Le stelle di Joshua. Joshua aprì gli occhi cisposi sul
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Le stelle di Joshua. Joshua aprì gli occhi cisposi sul
Le stelle di Joshua. Joshua aprì gli occhi cisposi sul buio della stanza. Si alzò a sedere sulla branda sgangherata, che cigolò mestamente sotto il suo peso leggero. Era la terza notte che tornava il sogno delle stelle, e insieme alle stelle era arrivata anche la voce. Questa volta era più forte, quasi disperata. L’angoscia di quella voce incrinava il canto muto degli astri che galleggiavano nell’oceano nero e pulsante del sogno. La voce lo chiamava e gli chiedeva aiuto. Ma che aiuto avrebbe potuto portare alle stelle, un piccolo uomo aggrappato su un sasso rotondo ? Eppure la voce lo chiamava, ne era sicuro, perché anche adesso che era sveglio continuava a sentirla, anche se le stelle erano morte con il sogno, e intorno a lui era rimasto solo il buio pecioso della piccola stanza senza finestre. Joshua cercò a tentoni la scatola di fiammiferi e accese il mozzicone della candela. Un globo giallo e malaticcio rese visibile quel poco che c’era da vedere. I suoi vestiti logori e grigi ripiegati sulla seggiola, la tinozza di metallo arrugginito in un angolo, la stufetta a kerosene, la valigia sfasciata in cui teneva tutto il poco che lo seguiva da anni. E Buck, naturalmente. Buck aprì gli occhi e lo guardò, come guardano i cani quando non capiscono, ansiosi di sapere dall’uomo quello che ci aspetta da loro. La voce risuonava nella testa sempre più disperata. Aiutami. Joshua si alzò dal letto e si infilò nei suoi stracci. Andò alla porta e l’aprì. Fuori c’erano solo i campi abbandonati, infestati dalle erbacce ingiallite dalla luna. - Aiutami.. Dove sei ?, disse Joshua alla notte. Non lo so. Vicino. Joshua percorse qualche metro. Sentì l’erba muoversi alle sue spalle e sussultò; si voltò e vide gli occhi gialli di Buck bucare il buio dietro di lui., come piccoli fanali perplessi e zelanti - Torna dentro, Buck. Il cane uggiolò deluso e tornò sui suoi passi. - Aiutami, implorò di nuovo la voce. Dimmi dove sei Non lo so. E’ buio. Sei morto ?, chiese Joshua. No. Ma lo sarò presto, se non mi aiuti. Cosa senti intorno ? Qualcosa che scorre. Lentamente. Potrebbe essere acqua ? - Sì. Joshua camminò verso il canale. Nel buio la striscia d’acqua era solo un nastro nero e tranquillo tra le due rive. Questa volta era più vicina. - Sei nel canale ? Forse. Non sono sicuro di cosa sia un canale. Joshua percorse lentamente la riva. Non scorgeva altro che l’acqua nera e morta del fosso, ma la voce dentro la sua testa si fece più nitida. - Sei più vicino, disse la voce. Non posso vederti, dentro l’acqua. Devi trovare il Guscio. Un guscio nell’acqua ? Sì. E’ grande, questo guscio ? Sì. Joshua raccolse un paletto di metallo divelto che aveva fatto parte della recinzione che separava il canale dalla strada , da tempo caduta a pezzi. In piedi sull’argine, smosse le acque con la pertica improvvisata. Avanzò di qualche metro e ripeté l’operazione. Il paletto di metallo urtò altro metallo. - Hai colpito il Guscio ! disse la voce - Adesso devi aprirlo. Come lo apro ? C’è una rientranza nel Guscio. Premila. Ma è dentro l’acqua. Puoi entrare nell’acqua ? Joshua misurò con la pertica la profondità del canale. Un metro e mezzo al massimo. Si immerse nelle acque nere e vischiose. L’acqua putrida gli inzuppò i vestiti fino alle ascelle. Fece qualche passo, camminando sul fondo; nell’acqua limacciosa era immerso qualcosa di vagamente sferico, grande forse come un frigorifero. - Cerca la rientranza. L’acqua sta iniziando a penetrare. Joshua percorse con i palmi delle mani la superficie perfettamente liscia dell’oggetto sommerso, girandogli intorno. A un tratto la sua mano incontrò un incavo largo quanto un pugno. Vi infilò la mano e premette. Qualcosa si mosse all’interno della rientranza. Seguirono uno schiocco ed un sibilo, poi una piccola cupola spuntò sopra il pelo dell’acqua e si aprì. L’acqua del canale iniziò a entrare nell’oggetto sommerso. Per un