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I `sommersi` e i `giusti` nella tragedia della Shoah

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I `sommersi` e i `giusti` nella tragedia della Shoah
Testo della ‘tesina’
I ‘sommersi’ e i ‘giusti’ nella tragedia della Shoah
Premessa [È la pagina introduttiva: presenta l’argomento e gli estremi della trattazione]
Olocausto e Shoah Il termine ebraico Shoah significa «distruzione», «annientamento», e
indica lo sterminio degli ebrei d’Europa perpetrato dalla Germania nazista nel corso della
seconda guerra mondiale.
Esso viene ormai preferito a ‘Olocausto’ (termine composto dalle radici greche di hólos,
«tutto intero» e káio, «brucio»: quindi un sacrificio in cui la vittima viene completamente
bruciata), che riveste lo sterminio di una patina sacrale del tutto estranea a un assassinio di
massa spiegabile solo con la volontà criminale di chi ne è stato responsabile.
Dedicheremo solo una breve panoramica all’evento della Shoah, e poi alle colpe e alle
responsabilità a essa connesse, che sono gli aspetti più presenti nel dibattito storiografico.
I ‘sommersi’ Ci occuperemo invece di due aspetti abbastanza marginali ma importanti, in
quanto rappresentano i due poli estremi di questo evento così sconvolgente da rendere
insoddisfacente qualsiasi tipo di spiegazione, e cioè, da una parte i cosiddetti ‘sommersi’,
dall’altra i cosiddetti ‘giusti’.
Primo Levi, nel suo libro, così definisce i ‘sommersi’:
Non siamo noi i superstiti, i testimoni veri. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua:
siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha
visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i sommersi, i testimoni
integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato integrale. […]
Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro
destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso per conto di terzi, il
racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera
compiuta non l’ha raccontata nessuno come nessuno è tornato mai a raccontare la propria morte. I
sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era
cominciata prima di quella corporale.
(P. Levi, I sommersi e i salvati, cit. pp. 64-65)
Come spunto di riflessione sul tema si può leggere questo passo delle memorie scritte da
Rudolf Höss, il comandante del campo di Auschwitz, un criminale senza pietà, che rimane
allibito di fronte al comportamento di uno dei membri dei Sonderkommando (le squadre di
deportati addette a sgomberare le camere a gas, a far funzionare i forni ecc.):
Nell’estrarre i cadaveri da una camera a gas, improvvisamente uno dei Sonderkommando si arrestò, rimase
per un istante come fulminato, quindi riprese il lavoro con gli altri. Chiesi al kapo che cosa fosse successo:
disse che l’ebreo aveva scoperto tra gli altri il cadavere della moglie. Continuai ancora a osservarlo per un
certo tempo, ma non riuscii a scorgere in lui alcun atteggiamento particolare. Continuava a trascinare i suoi
cadaveri, come aveva fatto fino allora. Quando, dopo un poco, ritornai al comando, lo vidi seduto a mangiare
in mezzo agli altri, come se nulla fosse accaduto. Possedeva una capacità sovrumana di celare le proprie
emozioni, o era diventato talmente insensibile da non saper più reagire?
Che cosa dava agli ebrei del Sonderkommando la forza di assolvere giorno e notte a un compito così
orrendo? Speravano forse in un evento particolare che li salvasse dalla morte all’ultimo momento? O gli orrori
a cui avevano assistito avevano ucciso in loro la sensibilità, oppure, ancora, erano troppo deboli per farla
finita da sé e sottrarsi così a quell’“esistenza”? Li ho osservati molto a lungo e attentamente, ma non sono in
grado di dare spiegazioni sul loro comportamento.
(R. Höss, Comandante ad Auschwitz, trad. it., Einaudi, Torino 1995, pp. 134-135)
1
I ‘giusti’ I cosiddetti ‘giusti’ o ‘giusti delle nazioni’, sono i non ebrei che hanno salvato
ebrei dallo sterminio e che, dopo essersi prodigati mettendo a rischio la vita per salvare
esseri umani, sono scomparsi o si sono ritirati nel silenzio della loro vita privata, dal quale
non sarebbero emersi se qualcuno dei beneficati non li avesse ritrovati.
Per illustrare questo tipo di comportamento si può fare riferimento alla frase fin troppo nota,
anche se non per questo meno significativa, pronunciata da Giorgio Perlasca al giornalista
Enrico Deaglio che gli chiedeva perché avesse messo in atto un piano al limite dell’assurdo
per salvare alcune migliaia di ebrei: «Lei, al mio posto, che cosa avrebbe fatto?»
1. Tempi, luoghi, entità dello sterminio
[Questo primo capitolo fornisce l’informazione di base necessaria per inquadrare l’evento
della Shoah, dicendo dove e come si è svolto, quali ne sono state le proporzioni]
La ‘soluzione finale’ Benché chiamato eufemisticamente dai tedeschi Endlösung
(«soluzione finale»), lo sterminio degli ebrei ha il carattere di un genocidio (parola
composta dal greco ghénos, «stirpe» e dal latino caedo, «uccido») programmato e
perseguito con fredda determinazione. Esso rappresenta il risultato finale
dell’antisemitismo storico, maturato nelle sue punte più avanzate tra Ottocento e
Novecento e legato all’ascesa al potere di Hitler, in Germania, nel 1933.
Secondo la periodizzazione corrente, il processo di distruzione degli ebrei seguì tre fasi,
distinte da politiche differenti.
