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L`EBBREZZA DIONISIACA E LA MORTE.
L'EBBREZZA DIONISIACA E LA MORTE. (Annotazioni antropologico-filosofiche a cura di Fernando Salvetti) Siamo floridi eppure morti. "Siamo ciechi che brancicano un muro. Andiamo a tastoni privi di occhi. Incespichiamo come al crepuscolo a mezzogiorno. Siamo floridi eppure morti" (Isaia, 59, 10-11). "Tutto è cenere" (1), dunque? Con la modernità e la "morte di Dio", con il "feticismo" delle merci ed il "disincanto del mondo", con il dominio del transitorio, del fuggevole e del contingente, la risposta prevalente ad un tale interrogativo sembra essere l'angoscia esistenziale (2). La morte, seppur assenza assoluta ed alterità radicale, indicibile, è comunque un fantasma dalla presenza costante, per quanto estranea agli orizzonti quotidiani (di vita) fino a quando non si fa intrusione improvvisa che annienta, "energia intrinseca" che - come scrisse il folle Artaud - "fa crollare l'essere" e si sostituisce alla vita ("quella perdita di energia che volle, un giorno, fissarsi al posto della morte")(3). Il soggetto, dal momento in cui si pensa come un "io", non può che sapersi mortale (4) e dunque sfiorare un punto scabroso, una dimensione perturbante, una soglia vertiginosa non ulteriormente valicabile (dal proprio pensiero, non certo dalla "vita"): "Il crimine della morte non è di ucciderci, ma di rendere eterna la nostra angoscia" (5). L'uomo, a differenza degli altri esseri viventi, sa di dover morire (6). La morte è prima di tutto un "fatto culturale" ed un "evento sociale"; diversamente da altre epoche e da altri luoghi, poi, nell'occidente la morte (come la vita) si è "medicalizzata" assumendo il carattere di un evento "scientifico" ed "oggettivo": del grande rituale iniziatico della vita come preparazione alla morte sopravvivono scarne memorie, che la modernità "produttiva e disincantata" tende a cancellare sempre più (7). Come sottolinea ad esempio Sicurelli, "nei nostri confini culturali si muore in solitudine, in clandestinità, in ospedali affettivamente freddi e sterilizzati. Inoltre, il dolore per la perdita di un congiunto è destinato ad avere scarsa risonanza negli altri. I funerali stessi sono diventati il luogo dell'ostentazione pullulando di presenze di circostanza, di testimonianze intimamente alienate dall'esperienza della socializzazione del dolore" (8). Parlare della morte, nota Urbain, è sempre una "sfida al reale, un tentativo di oggettivare il Nulla": in occidente, in vari contesti socioculturali il discorso sulla morte sembra "impossibile" in quanto essa è diventata innominabile essendo stata spogliata delle metafore, delle immagini soprattutto, e delle essendo parole stata che ne spogliata permettevano delle sue più l'evocazione profonde e, valenze rituali (9). Per quanto riguarda la singola persona, poi, non si può che ricordare Freud: "La propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà continuiamo a essere ancora presenti come spettatori... Nel suo inconscio ciascuno di noi è convinto della propria immortalità". Per dirla con Jankélévitch, se "il mio morire" è sicuro, è però non solo imprevedibile o quasi, ma anche inconoscibile: il soggetto non può parlare, come suol dirsi, a ragion veduta del proprio morire in quanto è una fase "non sperimentabile" ("meta-empirica") dell'esistenza, il cadavere non è mai un me o un te ma sempre un lui (10). Cadavere: "prodotto finito di cui noi siamo la materia grezza" (11); quel che conta, per l'uomo occidentale moderno, è di eludere per quanto possibile un orizzonte di senso che rimanda a quella "cosa" che - ha scritto Sartre - quando opera in noi si comporta "come un verme": il Nulla (12). Per Galimberti l'esposizione del cadavere, che risulta pure difficile da nominare (la salma, le spoglie, i resti...), apre nei confronti di "coloro che gli sono intorno un discorso senza soggetto e senza contenuto che... rinvia selvaggiamente ciascuno a quell'originaria individualità che la morte scompone" (e decompone)(13). Nella storia all'inconsistenza della filosofia, degli appigli a sembra cui i che vari non ci siano pensatori sono limiti (stati) disposti ad afferrarsi pur di togliere il pungiglione alla morte (in ambito teologico, ovviamente, la situazione è diversa)(14). In questa sede, può essere sufficiente ricordare che gran parte della storia del pensiero occidentale sulla morte è "ostacolata" dalla posizione di Epicuro, secondo cui è impossibile interrogarsi su di essa perché se ci siamo "noi" la morte è assente e viceversa; eppure, l'interdetto di Epicuro manifesta un carattere aporetico già rilevato da un epicureo, Filodemo di Gadara, secondo il quale nei confronti della morte chiunque abita una città senza mura. Per il Dilthey autore, nel 1905, di Das Erlebnis und die Dichtung, "il rapporto che caratterizza in modo più profondo e generale il senso del nostro essere è quello della vita con la morte, perché la limitazione della nostra esistenza mediante la morte è decisiva per la comprensione e la valutazione della vita". Tra i "quasi" contemporanei, basti ricordare Max Scheler che, pur condividendo l'interdetto di Epicuro, rileva che nell'esperienza (della temporalità) quotidiana di ogni uomo si disegna via via della propria morte. Con gli una sorta di anticipazione esistenzialisti, in qualche modo "annunciati" da Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche (e non solo), la morte viene intesa quale "limitazione dell'esistenza" non in quanto "termine" di essa, ma in quanto "possibilità" sempre aperta; questa è ad esempio la concezione di Jaspers (che legge Dilthey tenendo particolarmente presente la prospettiva della teologia cristiana) della morte quale "situazione-limite", radicata nella finitezza dell'esistenza; pertanto, il "nemico-morte, quinta colonna di traditori annidata entro di noi, è l'offesa più forte al nostro narcisismo, è la minaccia più intollerabile al nostro agire, al nostro pensare, al nostro sentire, a tutti quei 'giochi' intellettuali e relazionali sui quali è impostata la nostra vita". possibilità A sua volta dell'Esserci Heidegger più propria" considera e, la quindi, morte come come "la "possibilità dell'impossibilità di ogni rapporto, di ogni esistere"; e poiché la morte può essere intesa solo come possibilità, la sua comprensione non si connota in termini di "attesa" o di "fuga" (il "non pensarci") ma di anticipazione Binswanger, emotiva, in quanto cioè di "angoscia". originariamente aperta Per al Heidegger, mondo come per l'esistenza è definita dalla sua progettualità; ma ogni progetto-nel-mondo è definito dal proprio essere-gettato-nel-mondo: quando sulla progettualità ha il sopravvento la gettatezza (la "Geworfenheit"), scrive Binswanger, "subentra la non-libertà dell'esser dominati da un determinato progetto di mondo non scelto, ma subìto"; è l'heideggeriana "deiezione", la caduta dell'uomo al livello delle cose del mondo (come poter-essere, infatti, l'uomo non è solo la possibilità di realizzare il suo progetto, ma è anche la possibilità di mancarlo). Sartre, invece, contesta la centralità esistenziale dell'"essere per la morte": la morte, assurda e insignificante, non può mai essere in grado di donare senso alla vita. E' noto, peraltro, che la riflessione sartriana si conclude con la "scoperta" di una libertà che non ha nulla di lieve o di allegro, in quanto pone l'uomo di fronte alla "vischiosità" dell'esistenza: l'uomo, in preda alla sua libertà, non può che trovarsi di fronte all'angoscia (15). Perché l'angoscia della morte? Nella molteplicità delle voci e delle possibili risposte, si può dar la parola a Jankélévitch: per la "collisione prodotta quando si sorvola il proprio divenire standovi al tempo stesso dentro. Collisione dovuta al fatto che tale divenire per chi lo vive potrebbe anche essere eterno, ma cessa di esserlo non appena questi lo guarda dal di fuori e si sporge su di esso". Non è angoscia dell'al di là, bensì angoscia per il "passaggio all'assenza di forma", per l'irrappresentabile (16). NOTE (1)..... (2) L'eco del pensiero e delle analisi di Kierkegaard e Schopenhauer, di Nietzsche e di Baudelaire, Marx, Weber, Simmel e degli esistenzialisti è evidente (e profonda). Per una sintesi dei processi economici, sociali, culturali ed etico-religiosi di "modernizzazione" e di "secolarizzazione" cfr. ad es. AA.VV., Enciclopedia di filosofia, pp. 748-749 e 1040; tra i molti studi recenti, cfr. ad es. Frisby (1992). (3) Di Artaud si veda l'ormai celebre raccolta di articoli intitolata Il teatro e il suo doppio (1978), con introduzione di Derrida; per una sintesi del suo pensiero cfr. ad es. Carlson (1984, pp. 392ss.). Per un'analisi del "linguaggio schizofrenico" dei testi di Artaud cfr. Borgna (1995, particolarmente pp. 169ss.); attenta alla per un (as-)saggio dimensione di critica alchemico-ermetica letteraria della sua teatralogia, cfr. Artioli-Bartoli (1978). (4) Per alcuni interessanti spunti cfr. Marramao (1992, pp. 104-105)e Masullo (1995, pp. 71-73; 1964, passim e partic. pp. 7, 17 e 21); alla "propria morte" è dedicata la conferenza tenuta a Torino il 19/1/1995 da Derrida (L'istant de ma mort), che purtroppo si è rivelata un soliloquio solipsistico. (5) Cfr. Rouland (1992, p. 456, che attribuisce la citazione a J. Rostand); può essere il caso di riportare anche una considerazione di Bodei (1982, p. 81), secondo cui "il nostro atteggiamento nei riguardi della morte resta quello degli uomini primitivi. L'esperienza basilare e perturbante di essa è che non si può credere veramente che una persona viva, che si muove, che parla, che pensa, all'improvviso si immobilizzi, diventi cosa, passi in un'altra dimensione, che da familiare diventi estranea... Lo straniamento, il perturbante che ci colpisce in occasione dell'esperienza della morte, è connesso al fatto che il superamento delle credenze sorpassate non è avvenuto completamente, dimodoché esse possono riaffiorare". Non si può dimenticare, peraltro, che per Freud (cfr. opp. citt. alla nota seguente) l'inaccessibilità alla coscienza del concetto "tabuico" di morte è dovuta alla convinzione inconscia della propria immortalità. Peraltro, già al principio del secolo (nel 1915) Freud scrisse: "Non possiamo più conservare il nostro vecchio atteggiamento di fronte alla morte, e non ne abbiamo ancora trovato uno nuovo"; è noto quanto egli si sia impegnato ad affrontare un' angoscia da cui era personalmente pervaso: nell'angoscia di morte Freud vide dapprima una maschera, successiva riconducendola evoluzione parallelamente, ed del all'angoscia suo di pensiero antagonisticamente, castrazione, lo alla portò a pulsione mentre la postulare - di - vita l'esistenza di una pulsione di morte, anzi addirittura di un istinto di morte anteriore alla vita (la psicoanalisi post-freudiana, invece, non ha proseguito sulla strada dell'antagonismo delle due pulsioni, ad eccezione della Klein che attribuisce loro un ruolo fondamentale già all'origine dell'esistenza umana). (6) Cfr. ad es. Thomas (1976, p. 10): "Fra tutti gli esseri viventi, l'uomo rappresenta la sola specie animale la cui morte è onnipresente durante tutta la sua vita (sia pure solo a livello di fantasmi); la sola specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre complesso e ricco di simboli; la sola specie animale che ha potuto credere, e spesso ancora crede alla sopravvivenza e alla rinascita dei defunti; in breve la sola specie per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova continuamente superata dalla morte come fatto di cultura". Sulla morte la produzione teorica è sconfinata: come riferimenti minimi si possono tener presenti AA.VV., Enciclopedia di filosofia, pp. 766-768; Abbagnano (1984, pp. 597-599); Galimberti (1992, voce: morte); Urbain (1980, pp. 519ss.); Maffettone (1994, pp. 181ss.); Vovelle (1986); Aries (1968 e 1980); Jankélévitch (1977 e 1995); Zoja (1984, pp. 1ss.); Girard R. (1983, pp. 105ss.); Bataille (1991); Nozick (1987, pp. 637ss. e 1990, pp. 13ss.), 97ss.), Kübler-Ross Baudrillard (1981); (1979); Gentili-Patrono-Mussino Bonaparte (1973); De (1991, Martino pp. (1958); Accattoli (1988); Heidegger (1969); Freud (1986, 1977 e 1979); Fuchs (1974); Jung (1976); Lévi-Strauss (1975); Melchiorre (1964); Morin (1964); Caillois (1950); Durkheim (1897); Eliade (1949); Marcel (1951); Sartre (1979); (1943); Choron (1971); Arnold-Eysench-Meili Jüngel (1982, (1975); voci: Rahner morte ed (1966); Scherer angoscia); Butor (1991); Herzog (1960); Gordon (1978); Hillman (1972); De Beauvoir (1971). (7) Cfr. ad es. Zoja (1984, pp. 8-22), che ricorda come la morte in occidente fino a non molto tempo fa fosse "collegata ad aspetti iniziatici" e rituali: la "scomparsa dell'iniziazione" secondo alcuni autori (ad es. Eliade, 1974, pp. 9ss.) è addirittura il cardine della distinzione tra società moderna e tradizionale: "Un tempo le principali tappe della vita andavano conquistate. Ora l'accesso è automatico. Doppio è l'impoverimento che ne risulta. Da una parte il morire non è più un evento iniziatico. Non è una trasformazione radicale, ma un termine dell'essere. Dall'altra, la morte non è più preceduta e anticipata da esperienze che, fin dalla pubertà, la rappresentavano simbolicamente, consacrandola e disponendo psichicamente l'uomo a sperimentare in essa un senso positivo, acquisitivo... Fino a non troppi anni fa, nascita e morte normali avevano familiare. Oggi supervisione di luogo in entrambe una casa si ed sono gerarchia erano amministrate trasferite di in tecnici dalla ospedale, gerarchia sotto la affettivamente e psicologicamente estranei. Questa scelta sanitaria si rifà a un concetto di sanità dimentico delle esigenze psichiche... Un tempo c'era molta più considerazione per l'esigenza profonda di preparazione alla morte, e la cultura offriva spazio e rituali per armonizzare questo bisogno arcaico con i contenuti psichici coscienti... La preparazione alla morte, nella società non industrializzata, era (o per lo meno si prefiggeva di essere) il compito supremo della vita... Far testamento aveva un aspetto apotropaico, era una materializzazione della preparazione interiore a una possibile morte... Una vecchia preghiera - a subitanea et improvisa morte libera nos Domine - ci chiarisce come fosse universale il desiderio di veder sopraggiungere la morte gradualmente e con consapevolezza: proprio l'opposto di oggi... La preparazione alla morte era un grandioso rituale, cui nessuno voleva rinunciare... La morte rituale dispensava un'identità. La morte odierna, viceversa, trasforma in anonimi oggetti della macchina sanitaria. Secondo Ariès il valore rituale della morte cominciò a venir meno all'apparire della paura della morte. Questa, a sua volta, cominciò a manifestarsi come paura della morte apparente, paura dell'essere sepolti vivi... Gradualmente, si arriva all'età attuale, in cui ci si atteggia come se l'uomo non dovesse mai morire". Baudrillard (1979, p. 176) annota che "l'irreversibilità della morte, il suo carattere oggettivo e puntiforme è un fatto scientifico moderno. Essa è peculiare alla nostra cultura. Tutte le altre affermano che la morte comincia prima della morte, che la vita continua dopo la vita... La nostra idea moderna rappresentazione del della tutto morte diverso: è governata quello della funzionamento. Una macchina funziona o non funziona". da un macchina sistema e del di suo Gli storici delle religioni e gli etnologi hanno quasi sempre ritenuto che la morte di un individuo sia, soprattutto nelle culture arcaiche e primitive, un "fatto sociale", un avvenimento che determina una crisi, non soltanto nel gruppo familiare ma anche in quello più ampio della stirpe, della discendenza, del clan e della tribù; e che per questo le strutture sociali reagiscono alla morte attraverso una serie di mezzi mitici e rituali che inducono gli individui a vivere la morte secondo i paradigmi offerti dalla società. Essendo la morte ritenuta un fenomeno estraneo all'originaria natura dell'uomo, sono numerosissimi i miti che spiegano in qual modo essa sia entrata nel mondo mutando una condizione primordiale di pienezza vitale. Tale mutamento dipende dal peccato o dalla violazione di un tabù posto all'origine, o infine da alcuni avvenimenti mitici che introducono la morte nel mondo indipendentemente dalla volontà, o dalla responsabilità, degli uomini. Ha scritto ad es. Baudrillard (1979, p. 182) che "non esiste morte 'naturale' per i primitivi: qualsiasi morte è sociale, pubblica, collettiva, ed è sempre l'effetto d'una volontà avversa che dev'essere riassorbita dal gruppo (niente biologia). Questo riassorbimento avviene mediante la festa e i riti". (8) Cfr. Sicurelli (1986, pp. 148ss.), il quale prosegue annotando che "nel tribale le cose vanno assai diversamente. Il decesso di un componente il gruppo farà incondizionatamente scattare la molla della solidarietà cosicché il collettivo si farà puntualmente carico del dolore della persona in lutto. Il soccorso emozionale sarà particolarmente vigoroso nel momento del funerale... M. Makong Ma Mbog ha giustamente incluso la voce 'funerale' nella categoria delle 'psicoterapie culturali'... Il funerale non si esprime terapeuticamente solo riguardo al sofferente in lutto, ma palesa anche tonalità catartiche nei confronti del collettivo: nella contingenza la sua funzione è quella di ammortizzare l'angoscia di morte... e di ravvivare nel gruppo la voglia di continuare a vivere... L'africano, come rileva Thomas, è protetto da un 'ottimismo filosofico' che gli permette di guardare alla morte come ad un simbolo per superare il dramma della finitezza e come ad una occasione per riannodare i fili della solidarietà reciproca... La terapia tramite il funerale è essenzialmente preventiva ed è diretta, afferma Ma Mbog, prevalentemente alle donne, che sono quelle che in Africa più pagano in sintomatologia, mentre gli uomini sono culturalmente più attrezzati per riconvertire il dolore nelle danze e nei canti che animano le feste funebri. Queste feste tendono al recupero dell'oggetto perduto: la morte e la vita sono messe nel quadro delle cose perdute e ritrovate, poiché manca il concetto della irrimediabile finitezza della vita". (9) Cfr. Urbain (1980, p. 523). (10) Cfr. Freud (1986, passim), Jankélévitch (1977, passim). (11) La definizione è di Bierce (1911), ripresa da Urbain (1980, p. 540). A questo punto non si può che citare Bataille (1991, pp. 53-54): "La vita è sempre un prodotto della decomposizione della vita. Essa è in primo luogo tributaria della morte, che le fa posto; in secondo luogo della putrefazione che segue alla morte e che rimette in circolazione le sostanze indispensabili alla produzione incessante di nuovi esseri. E tuttavia la vita è una negazione della morte... Questa reazione è la più forte nella specie umana, e l'orrore della morte non è soltanto legato alla distruzione dell'essere, ma anche alla putrefazione che restituisce le carni morte alla fermentazione generale della vita... Per i popoli arcaici, il momento dell'estrema angoscia resta legato alla fase della putrefazione: le ossa spolpate non hanno più l'aspetto intollerabile delle carni corrotte, di cui si nutrono i vermi... Quelle ossa, che sembrano venerabili, hanno conferito finalmente un aspetto decente solenne e sopportabile - alla morte: è ancora fonte di angoscia, però senza l'eccesso di virulenza attiva della putrefazione". (12) Cfr. Sartre (1970, p. 58); in questi termini anche Urbain (1980, p. 540). Per una sintesi sul (o del) "nulla" cfr. quanto meno Abbagnano (1984, pp. occidentale 624-626), sono due il quale (anche rileva se che nella attraversate da storia molte del pensiero varianti) le concezioni che "si sono intercalate": con Parmenide, il nulla come non essere; con Platone, il nulla come alterità o "negazione". (13) Cfr. Galimberti (1991, pp. 131-137), il quale scrive che lo sforzo di integrare la morte nella vita collettiva che si ravvisa in numerose società umane è "inutile, direbbe Sartre, perché la morte non è 'un avvenimento della vita umana'. Come tale non può essere heideggerianamente 'attesa', perché è imprevista e, quando giunge, non fa che rivelare l'assurdità di ogni attesa; non può essere vissuta come la 'possibilità mia più propria' perché la morte è l'annullamento di ogni mia possibilità, per cui il progetto heideggeriano di 'essere per la morte' non è altro che il progetto di vivere la vita come un'impresa mancata... La morte è l'assurdo, è ciò che non rientra nell'orizzonte della mia libertà, per cui non può concludere la mia vita, ma può semplicemente porvi fine... Se la vita del corpo è tutta nella sua possibilità di realizzare una presenza nel mondo, la morte, come distruzione di questa presenza, non può essere una possibilità del corpo, ma, come vuole Sartre, la sua definitiva alienazione... La morte è dunque ciò che propriamente non ci appartiene, è ciò che il nostro corpo non incontra mai, ma semplicemente subisce dall'esterno". In una prospettiva in parte simile si pone Maffettone (1994, pp. 181193), che sembra ispirarsi - senza dichiararlo - al pensiero di Sartre (e non solo, ovviamente) nel "proporre una tesi filosofica alternativa a quella (probabilmente) dominante nella nostra cultura. Quest'ultima... sostiene che la morte dà senso alla vita come nient'altro potrebbe e infatti può. possibilità fideistico Da questo assioma esistenziale, alla 'vera' che vita si deduce consiste oppure di grosso in un solito modo o una in sentimento duplice un di rinvio angoscia radicalmente esperito. Al contrario, io sostengo che il senso della morte dipende da quello della vita, e che in sostanza non dobbiamo pensare alla morte per comprendere la vita, ma piuttosto riflettere sulla vita per capire la morte. Con la conseguenza che vivere la vita secondo i propri valori e le proprie idee rappresenta il modo principale, se non l'unico, per confrontarsi con la morte". Per Maffettone, può essere importante sottolinearlo, "spesso si sente che è impossibile pensare la morte in una società come Personalmente, la nostra, mi rifiuto sarebbe di a dire prendere secolarizzata sul serio e pluralista. un'eventualità del genere. Pensare la morte con rigore non è mai stato semplice, e mai lo sarà. Ma il non riuscire a farlo non dipende, per quel che credo, da una visione laica e disincantata, quanto piuttosto da una visione (1984, pp. 597-599, superficiale". (14) Il giudizio è di Nozick (1987, p. 638). (15) Per una sintesi filosofica cfr. Abbagnano teorico di quell'esistenzialismo positivo che tende a configurare la morte come "la nullità possibile delle possibilità dell'uomo") e le altre opere citate sopra alla nota 5; si veda anche Schulz (1986, vol. II, pp. 64ss.), per un'analisi della finitezza e della mortalità in Jaspers, Heidegger e Sartre. Si veda, inoltre, la nota precedente. (16) Cfr. Jankélévitch (1995, pp. 33 e 93ss.). Sull'angoscia cfr. quanto meno le sintesi di Abbagnano (1984, pp. 42-43), Galimberti (1992, voce: angoscia) e Schulz (1986, pp. 30ss., 42ss., 64ss., 80ss., 99ss.; 1988, pp. 72-73, 74ss.); cfr. anche Hillman (1991, p. 67), secondo dell'angoscia cui la filosofia un'interpretazione esistenzialista "sgradevolmente contemporanea eccessiva. dà L'Angst rivela la fondamentale situazione ontologica dell'uomo, il suo legame col non-essere, cosicché tutta la paura non è propriamente terrore della morte, ma del nulla su cui è fondato tutto l'essere. Il buddismo va ancora oltre: la paura è ben più di un fenomeno soggettivo, umano. Tutto il mondo è in preda alla paura: alberi, pietre, ogni cosa. E il Buddha è colui che redime il mondo dalla paura". Per una stroncatura radicale del pensiero di Heidegger e Jaspers cfr. Popper (1986, vol. II, pp. 101-103). L'ineffabile morte. L'alterità indicibile della propria morte traspare nelle "tracce macerate e livide dell'angoscia e dell'orrore" che possono segnare le più disparate esistenze in qualsiasi tempo, non solo alle estreme soglie della vita (o della "normalità")(1). Il "sordo grido di morte" che si chiama tempo ed il sentimento dell'assoluta contingenza e precarietà delle cose della vita non possono che alimentare i vissuti d'angoscia degli esseri umani, sempre (gettati) di fronte a quella "impossibilità che tutt'a un tratto si trasforma in realtà" (2). La vita è apertura al caso, e quindi anche al sempre possibile irrompere del (e nel) "caos primigenio" della morte propria o altrui: la temporalità costitutiva dell'esistenza, scandita da ritmi sovente inaspettati, è dunque costante possibilità di "patimento" (che non implica necessariamente "sofferenza")(3). La paticità, scrive Masullo sulle orme di von Weizsäcker, è "la potenza del venir vissuto", è l'Erlebnis o affectio, il "sentire" allo stato nascente che si connota in termini di affettività (a differenza dell'esperienza in senso stretto, l'Erfahrung o experientia, che occupa la polarità del cognitivo): il patico "è ciò che non risponde alla domanda uomo?'". 