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L`EBBREZZA DIONISIACA E LA MORTE.

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L`EBBREZZA DIONISIACA E LA MORTE.
L'EBBREZZA DIONISIACA E LA MORTE.
(Annotazioni antropologico-filosofiche a cura di Fernando Salvetti)
Siamo floridi eppure morti.
"Siamo ciechi che brancicano
un muro.
Andiamo a tastoni privi di occhi.
Incespichiamo
come al crepuscolo
a mezzogiorno.
Siamo floridi eppure morti"
(Isaia, 59, 10-11).
"Tutto è cenere" (1), dunque? Con la modernità e la "morte di Dio",
con il "feticismo" delle merci ed il "disincanto del mondo", con il
dominio del transitorio, del fuggevole e del contingente, la risposta
prevalente ad un tale interrogativo sembra essere l'angoscia esistenziale
(2).
La morte, seppur assenza assoluta ed alterità radicale, indicibile, è
comunque un fantasma dalla presenza costante, per quanto estranea agli
orizzonti
quotidiani
(di
vita)
fino
a
quando
non
si
fa
intrusione
improvvisa che annienta, "energia intrinseca" che - come scrisse il folle
Artaud - "fa crollare l'essere" e si sostituisce alla vita ("quella
perdita
di
energia
che
volle,
un
giorno,
fissarsi
al
posto
della
morte")(3).
Il soggetto, dal momento in cui si pensa come un "io", non può che
sapersi mortale (4) e dunque sfiorare un punto scabroso, una dimensione
perturbante, una soglia vertiginosa non ulteriormente valicabile (dal
proprio pensiero, non certo dalla "vita"): "Il crimine della morte non è
di ucciderci, ma di rendere eterna la nostra angoscia" (5).
L'uomo, a differenza degli altri esseri viventi, sa di dover morire (6).
La morte è prima di tutto un "fatto culturale" ed un "evento sociale";
diversamente da altre epoche e da altri luoghi, poi, nell'occidente la
morte (come la vita) si è "medicalizzata" assumendo il carattere di un
evento "scientifico" ed "oggettivo": del grande rituale iniziatico della
vita come preparazione alla morte sopravvivono scarne memorie, che la
modernità "produttiva e disincantata" tende a cancellare sempre più (7).
Come sottolinea ad esempio Sicurelli, "nei nostri confini culturali si
muore in solitudine, in clandestinità, in ospedali affettivamente freddi
e sterilizzati. Inoltre, il dolore per la perdita di un congiunto è
destinato ad avere scarsa risonanza negli altri. I funerali stessi sono
diventati
il
luogo
dell'ostentazione
pullulando
di
presenze
di
circostanza, di testimonianze intimamente alienate dall'esperienza della
socializzazione del dolore" (8).
Parlare della morte, nota Urbain, è sempre una "sfida al reale, un
tentativo
di
oggettivare
il
Nulla":
in
occidente,
in
vari
contesti
socioculturali il discorso sulla morte sembra "impossibile" in quanto
essa è diventata innominabile essendo stata spogliata delle metafore,
delle
immagini
soprattutto,
e
delle
essendo
parole
stata
che
ne
spogliata
permettevano
delle
sue
più
l'evocazione
profonde
e,
valenze
rituali (9). Per quanto riguarda la singola persona, poi, non si può che
ricordare Freud: "La propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che
cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà continuiamo a essere
ancora presenti come spettatori... Nel suo inconscio ciascuno di noi è
convinto della propria immortalità". Per dirla con Jankélévitch, se "il
mio morire" è sicuro, è però non solo imprevedibile o quasi, ma anche
inconoscibile: il soggetto non può parlare, come suol dirsi, a ragion
veduta del proprio morire in quanto è una fase "non sperimentabile"
("meta-empirica") dell'esistenza, il cadavere non è mai un me o un te ma
sempre un lui (10).
Cadavere: "prodotto finito di cui noi siamo la materia grezza" (11); quel
che
conta,
per
l'uomo
occidentale
moderno,
è
di
eludere
per
quanto
possibile un orizzonte di senso che rimanda a quella "cosa" che - ha
scritto Sartre - quando opera in noi si comporta "come un verme": il
Nulla (12). Per Galimberti l'esposizione del cadavere, che risulta pure
difficile
da
nominare
(la
salma,
le
spoglie,
i
resti...),
apre
nei
confronti di "coloro che gli sono intorno un discorso senza soggetto e
senza contenuto che... rinvia selvaggiamente ciascuno a quell'originaria
individualità che la morte scompone" (e decompone)(13).
Nella
storia
all'inconsistenza
della
filosofia,
degli
appigli
a
sembra
cui
i
che
vari
non
ci
siano
pensatori
sono
limiti
(stati)
disposti ad afferrarsi pur di togliere il pungiglione alla morte (in
ambito teologico, ovviamente, la situazione è diversa)(14). In questa
sede, può essere sufficiente ricordare che gran parte della storia del
pensiero
occidentale
sulla
morte
è
"ostacolata"
dalla
posizione
di
Epicuro, secondo cui è impossibile interrogarsi su di essa perché se ci
siamo "noi" la morte è assente e viceversa; eppure, l'interdetto di
Epicuro manifesta un carattere aporetico già rilevato da un epicureo,
Filodemo di Gadara, secondo il quale nei confronti della morte chiunque
abita una città senza mura. Per il Dilthey autore, nel 1905, di Das
Erlebnis und die Dichtung, "il rapporto che caratterizza in modo più
profondo e generale il senso del nostro essere è quello della vita con la
morte, perché la limitazione della nostra esistenza mediante la morte è
decisiva per la comprensione e la valutazione della vita". Tra i "quasi"
contemporanei,
basti
ricordare
Max
Scheler
che,
pur
condividendo
l'interdetto di Epicuro, rileva che nell'esperienza (della temporalità)
quotidiana di ogni uomo si disegna via via
della
propria
morte.
Con
gli
una sorta di anticipazione
esistenzialisti,
in
qualche
modo
"annunciati" da Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche (e non solo), la
morte
viene
intesa
quale
"limitazione
dell'esistenza"
non
in
quanto
"termine" di essa, ma in quanto "possibilità" sempre aperta; questa è ad
esempio
la
concezione
di
Jaspers
(che
legge
Dilthey
tenendo
particolarmente presente la prospettiva della teologia cristiana) della
morte quale "situazione-limite", radicata nella finitezza dell'esistenza;
pertanto, il "nemico-morte, quinta colonna di traditori annidata entro di
noi,
è
l'offesa
più
forte
al
nostro
narcisismo,
è
la
minaccia
più
intollerabile al nostro agire, al nostro pensare, al nostro sentire, a
tutti quei 'giochi' intellettuali e relazionali sui quali è impostata la
nostra
vita".
possibilità
A
sua
volta
dell'Esserci
Heidegger
più
propria"
considera
e,
la
quindi,
morte
come
come
"la
"possibilità
dell'impossibilità di ogni rapporto, di ogni esistere"; e poiché la morte
può essere intesa solo come possibilità, la sua comprensione non si
connota in termini di "attesa" o di "fuga" (il "non pensarci") ma di
anticipazione
Binswanger,
emotiva,
in
quanto
cioè
di
"angoscia".
originariamente
aperta
Per
al
Heidegger,
mondo
come
per
l'esistenza
è
definita dalla sua progettualità; ma ogni progetto-nel-mondo è definito
dal proprio essere-gettato-nel-mondo: quando sulla progettualità ha il
sopravvento
la
gettatezza
(la
"Geworfenheit"),
scrive
Binswanger,
"subentra la non-libertà dell'esser dominati da un determinato progetto
di mondo non scelto, ma subìto"; è l'heideggeriana "deiezione", la caduta
dell'uomo al livello delle cose del mondo (come poter-essere, infatti,
l'uomo non è solo la possibilità di realizzare il suo progetto, ma è
anche la possibilità di mancarlo). Sartre, invece, contesta la centralità
esistenziale
dell'"essere
per
la
morte":
la
morte,
assurda
e
insignificante, non può mai essere in grado di donare senso alla vita. E'
noto,
peraltro,
che
la
riflessione
sartriana
si
conclude
con
la
"scoperta" di una libertà che non ha nulla di lieve o di allegro, in
quanto pone l'uomo di fronte alla "vischiosità" dell'esistenza: l'uomo,
in preda alla sua libertà, non può che trovarsi di fronte all'angoscia
(15).
Perché l'angoscia della morte? Nella molteplicità delle voci e delle
possibili
risposte,
si
può
dar
la
parola
a
Jankélévitch:
per
la
"collisione prodotta quando si sorvola il proprio divenire standovi al
tempo stesso dentro. Collisione dovuta al fatto che tale divenire per chi
lo vive potrebbe anche essere eterno, ma cessa di esserlo non appena
questi lo guarda dal di fuori e si sporge su di esso". Non è angoscia
dell'al di là, bensì angoscia per il "passaggio all'assenza di forma",
per l'irrappresentabile (16).
NOTE
(1).....
(2) L'eco del pensiero e delle analisi di Kierkegaard e Schopenhauer, di
Nietzsche e di Baudelaire, Marx, Weber, Simmel e degli esistenzialisti è
evidente (e profonda). Per una sintesi dei processi economici, sociali,
culturali ed etico-religiosi di "modernizzazione" e di "secolarizzazione"
cfr. ad es. AA.VV., Enciclopedia di filosofia, pp. 748-749 e 1040; tra i
molti studi recenti, cfr. ad es. Frisby (1992).
(3) Di Artaud si veda l'ormai celebre raccolta di articoli intitolata Il
teatro e il suo doppio (1978), con introduzione di Derrida; per una
sintesi del suo pensiero cfr. ad es. Carlson (1984, pp. 392ss.).
Per un'analisi del "linguaggio schizofrenico" dei testi di Artaud cfr.
Borgna
(1995,
particolarmente
pp.
169ss.);
attenta
alla
per
un
(as-)saggio
dimensione
di
critica
alchemico-ermetica
letteraria
della
sua
teatralogia, cfr. Artioli-Bartoli (1978).
(4) Per alcuni interessanti spunti cfr. Marramao (1992, pp. 104-105)e
Masullo (1995, pp. 71-73; 1964, passim e partic. pp. 7, 17 e 21); alla
"propria morte" è dedicata la conferenza tenuta a Torino il 19/1/1995 da
Derrida (L'istant de ma mort), che purtroppo si è rivelata un soliloquio
solipsistico.
(5)
Cfr.
Rouland
(1992,
p.
456,
che
attribuisce
la
citazione
a
J.
Rostand); può essere il caso di riportare anche una considerazione di
Bodei (1982, p. 81), secondo cui "il nostro atteggiamento nei riguardi
della morte resta quello degli uomini primitivi. L'esperienza basilare e
perturbante di essa è che non si può credere veramente che una persona
viva, che si muove, che parla, che pensa, all'improvviso si immobilizzi,
diventi cosa, passi in un'altra dimensione, che da familiare diventi
estranea... Lo straniamento, il perturbante che ci colpisce in occasione
dell'esperienza della morte, è connesso al fatto che il superamento delle
credenze sorpassate non è avvenuto completamente, dimodoché esse possono
riaffiorare". Non si può dimenticare, peraltro, che per Freud (cfr. opp.
citt. alla nota seguente) l'inaccessibilità alla coscienza del concetto
"tabuico" di morte è dovuta alla convinzione inconscia della propria
immortalità.
Peraltro,
già
al
principio
del
secolo
(nel
1915)
Freud
scrisse: "Non possiamo più conservare il nostro vecchio atteggiamento di
fronte alla morte, e non ne abbiamo ancora trovato uno nuovo"; è noto
quanto egli si sia impegnato ad affrontare un' angoscia da cui era
personalmente pervaso: nell'angoscia di morte Freud vide dapprima una
maschera,
successiva
riconducendola
evoluzione
parallelamente,
ed
del
all'angoscia
suo
di
pensiero
antagonisticamente,
castrazione,
lo
alla
portò
a
pulsione
mentre
la
postulare
-
di
-
vita
l'esistenza di una pulsione di morte, anzi addirittura di un istinto di
morte anteriore alla vita (la psicoanalisi post-freudiana, invece, non ha
proseguito sulla strada dell'antagonismo delle due pulsioni, ad eccezione
della Klein che attribuisce loro un ruolo fondamentale già all'origine
dell'esistenza umana).
(6) Cfr. ad es. Thomas (1976, p. 10): "Fra tutti gli esseri viventi,
l'uomo rappresenta la sola specie animale la cui morte è onnipresente
durante tutta la sua vita (sia pure solo a livello di fantasmi); la sola
specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre complesso e
ricco di simboli; la sola specie animale che ha potuto credere, e spesso
ancora crede alla sopravvivenza e alla rinascita dei defunti; in breve la
sola specie per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova
continuamente superata dalla morte come fatto di cultura".
Sulla morte la produzione teorica è sconfinata: come riferimenti minimi
si possono tener presenti AA.VV., Enciclopedia di filosofia, pp. 766-768;
Abbagnano (1984, pp. 597-599); Galimberti (1992, voce: morte); Urbain
(1980, pp. 519ss.); Maffettone (1994, pp. 181ss.); Vovelle (1986); Aries
(1968 e 1980); Jankélévitch (1977 e 1995); Zoja (1984, pp. 1ss.); Girard
R. (1983, pp. 105ss.); Bataille (1991); Nozick (1987, pp. 637ss. e 1990,
pp.
13ss.),
97ss.),
Kübler-Ross
Baudrillard
(1981);
(1979);
Gentili-Patrono-Mussino
Bonaparte
(1973);
De
(1991,
Martino
pp.