La prima fase dello sterminio Una prima fase, dal 1933 al 1939, prevede la soluzione
ancora cauta dell’emigrazione allo scopo di rendere la Germania Judenfrei («libera da
ebrei»). L’antisemitismo prende corpo nel settembre del 1935 con le leggi di Norimberga,
che privano gli ebrei della nazionalità tedesca e, attraverso una serie di divieti, li escludono
dalla vita civile e dall’economia.
L’anno fondamentale di questa prima fase è il 1938, quando l’annessione dell’Austria alla
Germania offre un banco di prova delle misure antiebraiche che riducono gli ebrei in
condizioni di vita disumane, mentre i timidi tentativi di giungere a una soluzione
internazionale per risolvere il problema degli ebrei allontanati dalla Germania
nazionalsocialista falliscono con la conferenza di Evian del luglio 1938, in cui appare chiaro
che non vi sono Paesi disposti ad accogliere i profughi ebrei.
Nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938 (Kristallnacht, «Notte dei cristalli»), con il
pretesto dell’uccisione a Parigi di un diplomatico tedesco per mano di un giovane ebreo,
viene scatenato in tutta la Germania un grande pogrom («eccidio») nel quale sono
incendiate sinagoghe, mandate in frantumi finestre e vetrine di negozi appartenenti a ebrei
e vengono assassinati un centinaio di ebrei. Subito dopo decine di migliaia di ebrei
vengono chiusi nei campi di Dachau e Sachsenhausen per indurre gli altri all’emigrazione.
Intanto le leggi razziali vengono emanate anche nei Paesi governati da regimi che
collaborano con Hitler, come Austria, Italia, Olanda.
La seconda fase La seconda fase della politica di sterminio dura dal 1939 al 1941 e ha
inizio con l’entrata in guerra della Germania nel 1939. La soluzione del problema ebraico
si orienta verso l’eliminazione fisica quando l’occupazione della Polonia e dei territori
sovietici comporta l’ingresso in questi Paesi di un elevato numero di ebrei (tre milioni nella
sola Polonia) poverissimi, per i quali vengono riprese sinistre usanze del passato, dalla
stella gialla di riconoscimento che sono obbligati a portare cucita sul vestito, alla reclusione
nei nuovi ghetti di Varsavia, Cracovia, Riga ecc.
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L’ultima fase e l’eccidio La terza fase, quella dell’eccidio vero e proprio, inizia nel 1941
con l’ingresso delle truppe tedesche in Unione Sovietica. Prima ancora che la Endlösung
(«soluzione finale») fosse definitivamente approvata e organizzata dallo stato maggiore
nazista nella Conferenza del Wannsee del 20 gennaio 1942, l’assassinio sistematico era
già stato messo in opera dalle cosiddette Einsatzgruppen («squadre speciali»). Queste
unità mobili, dipendenti dall’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, avanzavano in
territorio baltico e ucraino al seguito della Wehrmacht (l’esercito regolare tedesco) ed
eseguivano la fucilazione in massa di ebrei, tra l’indifferenza e talora l’accorrere curioso
delle popolazioni locali.
Con questo sistema caddero da 1 500 000 a 1 800 000 vittime, ma fu subito evidente che
la soluzione era troppo lenta e dispendiosa per essere applicata in Polonia e in Europa
occidentale, senza contare le difficoltà materiali inerenti allo smaltimento dei cadaveri e le
conseguenze psicologiche su parte degli esecutori.
Si attivarono pertanto altre tecniche, dall’eutanasia con uso di farmaci e iniezioni letali ai
Gaswagen usati a Chelmno, dove le vittime erano fatte salire su camion sigillati e poi
asfissiate con il gas di scarico, fino ad arrivare alle camere con gas Zyklon B (acido
cianidrico). Questa soluzione, destinata a prevalere per la sua economicità (le vittime erano
uccise con il gas e i cadaveri smaltiti nei forni crematori) fu praticata sia in campi di
sterminio in senso proprio, cioè destinati alla sola eliminazione, come per esempio, in
Polonia, Chelmno, Belzec, Sobibor e Treblinka, sia in campi ad attività mista, come il più
grande di tutti, il campo di Auschwitz-Birkenau, cui faceva capo una serie di sottocampi di
lavoro, per esempio quello di Buna-Monowitz (a cui fu destinato Primo Levi), nato per
produrre gomma sintetica per la ditta tedesca I.G. Farben. Altri noti campi di
concentramento e sterminio erano quelli di Dachau (nei pressi di Monaco), Mauthausen (in
Austria) e san Sabba (a Trieste).
I numeri del genocidio Il totale delle vittime della ‘soluzione finale’ si aggira intorno ai sei
milioni di persone. La stima viene fatta sottraendo il numero dei sopravvissuti a quello
della popolazione ebraica all’inizio della guerra, perché i tedeschi distrussero la
documentazione minuziosissima in loro possesso. Solo ad Auschwitz furono assassinati
almeno un milione di ebrei e ve ne furono deportati 1 100 000.
2. Le colpevolezze e le responsabilità
[Secondo capitolo della tesina: incomincia ad approfondire l’argomento indicando colpevoli
e responsabili]
Il passato che non passa Anche da questo sommario resoconto ci si accorge subito che
la Shoah non è un problema storiografico che si possa serenamente affrontare come molti
altri. Del resto, iniziative recenti – dalla decisione del parlamento italiano di celebrare una
giornata commemorativa il 27 gennaio (ricorrenza della liberazione di Auschwitz, simbolo
della Shoah, dove le truppe sovietiche entrarono il 27 gennaio 1945) alla richiesta di
perdono del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II – dimostrano che, a distanza di oltre
mezzo secolo, lo sterminio degli ebrei continua a pesare sulla coscienza dell’Europa.
