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IL MODELLO PER LA CONVALIDA DELLE DIMISSIONI

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IL MODELLO PER LA CONVALIDA DELLE DIMISSIONI
IL MODELLO PER LE DIMISSIONI ONLINE E LE CRITICITA’ OPERATIVE
(la presente riflessione è una rielaborazione dell'articolo pubblicato sul n. 10 del 12 marzo
2016 della rivista Diritto e Pratica del Lavoro, alla luce dei chiarimenti forniti con la circolare
del Ministero del Lavoro n. 12 del 4 marzo 2016, con la nota n. 1765 del 24 marzo 2016 e con
le FAQ presenti sul sito istituzionale dello stesso Dicastero)
Con un leggero ritardo sulla tabella di marcia indicata dal Legislatore delegato (24 dicembre 2015),
il 13 gennaio è uscito il Gazzetta Ufficiale il D.M. 15 dicembre 2015 con il quale il Ministro del
Lavoro, in ottemperanza all’art. 26 del decreto sulle semplificazioni (D.L.vo n. 151/2015), ha
approvato il modello con il quale, a partire dal 12 marzo 2016, le dimissioni e le risoluzioni
consensuali potranno ritenersi, a tutti gli effetti, valide soltanto nel rispetto della procedura
evidenziata nello stesso.
Ma cosa afferma l’ art. 26?
“Al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 55, comma 4, del D.L.vo n. 151/2001, e successive
modificazioni, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di
inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi la
datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente con modalità individuate con il
decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali di cui al comma 3”.
Prima di entrare nel merito della questione occorre, chiarire alcune cose.
La prima è che il Legislatore delegato dichiara che “ le dimissioni e la risoluzione consensuale del
rapporto sono fatte su appositi moduli”: la norma non parla mai di convalida o di conferma delle
dimissioni come fanno l’art. 55, comma 4 del D.L.vo n. 151/2001 o l’art. 4, comma 17 della legge
n. 92/2012. Da ciò si deduce che, ad esempio, le dimissioni, che sono un atto unilaterale ricettizio,
non possono avvenire più come prima e, magari, essere convalidate, ma debbono essere “fatte”
unicamente con la procedura individuata dal modello approvato con il D.M. 15 dicembre 2015. Tale
concetto viene ribadito dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 12 del 4 marzo 2016 che, caso
rarissimo se non unico, risulta firmata da ben tre Dirigenti Generali (Sistemi informativi, Relazioni
Industriali e Tutela delle condizioni di Lavoro e Attività Ispettiva). Se le parole hanno un senso,
“fatte” significa compilate con consapevolezza e senza condizionamenti in ogni parte e che, quindi,
le tradizionali dimissioni con le quali il lavoratore intende far conoscere al proprio datore di lavoro
l’intenzione di recedere dal rapporto, non hanno più alcun valore. Quanto appena detto sta a
significare che dal 12 marzo 2016 non è più possibile dimettersi con una semplice lettera, una
raccomandata o anche una e-mail: solo le dimissioni “fatte” con il modello ministeriale trovano
cittadinanza, ai fini della efficacia, nel nostro ordinamento: ciò è affermato, chiaramente, al punto
2.1 della circolare n. 12, laddove si dice che il recesso del lavoratore dal rapporto di lavoro deve
essere “manifestato in forma tipica, ma anche che essa debba corrispondere necessariamente a
quella del modulo adottato con il decreto”.
La seconda che, pure è stata adombrata in alcune primissime riflessioni, alfine di salvare l’istituto
della convalida, parte da un uso atecnico della parola “fatte”, intesa come “confermate”: a parte che
si tratta di due concetti totalmente diversi, non si può non rilevare come le parole “convalida o
conferma” non appaiano neanche nel D.M. 15 dicembre 2015 o nell’allegato tecnico esplicativo e,
comunque, tale tesi non è stata assolutamente “sposata” dal Ministero del Lavoro con la circolare n.
12.
La disposizione ha una portata onnicomprensiva nel senso che, ad eccezione delle ipotesi che si
riferiscono alle lavoratrici ed ai lavoratori padri di bambino fino ai tre anni di età (o tre anni
dall’affido o dall’adozione) per i quali esiste la procedura di convalida presso la Direzione
1
territoriale del Lavoro, essa dovrà essere adottata in tutti quei casi in cui il rapporto cessi prima del
termine, pur quando ciò avvenga attraverso una risoluzione concordata.
Quindi, nella sola ipotesi appena citata la lettera di dimissioni continuerà ad essere formulata nel
modo tradizionale, in quanto il recesso della lavoratrice o del lavoratore nei tre anni successivi alla
nascita del bambino, per acquisire efficacia, dovrà essere convalidata dal funzionario della
Direzione del Lavoro che provvederà a verificare, attraverso un colloquio, che la volontà
dell’interessata non sia stata sottoposta a condizionamenti.
Il Legislatore delegato non cita l’art. 35, comma 4, del D.L.vo n. 198/2006 il quale afferma che
sono nulle le dimissioni della lavoratrice presentate nel periodo che va dal giorno della richiesta
delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua celebrazione, a un anno dopo la stessa, se non
confermate entro un mese avanti ad un funzionario della Direzione territoriale del Lavoro. Questa
particolare procedura, prevista da una legge speciale, è stata abrogata o no? Il Legislatore fa
riferimento a “tutte” le ipotesi di dimissioni (o risoluzione consensuale) ma nel testo normativo non
vi è traccia di abrogazione esplicita e sono fatte salve soltanto quelle dei genitori fino ai tre anni
dalla nascita del bambino (anche esse “speciali” rispetto alla normativa generale essendo contenute
nel D.L.vo n. 151/2015). La stessa circolare n. 12 non ne parla e, quando al punto 1.2 individua i
settori ai quali non si applica la procedura, oltre ai casi già previsti dal Legislatore delegato
all’interno dei commi 1 e 7 dell’art. 26, esclude, soltanto, i rapporti di lavoro marittimo, “in quanto
il contratto di arruolamento …… è regolato da legge speciale del Codice della Navigazione”. Per la
verità una FAQ apparsa sul sito del Ministero del Lavoro dice espressamente che tale disposizione
speciale è stata abrogata.
La procedura non si applica, quindi (comma 7) ai rapporti di rapporti di lavoro domestico (attesa la
peculiarità degli stessi) e alle risoluzioni avvenute “in sede protetta” (art. 26, comma 7): come si
vede, il Legislatore delegato, ha escluso anche altre ipotesi e ciò rafforza la convinzione che quella
prevista dall’art. 35, comma 4, del D.L.vo n. 198/2006 rientri nel “calderone” generale, come detto
dalla FAQ appena citata.
