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I `sommersi` e i `giusti` nella tragedia della Shoah
Testo della ‘tesina’ I ‘sommersi’ e i ‘giusti’ nella tragedia della Shoah Premessa [È la pagina introduttiva: presenta l’argomento e gli estremi della trattazione] Olocausto e Shoah Il termine ebraico Shoah significa «distruzione», «annientamento», e indica lo sterminio degli ebrei d’Europa perpetrato dalla Germania nazista nel corso della seconda guerra mondiale. Esso viene ormai preferito a ‘Olocausto’ (termine composto dalle radici greche di hólos, «tutto intero» e káio, «brucio»: quindi un sacrificio in cui la vittima viene completamente bruciata), che riveste lo sterminio di una patina sacrale del tutto estranea a un assassinio di massa spiegabile solo con la volontà criminale di chi ne è stato responsabile. Dedicheremo solo una breve panoramica all’evento della Shoah, e poi alle colpe e alle responsabilità a essa connesse, che sono gli aspetti più presenti nel dibattito storiografico. I ‘sommersi’ Ci occuperemo invece di due aspetti abbastanza marginali ma importanti, in quanto rappresentano i due poli estremi di questo evento così sconvolgente da rendere insoddisfacente qualsiasi tipo di spiegazione, e cioè, da una parte i cosiddetti ‘sommersi’, dall’altra i cosiddetti ‘giusti’. Primo Levi, nel suo libro, così definisce i ‘sommersi’: Non siamo noi i superstiti, i testimoni veri. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato integrale. […] Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso per conto di terzi, il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta non l’ha raccontata nessuno come nessuno è tornato mai a raccontare la propria morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. (P. Levi, I sommersi e i salvati, cit. pp. 64-65) Come spunto di riflessione sul tema si può leggere questo passo delle memorie scritte da Rudolf Höss, il comandante del campo di Auschwitz, un criminale senza pietà, che rimane allibito di fronte al comportamento di uno dei membri dei Sonderkommando (le squadre di deportati addette a sgomberare le camere a gas, a far funzionare i forni ecc.): Nell’estrarre i cadaveri da una camera a gas, improvvisamente uno dei Sonderkommando si arrestò, rimase per un istante come fulminato, quindi riprese il lavoro con gli altri. Chiesi al kapo che cosa fosse successo: disse che l’ebreo aveva scoperto tra gli altri il cadavere della moglie. Continuai ancora a osservarlo per un certo tempo, ma non riuscii a scorgere in lui alcun atteggiamento particolare. Continuava a trascinare i suoi cadaveri, come aveva fatto fino allora. Quando, dopo un poco, ritornai al comando, lo vidi seduto a mangiare in mezzo agli altri, come se nulla fosse accaduto. Possedeva una capacità sovrumana di celare le proprie emozioni, o era diventato talmente insensibile da non saper più reagire? Che cosa dava agli ebrei del Sonderkommando la forza di assolvere giorno e notte a un compito così orrendo? Speravano forse in un evento particolare che li salvasse dalla morte all’ultimo momento? O gli orrori a cui avevano assistito avevano ucciso in loro la sensibilità, oppure, ancora, erano troppo deboli per farla finita da sé e sottrarsi così a quell’“esistenza”? Li ho osservati molto a lungo e attentamente, ma non sono in grado di dare spiegazioni sul loro comportamento. (R. Höss, Comandante ad Auschwitz, trad. it., Einaudi, Torino 1995, pp. 134-135) 1 I ‘giusti’ I cosiddetti ‘giusti’ o ‘giusti delle nazioni’, sono i non ebrei che hanno salvato ebrei dallo sterminio e che, dopo essersi prodigati mettendo a rischio la vita per salvare esseri umani, sono scomparsi o si sono ritirati nel silenzio della loro vita privata, dal quale non sarebbero emersi se qualcuno dei beneficati non li avesse ritrovati. Per illustrare questo tipo di comportamento si può fare riferimento alla frase fin troppo nota, anche se non per questo meno significativa, pronunciata da Giorgio Perlasca al giornalista Enrico Deaglio che gli chiedeva perché avesse messo in atto un piano al limite dell’assurdo per salvare alcune migliaia di ebrei: «Lei, al mio posto, che cosa avrebbe fatto?» 1. Tempi, luoghi, entità dello sterminio [Questo primo capitolo fornisce l’informazione di base necessaria per inquadrare l’evento della Shoah, dicendo dove e come si è svolto, quali ne sono state le proporzioni] La ‘soluzione finale’ Benché chiamato eufemisticamente dai tedeschi Endlösung («soluzione finale»), lo sterminio degli ebrei ha il carattere di un genocidio (parola composta dal greco ghénos, «stirpe» e dal latino caedo, «uccido») programmato e perseguito con fredda determinazione. Esso rappresenta il risultato finale dell’antisemitismo storico, maturato nelle sue punte più avanzate tra Ottocento e Novecento e legato all’ascesa al potere di Hitler, in Germania, nel 1933. Secondo la periodizzazione corrente, il processo di distruzione degli ebrei seguì tre fasi, distinte da politiche differenti. La prima fase dello sterminio Una prima fase, dal 1933 al 1939, prevede la soluzione ancora cauta dell’emigrazione allo scopo di rendere la Germania Judenfrei («libera da ebrei»). L’antisemitismo prende corpo nel settembre del 1935 con le leggi di Norimberga, che privano gli ebrei della nazionalità tedesca e, attraverso una serie di divieti, li escludono dalla vita civile e dall’economia. L’anno fondamentale di questa prima fase è il 1938, quando l’annessione dell’Austria alla Germania offre un banco di prova delle misure antiebraiche che riducono gli ebrei in condizioni di vita disumane, mentre i timidi tentativi di giungere a una soluzione internazionale per risolvere il problema degli ebrei allontanati dalla Germania nazionalsocialista falliscono con la conferenza di Evian del luglio 1938, in cui appare chiaro che non vi sono Paesi disposti ad accogliere i profughi ebrei. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938 (Kristallnacht, «Notte dei cristalli»), con il pretesto dell’uccisione a Parigi di un diplomatico tedesco per mano di un giovane ebreo, viene scatenato in tutta la Germania un grande pogrom («eccidio») nel quale sono incendiate sinagoghe, mandate in frantumi finestre e vetrine di negozi appartenenti a ebrei e vengono assassinati un centinaio di ebrei. Subito dopo decine di migliaia di ebrei vengono chiusi nei campi di Dachau e Sachsenhausen per indurre gli altri all’emigrazione. Intanto le leggi razziali vengono emanate anche nei Paesi governati da regimi che collaborano con Hitler, come Austria, Italia, Olanda. La seconda fase La seconda fase della politica di sterminio dura dal 1939 al 1941 e ha inizio con l’entrata in guerra della Germania nel 1939. La soluzione del problema ebraico si orienta verso l’eliminazione fisica quando l’occupazione della Polonia e dei territori sovietici comporta l’ingresso in questi Paesi di un elevato numero di ebrei (tre milioni nella sola Polonia) poverissimi, per i quali vengono riprese sinistre usanze del passato, dalla stella gialla di riconoscimento che sono obbligati a portare cucita sul vestito, alla reclusione nei nuovi ghetti di Varsavia, Cracovia, Riga ecc. 2 L’ultima fase e l’eccidio La terza fase, quella dell’eccidio vero e proprio, inizia nel 1941 con l’ingresso delle truppe tedesche in Unione Sovietica. Prima ancora che la Endlösung («soluzione finale») fosse definitivamente approvata e organizzata dallo stato maggiore nazista nella Conferenza del Wannsee del 20 gennaio 1942, l’assassinio sistematico era già stato messo in opera dalle cosiddette Einsatzgruppen («squadre speciali»). Queste unità mobili, dipendenti dall’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, avanzavano in territorio baltico e ucraino al seguito della Wehrmacht (l’esercito regolare tedesco) ed eseguivano la fucilazione in massa di ebrei, tra l’indifferenza e talora l’accorrere curioso delle popolazioni locali. Con questo sistema caddero da 1 500 000 a 1 800 000 vittime, ma fu subito evidente che la soluzione era troppo lenta e dispendiosa per essere applicata in Polonia e in Europa occidentale, senza contare le difficoltà materiali inerenti allo smaltimento dei cadaveri e le conseguenze psicologiche su parte degli esecutori. Si attivarono pertanto altre tecniche, dall’eutanasia con uso di farmaci e iniezioni letali ai Gaswagen usati a Chelmno, dove le vittime erano fatte salire su camion sigillati e poi asfissiate con il gas di scarico, fino ad arrivare alle camere con gas Zyklon B (acido cianidrico). Questa soluzione, destinata a prevalere per la sua economicità (le vittime erano uccise con il gas e i cadaveri smaltiti nei forni crematori) fu praticata sia in campi di sterminio in senso proprio, cioè destinati alla sola eliminazione, come per esempio, in Polonia, Chelmno, Belzec, Sobibor e Treblinka, sia in campi ad attività mista, come il più grande di tutti, il campo di Auschwitz-Birkenau, cui faceva capo una serie di sottocampi di lavoro, per esempio quello di Buna-Monowitz (a cui fu destinato Primo Levi), nato per produrre gomma sintetica per la ditta tedesca I.G. Farben. Altri noti campi di concentramento e sterminio erano quelli di Dachau (nei pressi di Monaco), Mauthausen (in Austria) e san Sabba (a Trieste). I numeri del genocidio Il totale delle vittime della ‘soluzione finale’ si aggira intorno ai sei milioni di persone. La stima viene fatta sottraendo il numero dei sopravvissuti a quello della popolazione ebraica all’inizio della guerra, perché i tedeschi distrussero la documentazione minuziosissima in loro possesso. Solo ad Auschwitz furono assassinati almeno un milione di ebrei e ve ne furono deportati 1 100 000. 2. Le colpevolezze e le responsabilità [Secondo capitolo della tesina: incomincia ad approfondire l’argomento indicando colpevoli e responsabili] Il passato che non passa Anche da questo sommario resoconto ci si accorge subito che la Shoah non è un problema storiografico che si possa serenamente affrontare come molti altri. Del resto, iniziative recenti – dalla decisione del parlamento italiano di celebrare una giornata commemorativa il 27 gennaio (ricorrenza della liberazione di Auschwitz, simbolo della Shoah, dove le truppe sovietiche entrarono il 27 gennaio 1945) alla richiesta di perdono del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II – dimostrano che, a distanza di oltre mezzo secolo, lo sterminio degli ebrei continua a pesare sulla coscienza dell’Europa. Decantate le emozioni del momento, venute alla luce le prove documentarie, quando ormai la generazione dei testimoni oculari è prossima a scomparire per ragioni anagrafiche, ritorna più angosciante la domanda: come è potuto accadere? Di chi furono le colpe e le responsabilità? 