(1958);
Accattoli (1988); Heidegger (1969); Freud (1986, 1977 e 1979); Fuchs
(1974);
Jung
(1976);
Lévi-Strauss
(1975);
Melchiorre
(1964);
Morin
(1964); Caillois (1950); Durkheim (1897); Eliade (1949); Marcel (1951);
Sartre
(1979);
(1943);
Choron
(1971);
Arnold-Eysench-Meili
Jüngel
(1982,
(1975);
voci:
Rahner
morte
ed
(1966);
Scherer
angoscia);
Butor
(1991); Herzog (1960); Gordon (1978); Hillman (1972); De Beauvoir (1971).
(7) Cfr. ad es. Zoja (1984, pp. 8-22), che ricorda come la morte in
occidente
fino
a
non
molto
tempo
fa
fosse
"collegata
ad
aspetti
iniziatici" e rituali: la "scomparsa dell'iniziazione" secondo alcuni
autori (ad es. Eliade, 1974, pp. 9ss.) è addirittura il cardine della
distinzione tra società moderna e tradizionale: "Un tempo le principali
tappe della vita andavano conquistate. Ora l'accesso è automatico. Doppio
è l'impoverimento che ne risulta. Da una parte il morire non è più un
evento
iniziatico.
Non
è
una
trasformazione
radicale,
ma
un
termine
dell'essere. Dall'altra, la morte non è più preceduta e anticipata da
esperienze che, fin dalla pubertà, la rappresentavano simbolicamente,
consacrandola e disponendo psichicamente l'uomo a sperimentare in essa un
senso positivo, acquisitivo... Fino a non troppi anni fa, nascita e morte
normali
avevano
familiare.
Oggi
supervisione
di
luogo
in
entrambe
una
casa
si
ed
sono
gerarchia
erano
amministrate
trasferite
di
in
tecnici
dalla
ospedale,
gerarchia
sotto
la
affettivamente
e
psicologicamente estranei. Questa scelta sanitaria si rifà a un concetto
di sanità dimentico delle esigenze psichiche... Un tempo c'era molta più
considerazione per l'esigenza profonda di preparazione alla morte, e la
cultura offriva spazio e rituali per armonizzare questo bisogno arcaico
con i contenuti psichici coscienti... La preparazione alla morte, nella
società non industrializzata, era (o per lo meno si prefiggeva di essere)
il
compito
supremo
della
vita...
Far
testamento
aveva
un
aspetto
apotropaico, era una materializzazione della preparazione interiore a una
possibile morte... Una vecchia preghiera - a subitanea et improvisa morte
libera nos Domine - ci chiarisce come fosse universale il desiderio di
veder sopraggiungere la morte gradualmente e con consapevolezza: proprio
l'opposto di oggi... La preparazione alla morte era un grandioso rituale,
cui nessuno voleva rinunciare... La morte rituale dispensava un'identità.
La morte odierna, viceversa, trasforma in anonimi oggetti della macchina
sanitaria. Secondo Ariès il valore rituale della morte cominciò a venir
meno all'apparire della paura della morte. Questa, a sua volta, cominciò
a
manifestarsi
come
paura
della
morte
apparente,
paura
dell'essere
sepolti vivi... Gradualmente, si arriva all'età attuale, in cui ci si
atteggia come se l'uomo non dovesse mai morire".
Baudrillard (1979, p. 176) annota che "l'irreversibilità della morte, il
suo carattere oggettivo e puntiforme è un fatto scientifico moderno. Essa
è peculiare alla nostra cultura. Tutte le altre affermano che la morte
comincia prima della morte, che la vita continua dopo la vita... La
nostra
idea
moderna
rappresentazione
del
della
tutto
morte
diverso:
è
governata
quello
della
funzionamento. Una macchina funziona o non funziona".
da
un
macchina
sistema
e
del
di
suo
Gli storici delle religioni e gli etnologi hanno quasi sempre ritenuto
che la morte di un individuo sia, soprattutto nelle culture arcaiche e
primitive, un "fatto sociale", un avvenimento che determina una crisi,
non soltanto nel gruppo familiare ma anche in quello più ampio della
stirpe, della discendenza, del clan e della tribù; e che per questo le
strutture sociali reagiscono alla morte attraverso una serie di mezzi
mitici e rituali che inducono gli individui a vivere la morte secondo i
paradigmi offerti dalla società. Essendo la morte ritenuta un fenomeno
estraneo all'originaria natura dell'uomo, sono numerosissimi i miti che
spiegano in qual modo essa sia entrata nel mondo mutando una condizione
primordiale di pienezza vitale. Tale mutamento dipende dal peccato o
dalla
violazione
di
un
tabù
posto
all'origine,
o
infine
da
alcuni
avvenimenti mitici che introducono la morte nel mondo indipendentemente
dalla volontà, o dalla responsabilità, degli uomini.
Ha scritto ad es. Baudrillard (1979, p. 182) che "non esiste morte
'naturale'
per
i
primitivi:
qualsiasi
morte
è
sociale,
pubblica,
collettiva, ed è sempre l'effetto d'una volontà avversa che dev'essere
riassorbita dal gruppo (niente biologia). Questo riassorbimento avviene
mediante la festa e i riti".
(8) Cfr. Sicurelli (1986, pp. 148ss.), il quale prosegue annotando che
"nel
tribale
le
cose
vanno
assai
diversamente.
Il
decesso
di
un
componente il gruppo farà incondizionatamente scattare la molla della
solidarietà cosicché il collettivo si farà puntualmente carico del dolore
della
persona
in
lutto.
Il
soccorso
emozionale
sarà
particolarmente
vigoroso nel momento del funerale... M. Makong Ma Mbog ha giustamente
incluso
la
voce
'funerale'
nella
categoria
delle
'psicoterapie
culturali'... Il funerale non si esprime terapeuticamente solo riguardo
al sofferente in lutto, ma palesa anche tonalità catartiche nei confronti
del
collettivo:
nella
contingenza
la
sua
funzione
è
quella
di
ammortizzare l'angoscia di morte... e di ravvivare nel gruppo la voglia
di continuare a vivere... L'africano, come rileva Thomas, è protetto da
un 'ottimismo filosofico' che gli permette di guardare alla morte come ad
un simbolo per superare il dramma della finitezza e come ad una occasione
per riannodare i fili della solidarietà reciproca... La terapia tramite
il funerale è essenzialmente preventiva ed è diretta, afferma Ma Mbog,
prevalentemente alle donne, che sono quelle che in Africa più pagano in
sintomatologia, mentre gli uomini sono culturalmente più attrezzati per
riconvertire il dolore nelle danze e nei canti che animano le feste
funebri. Queste feste tendono al recupero dell'oggetto perduto: la morte
e la vita sono messe nel quadro delle cose perdute e ritrovate, poiché
manca il concetto della irrimediabile finitezza della vita".
(9) Cfr. Urbain (1980, p. 523).
(10) Cfr. Freud (1986, passim), Jankélévitch (1977, passim).
(11) La definizione è di Bierce (1911), ripresa da Urbain (1980, p. 540).
A questo punto non si può che citare Bataille (1991, pp. 53-54): "La vita
è sempre un prodotto della decomposizione della vita. Essa è in primo
luogo tributaria della morte, che le fa posto; in secondo luogo della
putrefazione
che
segue
alla
morte
e
che
rimette
in
circolazione
le
sostanze indispensabili alla produzione incessante di nuovi esseri. E
tuttavia la vita è una negazione della morte... Questa reazione è la più
forte nella specie umana, e l'orrore della morte non è soltanto legato
alla distruzione dell'essere, ma anche alla putrefazione che restituisce
le carni morte alla fermentazione generale della vita... Per i popoli
arcaici, il momento dell'estrema angoscia resta legato alla fase della
putrefazione: le ossa spolpate non hanno più l'aspetto intollerabile
delle carni corrotte, di cui si nutrono i vermi... Quelle ossa, che
sembrano venerabili, hanno conferito finalmente un aspetto decente solenne e sopportabile - alla morte: è ancora fonte di angoscia, però
senza l'eccesso di virulenza attiva della putrefazione".
(12) Cfr. Sartre (1970, p. 58); in questi termini anche Urbain (1980, p.
540). Per una sintesi sul (o del) "nulla" cfr. quanto meno Abbagnano
(1984,
pp.
occidentale
624-626),
sono
due
il
quale
(anche
rileva
se
che
nella
attraversate
da
storia
molte
del
pensiero
varianti)
le
concezioni che "si sono intercalate": con Parmenide, il nulla come non
essere; con Platone, il nulla come alterità o "negazione".
(13) Cfr. Galimberti (1991, pp. 131-137), il quale scrive che lo sforzo
di integrare la morte nella vita collettiva che si ravvisa in numerose
società umane è "inutile, direbbe Sartre, perché la morte non è 'un
avvenimento
della
vita
umana'.
Come
tale
non
può
essere
heideggerianamente 'attesa', perché è imprevista e, quando giunge, non fa
che rivelare l'assurdità di ogni attesa; non può essere vissuta come la
'possibilità mia più propria' perché la morte è l'annullamento di ogni
mia possibilità, per cui il progetto heideggeriano di 'essere per la
morte' non è altro che il progetto di vivere la vita come un'impresa
mancata... La morte è l'assurdo, è ciò che non rientra nell'orizzonte
della
mia
libertà,
per
cui
non
può
concludere
la
mia
vita,
ma
può
semplicemente porvi fine... Se la vita del corpo è tutta nella sua
possibilità
di
realizzare
una
presenza
nel
mondo,
la
morte,
come
distruzione di questa presenza, non può essere una possibilità del corpo,
ma, come vuole Sartre, la sua definitiva alienazione... La morte è dunque
ciò che propriamente non ci appartiene, è ciò che il nostro corpo non
incontra mai, ma semplicemente subisce dall'esterno".
In una prospettiva in parte simile si pone Maffettone (1994, pp. 181193), che sembra ispirarsi - senza dichiararlo - al pensiero di Sartre (e
non solo, ovviamente) nel "proporre una tesi filosofica alternativa a
quella (probabilmente) dominante nella nostra cultura. Quest'ultima...
sostiene che la morte dà senso alla vita come nient'altro potrebbe e
infatti
può.
possibilità
fideistico
Da
questo
assioma
esistenziale,
alla
'vera'
che
vita
si
deduce
consiste
oppure
di
grosso
in
un
solito
modo
o
una
in
sentimento
duplice
un
di
rinvio
angoscia
radicalmente esperito. Al contrario, io sostengo che il senso della morte
dipende da quello della vita, e che in sostanza non dobbiamo pensare alla
morte per comprendere la vita, ma piuttosto riflettere sulla vita per
capire la morte. Con la conseguenza che vivere la vita secondo i propri
valori e le proprie idee rappresenta il modo principale, se non l'unico,
per confrontarsi con la morte". Per Maffettone, può essere importante
sottolinearlo, "spesso si sente che è impossibile pensare la morte in una
società
come
Personalmente,
la
nostra,
mi
rifiuto
sarebbe
di
a
dire
prendere
secolarizzata
sul
serio
e
pluralista.
un'eventualità
del
genere. Pensare la morte con rigore non è mai stato semplice, e mai lo
sarà. Ma il non riuscire a farlo non dipende, per quel che credo, da una
visione
laica
e
disincantata,
quanto
piuttosto
da
una
visione
(1984,
pp.
597-599,
superficiale".
(14) Il giudizio è di Nozick (1987, p. 638).
(15)
Per
una
sintesi
filosofica
cfr.
Abbagnano
teorico di quell'esistenzialismo positivo che tende a configurare la
morte come "la nullità possibile delle possibilità dell'uomo") e le altre
opere citate sopra alla nota 5; si veda anche Schulz (1986, vol. II, pp.
64ss.), per un'analisi della finitezza e della mortalità in Jaspers,
Heidegger e Sartre. Si veda, inoltre, la nota precedente.
(16) Cfr. Jankélévitch (1995, pp. 33 e 93ss.).
Sull'angoscia cfr. quanto meno le sintesi di Abbagnano (1984, pp. 42-43),
Galimberti
(1992,
voce:
angoscia)
e
Schulz
(1986,
pp.
30ss.,
42ss.,
64ss., 80ss., 99ss.; 1988, pp. 72-73, 74ss.); cfr. anche Hillman (1991,
p.
67),
secondo
dell'angoscia
cui
la
filosofia
un'interpretazione
esistenzialista
"sgradevolmente
contemporanea
eccessiva.
dà
L'Angst
rivela la fondamentale situazione ontologica dell'uomo, il suo legame col
non-essere, cosicché tutta la paura non è propriamente terrore della
morte, ma del nulla su cui è fondato tutto l'essere. Il buddismo va
ancora oltre: la paura è ben più di un fenomeno soggettivo, umano. Tutto
il mondo è in preda alla paura: alberi, pietre, ogni cosa. E il Buddha è
colui che redime il mondo dalla paura".
Per una stroncatura radicale del pensiero di Heidegger e Jaspers cfr.
Popper (1986, vol. II, pp. 101-103).
L'ineffabile morte.
L'alterità
indicibile
della
propria
morte
traspare
nelle
"tracce
macerate e livide dell'angoscia e dell'orrore" che possono segnare le più
disparate esistenze in qualsiasi tempo, non solo alle estreme soglie
della vita (o della "normalità")(1).
Il
"sordo
grido
di
morte"
che
si
chiama
tempo
ed
il
sentimento
dell'assoluta contingenza e precarietà delle cose della vita non possono
che alimentare i vissuti d'angoscia degli esseri umani, sempre (gettati)
di fronte a quella "impossibilità che tutt'a un tratto si trasforma in
realtà"
(2).
La
vita
è
apertura
al
caso,
e
quindi
anche
al
sempre
possibile irrompere del (e nel) "caos primigenio" della morte propria o
altrui:
la
temporalità
costitutiva
dell'esistenza,
scandita
da
ritmi
sovente inaspettati, è dunque costante possibilità di "patimento"
(che
non implica necessariamente "sofferenza")(3).