La norma si riferisce ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro privati e pubblici (ma il Ministero
del Lavoro li esclude con una tesi amministrativa, forse, condivisibile sul piano pratico ma non
supportata dalla norma), al lavoro subordinato a tempo indeterminato ma anche a tempo
determinato (qualora il rapporto si risolva prima del termine direttamente o indirettamente fissato)
ma così come è scritta, non sembrerebbe escludere la risoluzione “ante tempus” delle
collaborazioni, pur stipulate nel rispetto dei criteri fissati dall’art. 2 del D.L.vo n. 81/2015, come
nell’ipotesi della risoluzione consensuale. Per la verità la circolare n. 12, andando oltre la norma,
parla di “rapporto di lavoro subordinato”, ma il comma 1 dell’art. 26 si riferisce al rapporto di
lavoro, senza aggettivi: è pur vero che la parola “dimissioni” si riferisce alla subordinazione ma, la
risoluzione consensuale è una forma di cessazione del contratto che si attaglia anche al lavoro
autonomo.
Il riferimento, possibile, anche al settore pubblico scaturisce dal fatto che, a differenza della
normativa in vigore fino all’11 marzo 2016 (il modello è entrato in vigore sessanta giorni dopo la
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del D.M., come stabilito dal comma 8 dell’art. 26), la disciplina
non è inserita all’interno della legge n. 92/2012 (art. 4, commi da 17 a 23 - bis) ed ha una propria
formulazione che ne prescinde. Sulla base del testo appena citato, infatti, il Dipartimento della
Funzione Pubblica ebbe modo di precisare ed il Ministero del Lavoro, attraverso l’interpello n.
35/2012 ne accolse l’impostazione, che, mancando la c.d. “armonizzazione” ex art. 1, commi 7 ed
8, propedeutica alla applicazione nel settore pubblico della legge n. 92/2012, la procedura puntuale
prevista dall’art. 4 non trovasse applicazione.
La soluzione “sposata” dai tre Dirigenti Generali che hanno sottoscritto la circolare n. 12 è quella
della “non applicabilità della procedura sulla base della considerazione che la pratica delle c.d.
“dimissioni in bianco” non risulti presente nell’ambito dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001: tesi, indubbiamente,
meritevole di attenzione che, però, non trova riscontro nel dettato normativo.
2
Per quel che riguarda i rapporti a tempo determinato conclusi prima della scadenza è pur vero che il
recesso anticipato per dimissioni abilita il datore di lavoro a chiedere il risarcimento per mancato
adempimento, ma ciò non incide sulla procedura delle dimissioni che, stando al dettato normativo,
non possono che avvenire in quel modo: su questo punto nulla afferma la circolare n. 12.
Con la riflessione segue ci si soffermerà sulla procedura ipotizzata con il modello dal D.M. del
Ministro del Lavoro, dando, ovviamente in correlazione, uno sguardo al contenuto dell’art. 26 che è
intervenuto sulla materia, per la terza volta, in dieci anni, alfine di contrastare il fenomeno delle
dimissioni in bianco, ritenuto dal Legislatore ancora particolarmente sentito, pur in presenza di
norme legali e contrattuali che tutelano la donna lavoratrice (atteso che di essa, in particolare, si
tratta) ormai presenti, da anni, nel nostro ordinamento e che sono state potenziate negli ultimi tempi.
Da una lettura del comma 1 del predetto articolo traspare che l’unica modalità per rendere le
dimissioni (ma il discorso vale anche per le risoluzioni consensuali) è quella di compilare il modulo
scaricabile dal sito ministeriale e di trasmetterlo, attraverso il sistema informatico predisposto dal
Ministero del Lavoro, al datore di lavoro ed alla Direzione territoriale del Lavoro che, è bene
ricordarlo, nel corso del 2016 assumerà il nome di “Ispettorato territoriale del Lavoro”.
La nuova procedura ipotizzata appare notevolmente formale e molto più pesante non soltanto di
quella già prevista dall’art. 4, commi da 17 a 23 - bis della legge n. 92/2012 (ed in vigore fino all’
11 marzo 2016), ma anche di quella, a suo tempo, ipotizzata dalla legge n. 188/2007 attraverso il
modulo elettronico. Tale “pesantezza” si rileva, in particolar modo, laddove le dimissioni non siano
accompagnate da un periodo di preavviso lavorato, ma siano “volute” con effetto immediato.
Sono, a voler essere pignoli, migliaia e migliaia i rapporti che si risolvono “ante tempus”, atteso che
nel numero vanno ricompresi i contratti a termine dei lavoratori somministrati che finiscono prima
della scadenza, quelli stagionali nei luoghi turistici, quelli in agricoltura o quelli degli sportivi
disciplinati dalla legge n. 91/1981 ove, ad esempio, il c.d. “mercato dei calciatori” si sostanzia in
risoluzioni consensuali dei precedenti rapporti di natura subordinata con stipula di nuovi contratti.
La circolare n. 12 si sofferma ampiamente nella spiegazione dei vari passaggi procedurali ed
afferma che, per venire incontro ad eventuali quesiti degli utenti, viene creato sia un indirizzo di
posta elettronica [email protected]. che una apposita sezione con le relative FAQ.
Consapevole delle difficoltà insite nella procedura, soprattutto nella fase di avvio, la circolare n. 12
afferma che viene previsto un “video-tutorial”, disponibile sul sito del Ministero del Lavoro
www.lavoro.gov.it., dal quale sembrano emergere alcuni passaggi semplificativi non previsti nella
stesura originaria del modello.
Il lavoratore può optare se procedere autonomamente lungo il percorso delineato in via
amministrativa o affidarsi ad un soggetto abilitato che è stato individuato dal comma 4 dell’art. 26:
si tratta dei patronati, delle organizzazioni sindacali, degli Enti bilaterali e delle commissioni di
certificazione previste dall’art. 76 del D.L.vo n. 276/2003, intese come “sedi” secondo una
interpretazione fornita dal Dicastero del Lavoro con la nota n. 1765 del 24 marzo 2016 e sul cui
significato ci si soffermerà più avanti.
Nel primo caso la strada, soprattutto se rapportata al gran numero dei soggetti interessati, appare
alquanto tortuosa, atteso che il lavoratore dovrà avvalersi del sistema informatico SMV richiedendo,
innanzitutto, se non lo possiede, il codice PIN INPS all’Istituto senza creare una utenza per
l’accesso al portale ClicLavoro del Ministero (cliclavoro.gov.it) con “nome e password”, con la
registrazione che, effettuata una volta sola, sarebbe stata valida per sempre. Questo passaggio, pur
previsto dalla scheda tecnica di accompagnamento del modello pubblicata in Gazzetta Ufficiale, è
stato eliminato come si evince dal video tutorial a disposizione degli utenti, dalla stessa circolare n.
12 e dalle FAQ, sicchè l’accesso alla procedura avviene attraverso il solo PIN INPS.
