di credito - tenuto, come tale, all’obbligo di rendiconto – ritenendo che,
in mancanza di una legge regionale di riordino della materia, in attuazione di quanto previsto
dal D.Lgs. 207/2001, le ex IPAB rimangano regolate dalle disposizioni contenute nel R.D.
6972/1890, in quanto compatibili con i nuovi principi regolatori della materia, giusta quanto
dispone l’ art. 21, comma 2, del D.Lgs. 207/2001. In particolare, il conto di tesoreria, che un
tempo andava trasmesso per il controllo contabile ai Consigli di Prefettura (art. 21 R.D.
6972/1890 e titolo III, capo I, del Regolamento di esecuzione R.D. 5.02.1891, n. 99),
dovrebbe ora venire inviato alla competente Sezione Regionale della Corte dei Conti, succeduta
nelle competenze sui conti degli Enti locali ai Consigli di Prefettura, dopo la declaratoria di
incostituzionalità di questi ultimi, ad opera della Corte Costituzionale (sent. n. 55/66). Nella
specie erano stati denunciati alla Procura ammanchi di cassa, pagamenti contabilmente non
giustificati, deficienze di gestione dei titoli in deposito presso la stessa banca e irregolarità, in
genere nel procedimento di spesa, che potranno – ove accertate – costituire motivo di
addebito, per i relativi importi, a carico del tesoriere.
In materia di azioni a tutela del credito erariale
Desidero accennare, in chiusura, ad un importante indirizzo in tema di azione
revocatoria, sorto in Piemonte ad iniziativa della Procura e che ha trovato ripetuto
accoglimento nelle decisioni della Sezione. Si era proposta nel 2008 un’ azione revocatoria allo
scopo di consentire all’ Amministrazione di eseguire fruttuosamente una sentenza di condanna
(nella specie, non ancora passata in giudicato). La pronuncia della Sezione giurisdizionale,
intervenuta, nel 2009, è stata favorevole alla Procura. Si è ritenuta, così, implicitamente
affermata sia la giurisdizione della Corte dei conti che la legittimazione attiva del Procuratore
regionale, anche nel caso in cui l’ azione revocatoria sia proposta nella fase dell’ esecuzione
della sentenza di condanna.
Nel 2009, riaffermando il principio che la giurisdizione della Corte dei conti sulle
azioni revocatorie, introdotta dall’art. 1, comma 174, della legge finanziaria 2006, sussiste
anche quando il credito tutelato scaturisce da una sentenza di condanna pronunciata dallo
stesso Giudice contabile, a seguito di azione di responsabilità - nessuna interferenza
determinandosi con le competenze dell’Amministrazione danneggiata, titolare del predetto
credito, a curare e a sovrintendere all’esecuzione forzata - si sono proposte altre azioni
revocatorie per consentire l’ esecuzione di sentenze di condanna (in questi ultimi casi, già
divenute irrevocabili al momento dell’ emissione dell’ atto introduttivo del giudizio).
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Ometto tabelle e dati sull’ attività della Procura, che sono consultabili sul sito della
Corte (www.corteconti.it).
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Saluto e ringrazio quanti hanno accolto l’ invito a partecipare a questa cerimonia,
cittadine e cittadini, Autorità civili e militari, Avvocati del libero Foro e, in particolare, i
rappresentanti dell’ Organo di autogoverno della Corte dei conti e dell’ Associazione magistrati,
i colleghi di questa e delle altre magistrature, oggi presenti.
Un grato apprezzamento al personale amministrativo della Procura regionale e al
suo Direttore, che, pur nell’ evidenziata scarsità di risorse, con la loro professionalità e
dedizione hanno consentito un perfetto funzionamento dell’ Ufficio. Ringrazio anche il
personale della Sezione giurisdizionale per la preziosa collaborazione al buon andamento dell’
attività d’ istituto.
Uno speciale ringraziamento al cessato Comandante della Sezione A.D.E. della
Guardia di Finanza, Cap. Girolamo Franchetti, al subentrato Comandante, Ten. Mauro Del
Rosario e ai Sottufficiali che la compongono, i quali continuano a dimostrare encomiabile
impegno, elevata professionalità e assoluta disponibilità alle esigenze del servizio. Il rapporto
funzionale è accompagnato da un clima di cordialità veramente unico. Il ringraziamento deve
essere esteso al Comandante del Gruppo Tutela Spesa Pubblica, Ten. Col. Sergio Napoletano,
al Comandante del Nucleo Polizia Tributaria Torino, Col. Francesco Greco, al Comandante
Provinciale, Gen. Sebastiano Galdino, e al Gen. Vincenzo Basso, Comandante della Regione.
Gratitudine va espressa anche all’ Arma dei Carabinieri, in particolare, al
Comandante della Legione Piemonte e Valle d’ Aosta, Gen. Vincenzo Giuliani, nonchè alla
Polizia di Stato, che hanno sempre dimostrato la massima disponibilità alle occorrenze della
Procura contabile.
Un ulteriore ringraziamento per l’ Avvocatura del libero Foro, della quale deve
essere specialmente apprezzata la propensione a confrontare le contrapposte tesi in un clima
di assoluto rispetto dei diversi ruoli, clima che contribuisce al corretto svolgimento dei giudizi
e, dunque, ad agevolare il compito di rendere giustizia.
Un grato saluto, infine, agli organi di stampa, che perseguono l’ insostituibile e
difficile compito di informare con immediatezza sui fatti che interessano la collettività. Le loro
pubblicazioni sono per la Procura regionale preziosa fonte di conoscenza di fatti dannosi per la
finanza pubblica, talvolta non denunciati dai soggetti istituzionalmente a ciò tenuti.
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Ringrazio ancora il Presidente per avermi dato la parola e chiedo che, al termine
degli interventi, dichiari aperto l’ anno giudiziario 2010 della Sezione giurisdizionale della Corte
dei conti per la regione Piemonte.
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