...

“OLTRE” 27 (Gennaio / Aprile 2014)

by user

on
Category: Documents
21

views

Report

Comments

Transcript

“OLTRE” 27 (Gennaio / Aprile 2014)
OLTRE
Il giornale dello spazio privato del SE'
Quadrimestrale di psicologia, psicoterapia, psicoanalisi, ipnosi, sessuologia, neuropsicologia.
Num. 27 – Gennaio / Aprile 2014 - Registrazione al Tribunale Ordinario di Torino n. 5856
del 06/04/2005 - Dirett. responsabile: Dott. Ugo Langella - Psicologo, Psicoterapeuta Iscritto all'Ordine degli Psicologi ed all'Albo degli Psicoterapeuti, Posizione 01/246 al
17/07/1989 - Str. S. Maria 13 - 10098 RIVOLI (To) - Tel. 0119586167 - [email protected]
http://www.oltrepsy.it/ - Esente da pubblicità - Stampa in proprio - Pubblicazione gratuita.
________________________________________________________________________________
SOMMARIO – 1 Bisogna imparare a stare soli! - 2 Quello che un figlio vorrebbe dal
padre - 3 Per favore, lasciateli dove sono! - 5 Sulla morte - 10 La siringhetta - 12 Il
curriculum di Ugo Langella.
BISOGNA IMPARARE A STARE SOLI!
L’essere umano ha la brutta, bruttissima abitudine di cercare appoggio negli altri. In quasi
tutti gli individui esiste un più o meno sottile bisogno, appena succede qualcosa di brutto, di
nuovo e/o di imprevisto, di appoggiarsi subito in un modo o nell’altro a qualcuno o di
mettersi a pregare una qualche divinità / genitore, anziché incominciare ad affrontarlo da
solo/a. Si tratta di un retaggio infantile che persiste nella vita adulta, e che se non affrontato
con determinazione, mantiene fragile l’IO. Spesso questa fragilità ci spinge all’aggregazione
sociale non per il vero desiderio di essa, anche perché in qualche modo sempre limitante del
comportamento individuale, ma semplicemente per il bisogno di sicurezza e di protezione
diurna e notturna che essa dà. Dobbiamo invece avere il coraggio di imparare a stare soli,
nel senso di imparare in primo luogo a sopportarne da soli l’angoscia, quale che ne sia
l’origine, senza cercare l’aiuto di nessuno come se fossimo soli al mondo, ed in secondo, a
reagire all’evento nel modo più appropriato. Spesso la cosa più preoccupante non è l’evento
in sé, ma come noi potremmo viverlo. Siamo noi l’incognita per noi stessi!
Cosa ci taglia le gambe e ci paralizza il cervello, infatti, è l’angoscia al pensiero di come
possiamo reagire in solitudine alla malattia, ad una minaccia di morte reale o presunta, ma
anche solo al pensiero del dover gestire da soli e talvolta in condizioni di emergenza aspetti
pratici, tecnici, burocratici, etc; al dover prendere da soli decisioni che ci riguardano senza
trascurare di valutare tutti gli aspetti della questione, prevedendo anche il rischio e le
conseguenze di eventuali errori di valutazione e dei possibili sensi di colpa e conflitti interni
per questi errori. Spesso la cosa più destabilizzante potrebbe essere il dover farci carico
dell’angoscia di morte altrui, soprattutto se di persone affettivamente importanti o fragili
come i bambini e gli anziani, dovendo comunque rassicurarle quando invece non siamo in
grado di rassicurare noi stessi.
Tutto questo stato di cose si può cambiare, e il modo migliore non è nascondere la testa
sotto la sabbia come fanno gli struzzi, ma avere il coraggio di vedere in faccia le situazioni
prima che accadano, consapevoli che qualora davvero accadessero non saremmo mai
abbastanza preparati, tenendo quindi in conto anche questo. Figurarsi se non lo fossimo per
nulla! Di cose brutte intorno a noi ne accadono a sufficienza, per cui non occorre nemmeno
avere molta immaginazione. Alcune di esse probabilmente non ci riguarderanno mai, ma
1
altre sicuramente. Se poi vicino a noi c’è qualcuno, tanto meglio, ma è brutto pensare
che ci serva per darci una sicurezza che invece dovremmo trovare in noi stessi ed
eventualmente saper dare anche agli altri. E poi non è detto che la persona alla quale
saremmo tentati di appoggiarci, in caso di bisogno sia in grado di intervenire con la rapidità
e l’efficacia che vorremmo. Riflettere su tutto questo non vuol dire essere tragici, ma
semplicemente previdenti. Il tipo di appoggio e l’estensione di esso di cui un individuo
potrebbe aver bisogno variano in funzione di numerosi parametri, i più importanti dei quali
sono: l’età, lo stato di salute, le invalidità, il livello di istruzione, la professione, le risorse
economiche, l’esperienza, la quantità dell’angoscia in quanto confusiva e paralizzante, la
difficoltà a contenere il senso di impotenza, altrimenti detto disperazione. Qualsiasi
elencazione sarebbe incompleta o ridondante. Basterebbe che ci guardassimo attorno e ci
chiedessimo come reagiremmo se capitasse a noi quello che sentiamo accadere ad altri,
predisponendoci psicologicamente a sopportarlo ed a reagire o facendocene una ragione,
anziché fare le corna! Comunque, in primo luogo assoluto dobbiamo imparare a controllare
l’angoscia in eccesso, e se pensiamo di non riuscirci da soli, lo psicoterapeuta può aiutarci.
QUELLO CHE UN FIGLIO VORREBBE DAL PADRE
Quando ero bambino, mi capitava spesso come a tanti bambini, di avere la presa manuale
non abbastanza robusta, per cui quando impugnavo qualcosa, questo mi cadeva e mio padre
si infuriava. Naturalmente io mi risentivo. Tuttora qualche volta mi succede, ed ogni volta
mi arrabbio con me stesso come... mio padre faceva con me, ed a giudicare da quanto, ne
deduco che lui si arrabbiasse parecchio. A parte il fatto che poi ho capito che non è che la
mia presa fosse debole o che tale sia ora, ma che la debolezza fosse tale poiché se non lo
fosse stata e non lo fosse, sarebbe stata, al contrario: fortissima, e forse anche esagerata, ma
tant’è. Con il passar del tempo mi sono chiesto se siffatto modo di educarmi fosse consono
alla situazione, e se un diverso modo di comportarsi da parte di mio padre avrebbe potuto
ottenere un risultato migliore. Sarebbe bastato che mi avesse fatto notare la cosa in modo
più delicato e amorevole o, ancora meglio, che mi avesse aiutato a riflettere sull’intensità
della mia contrazione muscolare facendomela provare sul suo polso.