Se le procedure non saranno cambiate, con la richiesta del PIN, (direttamente in via telematica
accedendo al sito dell’INPS o presso la sede territoriale) il lavoratore avrà soltanto una prima parte
del codice, dovendo attendere la seconda parte con una successiva comunicazione dell’Istituto che
avviene, di norma, con lettera inviata al proprio domicilio.
3
L’accesso alle funzionalità di gestione della comunicazione avviene mediante specifici link al
portale lavoro.gov.it ed è possibile soltanto se l’utente è in possesso del PIN INPS e si appoggia sul
riconoscimento certo attraverso il predetto PIN.
Secondo le c.d. “modalità tecniche” previste dal D.M. del Ministro del Lavoro, il PIN INPS
conferisce un maggior livello di sicurezza al riconoscimento.
Il possesso del PIN INPS non è necessario se la trasmissione del modello (disponibile anche in
lingua tedesca per gli utenti della Provincia Autonoma di Bolzano) viene effettuata da uno dei
soggetti individuati dal comma 4 dell’art. 26, in quanto costoro debbono utilizzare il proprio
accredito per accedere alla funzionalità di Clic Lavoro, assumendosi la responsabilità
dell’accertamento del lavoratore.
Il modulo da utilizzare (composto da cinque sezioni) contiene una serie di dati identificativi sia del
dipendente che del datore di lavoro, della tipologia contrattuale e della decorrenza che sono inseriti,
per i soli rapporti iniziati dal 2008, nelle sezioni 1, 2 e 3 del modello “in automatico”, con la sola
eccezione dell’indirizzo di posta elettronica del datore di lavoro: per la verità è questo ciò che dice
la circolare n. 12 al punto 3, quarto capoverso, ma nella testo cartaceo apparso in Gazzetta Ufficiale
non è stata prevista alcuna casella che consenta la possibilità dell’aggiornamento dell’indirizzo di
posta elettronica da parte del lavoratore. Il 2008 è l’anno dal quale le comunicazioni telematiche ai
centri per l’impiego sono divenute obbligatorie.
La circolare n. 12 ricorda che prima della compilazione del modulo, il sistema informatico SMV
richiede al lavoratore tutte le informazioni necessarie per individuare il rapporto di lavoro dal quale
vuole recedere (il soggetto potrebbe avere in corso anche più rapporti). Il recupero della
comunicazione obbligatoria permetterà al sistema di compilare, come si è detto pocanzi, le prime tre
sezioni, con la conseguenza che l’utente non potrà modificarle, con la sola eccezione dell’indirizzo
e-mail del datore di lavoro che potrà, se necessario, essere aggiornato.
Se il rapporto è iniziato prima il lavoratore è tenuto a compilare le sezioni appena citate: la 4 va
compilata sia nel primo che nel secondo caso (la circolare n. 12 ne raccomanda la precisione,
soprattutto per quel che riguarda la data ed il periodo di preavviso previsto dalla contrattazione
collettiva), mentre la 5 viene aggiornata in automatico dal sistema con il salvataggio informatico
presso il Ministero. Con quest’ultimo passaggio vengono attribuiti al modulo sia la data di
trasmissione (marca temporale) che un codice identificativo.
Nella compilazione del modello il lavoratore avrà cura di indicare la “decorrenza delle dimissioni”
comprendendovi, se ritenuto opportuno, il periodo di preavviso: si tornerà più avanti su questo
argomento ma, è opportuno precisare che il Ministero del Lavoro ha affermato nelle proprie FAQ
che il giorno da indicare è il primo successivo alla risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò potrebbe
non coincidere con la cessazione effettiva (si pensi, alla malattia che sospende il preavviso o
all’esercizio da parte del datore di rinunciare alla prestazione durante tale periodo) che è quella che
va comunicata on-line ai servizi per l’impiego entro i cinque giorni successivi alla fine del
contratto: ma ciò non importa in quanto l’obiettivo che è alla base del modello telematico delle
dimissioni è quello di fornire una data certa alle stesse.
Appare chiaro che se il lavoratore non è già in possesso di un PIN INPS l’istituto delle dimissioni
non potrà essere particolarmente celere e i datori di lavoro si verranno a trovare in una situazione di
“limbo”, in quanto non è più prevista neanche la possibilità di invitare il lavoratore ad attivare la
procedura come previsto dai commi 19 e 20 dell’art. 4 della legge n. 92/2012, cosa che, in caso di
comportamento “inerte”, consente, fino all’11 marzo 2016, di rendere efficaci le dimissioni, decorsi
30 giorni dall’inoltro dell’invito all’ultimo indirizzo conosciuto.
Qualora, invece, il lavoratore decida di avvalersi di un soggetto abilitato (sindacato, patronato, ente
bilaterale, commissione di certificazione) non è necessario chiedere, come si diceva pocanzi, il PIN
all’INPS, in quanto sarà il soggetto abilitato ad identificare il lavoratore per il quale viene effettuato
l’adempimento, assumendo, nel caso di specie, la funzione di “incaricato di un pubblico servizio”
dovendo attestare l’identità dell’interessato, come ben specificato nell’allegato B al D.M. 15
dicembre 2015.. Quest’ultimo deve utilizzare la propria utenza “clic lavoro” per accedere alle
4
funzionalità con successiva trasmissione del modulo attraverso la firma digitale del file PDF
prodotto con i dati comunicati per le dimissioni/risoluzione consensuale, per la loro eventuale
revoca e per il salvataggio di questo nel sistema informatico SMV.
Sia nella prima che nella seconda ipotesi, la procedura che prevede l’apertura del “form on-line” sul
sito ministeriale per l’immissione dei dati si conclude con l’invio delle dimissioni (che contengono
l’anno, il mese, il giorno, l’ora, il minuto, il secondo ed il millesimo di secondo) sia all’indirizzo
PEC del datore (fornito dal sistema, ma la circolare n. 12 aggiungendo la congiunzione “anche”
rende possibile la trasmissione pure utilizzando la semplice posta elettronica) che a quello della
Direzione territoriale del Lavoro la quale riceverà una notifica sul “proprio cruscotto”, potendo,
come il datore di lavoro, visionare unicamente il modulo senza la possibilità di poter intervenire. In
Trentino Alto Adige ed in Sicilia, attesa la competenza primaria in materia di lavoro esercitata dalle
realtà territoriali del posto, il modello viene inviato alle Province di Trento e Bolzano ed alla
Regione siciliana.
Va ricordato che, secondo la previsione del comma 2 dell’art. 26, una volta inviato il modulo il
lavoratore ha, comunque, la possibilità di revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale entro i
successivi sette giorni: nulla dice il Legislatore in relazione a tale periodo ma, ovviamente, non
essendoci stata prestazione non c’è retribuzione ed, inoltre, qualora siano state corrisposte somme a
seguito di recessi consensuali o di trattamento di fine rapporto incombe sul soggetto interessato
l’onere della restituzione (prima la norma lo diceva chiaramente oggi, per la verità, nulla afferma).