Decantate le emozioni del momento, venute alla luce le prove documentarie, quando ormai
la generazione dei testimoni oculari è prossima a scomparire per ragioni anagrafiche,
ritorna più angosciante la domanda: come è potuto accadere? Di chi furono le colpe e le
responsabilità?
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Il processo di Norimberga Il processo di Norimberga dal novembre 1945 all’ottobre 1946
sottopose a giudizio ventidue capi e responsabili del Terzo Reich per complotto, crimini di
guerra, delitti contro la pace e crimini contro l’umanità. Benché gli imputati si dichiarassero
non colpevoli per aver semplicemente eseguito degli ordini, furono inflitte dodici
condanne a morte oltre ad alcuni ergastoli e a pene di varia entità.
Ma la questione è ben lontana dall’essere chiusa.
In primo luogo il processo stesso venne contestato con la ragione che ai vincitori non
sarebbe stato lecito giudicare i vinti; inoltre si erano perse le tracce di molti criminali nazisti,
primo fra tutti il ‘ragioniere’ della morte Adolf Eichmann, colui che aveva fatto funzionare
con perfetta puntualità la macchina dello sterminio e che fu poi catturato nel 1960 in
Argentina, processato a Gerusalemme e impiccato nel maggio del 1962.
C’è da aggiungere che le colpe dei principali carnefici erano solo l’ultimo anello di una
catena di responsabilità assai più diffuse, da ripartire tra tutti i membri del complesso
apparato organizzativo dello sterminio: in primo luogo le SS (Schutzstaffel, «squadroni di
protezione», cioè gli esecutori materiali dello sterminio), che deliberatamente avevano
scelto di farsi esecutori diretti del crimine, ma anche i funzionari che organizzavano il
trasporto dei deportati, gli industriali della I.G. Farben, della Siemens, della Krupp che
sfruttavano i deportati come forza lavoro a costo irrisorio, e via via le ditte che fornivano i
forni crematori, i civili che operavano nei campi di sterminio, la popolazione ordinaria, che,
pur non accedendo ai campi, vedeva passare i treni carichi di detenuti e poi ritornare vuoti.
E tutti fingevano di ignorare quello che stava succedendo.
Le responsabilità attive Un’importante riflessione sul problema della responsabilità attiva
è maturato, dopo oltre un decennio di incubazione, con il processo ad Eichmann e
soprattutto in concomitanza con la pubblicazione del libro La banalità del male (Feltrinelli,
Milano 1999, ma comparso in prima edizione nel 1964), opera della studiosa ebreotedesca del totalitarismo Hannah Arendt, che aveva seguito il processo come inviata del
New Yorker. L’analisi della studiosa fu tanto più provocatoria perché non presentò la figura
del colonnello nazista come quella di un diabolico carnefice, ma come quella di un
meticoloso burocrate, privo di idee e di carattere, avvezzo solo a obbedire agli ordini senza
sforzarsi di capirne il senso: un’immagine che si ricava anche dal filmato del regista
israeliano Eyal Sivan, Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno (1999), costruito su
spezzoni del processo registrato a Gerusalemme. Vi si vede un Eichmann dall’aspetto
impiegatizio, pieno di tic nervosi, capace solo di alzarsi in piedi con rispetto ogniqualvolta si
rivolge alla corte per ripetere fino alla nausea il medesimo ritornello dei suoi colleghi a
Norimberga: che non aveva fatto altro che eseguire gli ordini!
Eppure non abbiamo notizie di persone che, per non aver eseguito gli ordini, abbiano
fatto la fine delle loro vittime; sappiamo invece, per esempio, che agli uomini del famigerato
Battaglione 101 della Polizia di riserva – uno dei tre battaglioni acquartierati nel distretto di
Lublino durante il massacro dei ghetti polacchi – era consentito tirarsi indietro sia prima sia
durante le azioni di massacro.
E sappiamo anche che i corpi speciali delle forze di polizia del Reich erano per la maggior
parte composti da volontari e che miliziani polacchi, lituani, ucraini e ungheresi spesso
collaborarono volontariamente con le SS soprattutto nella prima fase dello sterminio, in cui
si ricorreva alla fucilazione.
Le responsabilità passive Nell’estate del 1944 le informazioni concernenti Auschwitz
erano abbastanza precise da consentire agli alleati di prendere in considerazione l’ipotesi
di un bombardamento. I piloti alleati effettuavano missioni e ricognizioni nelle vicinanze
sorvolando le ciminiere dei forni crematori; il 13 settembre 1944 gli aerei americani
bombardarono il complesso industriale della I. G. Farben, divenuto un obiettivo strategico.
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Perché i comandi militari di Washington e di Londra non presero la decisione di
bombardare la rampa ferroviaria o almeno tratti della ferrovia su cui passavano i convogli
diretti ad Auschwitz? Certo, la linea sarebbe stata ben presto ripristinata, ma ai deportati
sarebbe giunto almeno un segnale di solidarietà e agli aguzzini sarebbe stato dimostrato
che il mondo sapeva e che alla fine della guerra avrebbero dovuto rendere conto del loro
operato.
In realtà, tutti sapevano tutto almeno dal novembre 1942, da quando Jan Karski, corriere
del governo polacco in esilio, durante una missione da Varsavia a Londra e negli Stati
Uniti, aveva consegnato appelli e richieste e aveva raccontato ad alti dignitari alleati –
compresi il presidente Roosevelt, dirigenti ebrei e giornalisti – le cose incredibili che aveva
visto nel ghetto di Varsavia e nel campo di Belzec. Ma ciascuno aveva le proprie ragioni
per fare finta di nulla: il Congresso ebraico mondiale temeva ritorni di antisemitismo; il
padre fondatore di Israele Ben Gurion pensava al dopoguerra e al futuro stato; il primo
ministro britannico Churchill e il presidente statunitense Roosevelt pensavano a vincere la
guerra: per loro la tragedia degli ebrei era un problema secondario.