La
paticità,
scrive
Masullo
sulle
orme
di
von
Weizsäcker,
è
"la
potenza del venir vissuto", è l'Erlebnis o affectio, il "sentire" allo
stato nascente che si connota in termini di affettività (a differenza
dell'esperienza in senso stretto, l'Erfahrung o experientia, che occupa
la polarità del cognitivo): il patico "è ciò che non risponde alla
domanda
uomo?'".
'che
Il
cosa
è
patico
l'uomo',
è
"un
ma
all'altra
'che
non-cognitivo",
cosa
per
cui
diviene
il
questo
pensiero
oggettivante, organizzato negli apparati di ricerca delle scienze, "non
può
conoscerlo,
per
quanto
oscuramente
ne
tragga
la
propulsione
e
l'alimento... I vissuti difettivi, come 'l'angoscia' evocata da Heidegger
e 'la nausea' descritta da Sartre, ne sono casi esemplari" (4).
Il patimento scaturente dal sapersi mortali mette in scacco i saperi
costituiti
in
scienza,
mentre
mette
in
gioco
gli
psicofarmaci
e
le
"sostanze" distillate nei secoli per "stordire" l'uomo e strapparlo agli
abissi della cenere e del nulla che è (o, nella migliore delle ipotesi,
tende ad essere).
Nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein si può leggere che
il problema della vita si risolve soltanto quando essa svanisce poiché
"noi
sentiamo
che,
anche
una
volta
che
tutte
le
possibili
domande
scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono
ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e
appunto
questa
l'esistenza,
è
oltre
la
che
risposta"
per
il
(e
le
discorso
conseguenze
filosofico
disastrose
e
teologico,
per
o
psicologico, sono evidenti)(5). Peraltro, non necessariamente "su ciò, di
cui
non
si
Wittgenstein
può
non
parlare,
si
può
si
deve
tacere",
postulare
dato
l'assenza
che
per
lo
stesso
dell'impensabile
e
dell'indicibile; anzi, "v'è davvero dell'ineffabile. Esso mostra sé, è il
mistico": tuttavia, bisogna fare i conti con il "mostrarsi" nel silenzio
del mistico (6).
"Dire
l'indicibile",
scrive
Olievenstein,
significa
immergersi
in
"quel soliloquio intimo di cui ognuno fa esperienza ogni giorno e grazie
al quale spesso si sopportano i compromessi con l'esistenza che soli
permettono di vivere". Il non detto è "il ponte fra l'immaginario e il
rimosso,
fra
il
terrore
e
il
desiderio.
Si
nutre
del
presente
e
dell'ancestrale. Il non detto è quanto c'è di più intimo, quanto si vive
come incomunicabile, come esperienza in sé e per sé. Ma è anche, in
perfetta
contraddizione,
appartenenza
a
sopravvivenza".
causalità
la
un
gruppo,
Ciò
che
quanto
possibilità
a
più
un
clan,
conta,
l'intensità,
il
nel
clima,
di
verificare
luogo
non
di
la
propria
solidarietà
detto,
l'atmosfera,
non
la
è
e
tanto
melodia,
di
"la
lo
spessore del vissuto, tutte cose refrattarie a una analisi 'scientifica',
intrinsecamente riduttiva" (7).
L'ineffabilità della (propria) morte, irriducibile all'experientia ed
all'oggettivante "estraneità" delle scienze, può essere detta con la
parola del "mortale" che può raggiungere
"l'abisso" (8): occorre il
linguaggio simbolico delle arti, o di una psicologia intesa - scrive
Galimberti - come "arte ermeneutica", per inaugurare una comunicazione
sconosciuta al linguaggio della "ragione" in quanto scambio non di parole
ma nella parola (che trascolora, svapora, sfuma in molteplici rivoli di
senso
palesando
così
il
rischio
della
semiosi
illimitata,
cioè
di
un'analisi che non genera altro che abissi di non-senso)(9).
Forse solo una parola intesa come mezzo, e luogo, di comunione - seppur
frammentaria ed episodica - tra persone può contribuire a creare le
condizioni per una comunicazione tra esseri che si ritrovano messi in
gioco, lacerati, sospesi, chini sul proprio nulla (10).
NOTE
(1) Le parole di Borgna (1995, p. 135) tentano di restituire il senso
dell'esperienza
poetica
di
Margherita,
"gettata"
in
un'esistenza
psicotica.
(2) Cfr. Masullo (1995, passim e partic. p. 59), che riprende un testo di
Bataille (1990, p. 52) ove è riportata la frase sulla morte citata - che
è di Goethe.
(3) In questa termini si esprime Masullo (1995, pp. 13ss.), di cui si
veda anche (1990).
(4) Cfr. Von Weizsäcker (1951, pp. 279ss.) e Masullo (1995, pp. 13ss.),
che
sottolinea
la
distanza
concettuale
tra
il
patico
e
la
comune
accezione dell'Erlebnis (che sia quello "cognitivamente pregno, concepito
da
Husserl",
oppure
"quello,
intriso
di
affettività,
pensato
da
Dilthey"). Per Masullo, solo quando l'Erlebnis "venga messo allo scoperto
nella
sua
purezza,
si
lascia
intendere
come
radicale
paticità".
L'oscurità del discorso riguardante la "non-cognitività del patico" si
dissipa grazie alla citazione di Ryle (1955, p. 212): "Il ciabattino non
osserva il mio male ai piedi; ma non perché ci sia una cortina di ferro
ad impedire che altri lo osservi, bensì perché un dolore non è una cosa
che si osservi nemmeno da parte di chi lo possiede; io sento, non scopro
o scruto il mio male".
(5)
Cfr.
Wittgenstein
(1968,
6.52,
p.
81);
cfr.
anche
il
discorso
teologico e filosofico di Küng (1979, pp. 114ss.).
(6)
Cfr.
Wittgenstein
(1968,
pp.
3
e
81);
sul
suo
tormentato
(e
tormentoso) pensiero cfr. l'analisi di Marconi (1987), che rintraccia
l'eredità di Wittgenstein in molta parte della discussione filosofica
contemporanea (dalla filosofia analitica al "sapere senza fondamenti" ed
all'ermeneutica...).
(7)
Cfr.
Olievenstein
(1990,
pp.
7-15
e
segg.),
per
il
quale
dire
l'indicibile è il principale compito dell'arte. Olievenstein, prendendo
spunto dal ricordo di una cerimonia rituale brasiliana, scrive che "nella
semiclandestinità
di
quella
cerimonia
si
esprimeva
il
non
detto
che
attraversa la società brasiliana: la paura mescolata al desiderio di
tornare
a
essere
schiavi,
l'aspirazione
a
vivere
tale
paura
e
tale
desiderio, insieme esorcizzandoli per mezzo di un rito... Un esorcismo a
vantaggio dei 'posseduti'... La 'possessione' non porta alla luce quanto
è
temuto
nell'inconscio
del
soggetto
freudiano
o
del
collettivo
junghiano. Il non detto che la percorre è invece ciò che emerge ed è
coscientemente censurato come sconveniente e inaccettabile, o accettato
soltanto
nel
ritualizzazione
quadro,
dove
limitato
tutto
è
nel
tempo
e
provvisoriamente
nello
spazio,
consentito,
di
così
una
come
avviene nel carnevale brasiliano. Il non detto è ciò che si presenta
all'immaginario del soggetto in modo tale che egli sa che l'immaginario
dell'altro sa, ma che la legge dell'altro non può accettare apertamente
di sapere. La delimitazione dell'ambito di questo non detto non è né
facile né definitiva. Da un lato, i suoi confini con il rimosso inconscio
non
sono
netti
-
tra
l'uno
e
l'altro
esistono
tramiti
incerti
e
disordinati - e, dall'altro, la separazione con il dicibile varia secondo
l'evoluzione della permissività sociale... Ridurre il non detto a una
serie di processi di adattamento, più o meno rimossi, che vengono ad
alleviare situazioni di smarrimento per la specie, sarebbe tuttavia un
grave controsenso. Il non detto dell'uomo gli è specifico in quanto è
creativo, in quanto dà origine a un dialogo dell'uomo con se stesso che
si inscrive nella memoria del soggetto e da quel momento va a costituire
un nucleo intoccabile di cui occorrerà in ogni momento tener conto... Il
non detto è un margine di libertà proprio a ciascun individuo, il frutto
di una volizione, al contrario del rimosso... Non vi è uno statuto del
non detto che non si esprima strutturalmente sotto forma di equilibri
instabili
e
continuamente
rinnovati.
Fino
all'epoca
moderna,
la
ritualizzazione era il mezzo privilegiato per stringere dei compromessi
tra l'accettabile e l'irragionevole...".
(8) Cfr. Heidegger (1979, p. 272).
(9) In proposito cfr. Galimberti (1984, pp. 66-67), che scrive: "Se siamo
disposti a rinunciare all'ideale di una psicologia come scienza rigorosa,
potremo
incominciare
particolare
arte
a
pensare
la
psicologia
dell'interpretazione
che
oggi
come
arte,
chiamiamo
come
quella
ermeneutica.
Gadamer (1974, pp. 414 e 388ss.) ce ne offre lo spunto: 'Che l'esperienza
del tu sia necessariamente qualcosa di specifico, in quanto il tu non è
un oggetto, è un fatto chiaro', e, prosegue Gadamer, 'come dinanzi a un
testo da interpretare non possiamo mai sentirci in un atteggiamento di
oggettivante estraneità, perché noi stessi siamo presi in esso e allora
il testo da interpretare mette in gioco anche la nostra comprensione di
noi stessi, a maggior ragione ciò vale per l'interpretazione dell'altra
persona'... Per la psicologia come arte è forse necessario un nuovo
linguaggio dove le parole non sono più segni che rinviano a un quadro di
riferimento anticipato che dà loro senso, ma simboli nel senso greco
della parola, dove i due sono messi assieme (sym-bállein) dalla parola
che li convoca e al tempo stesso li trascende... Dall'inaudito nasce un
linguaggio a cui la ragione scientifica non sa cor-rispondere perché,
limitata com'è all'ambito dischiuso dalle proprie anticipazioni, non può
ignorare
tutti
quei
sensi
che
trascendono
le
sue
previsioni...
Nell'ordine razionale, infatti, due comunicano perché si scambiano delle
parole, nell'ordine simbolico due comunicano perché si scambiano nella
parola. E' infatti la parola che li con-voca, che li mette assieme (symbállein), e, solo perché così convocati, possono poi scambiarsi delle
parole... Se la psicologia accetta di pensarsi come arte ermeneutica,
dove non l'uno interpreta l'altro, ma i due sono interpretati dalla
parola... la psicologia è costretta a ripensare i termini in cui finora
ha ritenuto si svolgesse la sua specifica comunicazione... Sono persuaso
che la prassi psicoanalitica, a dispetto della sua teoria, già percorre
inconsapevolmente questi sentieri, e che l'analisi esistenziale, a cui va
il merito di aver denunciato il naturalismo della teoria psicoanalitica,
sia nelle condizioni più idonee per proseguire la sua critica a tutte le
forme, anche le più raffinate, di oggettivazione".
Per dirla con Camus (1947, p. 44): "Di chi e di che cosa, infatti, posso
dire: 'io lo conosco!'? Questo cuore, che è in me, lo posso sentire e ne
argomento che esiste. Questo mondo posso toccarlo, e giudico di nuovo che
esiste. Ma qui si ferma tutta la mia scienza, e il resto è costruzione...
Sarò sempre estraneo a me stesso. Nella psicologia, come nella logica, vi
sono alcune verità, ma non esiste la verità".
(10) Per uno spunto, quanto meno linguistico, in questa direzione cfr.
Bataille (1980, p. 42).
L'occhio torvo di Medusa e l'ebbrezza di Dioniso.
Parlare per non morire è con ogni probabilità una delle funzioni di
sempre della parola: per Foucault "è possibile, come dice Omero, che gli
dèi abbiano inviato le sofferenze ai mortali perché possano raccontarle,
e che in questa possibilità la parola trovi la sua infinita risorsa; è
possibile che l'avvicinamento della morte, il suo gesto sovrano, il suo
risalto nella memoria degli uomini scavino nell'essere e nel presente il
vuoto, a partire dal quale o verso il quale si parla". La morte, quanto
meno in questa prospettiva, costituisce al contempo il centro ed il
limite del linguaggio (1).
Figli
della
comunicazione
verbale,
i
nostri
orizzonti
e
i
nostri
confini tendono ad essere quelli del linguaggio: le realtà in cui viviamo
e
che
"conosciamo"
sono
abitudini
linguistiche
costituire
l'orizzonte
il
che
ed
il
frutto,
più
che
pratichiamo;
limite
e
entro
altro
il
cui
inconscio,
linguaggio
si
esplica
delle
tende
il
a
nostro
pensiero e quindi la percezione del mondo (2). Ha scritto Searles che,
"se
accettiamo
enormemente
inconscio)
la
(non
i
premessa
soltanto
nostri
a
processi
che
il
livello
di
linguaggio
di
che
coscienza,
pensiero
e
la
usiamo
ma
nostra
condiziona
anche
in
visione
modo
della
'realtà', ne consegue che il forte accento che la nostra cultura pone
sulla comunicazione verbale ha l'effetto, attraverso la frammentazione e
l'astrazione propria del linguaggio corrente, di farci avere, non solo a
livello conscio, ma anche inconsciamente, un'esperienza frammentata e
astratta" (o, meglio, statica) dell'esistenza. E così compare la morte
come centro e limite del linguaggio (e, soprattutto, dell'esistenza):
esperire la vita con modalità frammentarie ed astratte, prosegue Searles,
"tende a proteggerci dal continuo fluire che è il vero ritmo della nostra
esistenza, dalla continuità sostanziale della sequenza nascita-crescitadecadimento-morte"; pertanto, si può dire che "una visione della vita
fondata sul linguaggio verbale tende a proteggerci dal fare esperienza
della vita nella sua concreta e continua relazione con la morte" (3).