Questa, per sommi capi, è la procedura e queste, ad avviso di chi scrive, sono alcune criticità che
possono presentarsi ed alle quali si cerca di dare una risposta:
a) Se, per una ragione qualsiasi, nel caso in cui il lavoratore proceda in autonomia, l’iter “si
inceppi” (ad esempio, perché “tarda” l’invio della seconda parte del PIN che avviene, per
posta, in data successiva alla richiesta, ed il lavoratore fa perdere le proprie tracce perché ha
avuto un’altra possibilità lavorativa o è tornato all’estero e, quindi, non formula le
dimissioni su “quel modello”), cosa succede, atteso che qualsiasi altra modalità appare
esclusa? Può il datore, in mancanza di una esplicito invio di una comunicazione come
richiedeva la vecchia norma che è rimasta in vigore fino all’ 11 marzo 2016, spedire al
lavoratore una nota con un invito ad adempiere attraverso una apposita diffida, in maniera
tale che, in futuro, in caso di contenzioso, si possa dimostrare la buona fede? Ad avviso di
chi scrive, si, perché, pur non essendo prevista dalla norma ( e, quindi, non avrebbe il valore
di rendere efficaci le dimissioni), rappresenterebbe, soltanto, un invito a quei principi di
correttezza e di buona fede nella esecuzione dei contratti che scaturiscono direttamente da
nostro codice civile. Si ritiene, inoltre, di rispondere positivamente alla domanda
conseguente relativa alla “non retribuzione” concernente i giorni in cui, pur in assenza delle
dimissioni “fatte” (ci si scusa se si continua ad adoperare la parola del Legislatore delegato),
non ci sia stata prestazione. Una soluzione al problema potrebbe essere trovata nel decreto di
riforma dei decreti legislativi attuativi del “Job Act” che l’Esecutivo potrà varare entro i
dodici mesi successivi alla emanazione degli stessi, prevedendo una norma che dia la
possibilità al datore di lavoro di “mettere in mora” l’interessato, vanificando l’eventuale
comportamento “inerte” dello stesso, così come avviene con la procedura prevista dall’art. 4
della legge n. 92/2012, rivalutando, in un certo senso, i c.d. “comportamenti concludenti”;
b) Se il lavoratore intende “fare” le dimissioni in autonomia ed il PIN INPS tarda, come si deve
comportare, in caso di “scavallamento” della data, in quelle ipotesi in cui il CCNL prevede
che le dimissioni, con il relativo periodo di preavviso, debbono, ad esempio, essere
presentate il giorno 15 del mese (CCNL pubblici esercizi)? Sicuramente, ci si troverà ad un
ad uno slittamento molto pesante e per il datore di lavoro ci sarà il problema di come
imputare, entro la fine del mese successivo, i giorni di assenza sul Libro Unico del Lavoro
(assenza non giustificata, assenza non retribuita, permessi non retribuiti, ecc.);
c) Può il datore di lavoro, in assenza delle dimissioni formali, procedere al licenziamento
dell’interessato, motivato dall’assenza ripetuta? La risposta è positiva ma in questo caso si
5
d)
e)
f)
g)
tratterebbe di licenziamento adottato al termine di una procedura di contestazione con tutte
le questioni connesse non ultima quella del pagamento del c.d. “ticket”, qualora il rapporto
sia stato subordinato ed a tempo indeterminato, sia pure parziale, il cui valore massimo
(rapportato a tre anni e riferito all’anno 2016) è pari a 1469,95 euro, oltre alla indennità di
mancato preavviso. Per quelle imprese alle quali, ai fini di eventuali agevolazioni rientranti
nell’”orbita comunitaria” (ad esempio, art. 4, commi 8 e 9 della legge n. 92/2012), viene
richiesto l’incremento occupazionale, il licenziamento appena citato, riconducibile al
giustificato motivo soggettivo, consente, comunque, la fruizione del beneficio, rientrando
nella ipotesi della non computabilità disciplinata dall’art. 40 del Regolamento CE n.
800/2008. Nel caso in cui il licenziamento, sostitutivo delle dimissioni riguardi un rapporto
di apprendistato, esso potrebbe incidere negativamente (nelle aziende con almeno cinquanta
dipendenti) sulla percentuale di stabilizzazione dei contratti, fissata dall’art. 42, comma 8,
del D.L.vo n. 81/2015, nel 20% riferito ai rapporti instaurati nell’ultimo triennio. Il
pagamento del “ticket” fa sì che il lavoratore “potenzialmente” dimissionario, nel caso in cui
resti disoccupato, percepisca la NASPI (cosa che non avviene nel caso in cui sia
l’interessato a recedere dal rapporto, con la sola eccezione della c.d. “giusta causa”), con il
conseguente vantaggio, per chi dovesse assumerlo a tempo indeterminato in un momento
successivo legato, alla fruizione del 20% dell’indennità non ancora percepita (art. 24 del
D.L.vo n. 150/2015), nel rispetto delle condizioni richieste dall’art. 7 del D.L. n. 76/2013,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 99/2013. Va, per completezza di informazione,
precisato che la fruizione della NASPI consente al disoccupato di portare in dote
all’eventuale datore di lavoro anche i vantaggi economici, normativi, contributivi e fiscali
connessi con una assunzione con contratto di apprendistato professionalizzante per una
qualificazione o riqualificazione professionale, possibile, senza limiti di età, per effetto
dell’art. 47, comma 4, del D.L.vo n. 81/2015;
Può il datore di lavoro rinviare il pagamento delle competenze di fine rapporto in assenza
della compilazione del modulo? La risposta positiva si “scontra” con i tempi, nel senso che,
trattandosi di retribuzione differita, oltre certi limiti non si può andare, atteso che ai sensi
dell’art. 2120 c.c. esso va erogato in qualunque circostanza e qualunque sia la causa della
cessazione del rapporto: tuttavia una soluzione “pratica” potrebbe essere quella di invitare il
lavoratore a passare in azienda per percepire le competenze di fine rapporto, dopo aver
proceduto a formalizzare le dimissioni attraverso il solo iter previsto dalla legge. La
circolare n. 12 afferma che in presenza di dimissioni presentate alla “vecchia maniera”, “il
datore di lavoro dovrebbe invitare il lavoratore a compilare il modulo nella forma e con le
modalità telematiche previste dalla nuova disciplina”. Questo, tuttavia, non risolve il
problema relativo al “che fare” rispetto ad un comportamento “inerte”;
In quale posizione si verranno a trovare nell’organico aziendale quei lavoratori che non
avranno “fatte” le dimissioni secondo la procedura e che non le faranno? Finchè la
situazione non si sarà chiarita, essi saranno in una sorta di “limbo” e rientreranno, a tutti gli
effetti, nel computo numerico. E’, indubbiamente, una situazione limite e paradossale alla
quale, obiettivamente, il datore cercherà in qualche modo di trovare una soluzione (ad
esempio, attraverso il licenziamento);
L’iter riguarda anche i rapporti per i quali è in corso il patto di prova? La norma non ne
parla, ma il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 12, li esclude;
L’iter riguarda anche i lavoratori che si dimettono per il raggiungimento dei limiti di età per
il pensionamento di vecchiaia, qualora il datore di lavoro non proceda alla risoluzione del
rapporto? Qui, la risposta è che, la procedura, pur non essendo esclusa dalla norma, non
appare, nella sostanza, necessaria in quanto la eventuale prosecuzione fino a 70 anni, senza
percezione di trattamento pensionistico, prevista dalla legge n. 214/2011 (che, in questo
caso, sarebbe attivabile attraverso una revoca delle dimissioni), necessita del consenso del
datore di lavoro, non configurandosi come diritto potestativo del lavoratore, secondo quanto
6
h)
i)
j)
k)
l)
m)
affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 17589 del 4 settembre
2015. In ogni caso, il Ministero del Lavoro non tocca la questione nella circolare n. 12.
Diverso potrebbe essere il discorso in caso di pensionamento anticipato: qui le dimissioni
dovrebbero essere formalizzate seguendo l’iter previsto dal D.M. 15 dicembre 2015.
Tuttavia, per quel che possono valere le indicazioni fornite con la FAQ ministeriale, la
procedura viene richiesta in entrambe le ipotesi appena trattate;
L’iter riguarda anche i lavoratori con contratto di apprendistato durante il periodo
formativo? La risposta è positiva;
Un lavoratore con contratto di lavoro intermittente a tempo indeterminato che volesse
rassegnare le dimissioni è obbligato a seguire la procedura? La legge non lo esclude e
neanche la circolare n. 12 dice qualcosa per cui la risposta è positiva. Ad avviso di chi
scrive, però, regole di buon senso (criterio che il Ministero del Lavoro, forzando la norma,
ha adottato per le dimissioni del personale pubblico) potrebbero far propendere per il no, in
quanto, pur non essendo le stesse efficaci, l’eventuale nuova prestazione dipende dalla
“chiamata” del datore di lavoro che, se non verrà mai, non avrà alcuna conseguenza su quel
rapporto. Piuttosto, si potrebbe pensare alla necessità delle dimissioni con la procedura
ministeriale nel caso in cui (più teorico che pratico, visto come l’istituto è rimasto pressoché
irrealizzato) il datore di lavoro abbia riconosciuto l’indennità mensile di disponibilità
prevista dall’art. 16, comma 1, del D.L.vo n. 81/2015. Siccome le dimissioni per poter
essere efficaci debbono essere “fatte” attraverso il modello e siccome il datore paga un
importo mensile per la disponibilità esclusiva alla risposta, sarebbe opportuno che, in questo
caso, venga seguita la procedura ben sapendo, in ogni caso, che a fronte di un lavoratore
“inerte”, il datore di lavoro potrebbe seguire la strada del licenziamento (art. 16, comma 5)
chiamandolo in servizio e registrando la conseguente assenza, cosa che potrebbe comportare
la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al
rifiuto;
La procedura trova applicazione anche al lavoro giornalistico, laddove l'esistenza di un
rapporto di lavoro subordinato è individuabile nell'inserimento continuativo nell'ambito
della organizzazione aziendale (il più delle volte, la prestazione si caratterizza con i requisiti
dell'autonomia)? E' indubbio che in questo caso la subordinazione presenta criteri, in
qualche modo, attenuati, rispetto alla figura tradizionale. In ogni caso, qualora il rapporto sia
di natura subordinata, la procedura delle dimissioni o della risoluzione consensuale non
potrà che essere quella telematica del modello ministeriale;
La procedura trova applicazione anche alle dimissioni dei detenuti prima della scadenza del
rapporto? Il lavoro all'interno dei penitenziari è previsto dalla legge. 354/1975 (art. 20 e 20 bis), mentre quello esterno postula una prestazione lavorativa a favore di un datore di lavoro
pubblico o privato disciplinata, per certi aspetti, dall'ordinamento penitenziario. Il
provvedimento di ammissione al lavoro esterno è di competenza della direzione dell'Istituto
di pena, a seguito dell'approvazione del magistrato di sorveglianza. Ebbene, anche in questi
casi, le eventuali dimissioni, per essere efficaci, debbono passare attraverso il modello
informatico;
La procedura trova applicazione anche alle risoluzioni "prima della scadenza contrattuale"
dei contratti degli atleti e degli sportivi, disciplinati dalla legge n. 91/1981? La risposta è
positiva, laddove il rapporto si concretizza come subordinato, sia pure disciplinato da regole
speciali. L'art. 5 prevede che le parti possano apporre un termine di durata non superiore a
cinque anni. Da ciò discende che nel caso in cui per risoluzione consensuale (che è la
caratteristica del c.d. "mercato dei calciatori") il contratto si risolva "prima del tempo", sarà
necessario esplicitare la volontà attraverso la procedura prevista dal modello;
La procedura trova applicazione anche nei confronti dei soci lavoratori che, in ossequio alla
previsione contenuta nella legge n. 142/2001, hanno stipulato un ulteriore e distinto rapporto
7
n)
o)
p)
q)
r)
s)
di lavoro subordinato? La risposta è positiva relativamente alla risoluzione del predetto
rapporto subordinato;
La procedura trova applicazione anche alle dimissioni (o risoluzioni consensuali) prima
della scadenza di personale con la qualifica dirigenziale? La risposta è positiva:
Cosa succede se un lavoratore recede, “ante tempus”, da un tirocinio o da una prestazione di
lavoro accessorio? La procedura non va effettuata in quanto il tirocinio, se genuino, non si
configura come rapporto di lavoro subordinato e la stessa cosa si può dire delle prestazioni
di lavoro accessorio che, regolamentate all’interno del D.L.vo n. 81/2015, si qualificano
soltanto con il limite reddituale, non essendo una tipologia contrattuale;
L’iter riguarda anche le dimissioni per giusta causa (mancato pagamento delle retribuzioni,
mobbing, violenze sessuali, comportamenti fortemente discriminatori, trasferimento in una
unità produttiva fortemente disagiata, ecc.) che consentono al lavoratore di accedere al
trattamento di NASPI? Il contenuto dell’art. 26 non sembra prevedere questa eccezione che,
invece, riguarda, soltanto, il lavoro domestico e le risoluzioni consensuali o per dimissioni
avvenute in un atto redatto innanzi ad una “sede protetta” (commissione provinciale di
conciliazione presso la DTL - art. 410 cpc -, sede sindacale – art. 411 cpc -, commissione di
certificazione – art. 31 della legge n. 183/2010 - e, si aggiunge, in sede giudiziale - art. 185
cpc -). C’è da rimarcare come nel modello ministeriale non sia prevista una specifica casella
che distingua l’ipotesi delle dimissioni per giusta causa dalle altre, cosa che potrebbe
comportare una serie di problemi operativi per l’INPS;
Cosa succede se il lavoratore intende recedere dal rapporto, rinunciando a lavorare il periodo
di preavviso? La risposta del Ministero appare non propriamente consona al quanto previsto
dall’art. 2118, comma 2, c.c.: infatti afferma che “resta fermo l’obbligo di rispettare il
termine di preavviso, salvo il caso in cui sussista una giusta causa di dimissioni e fermo
restando che, in caso di mancato rispetto del termine di preavviso, le dimissioni, seppur
immediatamente efficaci, obbligano il lavoratore al risarcimento dell’eventuale danno”.