momento non accadde nulla e la voce rimase silenziosa. Poi, in corrispondenza con la cupola aperta, apparve una forma scura e imprecisa. - Prendimi - disse la voce nella testa di Joshua. Joshua allungò le braccia verso la massa amorfa. Le sue dite incontrarono qualcosa di molle e palpitante. Joshua pensò a un enorme cuore messo a nudo, e trasse a sé quella vita viscida. Aveva più o meno le dimensioni ed il peso di Buck, e anche i suoi muscoli fiacchi potevano reggerla senza troppo sforzo. Come prendere in braccio un bambino, pensò Joshua. Tornò alla baracca e posò la creatura sul pavimento di terra battuta. La luce oscillante della candela illuminò una gigantesca lumaca sgusciata. O almeno era ciò l’essere allungato sul pavimento fece venire in mente a Joshua. L’uomo cercò qualcosa che assomigliasse ad una faccia; pensò di averla trovata quando si imbatté in due globi, neri e luccicanti, che immaginò essere occhi. Se quegli occhi guardavano qualcosa, adesso stavano guardando lui. - Cosa sei ?, chiese Joshua. Un viaggiatore, gli rispose la voce nella testa. Da dove vieni ? Da un posto lontano nel tempo e nello spazio. Tanto lontano che forse non c’è più. Come fai a parlare nella mia testa ? Anche tu parli nella mia. Non mi piace che mi leggi i pensieri, disse Joshua – ci sono cose che preferisco tenere per me. Mi dispiace. Non posso evitarlo. Sei tu che mi mandi le stelle nei sogni ? Sì. Cercavo di chiamarti, ma non conoscevo ancora le parole giuste. Tu non capivi. Così ti mandavo le stelle. Esistono davvero, quelle stelle ? Sono i miei ricordi. Quello che ho visto mentre viaggiavo. Non avevo mai visto niente di bello come quelle stelle. L’universo è disseminato di stelle meravigliose. E di pianeti ancora più belli delle stelle. Allora tu sei arrivato proprio su quello sbagliato, disse Joshua. Ci sono caduto per caso, rispose la creatura. E’ successo anche a me, disse Joshua. Sei anche tu un viaggiatore ? No. Io qui ci sono nato. Non capisco… Lascia perdere. Non è importante. Joshua si tolse gli abiti zuppi dell’acqua limacciosa del canale. Accese la piccola stufa a kerosene nell’angolo della baracca, vi avvicinò l’unica seggiola della stanza e ci mise sopra i vestiti bagnati. Mentre lo faceva, sentì il respiro di Buck. Il vecchio cane stava annusando la creatura sul pavimento, e qualcosa che terminava con una specie di pungiglione aveva iniziato ad estroflettersi lentamente dal corpo dell’essere. Il pungiglione puntava verso il naso del cane. - Buck ! Lascialo stare e vai a cuccia. Il cane guardò Joshua e andò ad accucciarsi sul suo straccio nell’angolo opposto della baracca. La cosa appuntita si ritirò e sparì di nuovo dentro il corpo della creatura. - Ce l’hai un nome, almeno ?, chiese Joshua. Non come lo intendi tu. Allora ti chiamerò Mosè, se non ti spiace. - Mosè ? Il salvato dalle acque, disse Joshua. Cosa vuoi dire? Niente. Vorrei sapere piuttosto cosa dovrei fare con te, adesso. Non lo so. Non posso tenerti qui. Lo capisci, vero ? Non c’è spazio... Me ne serve poco… Potresti essere pericoloso, per quanto ne so. Perché dovrei farti del male ? Sarei morto, senza di te. Magari sei il primo di un’invasione aliena. Non capisco cosa dici. Magari sei anche velenoso. Quella spina che stavi cacciando fuori… E poi immagino che dovrei darti da mangiare, e il cibo costa. Senza contare che devo già pensare a Buck, che è vecchio e mezzo rimbambito. La creatura non disse niente, ma Joshua sentì un’ondata di angoscia non sua scivolargli in testa. - Immagino che dovrò chiamare qualcuno perché si occupi di te. Chi ? La polizia, credo. Ma non verranno di certo, se li chiamo io. Forse dovrei portarti io da loro. Beh, comunque non devo deciderlo adesso. Ci penserò domani a cosa fare con te. Va bene. Ma prima lasciami restare qui almeno per un po’. Perché vuoi restare qui per un po’ ? Perché qui mi sento bene. Va beh… Vedremo. Joshua si ributtò sulla branda, spense con le dita la fiamma della candela e il suo mondo ritornò nell’oscurità. Si riaddormentò, e le stelle brillarono di nuovo