'che Il cosa è patico l'uomo', è "un ma all'altra 'che non-cognitivo", cosa per cui diviene il questo pensiero oggettivante, organizzato negli apparati di ricerca delle scienze, "non può conoscerlo, per quanto oscuramente ne tragga la propulsione e l'alimento... I vissuti difettivi, come 'l'angoscia' evocata da Heidegger e 'la nausea' descritta da Sartre, ne sono casi esemplari" (4). Il patimento scaturente dal sapersi mortali mette in scacco i saperi costituiti in scienza, mentre mette in gioco gli psicofarmaci e le "sostanze" distillate nei secoli per "stordire" l'uomo e strapparlo agli abissi della cenere e del nulla che è (o, nella migliore delle ipotesi, tende ad essere). Nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein si può leggere che il problema della vita si risolve soltanto quando essa svanisce poiché "noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa l'esistenza, è oltre la che risposta" per il (e le discorso conseguenze filosofico disastrose e teologico, per o psicologico, sono evidenti)(5). Peraltro, non necessariamente "su ciò, di cui non si Wittgenstein può non parlare, si può si deve tacere", postulare dato l'assenza che per lo stesso dell'impensabile e dell'indicibile; anzi, "v'è davvero dell'ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico": tuttavia, bisogna fare i conti con il "mostrarsi" nel silenzio del mistico (6). "Dire l'indicibile", scrive Olievenstein, significa immergersi in "quel soliloquio intimo di cui ognuno fa esperienza ogni giorno e grazie al quale spesso si sopportano i compromessi con l'esistenza che soli permettono di vivere". Il non detto è "il ponte fra l'immaginario e il rimosso, fra il terrore e il desiderio. Si nutre del presente e dell'ancestrale. Il non detto è quanto c'è di più intimo, quanto si vive come incomunicabile, come esperienza in sé e per sé. Ma è anche, in perfetta contraddizione, appartenenza a sopravvivenza". causalità la un gruppo, Ciò che quanto possibilità a più un clan, conta, l'intensità, il nel clima, di verificare luogo non di la propria solidarietà detto, l'atmosfera, non la è e tanto melodia, di "la lo spessore del vissuto, tutte cose refrattarie a una analisi 'scientifica', intrinsecamente riduttiva" (7). L'ineffabilità della (propria) morte, irriducibile all'experientia ed all'oggettivante "estraneità" delle scienze, può essere detta con la parola del "mortale" che può raggiungere "l'abisso" (8): occorre il linguaggio simbolico delle arti, o di una psicologia intesa - scrive Galimberti - come "arte ermeneutica", per inaugurare una comunicazione sconosciuta al linguaggio della "ragione" in quanto scambio non di parole ma nella parola (che trascolora, svapora, sfuma in molteplici rivoli di senso palesando così il rischio della semiosi illimitata, cioè di un'analisi che non genera altro che abissi di non-senso)(9). Forse solo una parola intesa come mezzo, e luogo, di comunione - seppur frammentaria ed episodica - tra persone può contribuire a creare le condizioni per una comunicazione tra esseri che si ritrovano messi in gioco, lacerati, sospesi, chini sul proprio nulla (10). NOTE (1) Le parole di Borgna (1995, p. 135) tentano di restituire il senso dell'esperienza poetica di Margherita, "gettata" in un'esistenza psicotica. (2) Cfr. Masullo (1995, passim e partic. p. 59), che riprende un testo di Bataille (1990, p. 52) ove è riportata la frase sulla morte citata - che è di Goethe. (3) In questa termini si esprime Masullo (1995, pp. 13ss.), di cui si veda anche (1990). (4) Cfr. Von Weizsäcker (1951, pp. 279ss.) e Masullo (1995, pp. 13ss.), che sottolinea la distanza concettuale tra il patico e la comune accezione dell'Erlebnis (che sia quello "cognitivamente pregno, concepito da Husserl", oppure "quello, intriso di affettività, pensato da Dilthey"). Per Masullo, solo quando l'Erlebnis "venga messo allo scoperto nella sua purezza, si lascia intendere come radicale paticità". L'oscurità del discorso riguardante la "non-cognitività del patico" si dissipa grazie alla citazione di Ryle (1955, p. 212): "Il ciabattino non osserva il mio male ai piedi; ma non perché ci sia una cortina di ferro ad impedire che altri lo osservi, bensì perché un dolore non è una cosa che si osservi nemmeno da parte di chi lo possiede; io sento, non scopro o scruto il mio male". (5) Cfr. Wittgenstein (1968, 6.52, p. 81); cfr. anche il discorso teologico e filosofico di Küng (1979, pp. 114ss.). (6) Cfr. Wittgenstein (1968, pp. 3 e 81); sul suo tormentato (e tormentoso) pensiero cfr. l'analisi di Marconi (1987), che rintraccia l'eredità di Wittgenstein in molta parte della discussione filosofica contemporanea (dalla filosofia analitica al "sapere senza fondamenti" ed all'ermeneutica...). (7) Cfr. Olievenstein (1990, pp. 7-15 e segg.), per il quale dire l'indicibile è il principale compito dell'arte. Olievenstein, prendendo spunto dal ricordo di una cerimonia rituale brasiliana, scrive che "nella semiclandestinità di quella cerimonia si esprimeva il non detto che attraversa la società brasiliana: la paura mescolata al desiderio di tornare a essere schiavi, l'aspirazione a vivere tale paura e tale desiderio, insieme esorcizzandoli per mezzo di un rito... Un esorcismo a vantaggio dei 'posseduti'... La 'possessione' non porta alla luce quanto è temuto nell'inconscio del soggetto freudiano o del collettivo junghiano. Il non detto che la percorre è invece ciò che emerge ed è coscientemente censurato come sconveniente e inaccettabile, o accettato soltanto nel ritualizzazione quadro, dove limitato tutto è nel tempo e provvisoriamente nello spazio, consentito, di così una come avviene nel carnevale brasiliano. Il non detto è ciò che si presenta all'immaginario del soggetto in modo tale che egli sa che l'immaginario dell'altro sa, ma che la legge dell'altro non può accettare apertamente di sapere. La delimitazione dell'ambito di questo non detto non è né facile né definitiva. Da un lato, i suoi confini con il rimosso inconscio non sono netti - tra l'uno e l'altro esistono tramiti incerti e disordinati - e, dall'altro, la separazione con il dicibile varia secondo l'evoluzione della permissività sociale... Ridurre il non detto a una serie di processi di adattamento, più o meno rimossi, che vengono ad alleviare situazioni di smarrimento per la specie, sarebbe tuttavia un grave controsenso. Il non detto dell'uomo gli è specifico in quanto è creativo, in quanto dà origine a un dialogo dell'uomo con se stesso che si inscrive nella memoria del soggetto e da quel momento va a costituire un nucleo intoccabile di cui occorrerà in ogni momento tener conto... Il non detto è un margine di libertà proprio a ciascun individuo, il frutto di una volizione, al contrario del rimosso... Non vi è uno statuto del non detto che non si esprima strutturalmente sotto forma di equilibri instabili e continuamente rinnovati. Fino all'epoca moderna, la ritualizzazione era il mezzo privilegiato per stringere dei compromessi tra l'accettabile e l'irragionevole...". (8) Cfr. Heidegger (1979, p. 272). (9) In proposito cfr. Galimberti (1984, pp. 66-67), che scrive: "Se siamo disposti a rinunciare all'ideale di una psicologia come scienza rigorosa, potremo incominciare particolare arte a pensare la psicologia dell'interpretazione che oggi come arte, chiamiamo come quella ermeneutica. Gadamer (1974, pp. 414 e 388ss.) ce ne offre lo spunto: 'Che l'esperienza del tu sia necessariamente qualcosa di specifico, in quanto il tu non è un oggetto, è un fatto chiaro', e, prosegue Gadamer, 'come dinanzi a un testo da interpretare non possiamo mai sentirci in un atteggiamento di oggettivante estraneità, perché noi stessi siamo presi in esso e allora il testo da interpretare mette in gioco anche la nostra comprensione di noi stessi, a maggior ragione ciò vale per l'interpretazione dell'altra persona'... Per la psicologia come arte è forse necessario un nuovo linguaggio dove le parole non sono più segni che rinviano a un quadro di riferimento anticipato che dà loro senso, ma simboli nel senso greco della parola, dove i due sono messi assieme (sym-bállein) dalla parola che li convoca e al tempo stesso li trascende... Dall'inaudito nasce un linguaggio a cui la ragione scientifica non sa cor-rispondere perché, limitata com'è all'ambito dischiuso dalle proprie anticipazioni, non può ignorare tutti quei sensi che trascendono le sue previsioni... Nell'ordine razionale, infatti, due comunicano perché si scambiano delle parole, nell'ordine simbolico due comunicano perché si scambiano nella parola. E' infatti la parola che li con-voca, che li mette assieme (symbállein), e, solo perché così convocati, possono poi scambiarsi delle parole... Se la psicologia accetta di pensarsi come arte ermeneutica, dove non l'uno interpreta l'altro, ma i due sono interpretati dalla parola... la psicologia è costretta a ripensare i termini in cui finora ha ritenuto si svolgesse la sua specifica comunicazione... Sono persuaso che la prassi psicoanalitica, a dispetto della sua teoria, già percorre inconsapevolmente questi sentieri, e che l'analisi esistenziale, a cui va il merito di aver denunciato il naturalismo della teoria psicoanalitica, sia nelle condizioni più idonee per proseguire la sua critica a tutte le forme, anche le più raffinate, di oggettivazione". Per dirla con Camus (1947, p. 44): "Di chi e di che cosa, infatti, posso dire: 'io lo conosco!'? Questo cuore, che è in me, lo posso sentire e ne argomento che esiste. Questo mondo posso toccarlo, e giudico di nuovo che esiste. Ma qui si ferma tutta la mia scienza, e il resto è costruzione... Sarò sempre estraneo a me stesso. Nella psicologia, come nella logica, vi sono alcune verità, ma non esiste la verità". (10) Per uno spunto, quanto meno linguistico, in questa direzione cfr. Bataille (1980, p. 42). L'occhio torvo di Medusa e l'ebbrezza di Dioniso. Parlare per non morire è con ogni probabilità una delle funzioni di sempre della parola: per Foucault "è possibile, come dice Omero, che gli dèi abbiano inviato le sofferenze ai mortali perché possano raccontarle, e che in questa possibilità la parola trovi la sua infinita risorsa; è possibile che l'avvicinamento della morte, il suo gesto sovrano, il suo risalto nella memoria degli uomini scavino nell'essere e nel presente il vuoto, a partire dal quale o verso il quale si parla". La morte, quanto meno in questa prospettiva, costituisce al contempo il centro ed il limite del linguaggio (1). Figli della comunicazione verbale, i nostri orizzonti e i nostri confini tendono ad essere quelli del linguaggio: le realtà in cui viviamo e che "conosciamo" sono abitudini linguistiche costituire l'orizzonte il che ed il frutto, più che pratichiamo; limite e entro altro il cui inconscio, linguaggio si esplica delle tende il a nostro pensiero e quindi la percezione del mondo (2). Ha scritto Searles che, "se accettiamo enormemente inconscio) la (non i premessa soltanto nostri a processi che il livello di linguaggio di che coscienza, pensiero e la usiamo ma nostra condiziona anche in visione modo della 'realtà', ne consegue che il forte accento che la nostra cultura pone sulla comunicazione verbale ha l'effetto, attraverso la frammentazione e l'astrazione propria del linguaggio corrente, di farci avere, non solo a livello conscio, ma anche inconsciamente, un'esperienza frammentata e astratta" (o, meglio, statica) dell'esistenza. E così compare la morte come centro e limite del linguaggio (e, soprattutto, dell'esistenza): esperire la vita con modalità frammentarie ed astratte, prosegue Searles, "tende a proteggerci dal continuo fluire che è il vero ritmo della nostra esistenza, dalla continuità sostanziale della sequenza nascita-crescitadecadimento-morte"; pertanto, si può dire che "una visione della vita fondata sul linguaggio verbale tende a proteggerci dal fare esperienza della vita nella sua concreta e continua relazione con la morte" (3). La parola, che sia quella del linguaggio ordinario e quotidiano oppure quella dei linguaggi "di settore" delle scienze e delle tante tecnologie, tende dunque ad allontanare e a mascherare l'angoscia di morte: per dirla con Olievenstein, il linguaggio "non è che il guardiano dell'angoscia. Può calmarla, renderla come attiva cosificarla, - l'aspirina si pensi schernirla, calma a la febbre, Nietzsche trasformarla in o oppure Bataille 'Frammento organizzarla, - reificarla, del Discorso Amoroso'. Ma il linguaggio si condanna all'impotenza, perché organizza la messa a distanza di ciò che non può essere messo a distanza. E' qui che interviene prepotente il discorso interiore, il compromesso del non detto tra ciò che il soggetto confessa a se stesso e ciò che può tradurre all'esterno" (4). E così, l'uomo si ritrova lacerato e chino sul proprio nulla, essere "carente" costretto il più delle volte ad un'incessante attività "produttiva" nel tentativo di colmare la "mancanza" che lo segna (5). Nulla è costante perché tutto è "cangiante" nella vita dell'uomo, nulla è certo se non il Nulla (o, nella migliore delle ipotesi, l'Alterità ignota ai mortali ancora vivi). L'uomo è un nomade senza fissa dimora nel corso (del tempo) della vita; e il tempo, osserva Masullo, è prima di tutto paticità, "'misura' affettiva del cambiamento, senso della destabilizzazione, 'patire' come pena per la vita che, ogni attimo, si perde, e come desiderio di riaverla tutt'intera, per sempre al riparo dal cambiamento" (6). Segnato e abitato dalla morte, l'uomo che cerca di guardare altrove e di allontanare l'angoscia per la propria mortalità si ritrova piuttosto, prima o poi, a pensare l'Altrove, l'aldilà, l'alterità radicale e/o il Nulla che l'attende. L'Unheimlich, l'inquietante estraneità della morte si traduce, nell'immaginario greco e poi occidentale, nella maschera mostruosa di terrificante Medusa di quel che, che ricorda è Vernant, assolutamente materializza altro, "l'orrore l'indicibile, l'impensabile, il puro caos"; l'uomo cerca da sempre di evitare gli occhi torvi e cupi di Medusa (si pensi alla sua Testa dipinta dal Caravaggio), quello sguardo che trasforma "ogni essere che vive, si muove e vede la luce del sole in una pietra immobile gelida, cieca, ottenebrata" (7). L'estraneità assoluta di Medusa, che rappresenta la finitudine e il limite dell'esperienza umana e apre alla dimensione angosciante della non-esistenza, Dioniso, lo nel "mondo "strano immaginale" straniero" il (8) cui può volto lasciare è una il posto maschera a doppia, l'Altro con cui si può entrare in relazione: l'alterità perturbante di cui Dioniso è signore potenzialità e la non ricchezza è (sol-)tanto del "mondo "l'altro del mondo", divenire quanto restituita la allo sguardo oltre la mortale fissità della forma" (9). Figlio di Zeus e della principessa Semele, morta incenerita, Dioniso è nato due volte: dopo la morte della madre, Zeus cuce nella propria coscia il figlio prematuro che torna al mondo dopo qualche mese. Dioniso dunque è simbolo dell'alternarsi di vita e morte, ed è al contempo dio della fertilità e della morte: dio dell'estasi, del superamento della condizione umana; dio barcollante, capace di far vacillare le convinzioni delle persone e le convenzioni sociali (10). Conoscere, cercare di catturare il mistero, è un atto d'arroganza, una trasgressione: e, scrive Resnick, "il guardare al di là dei limiti del conosciuto, guardare cioè all'ignoto, alle tenebre, pone il problema dell'enigma della morte, del mondo delle ombre, del passato e del futuro" (11). Dioniso: luogo ideale della liberazione dalle costrizioni umane e dell'intuizione dell'inconoscibile. Trasgressione delle forme codificate dell'esistere e del conoscere: dissoluzione e dissipazione, dell'energia dei corpi come dei divieti e dei veli d'ignoranza, non "ri-produzione" rassicurante dei vezzi e dei vizi d'ogni giorno (12). Vivere pienamente significa sperimentare la tensione tra le dimensioni dell'utile, della conservazione, del lavoro e quelle del consumo improduttivo, dell'eccesso pulsionale, della perdita; quanto meno per l'uomo di Bataille, secondo cui il "soggetto sovrano" (di se stesso) è colui che riesce a "scatenare" le passioni e così a "scatenarsi" dai divieti e dalle costrizioni del mondo del lavoro e dell'utilità calcolata. In una parola: trasgressione, oltrepassamento dei limiti del comune sentire e delle gerarchie sociali, aspirazione a porsi al di là della caducità della vita, coscienza della finitezza umana e "ricerca dell'infinito" (13). Meta difficile, se non impossibile, soprattutto per l'uomo d'oggi: con la "secolarizzazione" la nostra modernità ha quasi del tutto smarrito le tensioni tra sacro e profano, tra divieto e sua violazione (14); in un mondo con pochi dèi e molti semidei terreni, ove i divieti svaniscono o si trasformano in deboli sussurri, la trasgressione non ha quasi ragione d'essere oppure tende a divenire un'esperienza "artificiale", a volte addirittura "di massa", e di conseguenza una violazione poco vissuta (15). L'assunzione di "sostanze" può essere un modo per trasgredire, un tentativo per penetrare nel mondo dei demoni e degli dèi (che abitano in noi?); un modo, dunque, per cercare di avvicinarsi a ciò che è ordinariamente "velato" e proibito. Quanto meno dal punto di vista di Olievenstein, la "prima droga" (e, con essa, la consapevolezza dell'uomo di essere mortale) è nata con la cacciata dal paradiso terrestre di Adamo ed Eva per aver assaggiato il frutto della conoscenza del bene e del male, ed il tossicomane è il solo uomo che intravvede "ciò che c'è di più prossimo alla morte" (senza dimenticare, peraltro, che "l'immaginario della droga" è poco o per nulla "culturalizzato" e non si svolge come un discorso strutturato od una "costruzione fantastica organizzata", ma è "quasi impressionismo, magma parcellizzato sospeso in un'atmosfera unica fatta di calore, ingenuità e arcaismo"); quando poi cessa, "ciclicamente o definitivamente, l'effetto narcotico, il tossicomane si ritrova nudo di fronte a ciò che Bataille definisce l'esperienza interiore nella quale tutto è nudo e miserabile e l'uomo è ridotto a insetto, senza alcun potere sul proprio destino e ciò tanto più crudelmente in quanto egli ha potuto credersi Dio nell'attimo estremo dell'esperienza della droga" (16). Esperienza mistica senza Dio, dunque, eccesso (mortifero) alla ricerca di una "illuminazione" che permetta di disvelare il "senso del mondo" se non di attingere - per quanto in vitro - una qualche "pienezza di vita" (17). NOTE (1) Cfr. Foucault (1971, pp. 73-75). (2) Sulla pluralità delle "realtà in cui viviamo" la bibliografia comincia ad abbondare: cfr. ad es. lo studio di Blumenberg (1987), che propone la retorica "metafora husserliana assoluta" del del mondo mondo della di vita, mondi; di "bisogna fronte alla pazientare": all'impaziente pretesa di trovare un metodo e di catturare la verità, dovremmo sostituire "la pazienza della ricerca infinita" e la nostra capacità di "dilazionare" e anche di "rinunciare", dato che "il rapporto dell'uomo con le realtà è indiretto, circostanziato, differito, selettivo e soprattutto metaforico". (3) Cfr. sottolinea Searles che (1989, "tra tutti pp. i 472ss. più e partic. diversi 488-489), fattori il situazionali quale che influiscono sulle capacità emotive dell'uomo, nessuno è più potente del fatto strordinariamente semplice che, per ciascun individuo, tutta questa complessa vicenda che è la vita, questa vicenda affascinante, tormentosa, eccitante, noiosa, rassicurante, spaventosa, con tutti i suoi momenti di quiete e di tempesta, di semplicità e di complessità, dovrà un giorno, inevitabilmente, finire... Può apparire sorprendente che persino nella schizofrenia, in questo processo patologico apparentemente tra i più lontani dall'esperienza comune, un dato così quotidiano, così universale, qual è la natura mortale dell'uomo, rappresenti una delle maggiori fonti d'angoscia contro la quale il paziente si difende, inconsciamente, con le sue modalità schizofreniche di esperienza intrapsichica e di relazioni interpersonali... Una parte importante del senso di tragedia esistenziale da cui è permeata la storia personale dello schizofrenico ha a che fare con la natura finita della vita umana. La tragedia è presente sotto molte altre forme, com'è presente del resto in tutta l'esistenza dell'uomo: vi è la tragedia della mancata realizzazione di sé, della disgregazione della famiglia, del distacco dagli ambienti dell'infanzia, della perdita di rapporti affettivi molto importanti. Ma non vi è dubbio che la tragedia dell'ineluttabilità della morte sovrasta tutto". Sull'incapacità del linguaggio ad "esprimere la morte" cfr. ad es. anche Jankélévitch (1995, p. 95). (4) Cfr. Olievenstein (1990, p. 44). (5) Sulla carenza quale cifra dell'uomo cfr. Gehlen (1983. passim). (6) Cfr. Masullo (1995, pp. 125-127). Cfr. anche Searles (1989, pp. 428ss.), secondo cui "l'angoscia del genere umano di fronte alla transitorietà di tutte le cose si rivela in molti settori dell'attività umana: basti qui ricordarne tre. La si può vedere innanzitutto nella dipendenza che tanti di noi provano verso la concezione religiosa dell'esistenza in qualche luogo di un Dio che è non solo onnipotente, ma eterno e immutabile. In secondo luogo, la storia della filosofia dimostra che innumerevoli filosofi hanno dedicato la vita al tentativo di scoprire, dietro le apparenze di un mondo in continua trasformazione, qualcosa di eterno... Nella nostra angoscia di fronte alla transitorietà di tutte le cose possiamo trovare rifugio non solo nella religione o nell'adesione a una concezione filosofica della vita... Ma anche nell'attività scientifica. Bergson ha messo in rilievo come la scienza, per la sua stessa natura, possa applicarsi solo a ciò che tende a ripetersi... Nel nostro lavoro di psicoanalisti, dobbiamo essere pronti a cogliere i momenti in cui le teorie e la tecnica della scienza che noi seguiamo possono dare adito alla rimozione, in noi stessi oltre che nei nostri pazienti, dell'angoscia di fronte al cambiamento... E' indispensabile, inoltre, che, dato che dobbiamo necessariamente affidarci alla comunicazione verbale, si sia consapevoli di quanto i modelli sintattici tendano a frammentare e a rendere in vari modi statica la nostra esperienza, che è invece qualcosa di estremamente fluido". (7) Cfr. Vernant (1987, pp. 5-6 e segg.); cfr. anche Tagliapietra (1991, pp. 33ss.). Sull'Unheimlich, intesa quale "inquietante estraneità", cfr. il saggio di Freud (1982, pp. 82ss.) che - annota Kristeva (1990, pp. 166ss.) relativo - seppur dichiaratamente (soprattutto) a problemi limitato negli estetici, intenti, travalica in in quanto realtà il proprio quadro di riferimento diretto tramutandosi in una ricerca sull'angoscia in generale. (8) Sul mondo immaginale, o immaginario (mitico-archetipico), cfr. ad es. Jung (1976 e 1980), Neumann (1981), Hillman (1979 e 1987), Durand (1972 e 1977), Corbin (1976 e 1983), Bachelard (1974), Aversa (1984); cfr. anche la sintesi contenuta nella relativa voce del Dizionario di Galimberti (1992, pp. 465-466) nonché la voce riguardante il mito (pp. 584-586). Cfr. inoltre Abbagnano (1984, pp. 586-588) e Blumenberg (1991 e 1988), che analizza le "radici filosofiche della modernità" ed i "modi in cui ereditiamo e trasformiamo i nostri apparati mitologici" (e che, al di là della disputa sulla definizione del mito, sottolinea che le storie consolidatesi in miti vengono raccontate "per scacciare qualcosa": nel caso più innocuo il tempo; nel caso più serio, paure ed angosce. Cfr. anche Goodman (1988, pp. 121-123), secondo cui "le opere di finzione in letteratura, e opere analoghe nelle altre arti, giocano un ruolo assolutamente dominante nel nostro fabbricare mondi; i mondi che abbiamo li ereditiamo dagli scienziati, dai biografi o dagli storici quanto dai narratori, dai drammaturghi o dai pittori... 