La parola, che sia quella del linguaggio ordinario e quotidiano oppure
quella dei linguaggi "di settore" delle scienze e delle tante tecnologie,
tende dunque ad allontanare e a mascherare l'angoscia di morte: per dirla
con Olievenstein, il linguaggio "non è che il guardiano dell'angoscia.
Può
calmarla,
renderla
come
attiva
cosificarla,
-
l'aspirina
si
pensi
schernirla,
calma
a
la
febbre,
Nietzsche
trasformarla
in
o
oppure
Bataille
'Frammento
organizzarla,
-
reificarla,
del
Discorso
Amoroso'. Ma il linguaggio si condanna all'impotenza, perché organizza la
messa a distanza di ciò che non può essere messo a distanza. E' qui che
interviene prepotente il discorso interiore, il compromesso del non detto
tra ciò che il soggetto confessa a se stesso e ciò che può tradurre
all'esterno" (4).
E così, l'uomo si ritrova lacerato e chino sul proprio nulla, essere
"carente"
costretto
il
più
delle
volte
ad
un'incessante
attività
"produttiva" nel tentativo di colmare la "mancanza" che lo segna (5).
Nulla è costante perché tutto è "cangiante" nella vita dell'uomo,
nulla
è
certo
se
non
il
Nulla
(o,
nella
migliore
delle
ipotesi,
l'Alterità ignota ai mortali ancora vivi). L'uomo è un nomade senza fissa
dimora nel corso (del tempo) della vita; e il tempo, osserva Masullo, è
prima di tutto paticità, "'misura' affettiva del cambiamento, senso della
destabilizzazione, 'patire' come pena per la vita che, ogni attimo, si
perde, e come desiderio di riaverla tutt'intera, per sempre al riparo dal
cambiamento" (6).
Segnato e abitato dalla morte, l'uomo che cerca di guardare altrove e di
allontanare l'angoscia per la propria mortalità si ritrova piuttosto,
prima o poi, a pensare l'Altrove, l'aldilà, l'alterità radicale e/o il
Nulla che l'attende. L'Unheimlich, l'inquietante estraneità della morte
si traduce, nell'immaginario greco e poi occidentale, nella maschera
mostruosa
di
terrificante
Medusa
di
quel
che,
che
ricorda
è
Vernant,
assolutamente
materializza
altro,
"l'orrore
l'indicibile,
l'impensabile, il puro caos"; l'uomo cerca da sempre di evitare gli occhi
torvi e cupi di Medusa (si pensi alla sua Testa dipinta dal Caravaggio),
quello sguardo che trasforma "ogni essere che vive, si muove e vede la
luce del sole in una pietra immobile gelida, cieca, ottenebrata" (7).
L'estraneità assoluta di Medusa, che rappresenta la finitudine e il
limite dell'esperienza umana e apre alla dimensione angosciante della
non-esistenza,
Dioniso,
lo
nel
"mondo
"strano
immaginale"
straniero"
il
(8)
cui
può
volto
lasciare
è
una
il
posto
maschera
a
doppia,
l'Altro con cui si può entrare in relazione: l'alterità perturbante di
cui
Dioniso
è
signore
potenzialità
e
la
non
ricchezza
è
(sol-)tanto
del
"mondo
"l'altro
del
mondo",
divenire
quanto
restituita
la
allo
sguardo oltre la mortale fissità della forma" (9).
Figlio di Zeus e della principessa Semele, morta incenerita, Dioniso è
nato due volte: dopo la morte della madre, Zeus cuce nella propria coscia
il figlio prematuro che torna al mondo dopo qualche mese. Dioniso dunque
è simbolo dell'alternarsi di vita e morte, ed è al contempo dio della
fertilità
e
della
morte:
dio
dell'estasi,
del
superamento
della
condizione umana; dio barcollante, capace di far vacillare le convinzioni
delle
persone
e
le
convenzioni
sociali
(10).
Conoscere,
cercare
di
catturare il mistero, è un atto d'arroganza, una trasgressione: e, scrive
Resnick, "il guardare al di là dei limiti del conosciuto, guardare cioè
all'ignoto, alle tenebre, pone il problema dell'enigma della morte, del
mondo delle ombre, del passato e del futuro" (11).
Dioniso: luogo ideale della liberazione dalle costrizioni umane e
dell'intuizione dell'inconoscibile. Trasgressione delle forme codificate
dell'esistere e del conoscere: dissoluzione e dissipazione, dell'energia
dei corpi come dei divieti e dei veli d'ignoranza, non "ri-produzione"
rassicurante dei vezzi e dei vizi d'ogni giorno (12).
Vivere pienamente significa sperimentare la tensione tra le dimensioni
dell'utile,
della
conservazione,
del
lavoro
e
quelle
del
consumo
improduttivo, dell'eccesso pulsionale, della perdita; quanto meno per
l'uomo di Bataille, secondo cui il "soggetto sovrano" (di se stesso) è
colui che riesce a "scatenare" le passioni e così a "scatenarsi" dai
divieti
e
dalle
costrizioni
del
mondo
del
lavoro
e
dell'utilità
calcolata. In una parola: trasgressione, oltrepassamento dei limiti del
comune sentire e delle gerarchie sociali, aspirazione a porsi al di là
della caducità della vita, coscienza della finitezza umana e "ricerca
dell'infinito" (13).
Meta difficile, se non impossibile, soprattutto per l'uomo d'oggi: con la
"secolarizzazione" la nostra modernità ha quasi del tutto smarrito le
tensioni tra sacro e profano, tra divieto e sua violazione (14); in un
mondo con pochi dèi e molti semidei terreni, ove i divieti svaniscono o
si trasformano in deboli sussurri, la trasgressione non ha quasi ragione
d'essere oppure tende a divenire un'esperienza "artificiale", a volte
addirittura "di massa", e di conseguenza una violazione poco vissuta
(15).
L'assunzione di "sostanze" può essere un modo per trasgredire, un
tentativo per penetrare nel mondo dei demoni e degli dèi (che abitano in
noi?);
un
modo,
dunque,
per
cercare
di
avvicinarsi
a
ciò
che
è
ordinariamente "velato" e proibito.
Quanto meno dal punto di vista di Olievenstein, la "prima droga" (e, con
essa,
la
consapevolezza
dell'uomo
di
essere
mortale)
è
nata
con
la
cacciata dal paradiso terrestre di Adamo ed Eva per aver assaggiato il
frutto della conoscenza del bene e del male, ed il tossicomane è il solo
uomo che intravvede "ciò che c'è di più prossimo alla morte" (senza
dimenticare, peraltro, che "l'immaginario della droga" è poco o per nulla
"culturalizzato" e non si svolge come un discorso strutturato od una
"costruzione fantastica organizzata", ma è "quasi impressionismo, magma
parcellizzato sospeso in un'atmosfera unica fatta di calore, ingenuità e
arcaismo"); quando poi cessa, "ciclicamente o definitivamente, l'effetto
narcotico, il tossicomane si ritrova nudo di fronte a ciò che Bataille
definisce l'esperienza interiore nella quale tutto è nudo e miserabile e
l'uomo è ridotto a insetto, senza alcun potere sul proprio destino e ciò
tanto più crudelmente in quanto egli ha potuto credersi Dio nell'attimo
estremo dell'esperienza della droga" (16). Esperienza mistica senza Dio,
dunque,
eccesso
(mortifero)
alla
ricerca
di
una
"illuminazione"
che
permetta di disvelare il "senso del mondo" se non di attingere - per
quanto in vitro - una qualche "pienezza di vita" (17).
NOTE
(1) Cfr. Foucault (1971, pp. 73-75).
(2)
Sulla
pluralità
delle
"realtà
in
cui
viviamo"
la
bibliografia
comincia ad abbondare: cfr. ad es. lo studio di Blumenberg (1987), che
propone
la
retorica
"metafora
husserliana
assoluta"
del
del
mondo
mondo
della
di
vita,
mondi;
di
"bisogna
fronte
alla
pazientare":
all'impaziente pretesa di trovare un metodo e di catturare la verità,
dovremmo sostituire "la pazienza della ricerca infinita" e la nostra
capacità di "dilazionare" e anche di "rinunciare", dato che "il rapporto
dell'uomo con le realtà è indiretto, circostanziato, differito, selettivo
e soprattutto metaforico".
(3)
Cfr.
sottolinea
Searles
che
(1989,
"tra
tutti
pp.
i
472ss.
più
e
partic.
diversi
488-489),
fattori
il
situazionali
quale
che
influiscono sulle capacità emotive dell'uomo, nessuno è più potente del
fatto strordinariamente semplice che, per ciascun individuo, tutta questa
complessa vicenda che è la vita, questa vicenda affascinante, tormentosa,
eccitante, noiosa, rassicurante, spaventosa, con tutti i suoi momenti di
quiete e di tempesta, di semplicità e di complessità, dovrà un giorno,
inevitabilmente, finire... Può apparire sorprendente che persino nella
schizofrenia, in questo processo patologico apparentemente tra i più
lontani dall'esperienza comune, un dato così quotidiano, così universale,
qual è la natura mortale dell'uomo, rappresenti una delle maggiori fonti
d'angoscia contro la quale il paziente si difende, inconsciamente, con le
sue modalità schizofreniche di esperienza intrapsichica e di relazioni
interpersonali... Una parte importante del senso di tragedia esistenziale
da cui è permeata la storia personale dello schizofrenico ha a che fare
con la natura finita della vita umana. La tragedia è presente sotto molte
altre forme, com'è presente del resto in tutta l'esistenza dell'uomo: vi
è la tragedia della mancata realizzazione di sé, della disgregazione
della famiglia, del distacco dagli ambienti dell'infanzia, della perdita
di
rapporti
affettivi
molto
importanti.
Ma
non
vi
è
dubbio
che
la
tragedia dell'ineluttabilità della morte sovrasta tutto".
Sull'incapacità del linguaggio ad "esprimere la morte" cfr. ad es. anche
Jankélévitch (1995, p. 95).
(4) Cfr. Olievenstein (1990, p. 44).
(5) Sulla carenza quale cifra dell'uomo cfr. Gehlen (1983. passim).
(6) Cfr. Masullo (1995, pp. 125-127). Cfr. anche Searles (1989, pp.
428ss.),
secondo
cui
"l'angoscia
del
genere
umano
di
fronte
alla
transitorietà di tutte le cose si rivela in molti settori dell'attività
umana: basti qui ricordarne tre. La si può vedere innanzitutto nella
dipendenza
che
tanti
di
noi
provano
verso
la
concezione
religiosa
dell'esistenza in qualche luogo di un Dio che è non solo onnipotente, ma
eterno e immutabile. In secondo luogo, la storia della filosofia dimostra
che
innumerevoli
filosofi
hanno
dedicato
la
vita
al
tentativo
di
scoprire, dietro le apparenze di un mondo in continua trasformazione,
qualcosa di eterno... Nella nostra angoscia di fronte alla transitorietà
di tutte le cose possiamo trovare rifugio non solo nella religione o
nell'adesione
a
una
concezione
filosofica
della
vita...
Ma
anche
nell'attività scientifica. Bergson ha messo in rilievo come la scienza,
per
la
sua
stessa
natura,
possa
applicarsi
solo
a
ciò
che
tende
a
ripetersi... Nel nostro lavoro di psicoanalisti, dobbiamo essere pronti a
cogliere i momenti in cui le teorie e la tecnica della scienza che noi
seguiamo possono dare adito alla rimozione, in noi stessi oltre che nei
nostri
pazienti,
dell'angoscia
di
fronte
al
cambiamento...
E'
indispensabile, inoltre, che, dato che dobbiamo necessariamente affidarci
alla
comunicazione
verbale,
si
sia
consapevoli
di
quanto
i
modelli
sintattici tendano a frammentare e a rendere in vari modi statica la
nostra esperienza, che è invece qualcosa di estremamente fluido".
(7) Cfr. Vernant (1987, pp. 5-6 e segg.); cfr. anche Tagliapietra (1991,
pp. 33ss.). Sull'Unheimlich, intesa quale "inquietante estraneità", cfr.
il saggio di Freud (1982, pp. 82ss.) che - annota Kristeva (1990, pp.
166ss.)
relativo
-
seppur
dichiaratamente
(soprattutto)
a
problemi
limitato
negli
estetici,
intenti,
travalica
in
in
quanto
realtà
il
proprio
quadro
di
riferimento
diretto
tramutandosi
in
una
ricerca
sull'angoscia in generale.
(8) Sul mondo immaginale, o immaginario (mitico-archetipico), cfr. ad es.
Jung (1976 e 1980), Neumann (1981), Hillman (1979 e 1987), Durand (1972 e
1977), Corbin (1976 e 1983), Bachelard (1974), Aversa (1984); cfr. anche
la sintesi contenuta nella relativa voce del Dizionario di Galimberti
(1992, pp. 465-466) nonché la voce riguardante il mito (pp. 584-586).