3 Il processo di Norimberga Il processo di Norimberga dal novembre 1945 all’ottobre 1946 sottopose a giudizio ventidue capi e responsabili del Terzo Reich per complotto, crimini di guerra, delitti contro la pace e crimini contro l’umanità. Benché gli imputati si dichiarassero non colpevoli per aver semplicemente eseguito degli ordini, furono inflitte dodici condanne a morte oltre ad alcuni ergastoli e a pene di varia entità. Ma la questione è ben lontana dall’essere chiusa. In primo luogo il processo stesso venne contestato con la ragione che ai vincitori non sarebbe stato lecito giudicare i vinti; inoltre si erano perse le tracce di molti criminali nazisti, primo fra tutti il ‘ragioniere’ della morte Adolf Eichmann, colui che aveva fatto funzionare con perfetta puntualità la macchina dello sterminio e che fu poi catturato nel 1960 in Argentina, processato a Gerusalemme e impiccato nel maggio del 1962. C’è da aggiungere che le colpe dei principali carnefici erano solo l’ultimo anello di una catena di responsabilità assai più diffuse, da ripartire tra tutti i membri del complesso apparato organizzativo dello sterminio: in primo luogo le SS (Schutzstaffel, «squadroni di protezione», cioè gli esecutori materiali dello sterminio), che deliberatamente avevano scelto di farsi esecutori diretti del crimine, ma anche i funzionari che organizzavano il trasporto dei deportati, gli industriali della I.G. Farben, della Siemens, della Krupp che sfruttavano i deportati come forza lavoro a costo irrisorio, e via via le ditte che fornivano i forni crematori, i civili che operavano nei campi di sterminio, la popolazione ordinaria, che, pur non accedendo ai campi, vedeva passare i treni carichi di detenuti e poi ritornare vuoti. E tutti fingevano di ignorare quello che stava succedendo. Le responsabilità attive Un’importante riflessione sul problema della responsabilità attiva è maturato, dopo oltre un decennio di incubazione, con il processo ad Eichmann e soprattutto in concomitanza con la pubblicazione del libro La banalità del male (Feltrinelli, Milano 1999, ma comparso in prima edizione nel 1964), opera della studiosa ebreotedesca del totalitarismo Hannah Arendt, che aveva seguito il processo come inviata del New Yorker. L’analisi della studiosa fu tanto più provocatoria perché non presentò la figura del colonnello nazista come quella di un diabolico carnefice, ma come quella di un meticoloso burocrate, privo di idee e di carattere, avvezzo solo a obbedire agli ordini senza sforzarsi di capirne il senso: un’immagine che si ricava anche dal filmato del regista israeliano Eyal Sivan, Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno (1999), costruito su spezzoni del processo registrato a Gerusalemme. Vi si vede un Eichmann dall’aspetto impiegatizio, pieno di tic nervosi, capace solo di alzarsi in piedi con rispetto ogniqualvolta si rivolge alla corte per ripetere fino alla nausea il medesimo ritornello dei suoi colleghi a Norimberga: che non aveva fatto altro che eseguire gli ordini! Eppure non abbiamo notizie di persone che, per non aver eseguito gli ordini, abbiano fatto la fine delle loro vittime; sappiamo invece, per esempio, che agli uomini del famigerato Battaglione 101 della Polizia di riserva – uno dei tre battaglioni acquartierati nel distretto di Lublino durante il massacro dei ghetti polacchi – era consentito tirarsi indietro sia prima sia durante le azioni di massacro. E sappiamo anche che i corpi speciali delle forze di polizia del Reich erano per la maggior parte composti da volontari e che miliziani polacchi, lituani, ucraini e ungheresi spesso collaborarono volontariamente con le SS soprattutto nella prima fase dello sterminio, in cui si ricorreva alla fucilazione. Le responsabilità passive Nell’estate del 1944 le informazioni concernenti Auschwitz erano abbastanza precise da consentire agli alleati di prendere in considerazione l’ipotesi di un bombardamento. I piloti alleati effettuavano missioni e ricognizioni nelle vicinanze sorvolando le ciminiere dei forni crematori; il 13 settembre 1944 gli aerei americani bombardarono il complesso industriale della I. G. Farben, divenuto un obiettivo strategico. 4 Perché i comandi militari di Washington e di Londra non presero la decisione di bombardare la rampa ferroviaria o almeno tratti della ferrovia su cui passavano i convogli diretti ad Auschwitz? Certo, la linea sarebbe stata ben presto ripristinata, ma ai deportati sarebbe giunto almeno un segnale di solidarietà e agli aguzzini sarebbe stato dimostrato che il mondo sapeva e che alla fine della guerra avrebbero dovuto rendere conto del loro operato. In realtà, tutti sapevano tutto almeno dal novembre 1942, da quando Jan Karski, corriere del governo polacco in esilio, durante una missione da Varsavia a Londra e negli Stati Uniti, aveva consegnato appelli e richieste e aveva raccontato ad alti dignitari alleati – compresi il presidente Roosevelt, dirigenti ebrei e giornalisti – le cose incredibili che aveva visto nel ghetto di Varsavia e nel campo di Belzec. Ma ciascuno aveva le proprie ragioni per fare finta di nulla: il Congresso ebraico mondiale temeva ritorni di antisemitismo; il padre fondatore di Israele Ben Gurion pensava al dopoguerra e al futuro stato; il primo ministro britannico Churchill e il presidente statunitense Roosevelt pensavano a vincere la guerra: per loro la tragedia degli ebrei era un problema secondario. La Croce Rossa internazionale sapeva tutto dei campi nazisti: inviò aiuti, ma i vertici evitarono prese di posizione. E così si preferì il silenzio alla denuncia, al soccorso, all’azione, lasciando mano libera a Hitler. Ma quante vite umane sarebbero state salvate se almeno fossero state avvertite per tempo dell’atroce destino che per loro si preparava? 