'Don Chisciotte, preso alla lettera non si applica a nessuno, ma preso in modo figurato si applica a molti di noi, a me, ad esempio, quando combatto contro i mulini a vento della linguistica contemporanea. A molti altri il termine non si applica né letteralmente né metaforicamente"; e quindi chiedersi se una persona è un Don Chisciotte o un Don Giovanni è "una domanda vera e propria, quanto chiedersi se una pertanto, "non persona importa se è paranoica letteraria, o schizofrenica". pittorica o La finzione, teatrale, non ha davvero come suoi referenti il nulla o dei mondi possibili assolutamente trasparenti, ma, per quanto metaforicamente, i mondi reali... La finzione opera in mondi reali né più né meno come quel che finzione non è. Cervantes, Bosch e Goya, né più né meno di Boswell, Newton e Darwin, ereditano, disfano, rifanno, replicano mondi reali, rimaneggiandoli in modi importanti e a volte anche oscuri ma alla fin fine riconoscibili cioè proprio ri-conoscibili" (per un'analisi del pensiero di Goodman cfr. ad es. Handjaras, 1991: uno dei tratti portanti della sua visione "delle cose" è la tesi che "la verità è spesso inapplicabile, ben di rado è sufficiente e deve a volte lasciare la strada a criteri concorrenti"; una delle fonti del suo pensiero è la filosofia "neokantiana" di Cassirer, con l'idea dell'uomo come animal symbolicum, a proposito della quale cfr. ad es. Geymonat, 1977, vol. VII, pp. 137ss.). Per tornare al "mondo immaginale", si può ancora ricordare che per Hillman (cfr. ad es. 1991, pp. 26 e 34) "i temi e i personaggi della mitologia non sono semplici oggetti di conoscenza", ma piuttosto sono "realtà viventi dell'essere umano che esistono come realtà psichiche in aggiunta e, forse, anche precedentemente alla loro manifestazione storica e geografica. La psicologia del profondo si rivolge alla mitologia non tanto per imparare sugli altri nel passato, quanto per comprendere noi stessi nel presente... Noi dobbiamo conoscere le sottostrutture archetipiche che governano le nostre reazioni; dobbiamo riconoscere gli Dei e i miti in cui siamo impigliati. Se manca questa consapevolezza, il nostro comportamento illusione". diviene Peraltro, interamente bisogna mitico sottolineare e la che coscienza la una "psicologia archetipica" di Hillman , secondo cui in buona sostanza le nostre vite psicologiche sono mimetiche dei miti (e la psicopatologia è essa stessa un mezzo per essere influenzati dal mito), adotta la versione "mitologica" degli archetipi proposta da Jung (cfr. ad es. 1976, pp. 236238) in contrasto con l'altra versione ("fenomenologica"): in altri termini, quando gli archetipi, da "modelli di comportamenti innati" ed "ordinatori di rappresentazioni", cioè da forme a priori che organizzano l'esperienza in maniera umana diventano "istinti forniti di un'energia specifica" che, trascurata, può "produrre un'inflazione dell'Io" per cui nei loro confronti bisogna avere "un saggio timore", allora non siamo più sul piano fenomenologico, dove di fronte ai fenomeni si cerca la forma che tutti li connota, ma sul piano mitologico, dove gli archetipi (cfr. ad es. Jung, 1980, pp. 8 e 22) "sono creati con il materiale primigenio della rivelazione e rappresentano la sempiterna esperienza della divinità, di cui hanno sempre dischiuso all'uomo il presentimento, proteggendolo al contempo dal contatto diretto di essa... Da quando le stelle sono cadute dal cielo e i nostri simboli più alti sono impalliditi, domina nell'inconscio una vita segreta. Perciò abbiamo oggi una psicologia, perciò parliamo di inconscio. Tutto questo sarebbe, ed è in realtà, superfluo in un'epoca e in un tipo di cultura dotati di simboli". Per una critica alla "versione mitologica" di Jung, e quindi a Hillman come anche a Neumann, cfr. ad es. Trevi (1987, pp. 100-101) che qualifica tali tipologie archetipiche come "ipostasi molto prossime a quelle della metafisica religiosa". (9) Cfr. Tagliapietra (1991, pp. 37ss.). (10) Su Dioniso cfr. ad es. Eliade (1981, pp. 393-396), Detienne (1987), Hillman (1991, passim), Jaeger (1982, vol. I, pp. 312ss. e 434ss.), Maffesoli (1982), Fo (1987, pp. 23ss.), Nietzsche (1973, vol. III, tomo II, pp. 59ss.); per alcuni riferimenti, anche bibliografici, allo squilibrio deambulatorio dionisiaco (e sciamanico) cfr. Cottino (1992, pp. 24ss.) e Ginzburg (1989, passim e partic. p. 223). Per quanto riguarda il dionisiaco in Nietzsche, cfr. ad es. la sintesi di Abbagnano (1993, vol. III, pp. 384ss. ed ivi ulteriori indicazioni bibliografiche): "La vita è dolore, lotta, distruzione, crudeltà, incertezza, errore. Essa è l'irrazionalità stessa: non ha ordine nel suo sviluppo né ha scopo, il caso la domina, i valori umani non trovano in essa alcuna radice. Due atteggiamenti sono allora possibili... Il primo è quello della rinuncia e della fuga, che mette capo all'ascetismo; questo è l'atteggiamento che Schopenhauer derivò dalla sua diagnosi ed è l'atteggiamento, secondo Nietzsche, proprio della morale cristiana e della spiritualità comune. Il secondo è quello dell'accettazione della vita come essa è, nei suoi caratteri originari e irrazionali, ed è l'atteggiamento che mette capo all'esaltazione l'atteggiamento questa della di vita e Nietzsche... accettazione... Il al superamento Dioniso carattere è il dell'uomo. simbolo romantico Questo è divinizzato di dell'atteggiamento di Nietzsche è evidente in questa infinitizzazione o divinizzazione della vita. Dioniso ignora e disconosce ogni limite umano... Dioniso ama il lusso della distruzione, della disgregazione, della negazione... respinge e allontana evidente l'idea della della morte... finitudine E' umana... respinto 'Io sono il contrassegno corpo più tutt'intero e nient'altro', dice Zaratustra... Il vero io dell'uomo è il corpo... La vera soggettività dell'uomo non è quella che egli indica col monosillabo io, ma se stesso che è insieme corpo e ragione" (da notare che in Nietzsche si trova una critica radicale della concezione cartesiana della separazione tra res cogitans e res extensa). Per Nietzsche (1977, p. 88), peraltro, la vera opposizione non è tanto tra apollineo e dionisiaco in astratto ma tra Dioniso e Socrate perché "nello schematismo logico la tendenza apollinea si è trasformata in crisalide"; per una diversa interpretazione di Socrate cfr. invece Jankélévitch (1995, pp. 18-19), secondo cui dalla lettura del Menone (79, a-d) e dell'Eutifrone (11, b-d) platonici si antiretorica desume che lo che Socrate rende "può raggiungere un'irritante quella 'torpedine' assoluta verso ogni interlocutore e un pericoloso 'Dedalo' destabilizzante verso ogni certezza mondana, in quanto guidato da un'ininterrotta meditazione della morte. Unica condizione che consenta di affrancare lo sguardo dalle 'verità bell'e fatte' e di farsi beffa di esse. E in particolare di quella logica e di quegli atteggiamenti così poco disposti ad accogliere in loro non solo il gusto ma soprattutto il coraggio del dubbio e della contraddizione, e pertanto così fieri della propria irremovibile coerenza in grado di 'guarire' ogni angoscia e timore... Niente è più facile e più comodo della 'grave serietà' senza cedimenti e tremori, mentre la cosa più difficile e pesante da sopportare (come ben sapeva Nietzsche) è proprio quella apparentemente più 'leggera': vivere - e amare - l'ambiguità di noi stessi e del reale". Tagliapietra (1991, pp. 71-74), poi, ha sottolineato che, "come scrive N.O. Brown, l'uomo dionisiaco 'non nega più': invece di negare, egli afferma la dialettica unità dei grandi istinti contrari: Dioniso riunisce maschio e femmina, il Sé e l'Altro, vita e morte, perciò Dioniso è l'immagine della realtà degli istinti che la psicoanalisi troverà al di là dello schermo... Questa 'costruzione di un io dionisiaco' intesa come 'resurrezione della carne' appare ancora troppo parziale a J. Hillman che, nella terza parte de Il mito dell'analisi - ampiamente dedicata a 'reimmaginare critica la Dioniso' 'via circoscrizione del e a d'uscita' 'rientrare indicata dionisiaco al nella da coscienza Brown, semplice dionisiaca' soprattutto orizzonte per corporeo, la che l'iniziatore della psicologia archetipica interpreta in senso riduttivo" (sul Dioniso di Hillman - secondo cui "per poter entrare in contatto con gli aspetti inquietanti e oscuri della vita, ricostituendo la nostra unità e sanità come totalità non scissa e unilaterale dobbiamo rivolgerci a Dioniso e alla fenomenologia della coscienza che gli è propria", poichè "salute, come totalità, è completamento nell'individualità, e a questa appartiene anche la parte oscura della vita: sintomi, sofferenza, tragedia e morte" - cfr. ad es. l'analisi di Giacobbe, 1986, pp. 97ss.). Per concludere, si può ricordare che tra i tipi psicologici di Jung (1969, p. 150) il dionisiaco è presentato come "la liberazione dell'istinto insofferente di ogni limite, lo scatenarsi della sfrenata dynamis animalesca e divina, la rottura del principio di individuazione e insieme l'estasi delirante". (11) Cfr. Resnick (1982, pp. 28-29), secondo cui "l'angoscia di morte legata a una ricerca dell'ignoto è spesso personificata da personaggi burleschi, specie di figure diaboliche come Arlecchino nella commedia dell'arte o i buffoni delle corti o della chiesa, sempre portatori di una verità essenziale mascherata". (12) Per più di uno spunto in questo senso si veda Olievenstein (1987, passim e partic. pp. 30 e 14): "La vita intera è la lontananza dalla morte. Tutta l'economia sociale, libidinale, perciò tende alla (ri)produzione. Riprodurre significa rassicurarsi, convincersi dell'utilità delle cose: assestarsi in un programma, in un godimento, in una festa. E' un affare di maschere: come le maschere degli stregoni. Ma anche come la siringa del tossicomane". (13) Cfr.Bataille (1991, pp. 61ss. e passim). Per una breve sintesi del suo pensiero si veda Pulcini (1994, pp. 93ss.), ove tra l'altro è sottolineato che il "bisogno di perdita" è ricondotto da Bataille alle due forme arcaiche del potlàc e del sacrificio: il bisogno di dépense è "individuale, prima ancora che economico e sociale, in quanto scaturisce da quella dimensione della soggettività che non è riconducibile alla semplice soddisfazione dei bisogni, né esauribile nella pura ricerca dell'utile. Nell'erogazione in pura perdita dell'energia, nella spesa improduttiva, l'uomo trova infatti la propria sovranità... Avendo esteso il principio di accumulazione su scala planetaria, la società borghese e capitalistica ha reso completa ed universale la proscrizione dalla vita degli uomini di tutto ciò che si colloca 'al di là dell'utilità'... La possibilità di colmare il bisogno di dépense, che riemerge con la forza dirompente del rimosso dalle zone oscure della 'parte maledetta', non appartiene più in prima istanza a strutture collettive, religiose (comunità primitiva) o politiche (società feudale) che fossero. Essa viene interamente affidata alla soggettività... Ma la valorizzazione della soggettività non implica affatto, in Bataille, un ritorno all'ego cartesiano, soggetto chiuso nelle hegeliano, che si proprie certezze razionali, apre all'Alterità solo per e neppure 'superarla' al e riassorbirla nel proprio movimento autocoscienziale. Si tratta piuttosto di un soggetto che trova nella lacerazione, nella dissoluzione e nella perdita che lo espone all'altro da sé in quanto irriducibile negatività, la propria dimensione sovrana... Nel riso, nella danza, nell'orgia, il soggetto rompe la propria integrità per fare della propria vita una "festa immotivata", una dépense senza condizioni che lo "scatena" dai vincoli imposti dal lavoro e dalla autoconservazione". (14) Sul "sacro" e sulla "trasgressione", anche per alcune indicazioni bibliografiche di massima, cfr. le relative voci del Dizionario di Galimberti (1992). Come sottolinea Pulcini (1994, p. 98), quanto meno nella prospettiva di Bataille è la trasgressione "a fondare il