Forse non sarebbe cambiato nulla o forse si, comunque ancora oggi mi chiedo se per
quanto fastidiosa fosse la situazione che si veniva a creare, poiché alcuni oggetti, soprattutto
se piccoli, caduti per terra diventavano talvolta introvabili, o se delicati, andavano in pezzi,
valesse la pena che lui si arrabbiasse in quel modo. Qualsiasi cosa fosse accaduta a causa
della debolezza della mia presa, valeva la pena “disturbare” il nostro rapporto affettivo per
quella sciocchezza? Oggi risponderei ovviamente di no.
Tuttavia questa risposta non basta. Accade infatti a molti adulti di incazzarsi con
qualcuno, quale che ne sia l’età, il sesso, il rapporto di parentela, per l’accadere di un
qualche evento spiacevole di cui si ritiene responsabile quella persona. A parte il fatto che
numerosi individui, quando succede loro qualcosa, se la prendano sempre con gli altri
mentre dovrebbero prendersela con sé stessi per mille più un motivo, spesso ci sarebbe
comunque da chiedersi perché avere tale reazione, e soprattutto perché averla con le persone
più vicine, tanto più se amate o che dovrebbero esserlo.
Gli umani che hanno la rabbia facile potrebbero essere divisi in due categorie: 1) quelli
che se la prendono solo e sempre con i famigliari salvando il mondo esterno anche se
avrebbero tutti i motivi per aggredirlo, cosa che non fanno probabilmente poiché non ne
2
hanno il coraggio e: 2) quelli che se la prendono solo e sempre con il mondo esterno compresi i famigliari - anche se l’incazzatura nasce per colpa di loro stessi.
Certo, è preferibile la reazione di chi aggredisce un reale o potenziale persecutore
appartenente al mondo esterno, salvando i rapporti con le persone amate. Comunque il
responsabile della reazione in oggetto, anche se non direttamente aggredito, ha la chiara
sensazione di sentirsi ugualmente tale, o per lo meno colpevole dell’incazzatura dell’altro.
Io spiegherei la situazione così: se un individuo si arrabbia con il mondo esterno, è
probabile che senta in qualche modo di esserne vittima, mentre se si arrabbia con un
famigliare, è come se ce l’avesse indirettamente con sé stesso proiettato nell’altro. In tal
caso sarebbe opportuno chiedere scusa. Ebbene: mio padre aveva diversi motivi per
prendersela con sé stesso, ed è per questo che se la prendeva con noi bambini. Talvolta,
dicevamo prima, l’aggressività potrebbe anche essere giustificata. Varrebbe però la pena
chiedersi se davvero sia questo il comportamento migliore per aiutare un figlio a diventare
più consapevole.
Purtroppo una volta, con poche eccezioni, quello descritto era l’atteggiamento tipico dei
genitori. Oggi, sembra che la maggioranza di essi non reagisca più in quel modo, ma
neppure in modo corretto. Semplicemente: non reagiscono affatto. Lasciano correre e
neppure questo va bene, poiché esprime indifferenza, o per meglio dire: scoglionamento per
la propria funzione educativa, tuttavia irrinunciabile.
PER FAVORE, LASCIATELI DOVE SONO!
Nell’estate scorsa, è morto *****. Aveva 45 anni di età anagrafica ma una dozzina e certi
momenti anche meno di età mentale, all’interno di un corpo più grande e grosso di quello di
un adulto normale. E’ morto di una patologia di tipo tumorale con sede nell’intestino. Era da
anni che presentava una prominenza addominale accentuata, come una donna in continuo
stato di gravidanza, cosa che lo rendeva oggetto di benevola ironia da parte di chi lo
conosceva. Ultimamente, però, tale prominenza era aumentata, e si capiva che i nove mesi
erano stati superati da un pezzo ma il “bambino” continuava a non nascere. Di *****.
conosco tutta la storia. La sua mamma si era sposata prima dei 30 anni. Voleva un bambino,
ma purtroppo gli aborti si susseguivano. Allora si rivolse al ginecologo “luminare” di turno
dell’epoca, per farsi aiutare. Cosicché, per farla corta, per sei mesi le venne prescritto un
bombardamento di ormoni. In questi casi, quale conseguenza, con il passar del tempo
spesso o si ammala la madre, o il figlio esce come esce, o ambedue le cose. Beh, qui
andò male al figlio.
Il fatto è che il figlio successivo, prima dei 40 anni aveva già i capelli tutti bianchi. La
donna che lo sposò ebbe a sua volta diversi aborti, come sua suocera, finalmente seguiti da
un figlio che, a vederlo, lascia perplessi, mentre la figlia da bambina era sempre ammalata.
La domanda è: come cresceranno questi soggetti? Quali figli metteranno a loro volta al
mondo? Nello scrivere queste cose, non penso alla degenerazione fisiologica della razza
umana - non è il mio campo - ma alla crescente debolezza psicologica ed esistenziale di
quelli e degli individui che metteranno al mondo. Non vi sono dubbi che sempre di più la
medicina abbia come obiettivo la vittoria ad oltranza su tutte le patologie organiche, ma
che vita psichica avranno questi soggetti? Cioè, è possibile che saranno oppressi da una
quantità di pulsioni di morte (a livello inconscio) e quindi di angosce di morte (a livello
pre-conscio e conscio) maggiore di altri? Senza la minima incertezza la mia risposta è:
3
SI. Attraverso un trattamento psicoterapeutico di tipo psicoanalitico la situazione della loro
esistenza potrebbe migliorare poichè il loro IO ne uscirebbe più forte, ma rimarrebbe
sempre un “zoccolo duro” di angosce di morte più o meno latenti, fisiologicamente
giustificato anche se non facilmente localizzabile e sopratutto eliminabile, con il quale
il soggetto dovrà imparare a convivere. Il fatto è, però, che avendo simile trattamento un
costo temporale elevato, nel frattempo l’individuo potrebbe trovarsi a rinviare alcune scelte
esistenziali, che al termine di esso spesso non sarebbero comunque più praticabili.