3. Le interpretazioni della Shoah [Questo ulteriore approfondimento entra nel vivo delle problematiche, chiedendosi che cosa abbia reso possibile un evento così atroce, che ha coinvolto il popolo tedesco. Sono chiamati in causa, come supporti culturali, l’antisemitismo, il razzismo, la teoria del superuomo] Tesi contrapposte Nella più recente storiografia del genocidio si distinguono due tesi fondamentali. Secondo Daniel Goldhagen, responsabili dell’eccidio non furono solo le SS, ma i tedeschi di ogni condizione ed estrazione sociale, che brutalizzarono gli ebrei per libera scelta sulla scorta dell’antisemitismo secolare che assimilava queste vittime a una forza demoniaca da eliminare. Secondo Christopher R. Browning, invece, la responsabilità della Shoah non deve essere attribuita a una particolare predisposizione alla ferocia del popolo tedesco, ma a un meccanismo di abdicazione collettiva delle responsabilità da parte di uomini comuni. Come succede quando due tesi nascono opposte e in polemica, è difficile che la verità stia da una parte sola: certo, si potrebbe opporre alla visione di Browning che il perfetto funzionamento della macchina dello sterminio presupponeva almeno una notevole dedizione, a monte della quale c’erano la convinzione di essere nel giusto e il gusto di fare ciò che si faceva. Goldhagen insiste molto, anche con idonea documentazione fotografica, sul fatto che molti dei tedeschi coinvolti in atti violenti si compiacessero dell’ordinaria crudeltà e, per una sorta di deformazione sadica, provassero divertimento nelle loro azioni persecutorie. In opposizione, Browning cita confessioni o dichiarazioni in cui uomini coinvolti nelle stragi come esecutori hanno momenti di ripensamento oppure si esimono dal partecipare ad azioni giudicate ripugnanti. Zygmunt Bauman, infine, individua un ulteriore elemento nel carattere deresponsabilizzante della civiltà tecnocratica, per il quale ogni individuo che costituisce un ingranaggio nella macchina della distruzione diviene moralmente indifferente di fronte 5 alle azioni che superano la sua esperienza e non si chiede quale siano il senso e lo scopo di ciò che sta facendo. Ma ogni tentativo di spiegazione coglie determinati aspetti senza mai essere del tutto esauriente. È certamente nel giusto Gadi Luzzatto Voghera, quando rileva la sproporzione fra la grande complessità e dispendiosità della ‘soluzione finale’ rispetto a uno scopo che – da qualsiasi lato lo si osservi – appare irrazionale e assurdo. Non è facile dire perché una nazione impegnata in una durissima guerra di conquista, in un periodo pieno di difficoltà come quello dal 1943 al 1945, abbia sottratto uomini e mezzi all’attività bellica per deportare da tutta Europa una popolazione civile imbelle e scarsamente minacciosa. Centinaia di migliaia di anziani, donne, bambini, vennero fatti viaggiare per giorni occupando linee ferroviarie e una grande quantità di personale militare e civile, solo per giungere in campi dove venivano avviati alle camere a gas e ai forni crematori. Sicuramente in tutto questo giocò un ruolo determinante la componente mistica dell’antisemitismo nazista, congiunta con alcuni pregiudizi antiebraici privi di fondamento (il complotto ebraico ai danni dell’Occidente, il controllo dell’economia tedesca da parte degli ebrei, la necessità di trovare uno ‘spazio vitale’ per i tedeschi) e con fobie personali di Hitler (riteneva che sua madre fosse morta per colpa di un medico ebreo, sospettava di avere un nonno ebreo). Il ruolo dell'antisemitismo e del razzismo Tutti gli studiosi citati convengono nell’individuare la premessa di lungo periodo della Shoah nell’antisemitismo ereditato nei secoli e diffuso nella coscienza collettiva. È certo, tuttavia, che l’antigiudaismo della tradizione poteva giustificare fenomeni isolati di persecuzione come se ne erano già avuti molti nella storia, poteva creare indifferenza per la sorte degli ebrei e collaborazione con chi li perseguitava, ma non avrebbe mai avuto la forza di innescare un crimine orrendo come quello di voler sterminare tutti gli ebrei se non avesse trovato un punto di svolta, un momento di non ritorno nello sposare il mito della razza e, in particolare, le teorie pseudoscientifiche sulla superiorità della razza ariana. La menzogna della razza La teoria razzista, peraltro, così come era formulata nel Saggio sulla ineguaglianza delle razze umane del conte Joseph-Arthur de Gobineau (1853-1855), conferiva una dimensione antropologica alla dottrina linguistica che distingueva un ceppo indoeuropeo da un ceppo semitico, ma non implicava un decisa connotazione antisemita. Essa infatti non era stata concepita contro gli ebrei, ma come supporto teorico