nell’ultimo sogno prima del risveglio. Il mattino era del colore della polvere, dal cielo scendeva una pioggia aguzza e Joshua si era messo addosso il telo di plastica che gli faceva da impermeabile. Salì sul carretto a pedali e Buck montò con un salto spossato sul cassone anteriore. Joshua pensò che il cane non ci sarebbe riuscito ancora per molto. Presto avrebbe dovuto lasciarlo a casa e farsi i suoi giri da solo. Pedalò accanto alla riva del fosso, lungo la strada abbandonata che tagliava i campi. Non riuscì a ritrovare il punto dove aveva ripescato Mosè. Ma l’acqua era una tavola di del fango, e nella notte il livello si era alzato per la pioggia. Dall’altra parte del canale il camino della vecchia centrale nucleare, il templio eretto al dio dell’energia e bandito dall’apostasia della paura, tagliava il cielo di piombo come un colpo di mannaia. Dalla via che tagliava campi riconquistati dalle erbacce e costellati dai rifiuti sbucò sulla strada che portava alla periferia della città. Pedalò per quasi due ore, cercando sempre di stare il più possibile a destra. Le prime auto del mattino lo sorpassavano cattive, indispettite dalla sua esistenza sulla strada, schizzandolo di fango e implicite maledizioni. Arrivò ai bordi della città quando ancora quasi tutti dormivano. Metodicamente, iniziò il suo quotidiano vaglio dei ricettacoli dell’immondizia cittadina. Il raccolto più prezioso erano bottiglie e lattine. Il centro di raccolta del dipartimento per il riciclaggio li pagava 5 centesimi l’uno. Ma c’era tutto quello che la città gettava via per noia, abbondanza o capriccio. Hamburger appena morsicati, pane quasi fresco, cartocci di patate pieni ancora a metà. E scarpe, vestiti, mozziconi di sigarette fumate a metà. Verso mezzogiorno il carretto era pieno di bottiglie e lattine, stipate dentro i grandi sacchi di plastica trasparente distribuiti dai centri del dipartimento per il riciclaggio. Pedalò fino al centro e consegnò a un addetto svogliato i sacchi del raccolto. L’uomo li pesò, fece un rapido calcolo mentale e diede a Joshua quanto gli spettava, stando attento a non toccarlo. Durante la consueta transazione nessuno dei due disse una parola. A quell’ora la vescica di Joshua necessitava di essere svuotata. Si diresse verso il bar della stazione, dove nessuno faceva troppo caso a lui e il padrone gli lasciava anche usare il cesso. Lasciò il carretto a pedali davanti alla vetrina lurida del bar, ricoperta di ombre appiccicose che un tempo erano state messaggi pubblicitari. Prima di entrare nel cesso ordinò il suo solito pranzo: un bicchiere di latte. Gli costò un quarto del ricavato della giornata. Lo bevve lentamente, in piedi al bancone, accanto a uomini troppo occupati dai loro affanni anche solo per notarlo. Quando ebbe finito sgusciò dal bar come un ladro. Sulla strada due ragazzini stavano tormentando Buck. Uno di loro, grasso e sghignazzante, sventolava davanti al naso del cane la punta di un bastone. Il vecchio cane, mezzo cieco, ringhiava e cercava di afferrarlo con i denti. Il ragazzino grasso glielo sbatté sul muso, facendolo guaire di rabbia e di dolore. L’altro ragazzino, lungo e stropicciato come uno spaventapasseri, rise e incitò il ragazzino grasso a colpire più forte. - Lasciate stare il mio cane, gridò Joshua. Ah, è tuo questo cadavere di cane ? - rispose il grasso – certo che insieme fate una bella coppia di carcasse. Il ragazzino colpì di nuovo il cane, questa volta più forte. Buck abbaiò, disperato e furioso. - Ti ho detto di lasciarlo in pace. Non ti ha fatto nulla, urlò Joshua. Raccolse una pietra, poco più grande di una noce, e la scagliò verso il ragazzo grasso. Lo colpì sul petto. Brutto stronzo ! – urlò cattivo il ragazzo grasso. Ma io ti spacco la faccia, pezzente ! – I due smisero di occuparsi del cane e avanzarono verso Joshua a muso duro. Nella mano del ragazzo grasso luccicava la lama di un coltello. Joshua cercò qualcosa per difendersi. L’unica cosa che trovò fu il bidone dell’immondizia appoggiato al muro. Afferrò il coperchio metallico come