Cfr. inoltre Abbagnano (1984, pp. 586-588) e Blumenberg (1991 e 1988),
che analizza le "radici filosofiche della modernità" ed i "modi in cui
ereditiamo e trasformiamo i nostri apparati mitologici" (e che, al di là
della
disputa
sulla
definizione
del
mito,
sottolinea
che
le
storie
consolidatesi in miti vengono raccontate "per scacciare qualcosa": nel
caso più innocuo il tempo; nel caso più serio, paure ed angosce. Cfr.
anche Goodman (1988, pp. 121-123), secondo cui "le opere di finzione in
letteratura,
e
opere
analoghe
nelle
altre
arti,
giocano
un
ruolo
assolutamente dominante nel nostro fabbricare mondi; i mondi che abbiamo
li ereditiamo dagli scienziati, dai biografi o dagli storici quanto dai
narratori, dai drammaturghi o dai pittori... 'Don Chisciotte, preso alla
lettera non si applica a nessuno, ma preso in modo figurato si applica a
molti di noi, a me, ad esempio, quando combatto contro i mulini a vento
della linguistica contemporanea. A molti altri il termine non si applica
né letteralmente né metaforicamente"; e quindi chiedersi se una persona è
un Don Chisciotte o un Don Giovanni è "una domanda vera e propria, quanto
chiedersi
se
una
pertanto,
"non
persona
importa
se
è
paranoica
letteraria,
o
schizofrenica".
pittorica
o
La
finzione,
teatrale,
non
ha
davvero come suoi referenti il nulla o dei mondi possibili assolutamente
trasparenti, ma, per quanto metaforicamente, i mondi reali... La finzione
opera in mondi reali né più né meno come quel che finzione non è.
Cervantes, Bosch e Goya, né più né meno di Boswell, Newton e Darwin,
ereditano, disfano, rifanno, replicano mondi reali, rimaneggiandoli in
modi importanti e a volte anche oscuri ma alla fin fine riconoscibili cioè proprio ri-conoscibili" (per un'analisi del pensiero di Goodman cfr.
ad es. Handjaras, 1991: uno dei tratti portanti della sua visione "delle
cose" è la tesi che "la verità è spesso inapplicabile, ben di rado è
sufficiente e deve a volte lasciare la strada a criteri concorrenti"; una
delle fonti del suo pensiero è la filosofia "neokantiana" di Cassirer,
con l'idea dell'uomo come animal symbolicum, a proposito della quale cfr.
ad es. Geymonat, 1977, vol. VII, pp. 137ss.).
Per
tornare
al
"mondo
immaginale",
si
può
ancora
ricordare
che
per
Hillman (cfr. ad es. 1991, pp. 26 e 34) "i temi e i personaggi della
mitologia non sono semplici oggetti di conoscenza", ma piuttosto sono
"realtà viventi dell'essere umano che esistono come realtà psichiche in
aggiunta e, forse, anche precedentemente alla loro manifestazione storica
e geografica. La psicologia del profondo si rivolge alla mitologia non
tanto per imparare sugli altri nel passato, quanto per comprendere noi
stessi
nel
presente...
Noi
dobbiamo
conoscere
le
sottostrutture
archetipiche che governano le nostre reazioni; dobbiamo riconoscere gli
Dei e i miti in cui siamo impigliati. Se manca questa consapevolezza, il
nostro
comportamento
illusione".
diviene
Peraltro,
interamente
bisogna
mitico
sottolineare
e
la
che
coscienza
la
una
"psicologia
archetipica" di Hillman , secondo cui in buona sostanza le nostre vite
psicologiche sono mimetiche dei miti (e la psicopatologia è essa stessa
un
mezzo
per
essere
influenzati
dal
mito),
adotta
la
versione
"mitologica" degli archetipi proposta da Jung (cfr. ad es. 1976, pp. 236238)
in
contrasto
con
l'altra
versione
("fenomenologica"):
in
altri
termini, quando gli archetipi, da "modelli di comportamenti innati" ed
"ordinatori di rappresentazioni", cioè da forme a priori che organizzano
l'esperienza in maniera umana diventano "istinti forniti di un'energia
specifica" che, trascurata, può "produrre un'inflazione dell'Io" per cui
nei loro confronti bisogna avere
"un saggio timore", allora non siamo
più sul piano fenomenologico, dove di fronte ai fenomeni si cerca la
forma che tutti li connota, ma sul piano mitologico, dove gli archetipi
(cfr. ad es. Jung, 1980, pp. 8 e 22) "sono creati con il materiale
primigenio della rivelazione e rappresentano la sempiterna esperienza
della divinità, di cui hanno sempre dischiuso all'uomo il presentimento,
proteggendolo al contempo dal contatto diretto di essa... Da quando le
stelle
sono
cadute
dal
cielo
e
i
nostri
simboli
più
alti
sono
impalliditi, domina nell'inconscio una vita segreta. Perciò abbiamo oggi
una psicologia, perciò parliamo di inconscio. Tutto questo sarebbe, ed è
in realtà, superfluo in un'epoca e in un tipo di cultura dotati di
simboli". Per una critica alla "versione mitologica" di Jung, e quindi a
Hillman come anche a Neumann, cfr. ad es. Trevi (1987, pp. 100-101) che
qualifica tali tipologie archetipiche come "ipostasi molto prossime a
quelle della metafisica religiosa".
(9) Cfr. Tagliapietra (1991, pp. 37ss.).
(10) Su Dioniso cfr. ad es. Eliade (1981, pp. 393-396), Detienne (1987),
Hillman (1991, passim), Jaeger (1982, vol. I, pp. 312ss. e 434ss.),
Maffesoli (1982), Fo (1987, pp. 23ss.), Nietzsche (1973, vol. III, tomo
II,
pp.
59ss.);
per
alcuni
riferimenti,
anche
bibliografici,
allo
squilibrio deambulatorio dionisiaco (e sciamanico) cfr. Cottino (1992,
pp.
24ss.)
e
Ginzburg
(1989,
passim
e
partic.
p.
223).
Per
quanto
riguarda il dionisiaco in Nietzsche, cfr. ad es. la sintesi di Abbagnano
(1993, vol. III, pp. 384ss. ed ivi ulteriori indicazioni bibliografiche):
"La vita è dolore, lotta, distruzione, crudeltà, incertezza, errore. Essa
è l'irrazionalità stessa: non ha ordine nel suo sviluppo né ha scopo, il
caso la domina, i valori umani non trovano in essa alcuna radice. Due
atteggiamenti sono allora possibili... Il primo è quello della rinuncia e
della fuga, che mette capo all'ascetismo; questo è l'atteggiamento che
Schopenhauer derivò dalla sua diagnosi ed è l'atteggiamento, secondo
Nietzsche, proprio della morale cristiana e della spiritualità comune. Il
secondo è quello dell'accettazione della vita come essa è, nei suoi
caratteri originari e irrazionali, ed è l'atteggiamento che mette capo
all'esaltazione
l'atteggiamento
questa
della
di
vita
e
Nietzsche...
accettazione...
Il
al
superamento
Dioniso
carattere
è
il
dell'uomo.
simbolo
romantico
Questo
è
divinizzato
di
dell'atteggiamento
di
Nietzsche è evidente in questa infinitizzazione o divinizzazione della
vita. Dioniso ignora e disconosce ogni limite umano... Dioniso ama il
lusso della distruzione, della disgregazione, della negazione... respinge
e
allontana
evidente
l'idea
della
della
morte...
finitudine
E'
umana...
respinto
'Io
sono
il
contrassegno
corpo
più
tutt'intero
e
nient'altro', dice Zaratustra... Il vero io dell'uomo è il corpo... La
vera soggettività dell'uomo non è quella che egli indica col monosillabo
io, ma se stesso che è insieme corpo e ragione" (da notare che in
Nietzsche si trova una critica radicale della concezione cartesiana della
separazione tra res cogitans e res extensa). Per Nietzsche (1977, p. 88),
peraltro, la vera opposizione non è tanto tra apollineo e dionisiaco in
astratto ma tra Dioniso e Socrate perché "nello schematismo logico la
tendenza
apollinea
si
è
trasformata
in
crisalide";
per
una
diversa
interpretazione di Socrate cfr. invece Jankélévitch (1995, pp. 18-19),
secondo cui dalla lettura del Menone (79, a-d) e dell'Eutifrone (11, b-d)
platonici
si
antiretorica
desume
che
lo
che
Socrate
rende
"può
raggiungere
un'irritante
quella
'torpedine'
assoluta
verso
ogni
interlocutore
e
un
pericoloso
'Dedalo'
destabilizzante
verso
ogni
certezza mondana, in quanto guidato da un'ininterrotta meditazione della
morte.
Unica
condizione
che
consenta
di
affrancare
lo
sguardo
dalle
'verità bell'e fatte' e di farsi beffa di esse. E in particolare di
quella logica e di quegli atteggiamenti così poco disposti ad accogliere
in loro non solo il gusto ma soprattutto il coraggio del dubbio e della
contraddizione, e pertanto così fieri della propria irremovibile coerenza
in grado di 'guarire' ogni angoscia e timore... Niente è più facile e più
comodo della 'grave serietà' senza cedimenti e tremori, mentre la cosa
più difficile e pesante da sopportare (come ben sapeva Nietzsche) è
proprio
quella
apparentemente
più
'leggera':
vivere
-
e
amare
-
l'ambiguità di noi stessi e del reale".
Tagliapietra (1991, pp. 71-74), poi, ha sottolineato che, "come scrive
N.O. Brown, l'uomo dionisiaco 'non nega più': invece di negare, egli
afferma la dialettica unità dei grandi istinti contrari: Dioniso riunisce
maschio e femmina, il Sé e l'Altro, vita e morte, perciò Dioniso è
l'immagine della realtà degli istinti che la psicoanalisi troverà al di
là dello schermo... Questa 'costruzione di un io dionisiaco' intesa come
'resurrezione della carne' appare ancora troppo parziale a J. Hillman
che, nella terza parte de Il mito dell'analisi - ampiamente dedicata a
'reimmaginare
critica
la
Dioniso'
'via
circoscrizione
del
e
a
d'uscita'
'rientrare
indicata
dionisiaco
al
nella
da
coscienza
Brown,
semplice
dionisiaca'
soprattutto
orizzonte
per
corporeo,
la
che
l'iniziatore della psicologia archetipica interpreta in senso riduttivo"
(sul Dioniso di Hillman - secondo cui "per poter entrare in contatto con
gli aspetti inquietanti e oscuri della vita, ricostituendo la nostra
unità e sanità come totalità non scissa e unilaterale dobbiamo rivolgerci
a Dioniso e alla fenomenologia della coscienza che gli è propria", poichè
"salute, come totalità, è completamento nell'individualità, e a questa
appartiene
anche
la
parte
oscura
della
vita:
sintomi,
sofferenza,
tragedia e morte" - cfr. ad es. l'analisi di Giacobbe, 1986, pp. 97ss.).
Per concludere, si può ricordare che tra i tipi psicologici di Jung
(1969,
p.
150)
il
dionisiaco
è
presentato
come
"la
liberazione
dell'istinto insofferente di ogni limite, lo scatenarsi della sfrenata
dynamis animalesca e divina, la rottura del principio di individuazione e
insieme l'estasi delirante".
(11) Cfr. Resnick (1982, pp. 28-29), secondo cui "l'angoscia di morte
legata a una ricerca dell'ignoto è spesso personificata da personaggi
burleschi, specie di figure diaboliche come Arlecchino nella commedia
dell'arte o i buffoni delle corti o della chiesa, sempre portatori di una
verità essenziale mascherata".
(12) Per più di uno spunto in questo senso si veda Olievenstein (1987,
passim e partic. pp. 30 e 14): "La vita intera è la lontananza dalla
morte.
Tutta
l'economia
sociale,
libidinale,
perciò
tende
alla
(ri)produzione.
Riprodurre
significa
rassicurarsi,
convincersi
dell'utilità delle cose: assestarsi in un programma, in un godimento, in
una festa. E' un affare di maschere: come le maschere degli stregoni. Ma
anche come la siringa del tossicomane".
(13) Cfr.Bataille (1991, pp. 61ss. e passim). Per una breve sintesi del
suo
pensiero
si
veda
Pulcini
(1994,
pp.
93ss.),
ove
tra
l'altro
è
sottolineato che il "bisogno di perdita" è ricondotto da Bataille alle
due forme arcaiche del potlàc e del sacrificio: il bisogno di dépense è
"individuale, prima ancora che economico e sociale, in quanto scaturisce
da quella dimensione della soggettività che non è riconducibile alla
semplice soddisfazione dei bisogni, né esauribile nella pura ricerca
dell'utile. Nell'erogazione in pura perdita dell'energia, nella spesa
improduttiva, l'uomo trova infatti la propria sovranità... Avendo esteso
il principio di accumulazione su scala planetaria, la società borghese e
capitalistica ha reso completa ed universale la proscrizione dalla vita
degli uomini di tutto ciò che si colloca 'al di là dell'utilità'... La
possibilità di colmare il bisogno di dépense, che riemerge con la forza
dirompente del rimosso dalle zone oscure della 'parte maledetta', non
appartiene
più
in
prima
istanza
a
strutture
collettive,
religiose
(comunità primitiva) o politiche (società feudale) che fossero. Essa
viene
interamente
affidata
alla
soggettività...
Ma
la
valorizzazione
della soggettività non implica affatto, in Bataille, un ritorno all'ego
cartesiano,
soggetto
chiuso
nelle
hegeliano,
che
si
proprie
certezze
razionali,
apre
all'Alterità
solo
per
e
neppure
'superarla'
al
e
riassorbirla nel proprio movimento autocoscienziale. Si tratta piuttosto
di un soggetto che trova nella lacerazione, nella dissoluzione e nella
perdita che lo espone all'altro da sé in quanto irriducibile negatività,
la propria dimensione sovrana... Nel riso, nella danza, nell'orgia, il
soggetto rompe la propria integrità per fare della propria vita una
"festa immotivata", una dépense senza condizioni che lo "scatena" dai
vincoli imposti dal lavoro e dalla autoconservazione".