all’imperialismo ottocentesco, che aveva la necessità di motivare la colonizzazione in Africa e in Asia in nome della superiorità razziale degli europei. Fu Houston Stewart Chamberlain (un tedesco di origine inglese, da non confondere con il primo ministro britannico) a teorizzare una razza ebraica opposta a quella ariana europea e non mancò poi chi si diede pensiero di individuarne i tratti somatici (naso adunco, orecchie sporgenti, piede piatto ecc.) e quelli comportamentali (gli ebrei erano usurai, sudici, nevrotici, corpi estranei annidati nel popolo europeo). Si preparava così il terreno alle violenze antisemite – fisiche o verbali e morali – che coinvolsero buona parte degli stati europei a cavallo del secolo, per poi riprendere con virulenza dopo la prima guerra mondiale, quando la rivoluzione russa del 1917 e i tentativi rivoluzionari in Germania e in Ungheria rinvigorivano la teoria del complotto ebraico per rovesciare l’Occidente. A questo punto il pregiudizio antisemita era abbastanza consolidato da fornire al Mein Kampf di Hitler la base ideologica atta ad alimentare quella che Luzzatto Voghera chiama «la componente mistica» dell’antisemitismo hitleriano. In realtà non si può parlare di una razza ebraica omogenea né esistono caratteri somatici comuni: quelli abitualmente ritenuti i tratti distintivi (naso curvo, capelli crespi, colorito scuro ecc.) non sono esclusivi degli ebrei e compaiono anche in altre popolazioni 6 mediterranee. L’origine di questo popolo (il cui nome la Bibbia fa derivare da Eber, un antenato del patriarca Abramo, ma che secondo gli studiosi risale al termine habiru, propriamente «predoni») si radica in gruppi di tribù nomadi attestate nel Vicino Oriente siroarabico dal secolo XX al XII a.C., nelle quali confluirono elementi etnici compositi (semiti, hurriti, fuorusciti di varia provenienza ecc.). L’invenzione di una razza ebraica risale dunque alle teorie ottocentesche e trova oggi credito solo presso l’antisemitismo neonazista. La dottrina del superuomo Contribuirono a rinsaldare il razzismo anche le interpretazioni deviate della dottrina del superuomo. Il superuomo (in tedesco Übermensch, «oltreuomo») di Nietzsche è la realizzazione estrema dello spirito libero, che sta al di là dell’uomo del presente come questo sta al di là della scimmia: l’uomo superiore è dunque la tappa che l’umanità deve raggiungere dopo la morte di Dio, non volgendosi più alla metafisica e ai valori trascendenti ma volgendosi alla terra, alla vita e all’esistenza creando valori e quindi priva di valori immutabili, vivendo al di là del bene e del male. La traduzione «superuomo», dunque, non rende questo significato di trascendenza della condizione umana, ma sembra indicarne un potenziamento. Tutte queste espressioni – e le manipolazioni a cui il pensiero di Nietzsche fu sottoposto con la pubblicazione nel 1906 dello scritto postumo La volontà di potenza – sono state intese come il preannuncio di un’umanità superiore, migliorata e privilegiata in senso evoluzionistico darwiniano. La propaganda nazista si impadronì di queste dottrine, interessata a fare del filosofo tedesco un anticipatore del primato della razza ariana. Stava dunque ai cultori della razza il compito di potenziarla e migliorarla selezionando i soggetti che venivano fatti accoppiare allo scopo di generare creature dai perfetti tratti somatici ariani, che dovevano poi essere quelli della Germania del nord: occhi chiari, capelli biondi, corporatura atletica, incedere marziale. Tutte fantasie smentite dal fatto che gli stessi gerarchi nazisti, fatta eccezione per pochi, avevano tratti somatici tutt’altro che ariani. Ma con queste stolte fantasie coesistevano sinistre implicazioni: difendere la razza significava anche mantenerla pura dalle contaminazioni, eliminando i corpi estranei come gli ebrei semiti, e praticare nei laboratori medici dei Lager crudeli quanto inutili esperimenti sui corpi di miserabili vittime, improvvisandosi finti studiosi di un’ingegneria genetica che aveva il solo scopo di fornire pretesti alla folle crudeltà di uomini come il famigerato dottor Mengele. 4. La resistenza al genocidio e il soccorso agli ebrei [In quest’ultimo capitolo, che è anche il più articolato, viene trattato un aspetto particolare come specifico della tesina, e cioè il comportamento di governi e persone che si opposero alla Shoah. Questo taglio permette di rintracciare qualche vicenda e qualche figura positiva in un evento così truce, che continua a pesare sulla storia d’Europa, nonostante i tentativi di rimozione] 4.1 Il comportamento dei governi Il caso della Danimarca Nel 1940 l’esercito tedesco occupava il Regno di Danimarca. A causa delle caratteristiche somatiche ariane, che gli alti e biondi danesi possedevano in misura largamente superiore ai nazisti Hitler e Himmler (bassi di statura e neri di capelli) ma anche della inconsistenza militare danese, i tedeschi accordarono una insolita 7 autonomia a questo Paese. Lasciarono in piedi un governo nazionale, un Parlamento, un Ministero degli Esteri e un esercito. Ma la burocrazia nazista dello sterminio, capeggiata da uno ‘specialista’ dello sterminio come Eichmann, non si dimenticò dei 6500 ebrei danesi. Inizialmente vennero assunti provvedimenti discriminatori verso le imprese danesi di