E’ vero che la spinta alla riproduzione fa parte dell’istinto, ma quando è così forte sino al
punto da volere un figlio a tutti i costi, senza preoccuparsi troppo di quale vita avrà per le
conseguenze di quel “a tutti i costi”, più che spinta alla riproduzione non potrebbe trattarsi
ad esempio ad una qualche angoscia di troppo in uno o ambedue i potenziali genitori che
con la riproduzione ha ben poco a che fare, e che si servirebbe di essa per mimetizzarsi?
Sempre che non si tratti anche di altre motivazioni. Infatti, la madre di cui sopra prima della
gravidanza era un’impiegata, ed a seguito di una frustrazione sul lavoro, voleva accelerare
la gravidanza per stare a casa... Per il bene degli individui, se non vogliamo preoccuparci
della specie, sarebbe importante che nel futuro si studiassero a fondo non solo il DNA dei
candidati alla riproduzione, ma anche la loro motivazione, consigliandola soltanto ai
potenziali genitori con un maggiore indice di benessere fisico e psichico.
Si può anche condividere che la coppia decida di tenere un figlio di cui si sa a priori che
nascerà con dei problemi che complicheranno l’esistenza di tutta la famiglia, ma solo a patto
che i genitori sappiano bene cosa li aspetta. Nel caso di *****, già da subito presentava
ovvii ed evidenti segni di alterazioni fisiche e psichiche, ma i genitori, anziché stargli più
vicino, amarlo ancora di più e contenerlo con profondo affetto, lo criminalizzavano per il
suo modo di essere e - successivamente - di comportarsi, abbandonandolo presto a sé stesso
come se sperassero in tal modo di costringerlo a “crescere”. E’ ovvio che non andò così e
che ***** nel corso della sua esistenza fece tante sciocchezze, le conseguenze delle quali lo
privarono definitivamente del loro amore.
Intanto la sua pancia cresceva. Era da molto più di dieci anni che avrebbe dovuto essere
investigata, ma non meno la componente psicologica, come ancora prima invitai i genitori a
fare. Purtroppo non se ne fece nulla né in un senso e né nell’altro. Lo costrinsero persino a
fare il servizio militare: resistette due mesi e se ne tornò a casa più traumatizzato di prima.
Purché lavorasse, lo costrinsero ad accettare attività usuranti, dalle quali ne derivò un danno
permanente. Ho sempre pensato che più o meno consciamente lo volessero morto,
poiché era il loro disonore. Il resto è inutile descriverlo. Lo rividi gli ultimi giorni di vita e
mi fece molta pena, poiché nel suo viso sofferente di uomo condannato a morte, nonostante
la lunga barba vedevo in lui un bambino che era stato tolto dal paradiso del nulla per essere
catapultato nell’inferno dell’esistenza senza amore, semplicemente poiché la sua mamma
aveva voluto averlo a tutti i costi, e dopo averlo avuto, visto che non era come lo voleva,
l’aveva respinto. Non lo uccise fisicamente ma lo uccise affettivamente, come se fosse stata
colpa sua. E suo padre si comportò ancora peggio.
Per giunta, dopo la diagnosi infausta dei medici, i genitori non solo non condivisero le
sofferenze della sua fine ma: ORRORE! Lasciarono per casa il referto dettagliato
AFFINCHE’ LUI SE LO LEGGESSE! Quando lo seppi, subito sperai che non lo avesse
fatto, ma poi mi dissero di si, e credo che la sua pacata rassegnazione alla morte si
giustificasse con la profonda e definitiva consapevolezza del loro non amore, per cui la
morte che gli toglieva la vita appariva ai suoi occhi come una mamma più amorosa di quella
4
che gliel’aveva data! Allora vi prego, per favore, se non vengono lasciateli stare dove
sono, o meglio: pensateci bene non solo prima di farli nascere, ma anche prima di
concepirli! Non lo saprete mai, ma sicuramente anch’essi ve ne saranno grati!
COMMENTO – Certo, teoricamente la spinta alla riproduzione farebbe parte dell’istinto,
ma quando è così forte sino al punto da imporre un figlio a tutti i costi, senza preoccuparsi
troppo di quale vita avrà per le conseguenze di quel “a tutti i costi”, più che spinta alla
riproduzione potrebbe trattarsi di una qualche angoscia di troppo in uno o ambedue i
potenziali genitori, che con la riproduzione ha ben poco a che fare e che si servirebbe di essa
per mimetizzarsi.
Solo se parliamo di animali inferiori possiamo parlare di spinta alla riproduzione dovuta
all’istinto, ma circa gli umani, si rafforza sempre di più in me la convinzione che da
quando esiste la civiltà e con essa l’IO, la spinta alla riproduzione sia prevalentemente
una difesa dall’angoscia di separazione dalla madre di tipo simbiotico, bisogno che con
la genitorialità viene proiettato sul bambino. Tale situazione è destinata con il tempo a
ribaltarsi, per cui sarà il bambino che crescendo diventerà il genitore dei genitori, i
quali, invecchiando si affideranno simbioticamente sempre di più a lui come bambini.
Nel genitore, ciò potrebbe accadere come difesa dall’angoscia per la separazione; quindi,
dall’angoscia della solitudine e da quella causata dall’abulia aggravata dall’invecchiamento,
per cui l’individuo diventa sempre meno capace di badare a sé stesso. Naturalmente un solo
figlio costituirebbe una sicurezza precaria, per cui, più figli si mettono al mondo più la
precarietà verrebbe meno: se ne muore qualcuno, ne rimangono altri, o i loro figli,
accelerando così un sereno abbandono alle pulsioni di morte, cioè alla regressione, per
chiudere l’esistenza in una beata imbecillità che ottunderebbe sempre di più il cervello
davanti ad esse, chiamata psicosi senile e/o Halzheimer.