La Croce Rossa internazionale sapeva tutto dei campi nazisti: inviò aiuti, ma i vertici
evitarono prese di posizione.
E così si preferì il silenzio alla denuncia, al soccorso, all’azione, lasciando mano libera a
Hitler. Ma quante vite umane sarebbero state salvate se almeno fossero state avvertite per
tempo dell’atroce destino che per loro si preparava?
3. Le interpretazioni della Shoah
[Questo ulteriore approfondimento entra nel vivo delle problematiche, chiedendosi che
cosa abbia reso possibile un evento così atroce, che ha coinvolto il popolo tedesco. Sono
chiamati in causa, come supporti culturali, l’antisemitismo, il razzismo, la teoria del
superuomo]
Tesi contrapposte Nella più recente storiografia del genocidio si distinguono due tesi
fondamentali. Secondo Daniel Goldhagen, responsabili dell’eccidio non furono solo le SS,
ma i tedeschi di ogni condizione ed estrazione sociale, che brutalizzarono gli ebrei per
libera scelta sulla scorta dell’antisemitismo secolare che assimilava queste vittime a una
forza demoniaca da eliminare.
Secondo Christopher R. Browning, invece, la responsabilità della Shoah non deve essere
attribuita a una particolare predisposizione alla ferocia del popolo tedesco, ma a un
meccanismo di abdicazione collettiva delle responsabilità da parte di uomini comuni.
Come succede quando due tesi nascono opposte e in polemica, è difficile che la verità stia
da una parte sola: certo, si potrebbe opporre alla visione di Browning che il perfetto
funzionamento della macchina dello sterminio presupponeva almeno una notevole
dedizione, a monte della quale c’erano la convinzione di essere nel giusto e il gusto di fare
ciò che si faceva. Goldhagen insiste molto, anche con idonea documentazione fotografica,
sul fatto che molti dei tedeschi coinvolti in atti violenti si compiacessero dell’ordinaria
crudeltà e, per una sorta di deformazione sadica, provassero divertimento nelle loro azioni
persecutorie. In opposizione, Browning cita confessioni o dichiarazioni in cui uomini
coinvolti nelle stragi come esecutori hanno momenti di ripensamento oppure si esimono dal
partecipare ad azioni giudicate ripugnanti.
Zygmunt Bauman, infine, individua un ulteriore elemento nel carattere
deresponsabilizzante della civiltà tecnocratica, per il quale ogni individuo che costituisce
un ingranaggio nella macchina della distruzione diviene moralmente indifferente di fronte
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alle azioni che superano la sua esperienza e non si chiede quale siano il senso e lo scopo
di ciò che sta facendo.
Ma ogni tentativo di spiegazione coglie determinati aspetti senza mai essere del tutto
esauriente. È certamente nel giusto Gadi Luzzatto Voghera, quando rileva la sproporzione
fra la grande complessità e dispendiosità della ‘soluzione finale’ rispetto a uno scopo che –
da qualsiasi lato lo si osservi – appare irrazionale e assurdo. Non è facile dire perché una
nazione impegnata in una durissima guerra di conquista, in un periodo pieno di difficoltà
come quello dal 1943 al 1945, abbia sottratto uomini e mezzi all’attività bellica per
deportare da tutta Europa una popolazione civile imbelle e scarsamente minacciosa.
Centinaia di migliaia di anziani, donne, bambini, vennero fatti viaggiare per giorni
occupando linee ferroviarie e una grande quantità di personale militare e civile, solo per
giungere in campi dove venivano avviati alle camere a gas e ai forni crematori.
Sicuramente in tutto questo giocò un ruolo determinante la componente mistica
dell’antisemitismo nazista, congiunta con alcuni pregiudizi antiebraici privi di fondamento
(il complotto ebraico ai danni dell’Occidente, il controllo dell’economia tedesca da parte
degli ebrei, la necessità di trovare uno ‘spazio vitale’ per i tedeschi) e con fobie personali di
Hitler (riteneva che sua madre fosse morta per colpa di un medico ebreo, sospettava di
avere un nonno ebreo).
Il ruolo dell'antisemitismo e del razzismo Tutti gli studiosi citati convengono
nell’individuare la premessa di lungo periodo della Shoah nell’antisemitismo ereditato nei
secoli e diffuso nella coscienza collettiva. È certo, tuttavia, che l’antigiudaismo della
tradizione poteva giustificare fenomeni isolati di persecuzione come se ne erano già avuti
molti nella storia, poteva creare indifferenza per la sorte degli ebrei e collaborazione con
chi li perseguitava, ma non avrebbe mai avuto la forza di innescare un crimine orrendo
come quello di voler sterminare tutti gli ebrei se non avesse trovato un punto di svolta, un
momento di non ritorno nello sposare il mito della razza e, in particolare, le teorie
pseudoscientifiche sulla superiorità della razza ariana.
La menzogna della razza La teoria razzista, peraltro, così come era formulata nel Saggio
sulla ineguaglianza delle razze umane del conte Joseph-Arthur de Gobineau (1853-1855),
conferiva una dimensione antropologica alla dottrina linguistica che distingueva un ceppo
indoeuropeo da un ceppo semitico, ma non implicava un decisa connotazione antisemita.
Essa infatti non era stata concepita contro gli ebrei, ma come supporto teorico
all’imperialismo ottocentesco, che aveva la necessità di motivare la colonizzazione in Africa
e in Asia in nome della superiorità razziale degli europei.