proprietà ebrea; successivamente, nel 1942 si arrivò a escludere gli ebrei dalla vita pubblica e dalla vita economica, pena l’arresto. La situazione precipitò drasticamente nell’agosto del 1943, quando si diede inizio alla persecuzione vera e propria, visto che anche il direttore del Ministero degli Esteri danese, che pure si era adoperato in ogni modo per proteggere i cittadini ebrei, non riuscì a fermare l’iniziativa tedesca di acquisizione dei dati relativi a tutti gli ebrei presenti nel Paese. All’inizio di ottobre partirono le prime retate che, contrastate dagli sforzi della burocrazia danese e in questo caso boicottate anche dalla Wehrmacht, non diedero i risultati sperati. Dei 6000 ebrei che avrebbero dovuto essere deportati con navi e convogli, ne furono in realtà rastrellati e trasferiti meno di 500. Gli altri, avvisati per tempo dalla solerte rete informativa danese, riuscirono a nascondersi grazie all’aiuto della popolazione danese e del governo svedese. Il fisico Niels Bohr fu tra i primi a raggiungere via mare il Paese scandinavo, dove incontrò il ministro degli esteri e il re, e ottenne una pubblica denuncia di quanto stava avvenendo e la disponibilità all’accoglienza degli altri profughi. Una grande operazione di salvataggio Intanto in Danimarca si metteva in moto la macchina organizzativa di quella che sarebbe stata una delle più memorabili azioni di salvataggio della storia. Uomini di tutte le condizioni si adoperarono per reperire fondi e mobilitare la flotta di pescatori che, attraverso il Sund, avrebbe dovuto portare in salvo migliaia di persone. L’iniziativa fu sostenuta dai vescovi della chiesa luterana danese e da tutta la popolazione, che si accollò in grande parte l’onere finanziario che l’iniziativa comportava per non insospettire i tedeschi che controllavano anche i fondi del governo danese e le riserve della comunità ebraica. Così, utilizzando centinaia di semplici barche, a costo della vita individuale e con rischio per l'intera comunità, alcune migliaia di ebrei furono trasferiti in salvo, dalla costa danese alle isole dei pescatori e di qui, su pescherecci, alla costa svedese. Il numero di caduti e arrestati fu limitatissimo: si salvarono, protetti dal governo svedese, 5919 ebrei puri e quasi 2000 tra ebrei per metà e non ebrei sposati con ebrei. Il comportamento della Spagna La Spagna fu uno dei Paesi europei in cui il salvataggio degli ebrei fu superiore a quello delle democrazie antihitleriane. Si sarebbe portati a pensare che questo Paese, soggetto alla dittatura di Franco, si sarebbe comportato come l’Italia di Mussolini e avrebbe avuto leggi razziali altrettanto dure. Invece non fu così. Alleato di Hitler e Mussolini che lo avevano aiutato a prendere il potere, al termine della guerra civile, nel giugno del 1940, Franco dichiarò la Spagna ‘non belligerante’ e per tutta la durata della guerra assicurò a Hitler il proprio appoggio, ma rifiutò di prendere parte alle azioni militari, benché venissero richieste da Berlino con sempre maggiore insistenza. Anche sulla questione ebraica Franco si mantenne indipendente dai suoi amici, anzi favorì in ogni modo le operazioni di salvataggio facendo fuggire circa 45 000 ebrei non solo spagnoli, ma anche giunti da altri Paesi europei (Francia, Romania, Ungheria, Grecia), attraverso la via dei Pirenei e poi facendoli imbarcare a Lisbona alla volta dei Paesi alleati. Nel dopoguerra non si è parlato molto del rapporto tra Franco e gli ebrei europei: nell’unica intervista su questo tema il Generalissimo si limitò a confermare le cifre e spiegò laconicamente il suo atteggiamento come un «elementare senso di giustizia e carità cristiana». Alcuni storici hanno messo in luce altre possibili ragioni, tra cui l'intuizione 8 dell’esito finale della guerra, l’intenzione di ristabilire contatti politici e commerciali con gli ebrei del Mediterraneo, la volontà di Franco di avere un posto nobile nella storia e una sua possibile ascendenza ebraica. Indipendentemente da quelle che possono essere state per Franco le ragioni del suo atteggiamento, esso dimostra che un Paese alleato della Germania non necessariamente doveva adottare i medesimi provvedimenti. E questo è un argomento di condanna per l’Italia, per Mussolini e per Vittorio Emanuele III, che nel 1938 firmò leggi razziali di estremo rigore e le mantenne anche dopo la caduta del fascismo l’8 settembre 1943. Dei circa 330 000 ebrei italiani ne furono deportati quasi 8000, dei quali fece ritorno meno del dieci per cento. 