(14) Sul "sacro" e sulla "trasgressione", anche per alcune indicazioni
bibliografiche
di
massima,
cfr.
le
relative
voci
del
Dizionario
di
Galimberti (1992). Come sottolinea Pulcini (1994, p. 98), quanto meno
nella prospettiva di Bataille è la trasgressione "a fondare il mondo del
sacro, cioè quella sfera della vita umana prodotta, per opposizione, dal
divieto e dai limiti imposti dal lavoro. Si approda qui a un nodo teorico
nevralgico del pensiero di Bataille, che getta una luce ulteriore sugli
stessi concetti di dépense e di sovranità. La riflessione sul sacro
collega ancora una volta Bataille all'antropologia sociale di Mauss e
Durkheim, e lo accomuna agli altri membri del Collège de Sociologie, tra
i quali soprattutto Caillois (1939), tutti sostenitori dell'idea di una
coesistenza necessaria - analoga a quella di trasgressione e divieto - di
un mondo sacro e di un mondo profano. La società stessa si regge sulla
complementarietà di questi due momenti... Il mondo profano è quello dei
divieti. Il mondo sacro si apre a trasgressioni limitate. E' il mondo
della festa, dei sovrani, degli dei". Il sacro, ha scritto Bataille
(1991, pp. 22 e 209), è "la totalità dell'essere rivelato a coloro che in
un rito solenne contemplano la morte di un essere frammentario"; il mondo
sacro
"ha
assunto
solo
tardivamente
il
significato
unilateralmente
elevato che il religioso moderno gli conferisce. Ancora nell'antichità
classica aveva un senso dubbio. Apparentemente, per il cristiano, ciò che
è
sacro
è
necessariamente
puro,
mentre
l'impuro
si
situa
sul
piano
profano. Ma per il pagano il sacro poteva anche essere l'immondo... Il
peccato è in origine interdizione religiosa, e l'interdizione religiosa
del paganesimo è esattamente il sacro".
(15)
Così
come,
in
un'altra
dimensione,
è
sempre
meno
sentita
l'appartenenza ad una particolare comunità di vita: la Gemeinschaft si è
dissolta in tante collettività multiformi; forse si potebbe parlare di
comunità "mass-mediatica", ma sarebbe un altro discorso...
Il discorso è ovviamente condotto nella prospettiva (non condivisa da chi
scrive) di Bataille, che - come ha sottolineato Pulcini (1994, p. 102),
si dipana seguendo l'analisi weberiana del moderno come "prodotto del
'disincantamento
del
mondo',
conferendole
tuttavia
accenti
fortemente
critici e valutativi".
Per quanto riguarda, poi, le comunicazioni di massa, si vedano ad esempio
D. McQuail (1986) e M. Wolf (1990). Inoltre, può essere il caso di citare
Galimberti (1991): "Mezzi di non comunicazione, i media sono propagatori
di
modelli
simili
in
tutto
alle
idee
dell'iperuranio
che
Platone
proponeva... come modelli per regolare la vita dei corpi. Ma appartiene
all'essenza del modello la sua riproducibilità, per cui ogni gesto, anche
il più trasgressivo, il più rivoluzionario, quando passa per i media,
diventando un modello, non appartiene più all'ordine della produzione di
senso, ma all'ordine della sua riproduzione. Qui il gesto si neutralizza,
perde la sua carica sovversiva, perché, quando è trasmesso e ricevuto
come
modello
d'azione,
non
si
sa
più
che
farsene,
essendo
la
trasgressione, la rivoluzione, gesto unico, non riproducibile in serie,
né suscettibile d'essere offerto come modello, come prototipo". Dunque,
mass-media come canali di (ri)produzione dei vezzi e dei vizi d'ogni
giorno.
(16) Cfr. Olievenstein (1993, pp. 7ss.); cfr. anche (1987, pp. 10-14-2022-24), ove Olievenstein scrive che "il flash non è l'orgasmo, la piccola
morte, che apre sulla ripresa della continuità. Flash: apri la porta su
altro, su un pianeta che è altrove e che è il solo tentativo umano,
illusorio,
di
annullare
la
morte.
Dispiegamento
infinito
del
tempo
distorto e di ogni spazio. Piacere prolungato - lungo i bordi del sacro e
del segreto... La droga annulla tutto e rende tutto possibile. Dice il
non detto, la terribile paura e il terribile desiderio di essere ancora
schiavo... Fallisci e vinci e per questo ricominci. Per questo gli altri
non capiscono più. Vai a capire cosa prova il maiale quando mangia
l'immondizia...Tu
sei
uomo,
e
un
uomo
qualsiasi,
nonostante
il
tuo
destino favoloso. Con la tua miseria e il tuo corpo. Lo stupido è chi
rimane affascinato dal tuo destino. Perché il piacere e nella morale. E
forse, ma chi lo sa davvero, nell'ascesi. Guai a chi tanto sfida Eros e
Thanatos.
Almeno
senza
umiltà
e
senza
riflessione...
Al
tempo
della
televisione, la morte a migliaia è banalizzata, giorno per giorno. E il
suo mistero diventa più bruciante: la vediamo di più, la comprendiamo di
meno. E' totalmente insopportabile. Il discorso nei suoi confronti è
totalmente interdetto: è quello della sua paura. Salvo a farne la cosa
psicoanalitica".
Cfr. anche Cordet (1976, pp. 85ss.): "Incarnazione della morte, corpo
repellente, zona necrotizzata e necrotizzante, il corpo del drogato è
quel luogo in cui gli istinti di vivere e di morire, sganciati l'uno
dall'altro,
si
esasperano
funzionando
alternativamente,
ciascuno
per
conto suo, impazziti nell'eccesso... La figura del Drogato affascina
perché ci offre la nostra Morte e la nostra Vita riunite insieme, nello
stesso luogo".
(17) Per alcuni spunti cfr. ad es. Bataille (1978, p. 163): "La vita si
perde nella morte, i fiumi nel mare ed il noto nell'ignoto. La conoscenza
è l'accesso all'ignoto. Il non senso è l'esito di ogni senso possibile".
Per Bataille (1991, passim e pp. 16-17), "noi siamo esseri frammentari,
individui
che
muoiono
isolatamente
nel
corso
di
un'avventura
inintelligibile, colmi di nostalgia per la perduta unità". Cfr. anche
Bataille (1987, pp. 25 e 67): "E' sempre la morte - o almeno la rovina
del sistema dell'individuo isolato alla ricerca della felicità nella
durata - è sempre la morte a introdurre la rottura senza la quale nessuno
arriva allo stato di rapimento (la mistica cristiana poggia sul 'morire a
se stessi'. La mistica orientale ha i medesimi fondamenti). In questo
moto di rottura e di morte si ritrova sempre l'innocenza e l'ebbrezza
dell'essere. L'essere isolato si perde nell'altro da sé. Poco importa
quale sia la rappresentazione data 'dell'altro'. E' sempre una realtà che
oltrepassa i limiti comuni, anzi così profondamente illimitata, che prima
di tutto non è 'qualcosa': non è niente. 'Dio è nulla' afferma Eckhart...
L'umanità persegue due fini, di cui uno, negativo, è di conservare la
vita (evitare la morte), l'altro, positivo, di accrescere l'intensità
della vita. Questi due fini non sono contraddittori. Ma l'intensità non
si accresce mai senza pericolo".
Per
una
breve
analisi
delle
possibili
(ma
improprie,
per
l'autore)
analogie tra tossicomania e rito iniziatico cfr. Caponeri (1983, pp.
63ss.); sui miti e sui riti di passaggio di vedano quanto meno Van Gennep
(1981),
Lapassade
(provocate
soprattutto
dalle
nelle
(1980)
"bevande
e
Lewis
sacre")
popolazioni
che
(1972).
cfr.
siamo
ad
Sulle
es.
soliti
"ebbrezze
De
dire
Félice
divine"
(1990):
"primitive"
le
sostanze "tossiche" costituiscono una via d'accesso al sacro e al divino;
la
loro
assunzione
fa
parte
di
un
rito,
l'assuntore
conosce
una
particolare euforia e si abbandona al potere delle illusioni e delle
chimere che sorgono dalle profondità del suo essere così oltrepassando i
limiti della propria esistenza.
Per Olievenstein (1990, pp. 13-17), "qualcosa del non detto si esprime
attraverso il rito e lo stile. La religione e l'arte permettono di
riconoscelo,
di
ammetterlo
in
una
certa
misura,
di
trasfigurarlo
in
parole o atti, di muoversi più liberamente tra il fatto e la censura, di
realizzare l'irrazionale altrimenti che tramite la pazzia... Dire il non
detto per alleviarne il peso, o per esprimerne la legittimità quando esso
ha finito di essere proibito ed è diventato asettico. Ma ciò che è
diventato
rituale
dell'emozione
baratta
o
stilizzato
selvaggia,
l'intensità
media
non
è
sufficiente.
l'indisciplina,
dell'ineffabile
con
Uccide
banalizza
la
minore
la
qualcosa
violenza,
intensità
del
visibile... Il non detto dell'uomo gli è specifico in quanto è creativo,
in quanto dà origine a un dialogo dell'uomo con se stesso che si inscrive
nella memoria del soggetto e da quel momento va a costituire un nucleo
intoccabile
all'epoca
di
cui
moderna,
occorrerà
la
in
ogni
ritualizzazione
momento
era
il
tener
mezzo
conto...
Fino
privilegiato
per
stringere dei compromessi tra l'accettabile e l'irragionevole... Ora, la
rivoluzione cinetica degli ultimi quarant'anni (trasporti aerei, voli
spaziali, trasmissione delle informazioni...) ha messo fuori corso questi
riti,
divenuti
arcaici
e
perfino
ridicoli
in
confronto
alle
trance
moderne, in particolare al grande rito televisivo... Di qui la necessità
di concedersi a volte l'espressione di un non detto con altri mezzi
extrarituali. Per esempio, mediante l'uso di sostanze tossiche... Esse
offrono
possibilità
vantaggio
ineguagliabili
ulteriore
che
attraverso
comportamenti
attraverso
un
vero
e
di
esso
non
messi
al
proprio
è
accesso
più
bando
linguaggio.
al
non
costretto
dalla
detto.
a
Con
il
manifestarsi
società,
L'allucinazione
e
neppure
sensoriale,
insieme vissuta e avvertita, ma soprattutto nell'interirorità, lascia al
soggetto il più ampio spazio di elaborazione senza che egli abbia il
bisogno di comunicare o di metterlo in comune... La nozione di modernità
è indispensabile all'analisi del non detto, alla quale conferisce tutta
la
sua
attualità.
all'incrocio
tra
Infatti
siamo
un'elaborazione
di
fronte
a
tradizionale
una
situazione
del
non
nuova,
detto,
una
riattivazione delle grandi paure ancestrali davanti all'impossibilità di
controllare le nuove evoluzioni (la paura atomica, per esempio) e una
riduzione del segreto (individuale) e del sacro (collettivo) da parte
dell'egemonia
dapprima
scientifica...
gegli
La
allucinogeni,
ricomparsa
poi
degli
massiccia
delle
anestetizzanti
droghe
e
-
degli
euforizzanti, infine degli stimolanti - ne è la riprova, la testimonianza
dell'oscillazione e della compenetrazione tra il desiderio di modernità e
la nostalgia del ritorno alle origini... L'accelerazione della volontà
che si esercita nel disporre liberamente di una siringa, semplice oggetto
di consumo che si può gettare dopo l'uso, incarna il superamento delle
usanze di un tempo, che prescrivevano l'assunzione di droghe in occasione
di ricorrenze particolari... L'alcool non basta più ai giovani... Non
permette e non assume la modernità, di cui non ricrea la rapidità dei
mutamenti e l'intensità delle oscillazioni". E così, "si fa strada a poco
a poco la duplice natura e la duplice funzione del non detto: arcaico e
costretto
a
integrare
la
modernità;
modalità
di
salvaguardia
dell'identità individuale e di gruppo, e modo di espressione più o meno
censurato della paura di non essere, perciò di essere con un'angoscia di
morte, essa stessa non censurata e permanente".
Per concludere può essere ancora opportuno citare Masullo (1995, pp. 17 e
104ss.), secondo cui "non solo il 'movimento' (kínesis) ma in generale il
'cambiamento' (metabolé) è per natura il destabilizzante (ekstatikón)...
L'avverbio latino modo significa 'adesso'. 'Moderna' è stata dunque l'età
dell'adesso, dell'assoluto primato del 'presente', del breve ma intenso
durare della vivente attualità. Ma ai nostri giorni, con l'esplosione
dell'istantaneo e il dominante diffondersi di un vissuto senza durata,
svanito lo spessore del 'presente', la modernità è tramontata. Senza
accorgercene,
L'enorme
noi
fretta,
siamo
la
scivolati
in
divinizzazione
una
della
condizione
velocità
e
'postmoderna'".
l'incapacità
di
"sospendere la nostra corsa" consentono di dire che "il presente viene
sempre
più
fortemente
avvertito,
qualche
rara
volta
con
entusiasmo,
spesso con angoscia, quasi sempre con preoccupazione, come un limite
estremo contro il quale ogni passato e ogni futuro si schiacciano... Il
ridursi
del
presente
all'istantaneità
e
all'impossibilità
di
darsi
ragione del cambiamento, comporta per il moderno la liquidazione della
sua metafisica. In un mondo nel quale il mutamento è istantaneo, senza
ragione, la cartesiana domanda 'sogno o son desto?' ammutolisce, perché
la distinzione tra il sogno e la veglia non ha più senso".
Il non detto della clinica di Olievenstein.
"Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: 'ci sono soltanto
fatti',
direi:
no,
proprio
i
fatti
non
tentare
di
ci
sono,
bensì
solo
interpretazioni" (1).
Perché
citare
Nietzsche?
Per
dar
conto
del
contesto
concettuale, e di alcune premesse più o meno implicite, del discours di
Olievenstein; un discorso che si presenta soprattutto come dis-cursus:
correre
qua
e
là,
andare
e
venire,
aggiramento,
intreccio,
attorcigliamento, guizzo (2).