Fu Houston Stewart Chamberlain (un tedesco di origine inglese, da non confondere con il
primo ministro britannico) a teorizzare una razza ebraica opposta a quella ariana europea
e non mancò poi chi si diede pensiero di individuarne i tratti somatici (naso adunco,
orecchie sporgenti, piede piatto ecc.) e quelli comportamentali (gli ebrei erano usurai,
sudici, nevrotici, corpi estranei annidati nel popolo europeo). Si preparava così il terreno
alle violenze antisemite – fisiche o verbali e morali – che coinvolsero buona parte degli stati
europei a cavallo del secolo, per poi riprendere con virulenza dopo la prima guerra
mondiale, quando la rivoluzione russa del 1917 e i tentativi rivoluzionari in Germania e in
Ungheria rinvigorivano la teoria del complotto ebraico per rovesciare l’Occidente.
A questo punto il pregiudizio antisemita era abbastanza consolidato da fornire al Mein
Kampf di Hitler la base ideologica atta ad alimentare quella che Luzzatto Voghera chiama
«la componente mistica» dell’antisemitismo hitleriano.
In realtà non si può parlare di una razza ebraica omogenea né esistono caratteri
somatici comuni: quelli abitualmente ritenuti i tratti distintivi (naso curvo, capelli crespi,
colorito scuro ecc.) non sono esclusivi degli ebrei e compaiono anche in altre popolazioni
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mediterranee. L’origine di questo popolo (il cui nome la Bibbia fa derivare da Eber, un
antenato del patriarca Abramo, ma che secondo gli studiosi risale al termine habiru,
propriamente «predoni») si radica in gruppi di tribù nomadi attestate nel Vicino Oriente siroarabico dal secolo XX al XII a.C., nelle quali confluirono elementi etnici compositi (semiti,
hurriti, fuorusciti di varia provenienza ecc.).
L’invenzione di una razza ebraica risale dunque alle teorie ottocentesche e trova oggi
credito solo presso l’antisemitismo neonazista.
La dottrina del superuomo Contribuirono a rinsaldare il razzismo anche le interpretazioni
deviate della dottrina del superuomo.
Il superuomo (in tedesco Übermensch, «oltreuomo») di Nietzsche è la realizzazione
estrema dello spirito libero, che sta al di là dell’uomo del presente come questo sta al di là
della scimmia: l’uomo superiore è dunque la tappa che l’umanità deve raggiungere dopo la
morte di Dio, non volgendosi più alla metafisica e ai valori trascendenti ma volgendosi alla
terra, alla vita e all’esistenza creando valori e quindi priva di valori immutabili, vivendo al di
là del bene e del male. La traduzione «superuomo», dunque, non rende questo significato
di trascendenza della condizione umana, ma sembra indicarne un potenziamento.
Tutte queste espressioni – e le manipolazioni a cui il pensiero di Nietzsche fu sottoposto
con la pubblicazione nel 1906 dello scritto postumo La volontà di potenza – sono state
intese come il preannuncio di un’umanità superiore, migliorata e privilegiata in senso
evoluzionistico darwiniano.
La propaganda nazista si impadronì di queste dottrine, interessata a fare del filosofo
tedesco un anticipatore del primato della razza ariana. Stava dunque ai cultori della razza
il compito di potenziarla e migliorarla selezionando i soggetti che venivano fatti accoppiare
allo scopo di generare creature dai perfetti tratti somatici ariani, che dovevano poi essere
quelli della Germania del nord: occhi chiari, capelli biondi, corporatura atletica, incedere
marziale. Tutte fantasie smentite dal fatto che gli stessi gerarchi nazisti, fatta eccezione per
pochi, avevano tratti somatici tutt’altro che ariani.
Ma con queste stolte fantasie coesistevano sinistre implicazioni: difendere la razza
significava anche mantenerla pura dalle contaminazioni, eliminando i corpi estranei come
gli ebrei semiti, e praticare nei laboratori medici dei Lager crudeli quanto inutili esperimenti
sui corpi di miserabili vittime, improvvisandosi finti studiosi di un’ingegneria genetica che
aveva il solo scopo di fornire pretesti alla folle crudeltà di uomini come il famigerato dottor
Mengele.
4. La resistenza al genocidio e il soccorso agli ebrei
[In quest’ultimo capitolo, che è anche il più articolato, viene trattato un aspetto particolare
come specifico della tesina, e cioè il comportamento di governi e persone che si opposero
alla Shoah. Questo taglio permette di rintracciare qualche vicenda e qualche figura positiva
in un evento così truce, che continua a pesare sulla storia d’Europa, nonostante i tentativi
di rimozione]
4.1 Il comportamento dei governi
Il caso della Danimarca Nel 1940 l’esercito tedesco occupava il Regno di Danimarca. A
causa delle caratteristiche somatiche ariane, che gli alti e biondi danesi possedevano in
misura largamente superiore ai nazisti Hitler e Himmler (bassi di statura e neri di capelli)
ma anche della inconsistenza militare danese, i tedeschi accordarono una insolita
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autonomia a questo Paese. Lasciarono in piedi un governo nazionale, un Parlamento, un
Ministero degli Esteri e un esercito.
Ma la burocrazia nazista dello sterminio, capeggiata da uno ‘specialista’ dello sterminio
come Eichmann, non si dimenticò dei 6500 ebrei danesi.
Inizialmente vennero assunti provvedimenti discriminatori verso le imprese danesi di
proprietà ebrea; successivamente, nel 1942 si arrivò a escludere gli ebrei dalla vita
pubblica e dalla vita economica, pena l’arresto.