4.2 La resistenza politica La resistenza al nazismo Si è soliti parlare della resistenza ai regimi assolutistici nazionali, ma in genere non si parla della resistenza politica al nazismo. È un fatto che lo scoppio della guerra rese difficili le condizioni di intervento per questo tipo di resistenza sia perché in generale i tedeschi simpatizzarono con il regime, coinvolti dalla propaganda, dall’ebbrezza delle prime vittorie e dalla forza unificante del razzismo e dell’antisemitismo, sia perché il controllo poliziesco della Gestapo (Geheime Staatspolizei, «Polizia segreta di stato») reprimeva ogni forma di opposizione. Tuttavia è doveroso ricordare che, anche se non ebbe modo di organizzarsi, vi fu un movimento di opposizione a largo spettro politico, che, dall’iniziale appartenenza di singoli membri del movimento operaio e di religiosi spinti dalla loro coscienza nonostante la politica acquiescente delle rispettive chiese, si allargò anche all’interno dei circoli di potere che in un primo momento avevano seguito Hitler ma poi, di fronte alla sua politica criminale, avevano riveduto le proprie posizioni. La difficoltà del coordinamento indusse per lo più a intraprendere azioni individuali o di piccoli gruppi, volte all’assassinio del tiranno o al sabotaggio militare, nella convinzione che soltanto una sconfitta militare avrebbe consentito la liberazione dal nazismo. La resistenza nei Lager Quello di resistenza è un concetto essenzialmente politico, che non trova campo di applicazione in ambienti coercitivi come il ghetto o carcerari come il Lager: di fronte alla determinazione nazista di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra, la forma più elementare di resistenza era quella di salvare la vita con la fuga. Anche se la mentalità ebraica non fosse stata – come invece era per ragioni culturali di lungo periodo – più portata a subire che a ribellarsi, quale possibilità di ribellione diversa dal suicidio o dal tentativo di fuga rimaneva a chi giungeva nel campo di sterminio e nel giro di due ore entrava nella camera a gas? Tuttavia, vi furono ribellioni di ebrei. La più nota è quella del ghetto di Varsavia (aprilemaggio del 1943), che finì in un’orrenda carneficina; il 2 agosto dello stesso anno vi fu la rivolta del campo di Treblinka, alla quale parteciparono circa seicento prigionieri armati di asce e coltelli, dei quali pochi riuscirono a fuggire; il 1° settembre vi fu un tentativo di rivolta nel ghetto di Vilnius, in Lituania; il 14 ottobre prigionieri del campo di Sobibor uccisero dieci SS. Infine, nell’ottobre 1944 la rivolta dei Sonderkommando (le «squadre speciali» di detenuti che lavoravano all’interno dei crematori) di Auschwitz. La voce dei ‘sommersi’ Proprio nel cuore della Shoah porta il libro intitolato La voce dei sommersi (Marsilio, Padova 1999), che è la traduzione italiana della pubblicazione, fatta nel 1996 dal Museo di Auschwitz, di alcuni manoscritti di membri dei Sonderkommando di Auschwitz, da loro nascosti in recipienti improvvisati e tornati alla luce durante scavi nel 9 terreno presso i crematori. Gli appunti e i resoconti lasciati da questi disgraziati, costretti a farsi collaboratori del crimine (sgomberare le camere a gas, far funzionare i forni, strappare i denti d’oro ai cadaveri ecc.) e destinati a essere a loro volta eliminati, sono una testimonianza sconvolgente, la voce di Caino costretto a uccidere il proprio fratello. Come ripete con insistenza Primo Levi, era assillante nei detenuti del Lager l’idea che delle atrocità che ogni giorno subivano non sarebbe giunta notizia ai posteri perché i tedeschi ne avrebbero cancellate le prove. Per questo alcuni ebrei trovarono la forza di affidare a pagine improvvisate di taccuini di fortuna l’esperienza dello sterminio. Ma, in quanto membri delle squadre speciali, questi miserabili erano anche preoccupati all’idea che sopra di loro potesse ricadere una parte di colpa. Dopo anni di silenzio, questi documenti sono oggi tanto più importanti in un’epoca in cui si allarga di giorno in giorno il cosiddetto ‘revisionismo’, cioè la tendenza a ridimensionare, sminuire, talora addirittura negare il crimine che grava sul passato prossimo dell’Europa civile e in particolare della Germania. La rivolta dei Sonderkommando di Auschwitz il 7 ottobre 1944 Tra gli ebrei addetti al Sonderkommando c’era una cellula di resistenza interna le cui attività andavano dall’approvvigionamento di cibo e medicinali alla documentazione dei crimini all’organizzazione di fughe e sabotaggi. In vista della liquidazione totale del campo, che avrebbe comportato anche l’eliminazione delle squadre speciali, si cercò di organizzare una rivolta che avrebbe permesso ai prigionieri di fuggire. In realtà, questo progetto non fu messo in atto perché molti, soprattutto polacchi e sovietici che erano i più attivi nelle file della resistenza, furono trasferiti in altri campi. Inoltre, il movimento di resistenza polacco riteneva che un'insurrezione generale avrebbe avuto poche possibilità di successo a causa del numero enorme di internati. Ci furono però, nel corso della storia del Lager, rivolte di singole parti del campo. La più estesa fu organizzata il 7 ottobre dagli ebrei dei Sonderkommando. Essi erano continuamente sotto minaccia di morte: per il terribile lavoro che erano costretti a compiere, sapevano che i tedeschi li avrebbero eliminati in quanto testimoni dello sterminio. Quando l’attività delle camere a gas cominciò a diminuire e fu chiaro che il pericolo era per loro imminente, decisero di rischiare la vita e prepararono i piani per una insurrezione: avrebbero dovuto far saltare i crematori, incendiare le baracche, recidere il filo spinato per aprirsi una via di fuga. Il segnale sarebbe stato l'incendio del crematorio IV. Così avvenne. Nel crematorio Il i ribelli riuscirono a uccidere i tedeschi, a raggiungere il cortile e, dopo aver aperto una breccia nel filo spinato, a fuggire. Ma le SS ripresero quasi subito il controllo della situazione: i membri dei Sonderkommando ancora nel campo vennero uccisi, mentre i