Forse ci si dimentica del citato comma 2 dell’art. 2118 c.c. ove si afferma che in mancanza
di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo
della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. Di conseguenza, non c’è
alcun “obbligo” e “l’eventuale risarcimento del danno” è stato già previsto nel codice civile
con la indicazione di una indennità equivalente all’importo della retribuzione relativa al
periodo di preavviso. Se, poi, con quella frase il Ministero del Lavoro intendeva riferirsi
all’eventuale risarcimento del danno in caso di risoluzione anticipata del contratto a termine,
è vero che questo può essere richiesto dal datore ma è anche vero che nel contratto a tempo
determinato non è previsto il preavviso che, invece, sussiste (art. 2118 c.c.) in quello a
tempo indeterminato;
Cosa succede se il lavoratore dopo aver “fatto” le dimissioni secondo la procedura indicando
quale giorno di risoluzione del rapporto una data successiva (ad esempio, al termine del
periodo di preavviso), si trovasse di fronte ad un datore di lavoro che pagando la relativa
indennità, rinunci al periodo di preavviso lavorato? Va rifatta la procedura perché la data di
cessazione del rapporto è diversa? La logica propende per il no e su tale soluzione si attesta
una FAQ ministeriale: tuttavia, la data di cessazione del rapporto comunicata
telematicamente dal datore di lavoro ai servizi per l’impiego nei cinque giorni successivi
alla effettiva cessazione sarà diversa da quella comunicata al sistema informatico del
Ministero del Lavoro attraverso il modello. Ciò, tuttavia, non inficia la procedura in quanto
non necessariamente le due date debbono coincidere, atteso che ai fini della effettiva
cessazione, conta l’invio on-line della comunicazione del datore di lavoro;
Cosa succede se il lavoratore avendo “fatto” le dimissioni ad una certa data comprensiva del
periodo di preavviso si ammala o subisce un infortunio? Se per effetto della malattia o
dell’infortunio si supererà la data indicata, il rapporto cesserà con la fine del “fatto
impediente”. Il buon senso propende per la non “ripetizione” delle dimissioni (ed il
8
t)
u)
v)
w)
x)
y)
Ministero è d’accordo con tale impostazione che viene espressa in una FAQ), ma anche in
questa ipotesi la data comunicata al centro per l’impiego che è quella della effettiva
cessazione del rapporto, sarà diversa da quella contenuta nel modello;
Cosa succede se un lavoratore, per scarsa conoscenza del contratto, indica un periodo di
preavviso inferiore a quello previsto? Le dimissioni, con la ricezione del modello,
divengono inefficaci e la conseguenza di tutto sarà che il lavoratore lavorerà soltanto una
parte del preavviso, potendo,inoltre, il datore imputare il periodo residuo a mancato
preavviso;
Cosa succede se le parti, di comune accordo, ritengono di dover prolungare il periodo di
preavviso che, magari, il lavoratore riteneva fosse più breve? La procedura telematica delle
dimissioni non incide, nella maniera più assoluta, sulla volontà delle parti: anche in tale
ipotesi la comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto fornisce la data della
effettiva estinzione del rapporto;
Cosa succede se, durante il periodo di preavviso, il lavoratore fruisce di giorni di ferie?
Queste ultime sospendono il preavviso e, in teoria, il limite lavorativo si sposta in avanti:
tuttavia, ciò non incide sulla validità della procedura e sul fatto che la effettiva estinzione del
rapporto si accerta con la comunicazione telematica di cessazione effettuata dal datore di
lavoro;
La procedura si applica anche agli esodi volontari (collettivi od individuali con dimissioni) a
seguito di procedura di riduzione di personale o anche in quella anticipata ex art. 4, commi
da 1 a 7 – ter, della legge n. 92/2012? La risposta è positiva pur se la procedura può essere
evitata con accordi sottoscritti in sede protetta (commissione di conciliazione presso la
Direzione territoriale del Lavoro, sede sindacale ex art. 411 cpc, commissione di
certificazione, sede giudiziale);
Come è possibile “fare” la procedura della risoluzione consensuale ove partecipi dovrebbero
essere entrambi i soggetti (datore di lavoro e lavoratore) se quella ipotizzata dal D.M. 15
dicembre 2015 prevede un unico soggetto, il lavoratore? La risposta è, ovviamente, che non
è possibile se per risoluzione consensuale si intende ciò che, fino ad oggi, si è inteso con tale
clausola: anche sotto tale aspetto si attendono indicazioni ministeriali, al momento, non
pervenute;
Se il lavoratore si rivolge ad un patronato o ad un altro dei soggetti abilitati attraverso il
quale “fare” le proprie dimissioni e, per una ragione qualsiasi, le stesse vengono
“calendarizzate” ad una data, di parecchio, successiva (cosa possibile se, ad esempio, si è nel
pieno delle denunce dei redditi o di altri adempimenti fiscali o sindacali) cosa succede? Se il
lavoratore ha chiesto di espletare la procedura avanti ad una commissione di certificazione
costituita ex art. 76 del D.L.vo n. 276/2003 (ad esempio, quella presso le DTL, gli ordini
provinciali dei consulenti del lavoro e le Università abilitate) che è un organo collegiale e
che “non siede in permanenza”, occorre la convocazione della stessa e la presenza dei
membri effettivi, a cominciare da quella del Dirigente della Direzione territoriale del Lavoro
e di quelli dell’INPS e dell’INAIL. Così come è scritta la norma non resta altro che
attendere. Per la verità, il Ministero del Lavoro, come si vedrà successivamente, è corso ai
ripari con una nota del 24 marzo 2016, facendo svolgere i compiti della Commissione di
certificazione presso la DTL, direttamente al Direttore o ad un proprio funzionario delegato:
in questo senso si è sanato un paradosso in quanto le Direzioni territoriali del Lavoro erano
soltanto interessate alla convalida delle dimissioni dei genitori entro i tre anni dalla nascita
del bambini e partecipano a quelle che avvengono, unitamente a quelle (ivi comprese le
risoluzioni consensuali) con un atto di conciliazione redatto in sede di commissione
provinciale di conciliazione (ove il Direttore o un funzionario delegato sono presidenti o, si
ripete, avanti alla commissione di certificazione) ma non potevano essere interessate da
quelle previste dal modello del decreto ministeriale. Era un paradosso della norma (art. 26,