Ecco: io credo che la tensione della gravida davanti al parto, non sia dovuta solo
all’angoscia per esso in senso stretto, con tutto quello che ne consegue e le filosofie che si
pretende lo accompagnino, ma anche alla frenesia del mettersi in sicurezza davanti a tutta
una serie di angosce di cui prima abbiamo visto le principali - le altre sono dei derivati anche se inizialmente dovrà sopportarle per il tempo in cui il figlio cresce, ma di cui per il
futuro quest’ultimo dovrebbe costituire la sua polizza di assicurazione. Ovviamente tutto ciò
si può estendere anche al padre. Sarebbe un’illusione pensare che il figlio, senza un lavoro
psicologico su di sé da grande si comporti in modo diverso, finendo per trasmettere alle
generazioni successive la stessa fragilità delle generazioni precedenti.
CONCLUSIONE - Non è obbligatorio avere figli, e non c’è da vergognarsi a non volerli
piuttosto che vivere male e far vivere male loro, tanto più se il volerli è solo espressione
della intolleranza del presente e delle paure del futuro.
SULLA MORTE
Nel mese di giugno 2013 ho compiuto 70 anni, ed il tema della morte individuale si è fatto
sentire più che mai. Com’è giusto e comprensibile, è molto probabile che il lettore sia
curioso di sapere come lo psicologo vede e vive questa ineluttabile scadenza della propria
vita. Innanzitutto, se sino ad oggi l’idea della “morte” andava e veniva dalla mia coscienza,
favorita o meno dal suo colpire soggetti più o meno giovani di me quasi come una continua
5
dissolvenza, cioè quello sfumare di due immagini l’una nell’altra in modo che l’una prenda
il sopravvento sull’altra solo gradualmente e viceversa, adesso è diventata un’immagine
fissa: la morte esiste, si avvicina sempre di più ed è una realtà ineludibile.
C’è poco da fare: noi esseri umani siamo bravissimi nell’usare il meccanismo del diniego.
Anche davanti all’evidenza più lampante, preferiamo mettere in moto delle difese che la
respingano. La morte esiste. La vediamo continuamente in azione intorno a noi sia
attraverso la realtà diretta che virtuale e la temiamo, ma nello stesso tempo siamo convinti
che la cosa non ci riguardi o chissà quando, cioè di diventare più vecchi degli altri. Il
paradossale è che pur avendo percepito tante volte la morte sotto forma di angoscia a volte
anche per un niente, non ci crediamo sino in fondo. Come dire: di angoscia si può “morire”
per qualche ora, qualche giorno, ma poi si “risuscita” quando le cause di essa vengono
meno. Ecco: noi pensiamo che anche per la morte vera potrebbe essere così. Non avendola
mai provata e quindi non sapendo di cosa davvero si tratti, per quanto immaginata per aver
assistito persone ed animali morenti, rimane sempre un qualcosa di estraneo, e proprio per
questo: terrificante. Ma mentre scrivevo “terrificante”, pensavo che non possa essere sempre
così, essendo assai più probabile che laddove la morte reale per vecchiaia incomba, le
condizioni mentali del soggetto siano tali per cui, al contrario, venga vissuta come
liberatoria. Ovviamente, scenari di morte diversi possono renderla terrificante.
La prima operazione da fare, quindi, raggiunta ad esempio un’età come la mia, è quella di
convincersi che la morte esiste davvero, e si avvicina. Per quanto io abbia scritto questa
frase con convinzione, nello stesso tempo la mia mente mi fa ancora immaginare l’evento
come remoto o molto remoto. C’è poco da fare: la mente fa di tutto per impedire che questo
pensiero si installi in modo stabile dentro di essa. Eppure se ciò avvenisse, potremmo
meglio assaporare gli anni che ci restano da vivere e, come tanti filosofi, scrittori ed altri
hanno affermato nel corso dei secoli, basti pensare ad esempio a Seneca, prendere un
graduale commiato dalle persone che amiamo sino a che siamo non solo ancora in vita, ma
sufficientemente lucidi per farlo con consapevolezza da sani.
E’ questa dissociazione che dovremmo avere il coraggio di combattere. Il pensiero
(difensivo) di un illusoria continuità oltre la morte in un altro posto e/o in un altro
corpo, ci dissocia ancora di più.
E’ possibile tuttavia che non ci consentiamo la definitiva ricomposizione della
dissociazione, poiché avendo più e più volte nel corso dell’esistenza - e talvolta molto
presto - desiderato in modo più o meno cosciente di morire per liberarci dal peso
dell’esistenza, soprattutto nei momenti più difficili di essa, temiamo che questo desiderio
possa prendere il sopravvento, e finisca per spalancarci le porte al suicidio allo scopo di
evitare l’angosciosa attesa della morte.
Tenuto presente questo rischio, e ribadito in noi il desiderio di resistere alle sollecitazioni
di essa qualsiasi cosa di brutto ci riservi la vita in futuro, operazione che non si può negare
essere facile a dirsi ma piena di dubbi e perplessità nel farsi, al punto che talvolta ci
troviamo addirittura a desiderare la nostra morte piuttosto che pensare di assistere a quella
delle persone amate sia per il terrore dell’angoscia di separazione che della solitudine, o alla
perdita di tutti i nostri beni materiali con tutte le conseguenze del caso, davanti a queste
possibili evenienze ci accorgiamo di quanto sia difficile mantenere una linea di fermezza
nella sopportazione, e quindi ci troviamo ad oscillare fra il desiderio della morte come
difesa preventiva e la negazione di essa come evento ineluttabile. Cioè alla fin fine a livello
6
conscio ci rifiutiamo di accettare sia una cosa che l’altra. Sono il nostro narcisismo e la
nostra onnipotenza che persistono, portandoci in un vicolo cieco, ed il pensiero se non di
abbatterli, almeno di ridurli, ci sembra equivalga ad un disarmo ancora meno sopportabile.
Il rischio a questo punto è non cambiare nulla in noi, affidandoci al delirio magico
dell’onnipotenza qualsiasi forma abbia, compresa la religione. Ebbene: ho cercato una
risposta a tutto questo nel pensiero di tanti pensatori di tutti i tempi, ma non ho trovato in
nessuno delle affermazioni davvero convincenti che aiutassero me a prendere una posizione
solida e definitiva che mi facilitasse il sopportare meglio l’idea della morte.