mondo del sacro, cioè quella sfera della vita umana prodotta, per opposizione, dal divieto e dai limiti imposti dal lavoro. Si approda qui a un nodo teorico nevralgico del pensiero di Bataille, che getta una luce ulteriore sugli stessi concetti di dépense e di sovranità. La riflessione sul sacro collega ancora una volta Bataille all'antropologia sociale di Mauss e Durkheim, e lo accomuna agli altri membri del Collège de Sociologie, tra i quali soprattutto Caillois (1939), tutti sostenitori dell'idea di una coesistenza necessaria - analoga a quella di trasgressione e divieto - di un mondo sacro e di un mondo profano. La società stessa si regge sulla complementarietà di questi due momenti... Il mondo profano è quello dei divieti. Il mondo sacro si apre a trasgressioni limitate. E' il mondo della festa, dei sovrani, degli dei". Il sacro, ha scritto Bataille (1991, pp. 22 e 209), è "la totalità dell'essere rivelato a coloro che in un rito solenne contemplano la morte di un essere frammentario"; il mondo sacro "ha assunto solo tardivamente il significato unilateralmente elevato che il religioso moderno gli conferisce. Ancora nell'antichità classica aveva un senso dubbio. Apparentemente, per il cristiano, ciò che è sacro è necessariamente puro, mentre l'impuro si situa sul piano profano. Ma per il pagano il sacro poteva anche essere l'immondo... Il peccato è in origine interdizione religiosa, e l'interdizione religiosa del paganesimo è esattamente il sacro". (15) Così come, in un'altra dimensione, è sempre meno sentita l'appartenenza ad una particolare comunità di vita: la Gemeinschaft si è dissolta in tante collettività multiformi; forse si potebbe parlare di comunità "mass-mediatica", ma sarebbe un altro discorso... Il discorso è ovviamente condotto nella prospettiva (non condivisa da chi scrive) di Bataille, che - come ha sottolineato Pulcini (1994, p. 102), si dipana seguendo l'analisi weberiana del moderno come "prodotto del 'disincantamento del mondo', conferendole tuttavia accenti fortemente critici e valutativi". Per quanto riguarda, poi, le comunicazioni di massa, si vedano ad esempio D. McQuail (1986) e M. Wolf (1990). Inoltre, può essere il caso di citare Galimberti (1991): "Mezzi di non comunicazione, i media sono propagatori di modelli simili in tutto alle idee dell'iperuranio che Platone proponeva... come modelli per regolare la vita dei corpi. Ma appartiene all'essenza del modello la sua riproducibilità, per cui ogni gesto, anche il più trasgressivo, il più rivoluzionario, quando passa per i media, diventando un modello, non appartiene più all'ordine della produzione di senso, ma all'ordine della sua riproduzione. Qui il gesto si neutralizza, perde la sua carica sovversiva, perché, quando è trasmesso e ricevuto come modello d'azione, non si sa più che farsene, essendo la trasgressione, la rivoluzione, gesto unico, non riproducibile in serie, né suscettibile d'essere offerto come modello, come prototipo". Dunque, mass-media come canali di (ri)produzione dei vezzi e dei vizi d'ogni giorno. (16) Cfr. Olievenstein (1993, pp. 7ss.); cfr. anche (1987, pp. 10-14-2022-24), ove Olievenstein scrive che "il flash non è l'orgasmo, la piccola morte, che apre sulla ripresa della continuità. Flash: apri la porta su altro, su un pianeta che è altrove e che è il solo tentativo umano, illusorio, di annullare la morte. Dispiegamento infinito del tempo distorto e di ogni spazio. Piacere prolungato - lungo i bordi del sacro e del segreto... La droga annulla tutto e rende tutto possibile. Dice il non detto, la terribile paura e il terribile desiderio di essere ancora schiavo... Fallisci e vinci e per questo ricominci. Per questo gli altri non capiscono più. Vai a capire cosa prova il maiale quando mangia l'immondizia...Tu sei uomo, e un uomo qualsiasi, nonostante il tuo destino favoloso. Con la tua miseria e il tuo corpo. Lo stupido è chi rimane affascinato dal tuo destino. Perché il piacere e nella morale. E forse, ma chi lo sa davvero, nell'ascesi. Guai a chi tanto sfida Eros e Thanatos. Almeno senza umiltà e senza riflessione... Al tempo della televisione, la morte a migliaia è banalizzata, giorno per giorno. E il suo mistero diventa più bruciante: la vediamo di più, la comprendiamo di meno. E' totalmente insopportabile. Il discorso nei suoi confronti è totalmente interdetto: è quello della sua paura. Salvo a farne la cosa psicoanalitica". Cfr. anche Cordet (1976, pp. 85ss.): "Incarnazione della morte, corpo repellente, zona necrotizzata e necrotizzante, il corpo del drogato è quel luogo in cui gli istinti di vivere e di morire, sganciati l'uno dall'altro, si esasperano funzionando alternativamente, ciascuno per conto suo, impazziti nell'eccesso... La figura del Drogato affascina perché ci offre la nostra Morte e la nostra Vita riunite insieme, nello stesso luogo". (17) Per alcuni spunti cfr. ad es. Bataille (1978, p. 163): "La vita si perde nella morte, i fiumi nel mare ed il noto nell'ignoto. La conoscenza è l'accesso all'ignoto. Il non senso è l'esito di ogni senso possibile". Per Bataille (1991, passim e pp. 16-17), "noi siamo esseri frammentari, individui che muoiono isolatamente nel corso di un'avventura inintelligibile, colmi di nostalgia per la perduta unità". Cfr. anche Bataille (1987, pp. 25 e 67): "E' sempre la morte - o almeno la rovina del sistema dell'individuo isolato alla ricerca della felicità nella durata - è sempre la morte a introdurre la rottura senza la quale nessuno arriva allo stato di rapimento (la mistica cristiana poggia sul 'morire a se stessi'. La mistica orientale ha i medesimi fondamenti). In questo moto di rottura e di morte si ritrova sempre l'innocenza e l'ebbrezza dell'essere. L'essere isolato si perde nell'altro da sé. Poco importa quale sia la rappresentazione data 'dell'altro'. E' sempre una realtà che oltrepassa i limiti comuni, anzi così profondamente illimitata, che prima di tutto non è 'qualcosa': non è niente. 'Dio è nulla' afferma Eckhart... L'umanità persegue due fini, di cui uno, negativo, è di conservare la vita (evitare la morte), l'altro, positivo, di accrescere l'intensità della vita. Questi due fini non sono contraddittori. Ma l'intensità non si accresce mai senza pericolo". Per una breve analisi delle possibili (ma improprie, per l'autore) analogie tra tossicomania e rito iniziatico cfr. Caponeri (1983, pp. 63ss.); sui miti e sui riti di passaggio di vedano quanto meno Van Gennep (1981), Lapassade (provocate soprattutto dalle nelle (1980) "bevande e Lewis sacre") popolazioni che (1972). cfr. siamo ad Sulle es. soliti "ebbrezze De dire Félice divine" (1990): "primitive" le sostanze "tossiche" costituiscono una via d'accesso al sacro e al divino; la loro assunzione fa parte di un rito, l'assuntore conosce una particolare euforia e si abbandona al potere delle illusioni e delle chimere che sorgono dalle profondità del suo essere così oltrepassando i limiti della propria esistenza. Per Olievenstein (1990, pp. 13-17), "qualcosa del non detto si esprime attraverso il rito e lo stile. La religione e l'arte permettono di riconoscelo, di ammetterlo in una certa misura, di trasfigurarlo in parole o atti, di muoversi più liberamente tra il fatto e la censura, di realizzare l'irrazionale altrimenti che tramite la pazzia... Dire il non detto per alleviarne il peso, o per esprimerne la legittimità quando esso ha finito di essere proibito ed è diventato asettico. Ma ciò che è diventato rituale dell'emozione baratta o stilizzato selvaggia, l'intensità media non è sufficiente. l'indisciplina, dell'ineffabile con Uccide banalizza la minore la qualcosa violenza, intensità del visibile... Il non detto dell'uomo gli è specifico in quanto è creativo, in quanto dà origine a un dialogo dell'uomo con se stesso che si inscrive nella memoria del soggetto e da quel momento va a costituire un nucleo intoccabile all'epoca di cui moderna, occorrerà la in ogni ritualizzazione momento era il tener mezzo conto... Fino privilegiato per stringere dei compromessi tra l'accettabile e l'irragionevole... Ora, la rivoluzione cinetica degli ultimi quarant'anni (trasporti aerei, voli spaziali, trasmissione delle informazioni...) ha messo fuori corso questi riti, divenuti arcaici e perfino ridicoli in confronto alle trance moderne, in particolare al grande rito televisivo... Di qui la necessità di concedersi a volte l'espressione di un non detto con altri mezzi extrarituali. Per esempio, mediante l'uso di sostanze tossiche... Esse offrono possibilità vantaggio ineguagliabili ulteriore che attraverso comportamenti attraverso un vero e di esso non messi al proprio è accesso più bando linguaggio. al non costretto dalla detto. a Con il manifestarsi società, L'allucinazione e neppure sensoriale, insieme vissuta e avvertita, ma soprattutto nell'interirorità, lascia al soggetto il più ampio spazio di elaborazione senza che egli abbia il bisogno di comunicare o di metterlo in comune... La nozione di modernità è indispensabile all'analisi del non detto, alla quale conferisce tutta la sua attualità. all'incrocio tra Infatti siamo un'elaborazione di fronte a tradizionale una situazione del non nuova, detto, una riattivazione delle grandi paure ancestrali davanti all'impossibilità di controllare le nuove evoluzioni (la paura atomica, per esempio) e una riduzione del segreto (individuale) e del sacro (collettivo) da parte dell'egemonia dapprima scientifica... gegli La allucinogeni, ricomparsa poi degli massiccia delle anestetizzanti droghe e - degli euforizzanti, infine degli stimolanti - ne è la riprova, la testimonianza dell'oscillazione e della compenetrazione tra il desiderio di modernità e la nostalgia del ritorno alle origini... L'accelerazione della volontà che si esercita nel disporre liberamente di una siringa, semplice oggetto di consumo che si può gettare dopo l'uso, incarna il superamento delle usanze di un tempo, che prescrivevano l'assunzione di droghe in occasione di ricorrenze particolari... L'alcool non basta più ai giovani... Non permette e non assume la modernità, di cui non ricrea la rapidità dei mutamenti e l'intensità delle oscillazioni". E così, "si fa strada a poco a poco la duplice natura e la duplice funzione del non detto: arcaico e costretto a integrare la modernità; modalità di salvaguardia dell'identità individuale e di gruppo, e modo di espressione più o meno censurato della paura di non essere, perciò di essere con un'angoscia di morte, essa stessa non censurata e permanente". Per concludere può essere ancora opportuno citare Masullo (1995, pp. 17 e 104ss.), secondo cui "non solo il 'movimento' (kínesis) ma in generale il 'cambiamento' (metabolé) è per natura il destabilizzante (ekstatikón)... L'avverbio latino modo significa 'adesso'. 