comma 4) che è stato, positivamente, superato in via amministrativa;
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z) L’aver individuato tra i soggetti abilitati le organizzazioni sindacali, potrebbe, al di là della
procedura, portare a rivendicazioni di natura economica riferite all’intercorso rapporto di
lavoro? Si tratta di due questioni diverse che non vanno confuse in quanto, a prescindere
dall’iter procedimentale, il lavoratore, con l’assistenza del sindacato (magari, conosciuto per
l’occasione), può presentare le proprie rivendicazioni di natura economica relative
all’applicazione di istituti legali e contrattuali;
aa) Cosa intende il Legislatore delegato quando parla di patronati, organizzazioni sindacali ed
Enti bilaterali? Il Ministero del Lavoro, con la nota n. 1765 del 24 marzo 2016, ha chiarito
che si intendono le “sedi”. In ossequio al principio previsto dall’art. 39 della Costituzione,
non sembrano esserci limiti: quindi le dimissioni potrebbero essere “fatte” attraverso
organizzazioni sindacali, patronati ed Enti bilaterali poco rappresentativi ma anche non
necessariamente espressione del mondo dei lavoratori subordinati (i patronati e le
organizzazioni sindacali, ad esempio, sono di varia estrazione ed il Legislatore delegato non
ha fatto alcuna distinzione), senza alcun vincolo territoriale legato alla sua residenza o al
luogo dell’attività lavorativa, come chiarisce la circolare n. 12. Ovviamente, per tali soggetti
sono necessarie le credenziali di accredito su clic lavoro e, quindi, si può procedere senza
che il lavoratore sia in possesso del PIN INPS. Il medesimo discorso della “non
radicamento” sul territorio per l’invio del modulo delle dimissioni riguarda le Commissioni
di certificazioni presso le Direzioni territoriali del Lavoro e quelle delle Commissioni di
certificazioni istituite dagli Ordini provinciali dei consulenti del Lavoro (cosa che
rappresenta una eccezione), mentre, ad esempio, tale questione non si pone per le
Commissioni di certificazioni istituite presso le Università la cui competenza è, da sempre,
estesa su tutto il territorio nazionale. A tal proposito c’è da sottolineare una importante
apertura operata dal Ministero del Lavoro con la nota sopracitata, firmata dai tre Dirigenti
Generali che hanno siglato la circolare n. 12: la dizione normativa che fa riferimento alle
Commissioni di certificazione (nel caso di specie quelle presso le Direzioni territoriali del
Lavoro) va intesa non come “organo collegiale” come “sedi”, con la conseguenza che
l’attività può essere svolta direttamente dal Direttore della DTL (presidente della
Commissione) o da personale dell’Ufficio delegato. Il lavoratore, pertanto, può compilare il
modello per il tramite del funzionario che provvede alla identificazione. Il Ministero del
Lavoro ha provveduto, a partire dal 25 marzo 2016, a fornire le credenziali alle singole
articolazioni periferiche. La soluzione adottata, seppur non perfettamente in linea con il
dettato normativo, appare, assolutamente, di buon senso e consente di superare, con il
coinvolgimento diretto della struttura territoriale del Ministero (e, domani, dell’Ispettorato
Nazionale del Lavoro), una serie di problemi operativi che si sono presentati. Ed appare
chiaro che tale soluzione, magari dopo un apposito interpello, potrebbe essere adottata anche
da altre Commissioni di certificazioni come quelle istituite presso gli ordini provinciali dei
consulenti del lavoro o presso le Università e le Fondazioni Universitarie autorizzate;
bb) Se, per ragioni legate al ritardo nell’espletamento della procedura per una delle ipotesi sopra
esposte, l’invio del modello di dimissioni (con data e ora certa) va ben oltre il giorno in cui
il dipendente ha cessato di lavorare, scattando da quel momento la “settimana del possibile
ripensamento (i sette giorni) e, verificandosi questa ipotesi che discende, quale diritto
potestativo, soltanto dalla sua volontà, cosa succede se, nel frattempo, il datore ha proceduto
ad una nuova assunzione? Deve risolvere il secondo rapporto creando, nel caso di specie, un
altro contenzioso (e si possono pensare tutta una serie di problemi operativi emergenti)? Il
lavoratore deve revocare le proprie dimissioni (o risoluzione consensuale) utilizzando la
stessa procedura informatica seguita per la presentazione delle stesse e, probabilmente, se le
ha “fatte” attraverso un soggetto abilitato le potrà revocare anche in autonomia attraverso il
codice identificativo;
cc) Ha senso il diritto al ripensamento in un momento in cui la procedura pensata dal Dicastero
del Lavoro lo affranca da qualunque condizionamento (cosa, ad esempio, possibile con la
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procedura della legge n. 92/2012 ove, tra le ipotesi, c’è quella della firma con la frase
“liberatoria” di averle date senza alcuna costrizione, sul “retro” della copia delle dimissioni
inviate on-line al centro per l’impiego)? Probabilmente no, ma il Legislatore delegato l’ha
mantenuto e non resta che prenderne atto;
dd) Se le dimissioni o la risoluzione consensuale sono rese in “sede protetta” o riguardano il
lavoro domestico, sussiste il diritto di ripensamento? La risposta è no, in quanto è lo stesso
art. 26 del D.L.vo n. 151/2001 ad escluderlo in modo esplicito affermando al comma 7, la
non applicazione a tali ipotesi dei commi compresi tra 1 e 4 (del diritto di ripensamento
parla il comma 2);
ee) Se un lavoratore non ha, assolutamente, “fatto” le dimissioni seguendo la procedura (ci si
scusa, nuovamente, della frase poco usuale nel linguaggio lavoristico ma è quella dettata dal
Legislatore delegato) e, a distanza di un notevole lasso di tempo, si ripresenta al lavoro ed
offre la propria disponibilità, cosa può fare un datore di lavoro? Poco, a meno che non abbia
proceduto al “licenziamento”. Il problema potrebbe essere non secondario, soprattutto in
tutte quelle situazioni nelle quali intorno ai lavoratori ai limiti del disagio (si pensi, ma non
solo, ai lavoratori extra comunitari) si ravvisino “consigli” dettati dall’unico scopo di
ottenere una sorta di risarcimento per la eventuale rinuncia;
ff) Le dimissioni, seppur efficaci, possono essere annullate con ricorso giudiziale? Esse, da un