Ancora una volta, allora, mi si è materializzata in modo preferenziale la fantasia della vita
come una guerra in trincea contro la morte, come già avevo scritto in OLTRE numero 7 in
“Illusioni”, che invito vivamente il lettore ad andare a
rileggere sul mio sito www.oltrepsy.it. Il nemico è
invincibile. Bisogna essere prudenti e non esporsi
troppo, ma nello stesso tempo resistergli sino a quando
avremo delle cartucce. C’è chi ne ha avute in dotazione
di più, altri di meno; non importa: non bisogna
risparmiarle ma piuttosto non sparare a vuoto,
consolandoci al pensiero che anche gli altri esseri umani
sono nelle nostre stesse condizioni, evitando di pensare
che purtroppo qualcuno si arrende prima. Forse sarebbe
utile che fra noi ne parlassimo di più e in modo aperto,
anziché vivere la cosa come un dramma personale. Sicuramente ci farebbe sentire tutti più
forti e più solidali. E’ questo il sottile fascino dei film di guerra: non si muore soli!
Ritornando al discorso dell’invecchiamento, una cosa sempre sciocca è invidiare le
persone più giovani, come se avessero davanti più vita di quanto ne è stata concessa a noi.
Certo i progressi della medicina e della chirurgia vanno in tal senso, ma davanti all’eternità
alla fin fine quanto si potrà ricuperare sembra poca cosa. Ancora più sciocco mi sembra il
desiderio di ritornare ad avere l’età dei giovani per poter fare quelle cose che non abbiamo
potuto fare, evitare gli errori fatti e/o possedere quelle cose che non abbiamo potuto avere.
Personalmente non ho alcuna fretta di morire ma non vorrei tornare indietro di un solo
giorno, preferendo piuttosto continuare a guardare avanti anche se so di avere meno tempo a
disposizione di alcuni decenni fa. Non è facile per i giovani ammetterlo, ma molto spesso il
pensiero di avere ancora molti anni di intensa “guerra” contro le pulsioni di morte è causa di
grande angoscia, e non nego che questo mi facesse sentire già vecchio e stanco decenni fa al
pensiero di tutto quello che avrei dovuto ancora fare per raggiungere gli obiettivi che mi ero
prefissato. Come siamo complicati! Da un lato alcuni momenti temiamo la morte, ma in altri
ci fa paura assumerci le responsabilità nella vita, il che è come morire prima!
Invecchiare comporta il verificarsi di una situazione un po’ antipatica: le persone più
giovani, anche se non te lo dicono apertamente, provano un sottile piacere sadico nel
pensarti più vicino alla morte di loro, cioè che quando tu sarai morto/a loro saranno ancora
vive. Insomma: ti usano per espellere su di te le loro pulsioni di morte, come se solo tu fossi
destinato/a a morire e non loro, e questo può comportare per l’anziano una sorta di
frustrazione narcisistica. Ecco: bisogna imparare a sopportarla senza recriminazioni, o
almeno non troppo palesi, con pensieri del tipo: “Non è affatto detto che tu riesca a vivere
almeno sino ad avere la mia età.” Il nostro augurio dovrebbe invece essere che queste
persone diventino almeno anziane quanto noi, se non di più. Ma più che altro, il nostro
sopportare questa frustrazione dovrebbe costituire una sorta di riparazione per esserci
7
comportati anche noi allo stesso modo quando, alla loro età, osservando gli adulti più
anziani vedevamo scorrere ripetutamente davanti ai nostri occhi la dissolvenza: loro vivi e
loro nella bara, a cominciare dai bisnonni, dai nonni e continuando con i genitori, prendendo
affettivamente nostro malgrado le distanze da loro, come difesa dall’angoscia di separazione
ma anche dal pensiero che poi sarebbe successo anche a noi. Quale rimpianto più tardi! E’
pur vero, però, che nello stesso tempo gli anziani sono vissuti e spiati dai più giovani poiché
si in prima linea contro la morte, ma proprio per questo teoricamente rassicuranti per la loro
(dei più giovani) ulteriore sopravvivenza se modelli di resistenza e determinazione, per cui
sono guardati con inconscia apprensione, ma anche con silenzioso incoraggiamento e
solidarietà, che spetta agli anziani cogliere e ricambiare con l’esempio, a tutto vantaggio
della reciproca stima e conseguentemente degli affetti. Comunque. gli anziani in una cosa,
almeno, sono sicuramente invidiati dai più giovani: poiché hanno raggiunto un’età alla
quale loro non sono così sicuri di arrivare, e che dà luogo ad una sorte di segreta
ammirazione. Ma se la percepiscono, non devono mai farsene accorgere!
Elencare tutti gli scritti sulla morte ed i relativi autori dall’antichità ad oggi, a partire dalla
Bibbia, è un’impresa tanto gigantesca quanto inutile, poiché chi affronta questo tema ne
parla solo in modo soggettivo, non essendo evidentemente mai morto prima. In ogni caso, si
ha la possibilità di capire quanto, da sempre, l’essere umano è ossessionato da questo
evento, il che è consolante poiché non ci fa sentire soli. Circa l’antichità, l’autore più noto,
articolato e “moderno” è indubbiamente Lucio Anneo Seneca (4 a.C - 65 d.C.) con le sue:
“Lettere a Lucilio”. Nei ultimi secoli, Arthur Schopenhauer (1788 - 1860) si è soffermato a
lungo sul tema nel “Mondo come volontà e rappresentazione” e in “Parerga e
paralipomena”. Negli ultimi decenni del ventesimo secolo, a mio avviso è stato Harold F.
Searles (1929 - 2011) ad aggiornare la sintesi degli autori precedenti aggiungendovi del suo
in: “La schizofrenia e l’ineluttabilità della morte”, contenuto in “Scritti sulla schizofrenia”.
Considerato che probabilmente a questo punto il lettore si aspetta le mie conclusioni, pur
all’interno di una certa percentuale di inespresso e inesprimibile trattandosi di una
esperienza non ancora vissuta, posso rassicurarlo in tal senso che si, ho il mio modo di
affrontare il pensiero della morte, modo che mi facilita la rassegnazione in modo
ragionevole. Se il Cristianesimo sopravvive nel tempo, il motivo principale è che offre al
credente la prospettiva di una vita eterna, che non solo risolve a suo modo il problema della
morte, ma anche quello della separazione dalle persone amate, sempre che si finisca tutti
nello stesso posto, non importa se il Paradiso o l’Inferno, essendo il Purgatorio un passaggio
intermedio per il Paradiso. Ovvio che ritenga tale prospettiva solo illusoria. Come diceva
quello là, funziona solo poiché nessuno è mai tornato indietro per denunciare l’imbroglio.