La "clinica del tossicomane" è al contempo teoria, tecnica terapeutica
ed autobiografia (3): Olievenstein la definisce fenomenologia condotta
alla luce dell'apporto teorico della psicoanalisi, mentre non sottolinea
la dimensione di vero e proprio Gedankenexperiment, cioè di esperimento
mentale e di teoresi ardita (se non di mitopoiesi) che connota molte
delle
sue
pagine
volte
alla
ri-costruzione
delle
dinamiche
che
sostanziano la scelta del tossicomane.
Olievenstein
proprio
invoca
discorso,
il
per
radicamento
connotarlo
nell'esperienza
e
fenomenologica
legittimarlo
in
termini
del
di
scientificità: l'ingenuità epistemologica e metodologica sarebbe palese
se non fosse contraddetta dagli effettivi svolgimenti (che a volte sono
avvolgimenti o involgimenti) della sua clinica.
Per
Olievenstein,
tossicomani
in
finchè
psicologia
pure,
effetti,
venga
un
non
vi
presupposto,
ordine
quasi
può
essere
"come
lineare
in
dei
una
ogni
clinica
dei
psichiatria
fenomeni,
che
o
sia
ontogenetico o filogenetico, strutturale o topico"; al contrario, una
tale clinica rinvia "piuttosto alla meccanica dei fluidi che a quella dei
solidi" in quanto deve tener conto, senza poterne fare a meno, delle
"fluttuazioni", delle "perturbazioni" e dei "vortici" che caratterizzano
la teoresi e l'esperienza
terapeutica (4).
Malgrado l'appello ai fatti, dunque, Olievenstein guarda soprattutto
nella
direzione
del
Nietzsche
teorico
dell'interpretazione
totale
piuttosto che in quella di Husserl e dei suoi epigoni (o di qualche
"empirista"
ingenuo)(5):
nella
sua
clinica
si
ritrovano,
oltre
alle
suggestioni mutuate dall'antropologia strutturalista e da autori quali
Bataille e Foucault, le tracce del pensiero di Jaspers e di Heidegger,
Merleau-Ponty, Binswanger (e non solo, ovviamente)(6).
L'esperienza
di
letteralmente
significa
contenuti
cui
emozionali
parla
Olievenstein
vissuto
tematizzata
e
rinvia
(7)
è
l'Erlebnis,
all'intuizione
originariamente
da
diretta
Dilthey
(8);
che
dei
a
differenza dell'Erfahrung, la comune esperienza "esterna" di un qualche
fenomeno, l'Erlebnis restituisce il senso di un approccio gnoseologico (e
clinico) che dovrebbe consentire di "avvicinare la vita con la vita" e,
di
conseguenza,
l'Altro (9).
aprire
la
possibilità
di
comprendere
"dall'interno"
Peraltro,
la
prospettiva
fenomenologico-comprendente
della
clinica
olievensteiniana non è "pura" anche perché, essendo aperta agli apporti
della psicologia del profondo freudiana, non può che tener conto della
concezione
psicoanalitica
dell'interpretazione
secondo
la
quale
tale
attività si colloca ad un punto mediano di raccordo tra la spiegazione
causale delle scienze naturali e la comprensione fenomenologica (10).
Inoltre, come si è già detto nel corso del capitolo, la sua clinica è
intessuta
di
spunti
lacaniani;
in
questa
sede
può
essere
opportuno
ricordare che la tesi dell'irraggiungibilità della verità da parte del
linguaggio e del sapere consente di ricondurre Lacan ad una prospettiva
ermeneutica, in forza della quale nessun sapere può vantare una presa
esaustiva od un possesso ultimo della verità (11).
Dovrebbe essere chiaro, ormai, che la dimensione epistemologica del
discours di Olievenstein è tutt'altro che "ingenua" e per nulla lineare;
inoltre,
bisogna
ancora
aggiungere
che
la
sua
clinica
tende
a
non
obliterare l'orizzonte di "non detto" costituente lo sfondo del dicibile
e del conoscibile: il non detto dell'angoscia, della droga, dell'analisi,
della medicina, della scienza, etc. (12).
Aperto alle suggestioni speculative dello strutturalismo (in particolare
del primo Foucault, di Lévi-Strauss, Lacan e Althusser) e del cosiddetto
post-strutturalismo francese (con l'ultimo Foucault e l'ultimo Barthes,
Derrida, Baudrillard...)(13), Olievenstein sembra aver fatta propria, da
un lato, la concezione lacaniana dell'uomo "parlato" dall'inconscio (che
è linguaggio) e, d'altro lato, la configurazione della coscienza quale
"riflesso deformato" delle dinamiche inconsce che la producono; coscienza
"strutturata" da ciò che Foucault ha denominato l'impensato. In altri
termini:
l'uomo
è
agito
da
una
pluralità
di
"forze"
di
cui
non
è
consapevole, la dimensione costitutiva dell'individuo è sempre "altrove"
rispetto alla coscienza ed alla intenzionalità del soggetto (14).
Il discours di Olievenstein, dunque, è soprattutto dis-cursus: il
sincretismo teoretico, che si sostanzia nell'accostamento e nell'utilizzo
di punti di vista anche contraddittori (15), nella dissolvenza semantica
di un linguaggio (aperto all'indicibile) dai "vortici" talora babelici ed
incomprensibili, si risolve comunque in una clinica che tra intuizioni e
interpretazioni più o meno azzardate ed ipotesi ardite tratteggia un
originale percorso terapeutico (16).
Per
concludere,
soprattutto)
per
può
essere
Popper
il
"non
caso
di
sappiamo,
ricordare
possiamo
che
solo
(anche
tirare
e
a
indovinare... I soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la
natura
sono
le
idee
ardite,
le
anticipazioni
ingiustificate
e
le
speculazioni infondate" (17). Simplex non è sigillum veri, la certezza
del vero non è garantita dalla "semplicità" (delle sue scaturigini o dei
costrutti
realtà
esplicativi)
(18):
preparata
a
la
né
"percezione"
tavolino,
Letztbegründung,
il
cioè
del
per
linguaggio
non
può
cui
fondamento
costituisce
che
essere
l'ingenuità
ultimo
e
l'análogon
della
selettiva,
quasi
dei
della
cercatori
del
giustificazione
davvero giustificante un "risultato cognitivo", non può che comportare
molte delusioni (19). Sulle orme di Popper si può dire che "i fatti" non
hanno senso senza una loro interpretazione, valutazione e comprensione
generale (20). Le connessioni e i rapporti fra elementi di una qualche
"realtà",
determinato
infatti,
sono
problema;
cercati
l'orizzonte
ed
individuati
delle
in
funzione
aspettative,
più
di
o
un
meno
consapevoli, "gioca la parte di un quadro di riferimento: solo il loro
disporsi in questo quadro conferisce senso o significato alle nostre
esperienze, azioni e osservazioni" (21).
Nel dominio della Vorverständnis, della precomprensione che può recare
con sé l'incomprensione più radicale, è però evidente il rischio della
"semiosi illimitata" e dell'analisi che non genera altro che abissi di
non-senso: ogni dizionario contiene l'infinito, il rischio è attribuirlo
ad ogni espressione, ad ogni segno (verbale o meno)(22).
NOTE
(1) Nietzsche (1976, p. 299).
(2)In proposito cfr. Barthes (1979, pp. 5ss.).
(3) Il discorso di Olievenstein si snoda, ovviamente, nelle varie opere
citate nel corso del presente lavoro; in questa sede il riferimento
diretto è costituito dal Destino del tossicomane, ove a p. 86 è scritto:
"Occorre non attendersi da questo testo più di quanto esso possa offrire.
Si procede piuttosto per intuizioni che per dimostrazioni. Non si tratta
però di un testo filosofico o puramente speculativo carente di radici
cosiddette scientifiche, in quanto ha come base essenziale l'esperienza
clinica
fenomenologica
compulsiva
Inoltre
e
tale
(in
impulsiva...)
testo
ricava
particolare
e
la
l'apporto
sua
l'esplorazione
teorico
legittimazione
della
della
nevrosi
psicoanalisi.
dall'esperienza
del
dell'ermeneutica
la
Centro medico Marmottan".
(4) Cfr. Olievenstein (1984, p. 9).
(5)
Sugli
sviluppi
moderni
e
contemporanei
bibliografia è sterminata: cfr. ad es. Fornero (in Abbagnano, 1993, vol.
IV, tomo I, pp. 484ss.), Ruggenini (1992) e Vattimo (1994); per una
sintesi dell'evoluzione e degli esiti attuali della fenomenologia cfr. ad
es. Sini e D'Agostini (in AA.VV., Enciclopedia di filosofia, pp. 369371),
Galimberti
psicologia
(1992,
comprensiva,
voci:
fenomenologia,
esperienza,
analisi
esistenziale),
Cazzullo-Sini
vissuto,
(1984),
Borgna (1995, pp. 115ss.), D'Ippolito (1992), Calvi (1993, pp. 97-100);
per un approccio epistemologico in tema di psicoanalisi cfr. ad es. Hook
(1967), Grünbaum (1988), Cecchini (1990), Gellner (1993), Romano (1991);
per un recente sguardo panoramico su alcune grandi questioni riguardanti
"l'opacità dell'evidenza" e la necessità di una radicale reimpostazione
delle strategie cognitive cfr. Vozza (1990); per un'originale sintesi dei
tratti di fondo della filosofia della scienza contemporanea cfr. Schulz
(1986). Per un'analisi della teoresi molto interessante cfr. Robilant
(1990, pp. 21ss.) che, sulle orme del razionalismo critico popperiano,
sottolinea il carattere di costruzione artificiale delle teorie, volte a
procurare
una
"conoscenza
argomentata"
della
realtà
con
pretese
di
"universalità" almeno potenziale e in competizione con altre possibili
teorie alternative; le teorie hanno per oggetto "problemi" e possono
"almeno
parzialmente
essere
provate
false,
si
pongono
come
frutto
d'invenzione e sono composte di elementi "artificiali" (concetti, schemi,
categorie, modelli, etc.) che non si trovano nella realtà di cui la
teoria vuole procurare una conoscenza (la letteratura about the theory of
the theories è vastissima: cfr., anche per la bibliografia oltre che per
l'impostazione, Pera 1991). Un ultimo rilievo: come ricorda ad es. Berti
(1992, pp. 16ss.), la razionalità scientifica tematizzata e teorizzata
dall'epistemologia più recente, "proprio per il suo carattere ipotetico,
provvisorio, privo di fondamenti assoluti, è puramente formale e quindi
lascia fuori di sé le cose più importanti, cioè non solo i valori o, se
si preferisce, i fini... ma anche, come ha dimostrato Gödel, le sue
stesse premesse, cioè le ipotesi".
(6) Di Bataille si vedano (1975 e 1991), di Foucault le opere citate
nella
nota
13
(ove
sono
citati
altri
autori
ben
presenti
ad
Olievenstein); di Jaspers si veda quanto meno (1964), di Heidegger si
vedano
(1969,
1968
e
1973),
di
Merleau-Ponty
si
veda
(1972),
di
Binswanger si devono indicare almeno (1970 e 1973). Ancora, si possono
ricordare autori come Bachelard, citato alla nota 15, Deleuze e Guattari
(1975), Lyotard (1978).
Può essere utile, inoltre, riportare le parole di Borgna (1995, pp. 116117), secondo cui "al di là delle diverse articolazioni del pensiero
husserliano, heideggeriano e scheleriano, ma anche di quello bergsoniano,
è comune a ciascuna delle diverse fenomenologie l'esigenza di descrivere
senza scivolare in teoremi astratti, di vedere ciò che è nascosto in ciò
che è banale e quotidiano (in ciò che è ovvio: nel senso etimologico di
'ciò che viene incontro'), di vedere, ancora, ciò che è condizione di ciò
che è ovvio... La fenomenologia sconfina nell'ermeneutica, della quale
Heidegger dice di non aver più fatto uso dopo Essere e tempo".
(7) Si veda la nota 3.
(8)
Cfr.
Dilthey
diversità
tra
(1894,
scienze
pp.
della
143
e
natura
253)
e
secondo
dello
cui,
spirito,
il
postulata
la
concetto
di
esperienza non può essere assunto in modo univoco perché "di ogni oggetto
'si fa esperienza' in maniera adeguata alla sua natura".
Come noto, muovendo dalla (tuttora controversa) distinzione tra scienze
naturali e dello spirito Jaspers (cfr. ad es. 1964, p. 30) ha elaborato
una "psicologia comprensiva" fondata sulla distinzione tra Verstehen,
comprendere, ed Erklären, spiegare: "Impiegheremo sempre l'espressione
'comprendere' per la visione interiore di qualcosa dal di dentro, mentre
non chiameremo mai comprendere, ma 'spiegare', la conoscenza dei nessi
causali obiettivi che sono sempre visti dal di fuori". Come annota ad es.
Galimberti
(1992,
voce:
psicologia
comprensiva),
la
psicologia
comprensiva "ha legami con la distinzione introdotta da Windelband tra
metodo
idiografico
fenomenologica
della
e
metodo
psichiatria
nomotetico,
che
e
Binswanger
con
l'impostazione
inaugura
promuovendo
quell'analisi esistenziale che ricerca le modalità con cui ogni singolo
alienato declina il proprio modo di essere al mondo".
Può essere opportuno, in questa sede, ricordare ancora la distinzione
proposta da Rorty (1986, pp. 239ss., che peraltro critica la separazione
tra
scienze
della
natura
e
dello
spirito)
tra
ermeneutica
ed
epistemologia, dove "epistemologico" è quel tipo di pensiero che si muove
all'interno
terminologia
di
paradigmi
di
Kuhn
vigenti
(1978)
-
e
accettati,
della
facendo
"scienza
-
secondo
normale",
la
mentre
"ermeneutica" è l'incontro con un paradigma nuovo.