La situazione precipitò drasticamente nell’agosto del 1943, quando si diede inizio alla
persecuzione vera e propria, visto che anche il direttore del Ministero degli Esteri danese,
che pure si era adoperato in ogni modo per proteggere i cittadini ebrei, non riuscì a fermare
l’iniziativa tedesca di acquisizione dei dati relativi a tutti gli ebrei presenti nel Paese.
All’inizio di ottobre partirono le prime retate che, contrastate dagli sforzi della burocrazia
danese e in questo caso boicottate anche dalla Wehrmacht, non diedero i risultati sperati.
Dei 6000 ebrei che avrebbero dovuto essere deportati con navi e convogli, ne furono in
realtà rastrellati e trasferiti meno di 500. Gli altri, avvisati per tempo dalla solerte rete
informativa danese, riuscirono a nascondersi grazie all’aiuto della popolazione danese e
del governo svedese. Il fisico Niels Bohr fu tra i primi a raggiungere via mare il Paese
scandinavo, dove incontrò il ministro degli esteri e il re, e ottenne una pubblica denuncia di
quanto stava avvenendo e la disponibilità all’accoglienza degli altri profughi.
Una grande operazione di salvataggio Intanto in Danimarca si metteva in moto la
macchina organizzativa di quella che sarebbe stata una delle più memorabili azioni di
salvataggio della storia. Uomini di tutte le condizioni si adoperarono per reperire fondi e
mobilitare la flotta di pescatori che, attraverso il Sund, avrebbe dovuto portare in salvo
migliaia di persone.
L’iniziativa fu sostenuta dai vescovi della chiesa luterana danese e da tutta la popolazione,
che si accollò in grande parte l’onere finanziario che l’iniziativa comportava per non
insospettire i tedeschi che controllavano anche i fondi del governo danese e le riserve della
comunità ebraica.
Così, utilizzando centinaia di semplici barche, a costo della vita individuale e con rischio
per l'intera comunità, alcune migliaia di ebrei furono trasferiti in salvo, dalla costa danese
alle isole dei pescatori e di qui, su pescherecci, alla costa svedese. Il numero di caduti e
arrestati fu limitatissimo: si salvarono, protetti dal governo svedese, 5919 ebrei puri e quasi
2000 tra ebrei per metà e non ebrei sposati con ebrei.
Il comportamento della Spagna La Spagna fu uno dei Paesi europei in cui il salvataggio
degli ebrei fu superiore a quello delle democrazie antihitleriane. Si sarebbe portati a
pensare che questo Paese, soggetto alla dittatura di Franco, si sarebbe comportato come
l’Italia di Mussolini e avrebbe avuto leggi razziali altrettanto dure. Invece non fu così.
Alleato di Hitler e Mussolini che lo avevano aiutato a prendere il potere, al termine della
guerra civile, nel giugno del 1940, Franco dichiarò la Spagna ‘non belligerante’ e per tutta
la durata della guerra assicurò a Hitler il proprio appoggio, ma rifiutò di prendere parte alle
azioni militari, benché venissero richieste da Berlino con sempre maggiore insistenza.
Anche sulla questione ebraica Franco si mantenne indipendente dai suoi amici, anzi favorì
in ogni modo le operazioni di salvataggio facendo fuggire circa 45 000 ebrei non solo
spagnoli, ma anche giunti da altri Paesi europei (Francia, Romania, Ungheria, Grecia),
attraverso la via dei Pirenei e poi facendoli imbarcare a Lisbona alla volta dei Paesi alleati.
Nel dopoguerra non si è parlato molto del rapporto tra Franco e gli ebrei europei: nell’unica
intervista su questo tema il Generalissimo si limitò a confermare le cifre e spiegò
laconicamente il suo atteggiamento come un «elementare senso di giustizia e carità
cristiana». Alcuni storici hanno messo in luce altre possibili ragioni, tra cui l'intuizione
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dell’esito finale della guerra, l’intenzione di ristabilire contatti politici e commerciali con gli
ebrei del Mediterraneo, la volontà di Franco di avere un posto nobile nella storia e una sua
possibile ascendenza ebraica.
Indipendentemente da quelle che possono essere state per Franco le ragioni del suo
atteggiamento, esso dimostra che un Paese alleato della Germania non necessariamente
doveva adottare i medesimi provvedimenti. E questo è un argomento di condanna per
l’Italia, per Mussolini e per Vittorio Emanuele III, che nel 1938 firmò leggi razziali di
estremo rigore e le mantenne anche dopo la caduta del fascismo l’8 settembre 1943. Dei
circa 330 000 ebrei italiani ne furono deportati quasi 8000, dei quali fece ritorno meno del
dieci per cento.
4.2 La resistenza politica
La resistenza al nazismo Si è soliti parlare della resistenza ai regimi assolutistici
nazionali, ma in genere non si parla della resistenza politica al nazismo. È un fatto che lo
scoppio della guerra rese difficili le condizioni di intervento per questo tipo di resistenza sia
perché in generale i tedeschi simpatizzarono con il regime, coinvolti dalla propaganda,
dall’ebbrezza delle prime vittorie e dalla forza unificante del razzismo e dell’antisemitismo,
sia perché il controllo poliziesco della Gestapo (Geheime Staatspolizei, «Polizia segreta di
stato») reprimeva ogni forma di opposizione.
Tuttavia è doveroso ricordare che, anche se non ebbe modo di organizzarsi, vi fu un
movimento di opposizione a largo spettro politico, che, dall’iniziale appartenenza di
singoli membri del movimento operaio e di religiosi spinti dalla loro coscienza nonostante la
politica acquiescente delle rispettive chiese, si allargò anche all’interno dei circoli di potere
che in un primo momento avevano seguito Hitler ma poi, di fronte alla sua politica
criminale, avevano riveduto le proprie posizioni.