Prendendo spunto da una riflessione di Schopenhauer, che però non ne fa un suo
punto di forza come faccio io, la conclusione che mi porta abbastanza alla
rassegnazione, anche se devo ribadirmela, è che in ogni caso tutti, tutti, tutti gli umani,
come gli altri animali e come i vegetali, prima o dopo sono destinati a morire. Miliardi
di persone hanno vissuto prima di noi. Di oltre il 99,999 % di esse, abbiamo perso ogni
informazione circa la loro esistenza, se mai ne hanno lasciata qualcuna. Non potremo
rintracciare mai più le loro ossa, svanite nel nulla, o nel tutto, e se comunque le trovassimo
ancora, potremo al massimo dire se appartenevano ad un maschio o ad una femmina, ed
oggi fors’anche a che età sono morti e di cosa, o ricostruire i loro volti con il computer, ma
non ne sapremo di più. Altri miliardi di persone moriranno nel corso dei secoli che
verranno, ed anche della stragrande maggioranza di esse si perderanno le tracce nonostante
la maggiore possibilità di sopravvivenza virtuale rispetto al passato!
8
Perchè, allora, angosciarsi davanti ai giovani che ci sopravviveranno? Perchè, cosa
ancora più assurda, invidiarli solo poiché sono nati dopo? Anche per loro verrà il giorno
in cui invecchieranno e moriranno. Adesso sentono la morte talmente lontana da
sembrare loro quasi inesistente, ma alla loro età non abbiamo fatto anche noi altrettanto?
Moriremo noi, moriranno loro, moriranno quelli che verranno dopo di loro! Non c’è
niente da fare, e non rimane, per consolarsi, che pensare al noto proverbio: “Mal comune
mezzo gaudio.!” Moriranno i ricchi come i poveri, i famosi come gli sconosciuti, gli
intelligenti come gli stupidi, gli istruiti come gli ignoranti, i prepotenti come gli umili, chi
comanda e chi ubbidisce, né servirà a qualcosa una tomba più duratura. Se si pensa che
camminando in una strada affollata di una grande metropoli, guardando in faccia le
migliaia di persone che ci circondano e tanto più quelle che vengono in senso contrario,
che per la ressa potrebbero anche darci gomitate e pestoni, la cui vicinanza ci consente di
vederle bene in viso e di sentire addirittura i loro odori, potremmo dire: “Anche tu, come
me, morirai; pure tu; anche lui; anche lei; anche l’altro; anche loro...” Non dovremmo
arrivare allora a chiederci che senso abbia l’odio, l’invidia, la competizione, il senso di
superiorità dovuto alla ricchezza, all’intelligenza, alla cultura, alla casa, ai vestiti, ai
gioielli? Etc, etc, etc? Non dovrebbe bastare la consapevolezza della morte come
strumento di livellamento universale sia umano che animale che vegetale ad unirci ed a
renderci tutti più uniti e solidali, anziché ucciderci a vicenda in tanti modi più o meno
cruenti, più o meno evidenti, o a cercare di farlo?
Per intanto, quale che sia la nostra età, cerchiamo di non buttare via nemmeno un
minuto di esistenza, e tanto meno di desiderare la morte come liberazione, tanto arriva
ugualmente, ed in quel momento potremmo pentirci di averla desiderata. Non ho detto
di non goderla, ma di essere consapevoli di essere vivi, di non sprecarla! Circa
l’angoscia di separazione, invece, vivi e morti saremo uniti sopra, sotto o dentro la
nostra madre Terra in una grande comunione, anche se decine, centinaia, migliaia di
chilometri ci separassero eventualmente dalle persone amate. NON SAREMO SOLI!
Poi... Ma tanto non ce ne accorgeremmo più, e del resto anche quelli che vorremmo
che ci ricordassero ed ai quali abbiamo voluto bene, moriranno a loro volta.
Detto questo, non dimentichiamoci tuttavia che prima della morte esiste la
vita! Nella psicoanalisi freudiana e/o freudiano-kleiniana si parla spesso di pulsioni di
morte, poiché sono causa di pericolo per la nostra sopravvivenza fisica e psichica e
quindi di angosce di morte consce e inconsce, ma non dimentichiamoci, come ci
ricorda S. Freud, che in noi esistono anche le pulsioni di vita, ed è in esse che
dobbiamo avere fiducia e servircene per contrastare le pulsioni di morte! Ma è quando
ci lasciamo sedurre da quest’ultime che ci troviamo poi a riflettere di più sulla morte.
Io penso che quando le pulsioni di vita saranno davvero esaurite, la morte ci apparirà
liberatoria. Ma sino a quel momento, affinchè non ci faccia paura dovremo sempre e
comunque reagire e lottare contro le pulsioni di morte, ed il primo requisito per
riuscirci consiste nel privilegiare sempre la vita. Ma per capire dove sta, dobbiamo
chiederci se le nostre scelte, per come io: Carlo, Giovanna, Francesco, etc. sono
fatto/a e non gli altri, vadano in direzione delle pulsioni di vita o delle pulsioni di
morte; cioè dobbiamo capire sino a che punto possiamo spingerci prima che si
mobilitino in noi le angosce di morte, espressioni delle pulsioni di morte, limite
individuale oltre il quale incomincia il rischio per la nostra sopravvivenza a breve o a
medio termine, cioè: “Se il gioco vale la candela”. Se poi si ritiene che possa dare un
senso ulteriore alla nostra esistenza, si può anche sfidare la morte nel lungo termine.
“Sconfiggere la morte” significa questo, e non l’illusione dell’immortalità!