Cfr. anche, tra i tanti, Masullo (1995, pp. 9ss.).
(9) Per una sintesi cfr. Galimberti (1992, voce: vissuto), il quale
sottolinea che in questa prospettiva "l'esperienza vissuta dal singolo
non è separata dall'alterità, dall'ambiente e dal mondo in generale,
perché l'individuo non è assolutamente un mondo chiuso come sottintende
la
distinzione
naturalistica
tra
soggetto
e
oggetto
di
derivazione
cartesiana".
(10) Cfr. ad es. la sintesi di Galimberti (1992, voce: interpretazione):
"Come
la
spiegazione
(l'Erklären),
infatti,
l'interpretazione
psicoanalitica tenta di stabilire una connessione causale fra gli eventi,
e come la comprensione (il Verstehen), oltre a non essere suscettibile di
una verifica sperimentale, si situa nello spazio intersoggettivo del
rapporto analista-paziente" (dello stesso autore si veda anche la voce
sull'ermeneutica).
Tra
i
vari
contributi
sul
tema
si
devono
indicare,
quanto
meno,
Laplanche-Pontalis (1993, vol. I, pp. 261-264), Lacan (1974), Ricoeur
(1966),
Codignola
(1977)
e
Cecchini
(1990),
che
imposta
la
propria
analisi del concetto di interpretazione in Freud sottolineando che, se
solitamente di divide il suo pensiero in due fasi contraddistinte come le
due topiche, quando si ha a che fare con il concetto di interpretazione
conviene distinguere tre fasi: dal concetto di interpretazione (Deutung)
al
concetto
di
costruzione
(Kostruktion)
attraverso
l'elaborazione
(Durcharbeiten).
(11) Cfr. ad es. Lacan (1974 e 1953-1979); per un'introduzione filosofica
al suo pensiero nel contesto dello "strutturalismo" si veda Fornero (in
Abbagnano, 1993, vol. IV, tomo I, pp. 314ss. e 418ss.).
(12)
Cfr.
Olievenstein
(1990).
Ha
scritto
Foucault
(1976,
p.
225):
"Dopotutto, quale forma di sapere è abbastanza singolare, esoterica o
regionale da essere sata sempre in un solo punto e in una formulazione
unica?
Quale
conoscenza
è
nello
stesso
tempo
così
bene
e
così
mal
conosciuta da esserlo una sola volta, in un solo modo, e secondo un solo
tipo di comprensione? Quale immagine della scienza, sia pure coerente e
limitata, non lascia gravitare intorno a sé forme più o meno oscure di
coscienza
pratica,
mitologica
o
morale?
Ogni
verità
entrerebbe
in
letargo, se non vivesse in un ordine sparso e non fosse riconosciuta
soltanto per spaccati".
(13) Per una sintesi su strutturalismo e post-strutturalismo, cfr. ad es.
Fornero (in Abbagnano, 1994, vol. IV, tomo II, pp. 400ss. e 1993, vol.
IV, tomo I, pp. 314ss.); di Foucault si vedano in particolare (1967,
1969, 1972, 1976), di Lévi-Strauss si vedano (1966 e 1975), di Lacan le
opere citate nella nota 10, di Althusser si veda (1964), di Barthes si
vedano (1966 e 1974), di Derrida si vedano (1967 e 1971), di Baudrillard
si veda (1979).
(14) Cfr. ad es. Althusser (1964). Come ha osservato Ricoeur (1977, p.
253), lo strutturalismo tende ad assumere le sembianze di un provocatorio
"pensiero del di fuori", ovvero di una "anti-fenomenologia" che esige non
la riduzione alla coscienza, ma la riduzione della coscienza.
Per Foucault (1967, pp. 347ss.), con il sorgere dell'"episteme moderna"
non è più possibile far derivare l'io sono dall'io penso, in quanto il
cogito
si
trova
"imprigionato"
in
una
serie
di
"sedimentazioni"
(costituenti la "distesa sabbiosa del non-pensiero") che non possono mai
venir completamente attualizzate dal pensiero; l'uomo, in quanto vivente,
si trova nell'ambito di una vita che gli preesiste; in quanto lavorante,
si
trova
all'interno
di
un
terreno
sociale
preformato;
in
quanto
parlante, si trova nello spazio di un linguaggio già dispiegato. La
dissoluzione
dell'uomo-soggetto
(e
dell'uomo-coscienza)
si
compie
nel
dominio del linguaggio.
(15) In ciò si può forse ravvisare un'eco del pensiero di Bachelard (cfr.
ad es. 1942 e 1975), secondo cui non esiste "la scienza" ma si deve
parlare delle scienze, cioè dell'esistenza di una pluralità irriducibile
di saperi e di tecniche specifiche. Nel pensiero di questo autore, poi, è
centrale tra l'altro il concetto di "immaginario" che costituisce sia una
forma di conoscenza più profonda di quella tecnico-scientifica (perché
attinge a quegli stati dello spirito umano che questa non riesce a
modificare), sia il "fondamento intuitivo" delle concezioni che, mediate
e razionalizzate, entreranno a far parte del patrimonio delle scienze.
Per un'introduzione alla filosofia di Bachelard cfr. ad es. Geymonat
(1977, pp. 261ss.).
(16)
Può
essere
opportuno,
per
tentare
di
"restituire"
il
senso
dell'opera di Olievenstein, citare due passi di Borgna (1995, pp. 44 e
194): "In psichiatria non è possibile un discorso autentico e radicale
se non liberandoci con rigore spietato dalle abitudini di considerare i
fenomeni psicopatologici di una teoria, di un'immagine del mondo, di una
comune opinione; se non ascoltando i pazienti nell'immediatezza del loro
linguaggio e della loro angoscia senza pensare al 'sintomo' e, così, a un
determinato 'segno' di malattia". E ancora: "La sola cosa che si possa
fare,
è
quella
di
servirsi
di
un
linguaggio
allusivo
e
friabile,
discontinuo e sconfinante nell'indicibile, nel quale si intravvede almeno
qualcosa
di
quest'estraneità
e
di
quest'alterità.
Nulla
si
coglie,
invece, se il linguaggio è quello inaridito e desertificato dalla ragione
calcolante e dai ghiacci della riflessione scientifico-naturale".
(17) Cfr. Popper (1970, pp. 308-310).
(18) Sul linguaggio come rispecchiamento del mondo e sulla relazione,
fondamentale nella (nascita della) clinica medica come più in generale
per
"l'episteme
classica",
tra
percezioni
e
loro
descrizioni
linguistiche, cfr. Foucault (1967, passim; 1969, pp. 113-116 e 223-225):
"Lo sguardo del clinico e la riflessione del filosofo detengono poteri
analoghi,
perché
presuppongono
entrambi
una
struttura
d'oggettività
identica: in cui la totalità dell'essere si esaurisce in manifestazioni
che
ne
sono
manifesto
si
il
significante-significato;
congiungono
in
un'identità
in
cui
almeno
il
visibile
virtuale;
in
ed
il
cui
il
percepito ed il percepibile possono essere interamente restituiti in un
linguaggio la cui forma rigorosa ne enuncia l'origine".
(19) Sulla ricerca del fondamento ultimo cfr. Albert (1973, pp. 23ss. e
1987, pp. 69ss.), il quale, sviluppando le tesi popperiane, nota che la
ricerca di un punto d'appoggio sicuro della conoscenza porta ad una
triplice situazione aporetica ("trilemma di Münchhausen", con riferimento
alle peripezie del noto barone): regresso all'infinito, circolo vizioso
nella deduzione, interruzione arbitraria del procedimento fondativo ad un
certo punto; l'esito non può che essere il dogmatismo (contra, peraltro,
cfr. Apel, 1992). Tra i tanti, cfr. anche Gargani (1975) e Gellner (1992,
pp. 34 e 136) il quale, a proposito di regressio ad infinitum, scrive che
"come disse André Gide in uno dei suoi romanzi, quando incontri il
Creatore, come puoi sapere che è quello vero?".
Per
alcune
interessanti
dell'esperienza"
e
di
annotazioni
"realismo"
in
tema
di
della
scienza
nell'ambito
"costruzione
si
veda
Robilant (1983, pp. 57ss.), già citato alla nota 5. Cfr. anche Goodman
(1978, pp. 1ss.), il quale rimarca che "non esiste occhio innocente" in
quanto la percezione è connotata da "selezione" e "classificazione" che a
loro
volta
si
sono
determinate
attraverso
un
complesso
di
eredità,
abitudini, preferenze, predisposizioni e pregiudizi; "mondi a non finire"
fabbricati
con
l'uso
dei
simboli:
così,
dice
Goodman,
si
potrebbe
riassumere l'opera di Cassirer i cui temi - "la molteplicità dei mondi,
l'apparenza del 'dato', il potere creativo dell'intelligenza, la varietà
e la funzione formativa dei simboli - sono parte integrante del "modo di
vedere" goodmaniano (che, a differenza ad es. di Popper, considera la
teoria della verità come corrispondenza di Tarski piuttosto "nebulosa", e
parla non di verità ma di "correttezza" delle versioni del mondo che
resistono alla critica fino a quando non infrangono nessuna di quelle che
in un dato momento sono "credenze sostanziali"). In termini simili cfr.
Putnam (1985, pp. 3ss.), teorico di un "realismo interno" che propugna
una concezione della verità che, "almeno nello spirito, si rifà alle idee
di Immanuel Kant: essa sostiene che è possibile rifiutare una semplice
concezione
della
verità
come
'copia'
senza
dover
necessariamente
sostenere che è tutto una questione di Zeitgeist, di cambiamenti di
Gestalt o, semplicemente, di ideologia"; in un passo molto citato Putnam
ha
scritto:
"Proporrò
una
tesi
per
la
quale
la
mente
non
'copia'
semplicemente un mondo che può essere descritto da un'Unica teoria vera.
La mia tesi, però, non sostiene neppure che la mente costruisce il mondo
(né lo costruisce sottomessa a vincoli imposti da 'canoni metodologici' e
da
'dati
linguaggio
sensoriali'
indipendenti
metaforico,
diremmo
che
dalla
la
mente).
mente
e
il
Volendo
mondo
usare
un
costruiscono
insieme la mente e il mondo" (ed è evidente quanti rischi corra Putnam di
cadere sulle stesse posizioni di "irrealismo soggettivistico" di un Rorty
o di un Feyerabend o di un Derrida").
Per tornare a Popper (1986, vol. II, pp. 304-305), si ricordi che "siamo
liberi di scegliere qualche forma di irrazionalismo, anche qualche forma
radicale o assoluta. Ma siamo liberi di scegliere anche una forma critica
di razionalismo, quella che riconosce francamente i suoi limiti e la sua
derivazione da una decisione irrazionale (e, pertanto, una certa priorità
all'irrazionalismo)". Per Bartley (1987, pp. 208-209) oltre a Popper si
possono
definire
Wittgenstein:
razionalisti
tuttavia,
"il
critici
tipo
di
anche
Nozick,
razionalismo
Quine,
critico
Rorty
oggi
e
più
importante - e che differisce per importanti aspetti da quelli appena
discussi - è senz'altro quello proposto da Sir Karl Popper"; teorico del
razionalismo pancritico, secondo cui nulla può essere giustificato mentre
tutto
può
essere
criticato,
Bartley
(1990,
pp.
160-171)
scrive
che
"invece di postulare infallibili autorità intellettuali che giustifichino
e garantiscano le nostre asserzioni, potremmo tentare di costruire un
programma
filosofico
per
contrastare
e
neutralizzare
gli
errori
intellettuali)" e, inoltre, sottolinea che il razionalismo pancritico è
compatibile con un certo tipo di relativismo: "La sopravvivenza di una
qualsiasi asserzione è relativa al suo successo nel superare le critiche
più severe". Bartley (1985, p. 18), poi, avendo ben presente le infinite
conseguenze (inintenzionali) delle teorie come delle azioni dell'uomo, ha
più volte sottolineato di aver appreso da Popper "che noi non sappiamo
mai di che cosa stiamo parlando" e da Hayek "che noi non sappiamo mai che
cosa stiamo facendo" (di Hayek cfr. quanto meno 1990, ove riconosce
l'intrinseca
limitazione
della
razionalità
umana
argomentando
l'impossibilità di una piena autocomprensione della mente; conclusione
che Hayek cerca di far fruttare in molteplici ambiti: dalla ricerca sul
cervello
umano
a
quella
sui
sistemi
di
mercato
o
sulle
strutture
sociali).
(20) Sulle orme di Popper... e non di Gadamer o di qualche "ermeneuta"
(più o meno "debole" o flebile), anche se bisogna ricordare che la
disputa sulle differenze o meno tra razionalismo critico ed ermeneutica è
aperta.
(21) Cfr. Popper (1983, p. 451).
(22)
Rischio
che
è
tale,
cioè
connotato
negativamente,
solo
(o
soprattutto) per chi si indirizza verso una concezione delle attività
conoscitive
crinale,
che
quanto
comunque
meno,
postuli
corre
il
un'idea-guida
confine
tra
di
verità:
razionalismo
su
questo
critico
ed
ermeneutica.
Può essere opportuno ricordare, con le parole di Vattimo (1994, p. 12),
che se l'ermeneutica "fosse solo la scoperta del fatto che ci sono
prospettive diverse sul 'mondo' o su 'l'essere', risulterebbe confermata
proprio la concezione della verità come rispecchiamento oggettivo di
stati
di
cose
(in
questo
caso,
del
fatto
che
ci
sono
molteplici
prospettive...), che invece la filosofia dell'interpretazione respinge".
Sulle
teorie
della
verità
(coerenziali,
pragmatiste,
della
corrispondenza, semantiche, della ridondanza semplice, operativa, etc.,
si vedano ad es. Haack (1993, pp. 112ss.) e Schaff (1959).
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