La difficoltà del coordinamento indusse per lo più a intraprendere azioni individuali o di
piccoli gruppi, volte all’assassinio del tiranno o al sabotaggio militare, nella convinzione
che soltanto una sconfitta militare avrebbe consentito la liberazione dal nazismo.
La resistenza nei Lager Quello di resistenza è un concetto essenzialmente politico, che
non trova campo di applicazione in ambienti coercitivi come il ghetto o carcerari come il
Lager: di fronte alla determinazione nazista di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra, la
forma più elementare di resistenza era quella di salvare la vita con la fuga. Anche se la
mentalità ebraica non fosse stata – come invece era per ragioni culturali di lungo periodo –
più portata a subire che a ribellarsi, quale possibilità di ribellione diversa dal suicidio o dal
tentativo di fuga rimaneva a chi giungeva nel campo di sterminio e nel giro di due ore
entrava nella camera a gas?
Tuttavia, vi furono ribellioni di ebrei. La più nota è quella del ghetto di Varsavia (aprilemaggio del 1943), che finì in un’orrenda carneficina; il 2 agosto dello stesso anno vi fu la
rivolta del campo di Treblinka, alla quale parteciparono circa seicento prigionieri armati di
asce e coltelli, dei quali pochi riuscirono a fuggire; il 1° settembre vi fu un tentativo di rivolta
nel ghetto di Vilnius, in Lituania; il 14 ottobre prigionieri del campo di Sobibor uccisero
dieci SS. Infine, nell’ottobre 1944 la rivolta dei Sonderkommando (le «squadre speciali» di
detenuti che lavoravano all’interno dei crematori) di Auschwitz.
La voce dei ‘sommersi’ Proprio nel cuore della Shoah porta il libro intitolato La voce dei
sommersi (Marsilio, Padova 1999), che è la traduzione italiana della pubblicazione, fatta
nel 1996 dal Museo di Auschwitz, di alcuni manoscritti di membri dei Sonderkommando di
Auschwitz, da loro nascosti in recipienti improvvisati e tornati alla luce durante scavi nel
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terreno presso i crematori. Gli appunti e i resoconti lasciati da questi disgraziati, costretti a
farsi collaboratori del crimine (sgomberare le camere a gas, far funzionare i forni, strappare
i denti d’oro ai cadaveri ecc.) e destinati a essere a loro volta eliminati, sono una
testimonianza sconvolgente, la voce di Caino costretto a uccidere il proprio fratello.
Come ripete con insistenza Primo Levi, era assillante nei detenuti del Lager l’idea che delle
atrocità che ogni giorno subivano non sarebbe giunta notizia ai posteri perché i tedeschi ne
avrebbero cancellate le prove. Per questo alcuni ebrei trovarono la forza di affidare a
pagine improvvisate di taccuini di fortuna l’esperienza dello sterminio. Ma, in quanto
membri delle squadre speciali, questi miserabili erano anche preoccupati all’idea che sopra
di loro potesse ricadere una parte di colpa.
Dopo anni di silenzio, questi documenti sono oggi tanto più importanti in un’epoca in cui si
allarga di giorno in giorno il cosiddetto ‘revisionismo’, cioè la tendenza a ridimensionare,
sminuire, talora addirittura negare il crimine che grava sul passato prossimo dell’Europa
civile e in particolare della Germania.
La rivolta dei Sonderkommando di Auschwitz il 7 ottobre 1944 Tra gli ebrei addetti al
Sonderkommando c’era una cellula di resistenza interna le cui attività andavano
dall’approvvigionamento di cibo e medicinali alla documentazione dei crimini
all’organizzazione di fughe e sabotaggi. In vista della liquidazione totale del campo, che
avrebbe comportato anche l’eliminazione delle squadre speciali, si cercò di organizzare
una rivolta che avrebbe permesso ai prigionieri di fuggire. In realtà, questo progetto non fu
messo in atto perché molti, soprattutto polacchi e sovietici che erano i più attivi nelle file
della resistenza, furono trasferiti in altri campi. Inoltre, il movimento di resistenza polacco
riteneva che un'insurrezione generale avrebbe avuto poche possibilità di successo a causa
del numero enorme di internati.
Ci furono però, nel corso della storia del Lager, rivolte di singole parti del campo. La più
estesa fu organizzata il 7 ottobre dagli ebrei dei Sonderkommando. Essi erano
continuamente sotto minaccia di morte: per il terribile lavoro che erano costretti a compiere,
sapevano che i tedeschi li avrebbero eliminati in quanto testimoni dello sterminio. Quando
l’attività delle camere a gas cominciò a diminuire e fu chiaro che il pericolo era per loro
imminente, decisero di rischiare la vita e prepararono i piani per una insurrezione:
avrebbero dovuto far saltare i crematori, incendiare le baracche, recidere il filo spinato per
aprirsi una via di fuga. Il segnale sarebbe stato l'incendio del crematorio IV. Così avvenne.
Nel crematorio Il i ribelli riuscirono a uccidere i tedeschi, a raggiungere il cortile e, dopo
aver aperto una breccia nel filo spinato, a fuggire. Ma le SS ripresero quasi subito il
controllo della situazione: i membri dei Sonderkommando ancora nel campo vennero
uccisi, mentre i fuggiaschi, allontanatisi di poco, vennero arsi vivi nel fienile dove avevano
trovato rifugio. Alla fine, i tedeschi contarono solo tre morti; i quattrocento ribelli morirono
quasi tutti.