9
LA SIRINGHETTA
“...Uno stile di vita frenetico, lo stress, un’alimentazione disordinata e povera di fibre, la
disidratazione e una scarsa attività fisica, possono favorire il rallentamento del naturale
transito intestinale chiamato stitichezza, contribuendo a procurare un senso di pesantezza a
livello intestinale.” Pubblicità di un microclisma.... “Confidenze” num. 37 – 2013. Dopo
la pubblicazione di OLTRE 25 e 26, più di un lettore mi ha scritto dicendomi che, si, questi
due numeri erano stati molto interessanti, forbiti, e che certamente se non avessi pubblicato
quanto avevano letto, non sarebbero certo andati a cercare i volumi dai quali ne avevo tratto
il contenuto. Però, mi scriveva uno in particolare, a lui piace OLTRE quando va “oltre” e
non quando non ci va, dilungandosi sulla chiarezza del mio modo di scrivere e per come
tratto i diversi argomenti. Gli risposi immediatamente ringraziandolo per i complimenti,
cosa che rifaccio qui, dichiarandomi lusingato, e che avrei tenuto conto dei suoi
suggerimenti.
Ecco quindi un articolo che va davvero OLTRE. Qualche anno fa, un paziente maschio
quasi cinquantenne mi raccontava come aveva risolto, a suo dire nel modo migliore, il
problema della evacuazione intestinale. Considerato che già suo padre aveva lo stesso
problema, e che cercava di aggirarlo assumendo tutti gli aiuti che il farmacista può offrire;
che secondo lui se era morto come era morto dipendeva dal fatto che quando andava in
bagno “spingeva” troppo, e che lui, suo figlio, non solo non voleva fare la stessa fine ma
soffriva anche di emorroidi, era stato costretto a trovare una valida alternativa all’assunzione
di aiuti per via orale. Alla mia curiosità rispose che se cliccavo su internet “microclismi”,
avrei trovato che quella che lui aveva ritenuto essere una sua scoperta, in realtà costituiva un
comportamento diffuso come l’acqua calda.
Accettai il suo consiglio. In effetti, cliccando “microclismi” uscirono fuori pagine e
pagine sull’argomento, anche se ovviamente la maggior parte di esse erano di natura
pubblicitaria. Lui però non mi aveva detto tutto, e si riservò di farlo dopo che avessi
verificato quanto andava affermando. La seduta dopo, accertatosi che avessi fatto le
opportune ricerche come mi aveva suggerito, che lo mettevano al sicuro dal fatto che io
pensassi alla cosa come una sua perversione, mi raccontò nel dettaglio come lui faceva.
Comperata in farmacia una normale siringa da 20 ml, aveva segato con un coltello
dentellato la punta sporgente sulla quale si infila normalmente l’ago. Quindi l’aveva
livellata in modo che non potesse fargli in alcun modo del male. A quel punto, l’aveva
riempita di acqua del rubinetto - operazione che, disse, doveva essere fatta solo con acqua di
sicura igiene - e dopo aver cosparso la parte anteriore della siringa con un velo di sapone accostata all’ano in modo che l’apertura che aveva fatto sulla siringa collimasse con
l’apertura del medesimo, spingeva lo stantuffo. Inizialmente aveva provato solo con una
carica, cioè 20 ml. ma non bastava. Poi con tre, pari a 60 ml. Infine, visto che tre gli
creavano un imbarazzante piacere anale, solo con due, per 40 ml. (Non ho mai capito perché
non solo una da 40! Si vede che non ci sono siringhe da 40!) Se i nonni quando era bambino
- diceva - ed anche sua madre, all’occorrenza gli introducevano una enorme quantità di
acqua con quelle pere rosse, con 40 ml lui risolveva il problema, a costo zero e con il
minimo impatto...”locale”. Che senso aveva, diceva, assumere prodotti per bocca,
disturbando così l’intestino ed i reni, quando immettendo il liquido in quella sede e
lasciandolo “lavorare” per qualche minuto, si otteneva una evacuazione abbondante, senza
sforzi e senza dolore? E’ vero che il primo esperimento lo fece con il sapone liquido quando
aveva le emorroidi, ma a seguito dell’uso della siringhetta erano ormai anni che non lo
facevano più soffrire, per cui l’acqua pura era più che sufficiente. L’unico problema,
10
secondo lui, era dovuto al fatto che l’intestino, così svuotato, tendeva ad accumulare gas
intestinali che provocavano flatulenze, ma era il male minore. Oltre 40 anni di lavoro con
le persone mi hanno convinto che prima o dopo raccontano in seduta quando e come si
masturbano, quando e come scopano, le loro preferenze erotiche attive e passive con
persone dello stesso sesso e dell’altro, ma se c’è una cosa che è del tutto riservata ed
esplorabile a fatica e mai in modo davvero esauriente, è che cosa avviene nel corso
dell’evacuazione intestinale, in quel luogo generalmente chiuso e lontano da occhi
indiscreti che chiamiamo bagno. Eppure, gran parte di queste persone evacua tutti i giorni.
Gran parte? Non è poi cos’ vero. In una scuola superiore in zona, dove per un certo periodo
svolsi delle consulenze, ebbi a che fare con ragazze fra i 14 ed i 19 anni. Ebbene: diverse di
loro evacuavano una volta alla settimana, ed alcune persino una volta ogni 15 giorni!
Distanze di 3, 4 giorni fra una evacuazione e l’altra, erano molto frequenti. Basta questo per
capire quanto molti studenti siano sottoposti a tensione neuro-muscolare nel frequentare la
scuola, cioè a contrazione della muscolatura in generale compresa quella anale - da qui la
stitichezza - a causa dell’ansia che per una serie di motivi la scuola genera in loro.
Circa le persone sulle quali nel corso degli anni ho potuto indagare in tal senso nel
raccogliere i dati anamnestici, soprattutto se giovani, posso dire che solo una minoranza
evacua in modo regolare una volta al giorno, e che la maggioranza, soprattutto costituita da
donne: 1) ha problemi in tal senso; 2) per evacuare si serve di aiuti per bocca o per ano, in
questo ultimo caso di tipo commerciale; 3) evacua a rate, cioè più volte nella stessa
giornata.