'Moderna' è stata dunque l'età dell'adesso, dell'assoluto primato del 'presente', del breve ma intenso durare della vivente attualità. Ma ai nostri giorni, con l'esplosione dell'istantaneo e il dominante diffondersi di un vissuto senza durata, svanito lo spessore del 'presente', la modernità è tramontata. Senza accorgercene, L'enorme noi fretta, siamo la scivolati in divinizzazione una della condizione velocità e 'postmoderna'". l'incapacità di "sospendere la nostra corsa" consentono di dire che "il presente viene sempre più fortemente avvertito, qualche rara volta con entusiasmo, spesso con angoscia, quasi sempre con preoccupazione, come un limite estremo contro il quale ogni passato e ogni futuro si schiacciano... Il ridursi del presente all'istantaneità e all'impossibilità di darsi ragione del cambiamento, comporta per il moderno la liquidazione della sua metafisica. In un mondo nel quale il mutamento è istantaneo, senza ragione, la cartesiana domanda 'sogno o son desto?' ammutolisce, perché la distinzione tra il sogno e la veglia non ha più senso". Il non detto della clinica di Olievenstein. "Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: 'ci sono soltanto fatti', direi: no, proprio i fatti non tentare di ci sono, bensì solo interpretazioni" (1). Perché citare Nietzsche? Per dar conto del contesto concettuale, e di alcune premesse più o meno implicite, del discours di Olievenstein; un discorso che si presenta soprattutto come dis-cursus: correre qua e là, andare e venire, aggiramento, intreccio, attorcigliamento, guizzo (2). La "clinica del tossicomane" è al contempo teoria, tecnica terapeutica ed autobiografia (3): Olievenstein la definisce fenomenologia condotta alla luce dell'apporto teorico della psicoanalisi, mentre non sottolinea la dimensione di vero e proprio Gedankenexperiment, cioè di esperimento mentale e di teoresi ardita (se non di mitopoiesi) che connota molte delle sue pagine volte alla ri-costruzione delle dinamiche che sostanziano la scelta del tossicomane. Olievenstein proprio invoca discorso, il per radicamento connotarlo nell'esperienza e fenomenologica legittimarlo in termini del di scientificità: l'ingenuità epistemologica e metodologica sarebbe palese se non fosse contraddetta dagli effettivi svolgimenti (che a volte sono avvolgimenti o involgimenti) della sua clinica. Per Olievenstein, tossicomani in finchè psicologia pure, effetti, venga un non vi presupposto, ordine quasi può essere "come lineare in dei una ogni clinica dei psichiatria fenomeni, che o sia ontogenetico o filogenetico, strutturale o topico"; al contrario, una tale clinica rinvia "piuttosto alla meccanica dei fluidi che a quella dei solidi" in quanto deve tener conto, senza poterne fare a meno, delle "fluttuazioni", delle "perturbazioni" e dei "vortici" che caratterizzano la teoresi e l'esperienza terapeutica (4). Malgrado l'appello ai fatti, dunque, Olievenstein guarda soprattutto nella direzione del Nietzsche teorico dell'interpretazione totale piuttosto che in quella di Husserl e dei suoi epigoni (o di qualche "empirista" ingenuo)(5): nella sua clinica si ritrovano, oltre alle suggestioni mutuate dall'antropologia strutturalista e da autori quali Bataille e Foucault, le tracce del pensiero di Jaspers e di Heidegger, Merleau-Ponty, Binswanger (e non solo, ovviamente)(6). L'esperienza di letteralmente significa contenuti cui emozionali parla Olievenstein vissuto tematizzata e rinvia (7) è l'Erlebnis, all'intuizione originariamente da diretta Dilthey (8); che dei a differenza dell'Erfahrung, la comune esperienza "esterna" di un qualche fenomeno, l'Erlebnis restituisce il senso di un approccio gnoseologico (e clinico) che dovrebbe consentire di "avvicinare la vita con la vita" e, di conseguenza, l'Altro (9). aprire la possibilità di comprendere "dall'interno" Peraltro, la prospettiva fenomenologico-comprendente della clinica olievensteiniana non è "pura" anche perché, essendo aperta agli apporti della psicologia del profondo freudiana, non può che tener conto della concezione psicoanalitica dell'interpretazione secondo la quale tale attività si colloca ad un punto mediano di raccordo tra la spiegazione causale delle scienze naturali e la comprensione fenomenologica (10). Inoltre, come si è già detto nel corso del capitolo, la sua clinica è intessuta di spunti lacaniani; in questa sede può essere opportuno ricordare che la tesi dell'irraggiungibilità della verità da parte del linguaggio e del sapere consente di ricondurre Lacan ad una prospettiva ermeneutica, in forza della quale nessun sapere può vantare una presa esaustiva od un possesso ultimo della verità (11). Dovrebbe essere chiaro, ormai, che la dimensione epistemologica del discours di Olievenstein è tutt'altro che "ingenua" e per nulla lineare; inoltre, bisogna ancora aggiungere che la sua clinica tende a non obliterare l'orizzonte di "non detto" costituente lo sfondo del dicibile e del conoscibile: il non detto dell'angoscia, della droga, dell'analisi, della medicina, della scienza, etc. (12). Aperto alle suggestioni speculative dello strutturalismo (in particolare del primo Foucault, di Lévi-Strauss, Lacan e Althusser) e del cosiddetto post-strutturalismo francese (con l'ultimo Foucault e l'ultimo Barthes, Derrida, Baudrillard...)(13), Olievenstein sembra aver fatta propria, da un lato, la concezione lacaniana dell'uomo "parlato" dall'inconscio (che è linguaggio) e, d'altro lato, la configurazione della coscienza quale "riflesso deformato" delle dinamiche inconsce che la producono; coscienza "strutturata" da ciò che Foucault ha denominato l'impensato. In altri termini: l'uomo è agito da una pluralità di "forze" di cui non è consapevole, la dimensione costitutiva dell'individuo è sempre "altrove" rispetto alla coscienza ed alla intenzionalità del soggetto (14). Il discours di Olievenstein, dunque, è soprattutto dis-cursus: il sincretismo teoretico, che si sostanzia nell'accostamento e nell'utilizzo di punti di vista anche contraddittori (15), nella dissolvenza semantica di un linguaggio (aperto all'indicibile) dai "vortici" talora babelici ed incomprensibili, si risolve comunque in una clinica che tra intuizioni e interpretazioni più o meno azzardate ed ipotesi ardite tratteggia un originale percorso terapeutico (16). Per concludere, soprattutto) per può essere Popper il "non caso di sappiamo, ricordare possiamo che solo (anche tirare e a indovinare... I soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni ingiustificate e le speculazioni infondate" (17). Simplex non è sigillum veri, la certezza del vero non è garantita dalla "semplicità" (delle sue scaturigini o dei costrutti realtà esplicativi) (18): preparata a la né "percezione" tavolino, Letztbegründung, il cioè del per linguaggio non può cui fondamento costituisce che essere l'ingenuità ultimo e l'análogon della selettiva, quasi dei della cercatori del giustificazione davvero giustificante un "risultato cognitivo", non può che comportare molte delusioni (19). Sulle orme di Popper si può dire che "i fatti" non hanno senso senza una loro interpretazione, valutazione e comprensione generale (20). Le connessioni e i rapporti fra elementi di una qualche "realtà", determinato infatti, sono problema; cercati l'orizzonte ed individuati delle in funzione aspettative, più di o un meno consapevoli, "gioca la parte di un quadro di riferimento: solo il loro disporsi in questo quadro conferisce senso o significato alle nostre esperienze, azioni e osservazioni" (21). Nel dominio della Vorverständnis, della precomprensione che può recare con sé l'incomprensione più radicale, è però evidente il rischio della "semiosi illimitata" e dell'analisi che non genera altro che abissi di non-senso: ogni dizionario contiene l'infinito, il rischio è attribuirlo ad ogni espressione, ad ogni segno (verbale o meno)(22). NOTE (1) Nietzsche (1976, p. 299). (2)In proposito cfr. Barthes (1979, pp. 5ss.). (3) Il discorso di Olievenstein si snoda, ovviamente, nelle varie opere citate nel corso del presente lavoro; in questa sede il riferimento diretto è costituito dal Destino del tossicomane, ove a p. 86 è scritto: "Occorre non attendersi da questo testo più di quanto esso possa offrire. Si procede piuttosto per intuizioni che per dimostrazioni. Non si tratta però di un testo filosofico o puramente speculativo carente di radici cosiddette scientifiche, in quanto ha come base essenziale l'esperienza clinica fenomenologica compulsiva Inoltre e tale (in impulsiva...) testo ricava particolare e la l'apporto sua l'esplorazione teorico legittimazione della della nevrosi psicoanalisi. dall'esperienza del dell'ermeneutica la Centro medico Marmottan". (4) Cfr. Olievenstein (1984, p. 9). (5) Sugli sviluppi moderni e contemporanei bibliografia è sterminata: cfr. ad es. Fornero (in Abbagnano, 1993, vol. IV, tomo I, pp. 484ss.), Ruggenini (1992) e Vattimo (1994); per una sintesi dell'evoluzione e degli esiti attuali della fenomenologia cfr. ad es. Sini e D'Agostini (in AA.VV., Enciclopedia di filosofia, pp. 369371), Galimberti psicologia (1992, comprensiva, voci: fenomenologia, esperienza, analisi esistenziale), Cazzullo-Sini vissuto, (1984), Borgna (1995, pp. 115ss.), D'Ippolito (1992), Calvi (1993, pp. 97-100); per un approccio epistemologico in tema di psicoanalisi cfr. ad es. Hook (1967), Grünbaum (1988), Cecchini (1990), Gellner (1993), Romano (1991); per un recente sguardo panoramico su alcune grandi questioni riguardanti "l'opacità dell'evidenza" e la necessità di una radicale reimpostazione delle strategie cognitive cfr. Vozza (1990); per un'originale sintesi dei tratti di fondo della filosofia della scienza contemporanea cfr. Schulz (1986). Per un'analisi della teoresi molto interessante cfr. Robilant (1990, pp. 21ss.) che, sulle orme del razionalismo critico popperiano, sottolinea il carattere di costruzione artificiale delle teorie, volte a procurare una "conoscenza argomentata" della realtà con pretese di "universalità" almeno potenziale e in competizione con altre possibili teorie alternative; le teorie hanno per oggetto "problemi" e possono "almeno parzialmente essere provate false, si pongono come frutto d'invenzione e sono composte di elementi "artificiali" (concetti, schemi, categorie, modelli, etc.) che non si trovano nella realtà di cui la teoria vuole procurare una conoscenza (la letteratura about the theory of the theories è vastissima: cfr., anche per la bibliografia oltre che per l'impostazione, Pera 1991). Un ultimo rilievo: come ricorda ad es. Berti (1992, pp. 16ss.), la razionalità scientifica tematizzata e teorizzata dall'epistemologia più recente, "proprio per il suo carattere ipotetico, provvisorio, privo di fondamenti assoluti, è puramente formale e quindi lascia fuori di sé le cose più importanti, cioè non solo i valori o, se si preferisce, i fini... ma anche, come ha dimostrato Gödel, le sue stesse premesse, cioè le ipotesi". (6) Di Bataille si vedano (1975 e 1991), di Foucault le opere citate nella nota 13 (ove sono citati altri autori ben presenti ad Olievenstein); di Jaspers si veda quanto meno (1964), di Heidegger si vedano (1969, 1968 e 1973), di Merleau-Ponty si veda (1972), di Binswanger si devono indicare almeno (1970 e 1973). Ancora, si possono ricordare autori come Bachelard, citato alla nota 15, Deleuze e Guattari (1975), Lyotard (1978). Può essere utile, inoltre, riportare le parole di Borgna (1995, pp. 116117), secondo cui "al di là delle diverse articolazioni del pensiero husserliano, heideggeriano e scheleriano, ma anche di quello bergsoniano, è comune a ciascuna delle diverse fenomenologie l'esigenza di descrivere senza scivolare in teoremi astratti, di vedere ciò che è nascosto in ciò che è banale e quotidiano (in ciò che è ovvio: nel senso etimologico di 'ciò che viene incontro'), di vedere, ancora, ciò che è condizione di ciò che è ovvio... La fenomenologia sconfina nell'ermeneutica, della quale Heidegger dice di non aver più fatto uso dopo Essere e tempo". (7) Si veda la nota 3. (8) Cfr. Dilthey diversità tra (1894, scienze pp. della 143 e natura 253) e secondo dello cui, spirito, il postulata la concetto di esperienza non può essere assunto in modo univoco perché "di ogni oggetto 'si fa esperienza' in maniera adeguata alla sua natura". Come noto, muovendo dalla (tuttora controversa) distinzione tra scienze naturali e dello spirito Jaspers (cfr. ad es. 1964, p. 30) ha elaborato una "psicologia comprensiva" fondata sulla distinzione tra Verstehen, comprendere, ed Erklären, spiegare: "Impiegheremo sempre l'espressione 'comprendere' per la visione interiore di qualcosa dal di dentro, mentre non chiameremo mai comprendere, ma 'spiegare', la conoscenza dei nessi causali obiettivi che sono sempre visti dal di fuori". Come annota ad es. Galimberti (1992, voce: psicologia comprensiva), la psicologia comprensiva "ha legami con la distinzione introdotta da Windelband tra metodo idiografico fenomenologica della e metodo psichiatria nomotetico, che e Binswanger con l'impostazione inaugura promuovendo quell'analisi esistenziale che ricerca le modalità con cui ogni singolo alienato declina il proprio modo di essere al mondo". Può essere opportuno, in questa sede, ricordare ancora la distinzione proposta da Rorty (1986, pp. 239ss., che peraltro critica la separazione tra scienze della natura e dello spirito) tra ermeneutica ed epistemologia, dove "epistemologico" è quel tipo di pensiero che si muove all'interno terminologia di paradigmi di Kuhn vigenti (1978) - e accettati, della facendo "scienza - secondo normale", la mentre "ermeneutica" è l'incontro con un paradigma nuovo. Cfr. anche, tra i tanti, Masullo (1995, pp. 9ss.). (9) Per una sintesi cfr. Galimberti (1992, voce: vissuto), il quale sottolinea che in questa prospettiva "l'esperienza vissuta dal singolo non è separata dall'alterità, dall'ambiente e dal mondo in generale, perché l'individuo non è assolutamente un mondo chiuso come sottintende la distinzione naturalistica tra soggetto e oggetto di derivazione cartesiana". (10) Cfr. ad es. la sintesi di Galimberti (1992, voce: interpretazione): "Come la spiegazione (l'Erklären), infatti, l'interpretazione psicoanalitica tenta di stabilire una connessione causale fra gli eventi, e come la comprensione (il Verstehen), oltre a non essere suscettibile di una verifica sperimentale, si situa nello spazio intersoggettivo del rapporto analista-paziente" (dello stesso autore si veda anche la voce sull'ermeneutica). Tra i vari contributi sul tema si devono indicare, quanto meno, Laplanche-Pontalis (1993, vol. I, pp. 261-264), Lacan (1974), Ricoeur (1966), Codignola (1977) e Cecchini (1990), che imposta la propria analisi del concetto di interpretazione in Freud sottolineando che, se solitamente di divide il suo pensiero in due fasi contraddistinte come le due topiche, quando si ha a che fare con il concetto di interpretazione conviene distinguere tre fasi: dal concetto di interpretazione (Deutung) al concetto di costruzione (Kostruktion) attraverso l'elaborazione (Durcharbeiten). (11) Cfr. ad es. Lacan (1974 e 1953-1979); per un'introduzione filosofica al suo pensiero nel contesto dello "strutturalismo" si veda Fornero (in Abbagnano, 1993, vol. IV, tomo I, pp. 314ss. e 418ss.). (12) Cfr. Olievenstein (1990). Ha scritto Foucault (1976, p. 225): "Dopotutto, quale forma di sapere è abbastanza singolare, esoterica o regionale da essere sata sempre in un solo punto e in una formulazione unica? Quale conoscenza è nello stesso tempo così bene e così mal conosciuta da esserlo una sola volta, in un solo modo, e secondo un solo tipo di comprensione? Quale immagine della scienza, sia pure coerente e limitata, non lascia gravitare intorno a sé forme più o meno oscure di coscienza pratica, mitologica o morale? Ogni verità entrerebbe in letargo, se non vivesse in un ordine sparso e non fosse riconosciuta soltanto per spaccati". (13) Per una sintesi su strutturalismo e post-strutturalismo, cfr. ad es. Fornero (in Abbagnano, 1994, vol. IV, tomo II, pp. 400ss. e 1993, vol. IV, tomo I, pp. 314ss.); di Foucault si vedano in particolare (1967, 1969, 1972, 1976), di Lévi-Strauss si vedano (1966 e 1975), di Lacan le opere citate nella nota 10, di Althusser si veda (1964), di Barthes si vedano (1966 e 1974), di Derrida si vedano (1967 e 1971), di Baudrillard si veda (1979). (14) Cfr. ad es. Althusser (1964). Come ha osservato Ricoeur (1977, p. 253), lo strutturalismo tende ad assumere le sembianze di un provocatorio "pensiero del di fuori", ovvero di una "anti-fenomenologia" che esige non la riduzione alla coscienza, ma la riduzione della coscienza. Per Foucault (1967, pp. 347ss.), con il sorgere dell'"episteme moderna" non è più possibile far derivare l'io sono dall'io penso, in quanto il cogito si trova "imprigionato" in una serie di "sedimentazioni" (costituenti la "distesa sabbiosa del non-pensiero") che non possono mai venir completamente attualizzate dal pensiero; l'uomo, in quanto vivente, si trova nell'ambito di una vita che gli preesiste; in quanto lavorante, si trova all'interno di un terreno sociale preformato; in quanto parlante, si trova nello spazio di un linguaggio già dispiegato. La dissoluzione dell'uomo-soggetto (e dell'uomo-coscienza) si compie nel dominio del linguaggio. (15) In ciò si può forse ravvisare un'eco del pensiero di Bachelard (cfr. ad es. 1942 e 1975), secondo cui non esiste "la scienza" ma si deve parlare delle scienze, cioè dell'esistenza di una pluralità irriducibile di saperi e di tecniche specifiche. Nel pensiero di questo autore, poi, è centrale tra l'altro il concetto di "immaginario" che costituisce sia una forma di conoscenza più profonda di quella tecnico-scientifica (perché attinge a quegli stati dello spirito umano che questa non riesce a modificare), sia il "fondamento intuitivo" delle concezioni che, mediate e razionalizzate, entreranno a far parte del patrimonio delle scienze. Per un'introduzione alla filosofia di Bachelard cfr. ad es. Geymonat (1977, pp. 261ss.). (16) Può essere opportuno, per tentare di "restituire" il senso dell'opera di Olievenstein, citare due passi di Borgna (1995, pp. 44 e 194): "In psichiatria non è possibile un discorso autentico e radicale se non liberandoci con rigore spietato dalle abitudini di considerare i fenomeni psicopatologici di una teoria, di un'immagine del mondo, di una comune opinione; se non ascoltando i pazienti nell'immediatezza del loro linguaggio e della loro angoscia senza pensare al 'sintomo' e, così, a un determinato 'segno' di malattia". E ancora: "La sola cosa che si possa fare, è quella di servirsi di un linguaggio allusivo e friabile, discontinuo e sconfinante nell'indicibile, nel quale si intravvede almeno qualcosa di quest'estraneità e di quest'alterità. Nulla si coglie, invece, se il linguaggio è quello inaridito e desertificato dalla ragione calcolante e dai ghiacci della riflessione scientifico-naturale". (17) Cfr. Popper (1970, pp. 308-310). (18) Sul linguaggio come rispecchiamento del mondo e sulla relazione, fondamentale nella (nascita della) clinica medica come più in generale per "l'episteme classica", tra percezioni e loro descrizioni linguistiche, cfr. Foucault (1967, passim; 1969, pp. 113-116 e 223-225): "Lo sguardo del clinico e la riflessione del filosofo detengono poteri analoghi, perché presuppongono entrambi una struttura d'oggettività identica: in cui la totalità dell'essere si esaurisce in manifestazioni che ne sono manifesto si il significante-significato; congiungono in un'identità in cui almeno il visibile virtuale; in ed il cui il percepito ed il percepibile possono essere interamente restituiti in un linguaggio la cui forma rigorosa ne enuncia l'origine". (19) Sulla ricerca del fondamento ultimo cfr. Albert (1973, pp. 23ss. e 1987, pp. 69ss.), il quale, sviluppando le tesi popperiane, nota che la ricerca di un punto d'appoggio sicuro della conoscenza porta ad una triplice situazione aporetica ("trilemma di Münchhausen", con riferimento alle peripezie del noto barone): regresso all'infinito, circolo vizioso nella deduzione, interruzione arbitraria del procedimento fondativo ad un certo punto; l'esito non può che essere il dogmatismo (contra, peraltro, cfr. Apel, 1992). Tra i tanti, cfr. anche Gargani (1975) e Gellner (1992, pp. 34 e 136) il quale, a proposito di regressio ad infinitum, scrive che "come disse André Gide in uno dei suoi romanzi, quando incontri il Creatore, come puoi sapere che è quello vero?". Per alcune interessanti dell'esperienza" e di annotazioni "realismo" in tema di della scienza nell'ambito "costruzione si veda Robilant (1983, pp. 57ss.), già citato alla nota 5. Cfr. anche Goodman (1978, pp. 1ss.), il quale rimarca che "non esiste occhio innocente" in quanto la percezione è connotata da "selezione" e "classificazione" che a loro volta si sono determinate attraverso un complesso di eredità, abitudini, preferenze, predisposizioni e pregiudizi; "mondi a non finire" fabbricati con l'uso dei simboli: così, dice Goodman, si potrebbe riassumere l'opera di Cassirer i cui temi - "la molteplicità dei mondi, l'apparenza del 'dato', il potere creativo dell'intelligenza, la varietà e la funzione formativa dei simboli - sono parte integrante del "modo di vedere" goodmaniano (che, a differenza ad es. di Popper, considera la teoria della verità come corrispondenza di Tarski piuttosto "nebulosa", e parla non di verità ma di "correttezza" delle versioni del mondo che resistono alla critica fino a quando non infrangono nessuna di quelle che in un dato momento sono "credenze sostanziali"). In termini simili cfr. Putnam (1985, pp. 3ss.), teorico di un "realismo interno" che propugna una concezione della verità che, "almeno nello spirito, si rifà alle idee di Immanuel Kant: essa sostiene che è possibile rifiutare una semplice concezione della verità come 'copia' senza dover necessariamente sostenere che è tutto una questione di Zeitgeist, di cambiamenti di Gestalt o, semplicemente, di ideologia"; in un passo molto citato Putnam ha scritto: "Proporrò una tesi per la quale la mente non 'copia' semplicemente un mondo che può essere descritto da un'Unica teoria vera. La mia tesi, però, non sostiene neppure che la mente costruisce il mondo (né lo costruisce sottomessa a vincoli imposti da 'canoni metodologici' e da 'dati linguaggio sensoriali' indipendenti metaforico, diremmo che dalla la mente). mente e il Volendo mondo usare un costruiscono insieme la mente e il mondo" (ed è evidente quanti rischi corra Putnam di cadere sulle stesse posizioni di "irrealismo soggettivistico" di un Rorty o di un Feyerabend o di un Derrida"). Per tornare a Popper (1986, vol. II, pp. 304-305), si ricordi che "siamo liberi di scegliere qualche forma di irrazionalismo, anche qualche forma radicale o assoluta. Ma siamo liberi di scegliere anche una forma critica di razionalismo, quella che riconosce francamente i suoi limiti e la sua derivazione da una decisione irrazionale (e, pertanto, una certa priorità all'irrazionalismo)". Per Bartley (1987, pp. 208-209) oltre a Popper si possono definire Wittgenstein: razionalisti tuttavia, "il critici tipo di anche Nozick, razionalismo Quine, critico Rorty oggi e più importante - e che differisce per importanti aspetti da quelli appena discussi - è senz'altro quello proposto da Sir Karl Popper"; teorico del razionalismo pancritico, secondo cui nulla può essere giustificato mentre tutto può essere criticato, Bartley (1990, pp. 160-171) scrive che "invece di postulare infallibili autorità intellettuali che giustifichino e garantiscano le nostre asserzioni, potremmo tentare di costruire un programma filosofico per contrastare e neutralizzare gli errori intellettuali)" e, inoltre, sottolinea che il razionalismo pancritico è compatibile con un certo tipo di relativismo: "La sopravvivenza di una qualsiasi asserzione è relativa al suo successo nel superare le critiche più severe". Bartley (1985, p. 18), poi, avendo ben presente le infinite conseguenze (inintenzionali) delle teorie come delle azioni dell'uomo, ha più volte sottolineato di aver appreso da Popper "che noi non sappiamo mai di che cosa stiamo parlando" e da Hayek "che noi non sappiamo mai che cosa stiamo facendo" (di Hayek cfr. quanto meno 1990, ove riconosce l'intrinseca limitazione della razionalità umana argomentando l'impossibilità di una piena autocomprensione della mente; conclusione che Hayek cerca di far fruttare in molteplici ambiti: dalla ricerca sul cervello umano a quella sui sistemi di mercato o sulle strutture sociali). (20) Sulle orme di Popper... e non di Gadamer o di qualche "ermeneuta" (più o meno "debole" o flebile), anche se bisogna ricordare che la disputa sulle differenze o meno tra razionalismo critico ed ermeneutica è aperta. (21) Cfr. Popper (1983, p. 451). (22) Rischio che è tale, cioè connotato negativamente, solo (o soprattutto) per chi si indirizza verso una concezione delle attività conoscitive crinale, che quanto comunque meno, postuli corre il un'idea-guida confine tra di verità: razionalismo su questo critico ed ermeneutica. Può essere opportuno ricordare, con le parole di Vattimo (1994, p. 12), che se l'ermeneutica "fosse solo la scoperta del fatto che ci sono prospettive diverse sul 'mondo' o su 'l'essere', risulterebbe confermata proprio la concezione della verità come rispecchiamento oggettivo di stati di cose (in questo caso, del fatto che ci sono molteplici prospettive...), che invece la filosofia dell'interpretazione respinge". Sulle teorie della verità (coerenziali, pragmatiste, della corrispondenza, semantiche, della ridondanza semplice, operativa, etc., si vedano ad es. Haack (1993, pp. 112ss.) e Schaff (1959).