punto di vista teorico sono soggette come tutti i contratti, secondo la previsione contenuta
nell’art. 1429 c.c., ad annullabilità per vizio di consenso che si verifica allorquando la
volontà è viziata da errore, violenza, dolo o l’interessato si trovava, in quel momento, in
stato di incapacità naturale. Si tratta di ipotesi che, nel concreto, debbono essere accertate
dal giudice come allorquando (cosa, in passato, riconosciuta dalla giurisprudenza) vi sia
stato un comportamento intimidatorio e coercitivo (minaccia di un licenziamento
ingiustificato per fatto insussistente) che ha indotto il lavoratore a presentare le proprie
dimissioni (e ciò vale, anche oggi, in presenza del modello informatico). L’incapacità
naturale può anche non essere totale, concretizzandosi in uno stato di turbamento psichico,
sia pure temporaneo che impedisce una valutazione seria dell’atto delle dimissioni, sia pure
intervenute con il modello telematico. Ma qui, la sussistenza di queste condizioni, pur
legittimando la richiesta dell’annullamento, non significa, assolutamente, che il giudice
giunga alle conclusioni desiderate dall’attore;
gg) Quando va effettuata la comunicazione, in via telematica, di cessazione del rapporto, al
centro per l’impiego? Il termine resta sempre quello dei cinque giorni dalla effettiva
cessazione del rapporto, salvo per le Agenzie di somministrazione ed i datori di lavoro
pubblici per i quali il termine è il giorno 20 del mese successivo. E’ su quello che, in caso di
inottemperanza, scatta la sanzione compresa tra 100 e 500 euro, onorabile attraverso la
diffida nella misura minima. Se, come sembra, le dimissioni debbono essere “fatte” secondo
la procedura individuata nel modello approvato con il D.M. 15 dicembre 2015 e non essendo
possibili altre forme alternative, i cinque giorni decorreranno dalla ricezione nella PEC
aziendale (o nella posta elettronica, secondo la circolare n. 12) del modello proveniente dal
sistema informatico del Ministero. Su questo punto, la circolare n. 12 afferma che soltanto
con la conoscenza legale delle dimissioni avvenuta attraverso la ricezione del modulo, “il
datore di lavoro potrà considerare valide le dimissioni presentate dal lavoratore e
considerare risolto il contratto e, conseguentemente, presentare entro i cinque giorni dalla
data di cessazione, la comunicazione prevista dall’art. 9 – bis del D.L. n. 510/1996, con le
modalità previste dal D.M. 30 ottobre 2007. Analoga considerazione vale anche in caso di
risoluzione consensuale”. Ma se il lavoratore per inerzia, dimenticanza od altre situazioni di
tale genere, non effettua la comunicazione telematica, può il datore di lavoro restare “nel
limbo” e non fare la comunicazione? E se un nuovo datore di lavoro assume il lavoratore,
magari ad orario pieno, in mancanza di una comunicazione ai servizi per l’impiego, sulla
posizione di quest’ultimo, dovrebbero risultare due rapporti di lavoro (magari, full–time) di
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cui uno “sulla carta”, nella sostanza non attivo? Su questo punto si attendono chiarimenti
amministrativi, al momento non pervenuti;
hh) Come va intesa la sanzione prevista al comma 5 dell’art. 26? Il Legislatore delegato afferma
che “salvo il caso che il fatto costituisca reato, il datore di lavoro che alteri i moduli di cui al
comma 1 è punito con la sanzione amministrativa da euro 5.000 ad euro 30.000.
L’accertamento e l’irrogazione della sanzione sono di competenza delle Direzioni territoriali
del Lavoro. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla legge n.
689/1981”. Fin qui la norma ma ci si chiede come sarà possibile alterare i moduli, atteso che
questi sono all’interno di una procedura ministeriale informatica e protetta, ove la “matrice”
è nel sistema ministeriale e ove copia delle dimissioni (o risoluzione consensuale) è inviata
alla Direzione del Lavoro, se non attraverso una “forzatura” informatica sul sito del
Dicastero del Welfare? Mistero, a meno che il Legislatore delegato non faccia riferimento ad
elementari alterazioni (ad esempio, “sbianchettatura” della data) della copia inviata al datore
di lavoro al quale, per inciso, è proibito qualunque accesso nella procedura (come, del resto,
alla Direzione territoriale del Lavoro). In questo caso, non si capisce quale potrebbe essere
l’effetto, atteso che l’originale non è in suo possesso. In ogni caso, il punto 4 della circolare
n. 12, si limita a riportare il testo normativo, senza alcuna delucidazione;
ii) E’ stata previsto un qualcosa che comprenda nella banca dati delle dimissioni e delle
risoluzioni consensuali che si verrà a creare nel sistema ministeriale anche quelle che
avvengono, legittimamente, in altro modo (sedi protette, convalida ex art. 55, comma 4, del
D.L.vo n.151/2001)? Dalla lettura del provvedimento non sembra che sia stata prevista una
“catalogazione” delle stesse all’interno del sistema.
jj) In che modo il Ministero del Lavoro ha inteso rendere effettivo l’invio del modello sul
“cruscotto” della Direzione territoriale del Lavoro? E’, intervenuto inoltrando tutte le
dimissioni all’indirizzo di PEC delle singole articolazioni periferiche, cosa che sembra aver
causato “problemi di intasamento” negli Uffici più grandi. Probabilmente, ben sapendo che
la PEC istituzionale serve per notifiche di verbali ispettivi ed altri adempimenti prioritari,
sarebbe consigliabile creare presso ogni DTL (destinata a cambiare nome in “Ispettorato”,
per effetto del D.L.vo n. 149/2015) un indirizzo di posta elettronica esclusivamente dedicato
a ricevere queste comunicazioni.
E’ auspicabile che su questi punti esposti sommariamente (ma anche su altri aspetti che,
necessariamente, sono da approfondire), il Dicastero del Lavoro offra, magari in un momento
successivo, i propri chiarimenti amministrativi che vadano ben al di là della circolare n. 12, delle
FAQ riportate sul sito ufficiale del Dicastero e della figura, pubblicata con il modello nella Gazzetta
Ufficiale n. 7 dell’11 gennaio 2016, con la quale, a mo’ di grafico, è stata proposta all’occhio
dell’utente la sequenza delle attività e decisioni che compongono l’intera procedura per “fare” le
dimissioni o la risoluzione consensuale, per trasmetterle e per revocarle.
Bologna, 28 marzo 2016
Eufranio MASSI
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