Addirittura inesplorabili, poi, i modi utilizzati per evacuare allorché la massa fecale, a
lungo trattenuta, finiva per bloccarsi - mi si perdoni il linguaggio troppo esplicito - metà
dentro e metà fuori, con tutto il comprensibile non solo imbarazzo, ma addirittura panico da
parte del soggetto, che non sapeva più cosa fare, dolore della dilatazione forzata a parte. A
volte sarebbe bastato “spingere” un pò di più, ma qui si viene a scoprire che le donne
tendenzialmente evitano di farlo: se viene, viene, se no se la tengono sperando che vada
meglio la volta successiva, magari due ore dopo! I maschi invece, “spingono” come se si
trattasse di vita o di morte, il che può essere estremamente dannoso non solo per l’ano, ma
per le conseguenze della pressione sull’organismo di tutti i muscoli, cranio compreso, che la
spinta comporta. Purtroppo le persone non tengono conto che l’ano si trova nel baricentro
del corpo, per cui tutte le tensioni: ansie, paure, preoccupazioni, angosce, etc. si riflettono
su di esso (ma non solo) e rendono difficoltosa l’evacuazione a causa della contrazione
neuro-muscolare che si oppone alla regolare dilatazione dell’organo allorché richiesta. Le
emorroidi nascono così. Poi ovviamente il tutto può essere complicato dalla natura
dell’alimentazione, dalla scarsa idratazione, dalla vita sedentaria, da aspetti psichici e
comportamentali, ma solo successivamente.
La cosa sconcertante di tutto questo, è la scissione che molti individui fanno fra la loro
mente ed il corpo in cui questa mente alberga. Vi è un elevato numero di donne che non osa
introdurre una mano sino in fondo alla propria vagina per capire come sono fatte, o che si
sente “sporca” nel farlo, ed ancor di più maschi e femmine che non osano esplorare l’ano, al
limite con un guanto di plastica, per risolvere determinati problemi di evacuazione. In molti
anziani questa operazione viene effettuata a caro prezzo a livello infermieristico, definita nel
mansionario: “Svuotamento dell’ampolla rettale”! Devono farselo fare da altri! Certo alla
base di questa scissione vi è un concetto di pudore molto più esteso di quanto si vorrebbe,
ma non meno, nelle femmine, la paura di esplorarsi per non dover ammettere di non avere
un pene o di essere troppo facilmente accessibili dall’esterno, o altro. Per i maschi, il timore
11
può essere quello di credersi omosessuali, essendo intrinseco il piacere nel toccarsi l’interno
dell’ano, aspetto quest’ultimo valido ovviamente anche per le femmine, piacere legato
all’infanzia che i bambini piccoli manifestano ridendo mentre evacuano nel vasino. Non è
difficile quindi Immaginare il livello di pulizia intima di questi soggetti, in un mondo che
solo apparentemente sembra avere l’incubo dell’igiene, nel nome della quale tuttavia si
inquinano fiumi, laghi e mari con saponi e detersivi sempre più potenti, per una pulizia che
molto spesso non va al di là dell’imboccatura di determinati organi e che i partner - in senso
generale - pur provando imbarazzo, non osano denunciare, forse anche perché a loro volta
non meno...maialini! Considerato che meno tempo le masse fecali stanno nel nostro
intestino meglio è, vista anche la natura di quello che si mangia e tenuto conto dei diversi
tempi di deterioramento dei cibi al suo interno, in primo luogo delle carni; al fine se
possibile di evitare indesiderate conseguenze al tessuto intestinale soprattutto nei soggetti
maggiormente sedentari e/o abitualmente contratti a causa delle tensioni quotidiane,
considerati i danni indiretti ad organi anche lontani a causa dello spingere, quali ad esempio
congestioni vasali al livello delle arterie superiori, ed eccessi di contrazioni delle ossa
craniche quali fattori abituali della evacuazione, ma non meno lacerazioni peritoneali,
sarebbe proprio il caso di non preoccuparsi troppo del pudore.
Mi sembra quindi che l’uso della siringhetta riempita con semplice acqua, purché
batteriologicamente pura e se possibile al minimo livello di cloro, sia interessante, senza
dover introdurre null’altro e tanto meno prodotti contenenti glicerine, paraffine, olii e simili
poichè i grassi favoriscono la flora batterica anerobica, cioè che si sviluppa in un ambiente
con scarso ossigeno, coprendola con il loro manto protettivo e finendo con il passar del
tempo per favorire l’assottigliamento del tessuto. Al limite, come prima abbiamo detto, nei
casi critici e dolorosi e/o in presenza di emorroidi, anziché l’acqua è consigliabile immettere
sapone liquido neutro idrosolubile di marca affidabile. Ciò, oltre che per necessità, può
aiutare a migliorare la confidenza con il proprio corpo, assumendone la piena padronanza
almeno là dove possibile. Se necessario, possiamo aiutarci con un buon manuale di
anatomia, senza angosciarci troppo nel vedere come siamo fatti dentro, angoscia che è la
causa principale della scissione fra la mente ed il corpo, poiché ci ricorda la nostra fragilità
corporea, a difesa dalla consapevolezza della quale anche il presupposto morale molto
spesso viene utilizzato a scopo difensivo.
IL CURRICULUM DI UGO LANGELLA
Ugo Langella e' nato ad Alba (Cuneo) il 25/6/1943. A Torino dal 1964, nell'estate 1994
ha trasferito studio e abitazione all'attuale indirizzo. Laureato in Pedagogia a Torino nel
1971, nel 79 si e' laureato in Psicologia a Padova. In analisi dal 1975 al 1981 a Milano
dalla Dott. Myriam Fusini Doddoli della Società Psicoanalitica Italiana, negli anni 78 e
79 ha partecipato ai suoi gruppi di formazione e supervisione, quest'ultima continuata a
Torino nel 79 con il Dott. Flegenheimer e dall'80 all'82 con il Dott. Levi, analisti della
Società Psicoanalitica Italiana. Nel 1989 ha conseguito l'attestato di ipnotista presso il
Centro Italiano di Ipnosi Clinica Sperimentale C.I.I.C.S. del Prof. Franco Granone. E'
iscritto all'Ordine degli Psicologi (posizione 01/246 - al 17/07/1989, data di prima
costituzione) ed all'Albo degli Psicoterapeuti.
Puoi trovare tutti i numeri ed i supplementi di “OLTRE” cliccando: http://www.
oltrepsy.it Se vuoi ricevere i precedenti o i futuri numeri di "OLTRE" per email, naturalmente gratuitamente, scrivi a: [email protected]
12
Fly UP