Lo sfortunato tentativo dei Sonderkommando di Auschwitz dimostra che gli ebrei non
accettarono passivamente la segregazione e le terribili condizioni in cui erano costretti a
vivere nel Lager: certo, la loro lotta si rivelò fin dall'inizio impari e le possibilità di successo
della rivolta erano oggettivamente molto scarse. Fuggire da Auschwitz era molto difficile; il
campo era ben sorvegliato: oltre al recinto vero e proprio c'era una zona di isolamento di
circa 40 chilometri e le zone limitrofe al campo erano abitate o dalle famiglie delle SS o da
coloni tedeschi insediati nelle fattorie dei polacchi sfrattati.
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4.3 I ‘giusti delle nazioni’ e i benemeriti della Shoah
Raoul Wallenberg Nella tenebra della Shoah, accanto a zone grigie c’è anche qualche
fascio di luce: ci si limita qui ai due nomi dello svedese Raoul Wallenberg e dell’italiano
Giorgio Perlasca.
Diplomatico di professione, inviato speciale del re di Svezia su richiesta del governo degli
Stati Uniti e di altri Paesi, Wallenberg opera a Budapest dal luglio del 1944 fino all’entrata
in città dell’Armata Rossa nel gennaio 1945, salvando decine di migliaia di ebrei
ungheresi con ogni mezzo possibile.
Nel 1945 sparisce dall’Ungheria dopo l’arrivo dei liberatori sovietici. Nei decenni sono state
avanzate diverse ipotesi sulla sua fine, compresa quella – sostenuta dai suoi familiari – che
egli sia ancora vivo e prigioniero nella ex Unione Sovietica.
La versione ufficiale, data nel 1987 dalle autorità di Mosca che fino a quel momento
avevano sempre negato di avere notizie di Wallenberg, è che egli morì nel luglio 1947 nella
prigione del KGB per collasso cardiaco: il suo arresto e la detenzione venivano spiegati
come un tragico errore dovuto alla confusione di quei giorni di guerra.
Nel gennaio 2001, sui mezzi d’informazione si diffuse notizia dei risultati delle indagini di
una commissione russo-svedese, secondo la quale non ci sarebbero dati certi della morte
di Wallenberg e, al contrario, ci sarebbero testimonianze che lo descrivono in vita dopo il
1947. Secondo un ex ufficiale del KGB, egli sarebbe morto in carcere nel 1992.
Subito la notizia destò interventi polemici e in particolare il sospetto che in realtà si
cercasse di coprire questa morte scomoda. Qualcuno pensa che Wallenberg potesse avere
le prove dei crimini sovietici, delle loro persecuzioni anti-ebraiche, come pure la prova che
l’esercito sovietico non volle intervenire nel ghetto di Varsavia ribellatosi ai nazisti e che
lasciò massacrare la resistenza antinazista.
In effetti, non si spiega come mai l’ex Unione Sovietica non abbia fornito prove né
dell’arresto né del processo né della condanna subita da Wallenberg, tanto più che non si
trattava di un qualsiasi prigioniero, ma di un diplomatico svedese protetto da immunità.
Giorgio Perlasca Originario di Como ma trasferitosi a Padova per la propria attività di
commerciante in carni, Giorgio Perlasca (1910-1992), iscritto al partito fascista, aveva
combattuto in Spagna come volontario per Franco. Dal 1941 si trovava a Budapest per
lavoro, ma nel ’43 si rifiutò di aderire alla Repubblica sociale e fu rinchiuso in un campo di
internamento, da cui riuscì a fuggire rifugiandosi nella legazione di Spagna, dove il Ministro
gli procurò un passaporto spagnolo e una tessera diplomatica. In quel periodo ebbe modo
di assistere all'uccisione di un bambino ebreo e poi ai massacri compiuti dai nazisti e non
riuscì a rimanere indifferente.
Inizia così una storia che ha dell’incredibile. Nell’inverno del 1944, quando il console di
Spagna decise di darsi alla fuga, spaventato dalla piega che gli avvenimenti stavano
prendendo tra la dominazione nazista in Bulgaria e l’avanzata delle truppe sovietiche,
Perlasca lo convinse a cedergli le sue credenziali. In questo ruolo insolito, spacciandosi
per console di Spagna e issando bandiere spagnole su edifici che riusciva a farsi
consegnare o prendeva in affitto a sue spese, Perlasca riuscì a salvare da solo 5700 ebrei
d’Ungheria facendoli passare per spagnoli con documenti falsi, addirittura tirandoli giù dai
treni sui quali stavano per essere avviati alla deportazione, poi proteggendoli in virtù
dell’extraterritorialità nelle case-rifugio allestite.
In queste condizioni rocambolesche, dunque, Perlasca salvò da solo un numero di persone
non troppo lontano dagli 8000 ebrei italiani che le leggi razziali, firmate da Vittorio
Emanuele III, mandavano a morire in Germania.
Come nessuno dei responsabili della deportazione sarebbe stato punito, così nessuno si
occupò di Perlasca, neppure quando nel 1987 fu ‘scoperto’ da persone da lui salvate
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residenti a Berlino; morì a Padova nel 1992, qualche anno dopo che Israele gli aveva
attribuito il riconoscimento di ‘giusto delle nazioni’ (così sono chiamati i non ebrei che
hanno salvato ebrei dallo sterminio) e lo aveva invitato a piantare un albero nella Strada
dei Giusti sul monte della Rimembranza a Gerusalemme.
La sua vicenda è stata resa nota dal libro di Deaglio, La banalità del bene (Feltrinelli,
Milano 1991), e ora anche dal film RAI di Alberto Negrin, Perlasca. Un eroe italiano (2002).
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