fuggiaschi, allontanatisi di poco, vennero arsi vivi nel fienile dove avevano trovato rifugio. Alla fine, i tedeschi contarono solo tre morti; i quattrocento ribelli morirono quasi tutti. Lo sfortunato tentativo dei Sonderkommando di Auschwitz dimostra che gli ebrei non accettarono passivamente la segregazione e le terribili condizioni in cui erano costretti a vivere nel Lager: certo, la loro lotta si rivelò fin dall'inizio impari e le possibilità di successo della rivolta erano oggettivamente molto scarse. Fuggire da Auschwitz era molto difficile; il campo era ben sorvegliato: oltre al recinto vero e proprio c'era una zona di isolamento di circa 40 chilometri e le zone limitrofe al campo erano abitate o dalle famiglie delle SS o da coloni tedeschi insediati nelle fattorie dei polacchi sfrattati. 10 4.3 I ‘giusti delle nazioni’ e i benemeriti della Shoah Raoul Wallenberg Nella tenebra della Shoah, accanto a zone grigie c’è anche qualche fascio di luce: ci si limita qui ai due nomi dello svedese Raoul Wallenberg e dell’italiano Giorgio Perlasca. Diplomatico di professione, inviato speciale del re di Svezia su richiesta del governo degli Stati Uniti e di altri Paesi, Wallenberg opera a Budapest dal luglio del 1944 fino all’entrata in città dell’Armata Rossa nel gennaio 1945, salvando decine di migliaia di ebrei ungheresi con ogni mezzo possibile. Nel 1945 sparisce dall’Ungheria dopo l’arrivo dei liberatori sovietici. Nei decenni sono state avanzate diverse ipotesi sulla sua fine, compresa quella – sostenuta dai suoi familiari – che egli sia ancora vivo e prigioniero nella ex Unione Sovietica. La versione ufficiale, data nel 1987 dalle autorità di Mosca che fino a quel momento avevano sempre negato di avere notizie di Wallenberg, è che egli morì nel luglio 1947 nella prigione del KGB per collasso cardiaco: il suo arresto e la detenzione venivano spiegati come un tragico errore dovuto alla confusione di quei giorni di guerra. Nel gennaio 2001, sui mezzi d’informazione si diffuse notizia dei risultati delle indagini di una commissione russo-svedese, secondo la quale non ci sarebbero dati certi della morte di Wallenberg e, al contrario, ci sarebbero testimonianze che lo descrivono in vita dopo il 1947. Secondo un ex ufficiale del KGB, egli sarebbe morto in carcere nel 1992. Subito la notizia destò interventi polemici e in particolare il sospetto che in realtà si cercasse di coprire questa morte scomoda. Qualcuno pensa che Wallenberg potesse avere le prove dei crimini sovietici, delle loro persecuzioni anti-ebraiche, come pure la prova che l’esercito sovietico non volle intervenire nel ghetto di Varsavia ribellatosi ai nazisti e che lasciò massacrare la resistenza antinazista. In effetti, non si spiega come mai l’ex Unione Sovietica non abbia fornito prove né dell’arresto né del processo né della condanna subita da Wallenberg, tanto più che non si trattava di un qualsiasi prigioniero, ma di un diplomatico svedese protetto da immunità. Giorgio Perlasca Originario di Como ma trasferitosi a Padova per la propria attività di commerciante in carni, Giorgio Perlasca (1910-1992), iscritto al partito fascista, aveva combattuto in Spagna come volontario per Franco. Dal 1941 si trovava a Budapest per lavoro, ma nel ’43 si rifiutò di aderire alla Repubblica sociale e fu rinchiuso in un campo di internamento, da cui riuscì a fuggire rifugiandosi nella legazione di Spagna, dove il Ministro gli procurò un passaporto spagnolo e una tessera diplomatica. In quel periodo ebbe modo di assistere all'uccisione di un bambino ebreo e poi ai massacri compiuti dai nazisti e non riuscì a rimanere indifferente. Inizia così una storia che ha dell’incredibile. Nell’inverno del 1944, quando il console di Spagna decise di darsi alla fuga, spaventato dalla piega che gli avvenimenti stavano prendendo tra la dominazione nazista in Bulgaria e l’avanzata delle truppe sovietiche, Perlasca lo convinse a cedergli le sue credenziali. In questo ruolo insolito, spacciandosi per console di Spagna e issando bandiere spagnole su edifici che riusciva a farsi consegnare o prendeva in affitto a sue spese, Perlasca riuscì a salvare da solo 5700 ebrei d’Ungheria facendoli passare per spagnoli con documenti falsi, addirittura tirandoli giù dai treni sui quali stavano per essere avviati alla deportazione, poi proteggendoli in virtù dell’extraterritorialità nelle case-rifugio allestite. In queste condizioni rocambolesche, dunque, Perlasca salvò da solo un numero di persone non troppo lontano dagli 8000 ebrei italiani che le leggi razziali, firmate da Vittorio Emanuele III, mandavano a morire in Germania. Come nessuno dei responsabili della deportazione sarebbe stato punito, così nessuno si occupò di Perlasca, neppure quando nel 1987 fu ‘scoperto’ da persone da lui salvate 11 residenti a Berlino; morì a Padova nel 1992, qualche anno dopo che Israele gli aveva attribuito il riconoscimento di ‘giusto delle nazioni’ (così sono chiamati i non ebrei che hanno salvato ebrei dallo sterminio) e lo aveva invitato a piantare un albero nella Strada dei Giusti sul monte della Rimembranza a Gerusalemme. La sua vicenda è stata resa nota dal libro di Deaglio, La banalità del bene (Feltrinelli, Milano 1991), e ora anche dal film RAI di Alberto Negrin, Perlasca. Un eroe italiano (2002). 12