uno scudo e si preparò a vendere cara la pelle. - Lasciatelo perdere – urlò un operaio del gas, sbucando da un tombino aperto dall’altra parte della strada. Questo bastardo mi ha preso a sassate, adesso me la paga ! – rispose il ragazzo grasso. Io se fossi in voi gli starei lontano. Quello è il matto che vive vicino alla vecchia centrale nucleare. Il ragazzo lungo fece subito un passo indietro, ma il grasso non aveva ancora capito. - E con questo ? Io gli rompo la faccia. Vieni via ! – disse il ragazzo lungo – questo stronzo è radioattivo ! Il grasso arretrò immediatamente, il coltello sparì in una tasca. Joshua montò sul carretto a pedali e si allontanò in fretta, inseguito dagli insulti che gli atterravano sulla schiena come sassi. L’operaio del gas era uscito dal tombino buca e si era avvicinato ai ragazzi. - - - Quello è contaminato, non so nemmeno perché gli permettano di andarsene in giro – disse l’operaio, accendendosi una sigaretta – vive in una baracca vicino al canale di scolo della vecchia centrale. Eppure lo sanno tutti che quando la centrale funzionava in quel fosso ci finiva dentro l’acqua radioattiva. Ho sentito delle storie, su quel canale – disse il lungo, grattandosi il mento – tipo che ci hanno trovato dei mostri del cazzo. Non sono storie, lì dentro ci hanno pescato di tutto. Rospi grossi come polli e ratti con tre teste. E pesci strani, che nessuno aveva mai visto prima – disse l’operaio del gas, soffiando fumo azzurro dalle narici. Quel canale è impestato dalla merda radioattiva della centrale, ve lo dico io. Quel bastardo viene qui a contaminarci tutti – mugugnò rabbioso il grasso – dovrebbero arrestarlo. O dargli direttamente fuoco, disse il ragazzo lungo. L’operaio del gas alzò le spalle, fece una smorfia che poteva significare qualsiasi cosa e si allontanò, la borsa degli attrezzi a tracolla che ondeggiava sconsolatamente sul blu della tuta, come una barca ormeggiata in un mare stinto. Quando rientrò nella baracca non lo vide, e pensò di essersi sognato tutto. Forse era davvero pazzo come diceva la gente. Poi sentì nella sua testa la voce che diceva “sono qui”, e insieme alla voce gli fluì in corpo qualcosa che assomigliava ad un senso di sollievo. Non capì se era il suo o quello dell’ospite. Mosè strisciò lentamente fuori da sotto la branda; alla luce del giorno la sua pelle grinzosa appariva bluastra più che grigia, screziata da sfumature livide. I globi neri degli occhi erano fissi su di lui. Joshua posò a terra un sacchetto di plastica. Tirò fuori la vaschetta del Mac Donald, l’aprì e l’allungò il mezzo hamburger verso la creatura. - Mangia, Mosè, - disse Joshua. Non posso, gli rispose la voce di Mosé nella testa - io non mangio queste cose. E cosa mangiavi, quando eri nello spazio ? Sulla nave non avevo bisogno di mangiare. Mi nutriva lei. Sì, ma adesso ? Mi serve qualcos’altro. Che cosa ? Qualcosa che sia ancora vivo. Qualcosa che sia ancora vivo ? - Sì. Anche piccolo. Non mi serve molto. Questo rende tutto più complicato – disse Joshua, addentando la polpetta di carne già marchiata da denti sconosciuti. Mi dispiace. Va beh, vedremo cosa si può fare. Per oggi dovrai digiunare. Joshua finì di mangiare, si spogliò e si sdraiò sulla branda. Era presto, ma si sentiva esausto. Ripensò ai due ragazzi che tormentavano Buck. Loro erano qualcosa di vivo che avrebbe potuto sfamare il suo ospite. Ma era solo un pensiero cattivo, non lo avrebbe mai realizzato, se anche ne avesse avuto la possibilità. Lui non era un assassino e non lo sarebbe mai stato. I suoi erano sempre stati peccati di un altro tipo. Si addormentò, e con il sonno arrivarono le stelle. I globi infuocati erano più vicini e nitidi di quanto lo fossero mai stati in tutti gli altri sogni, e questa volta c’erano anche i pianeti. Palle di roccia tagliate da montagne di altezze inconcepibili, grumi gassosi in cui i colori di tutto l’universo si rincorrevano sfumando l’uno nell’altro, sfere nere lisce come vetro, mondi bianchi coperti da sterminati oceani di ghiaccio. Fu un buon sonno. Il giorno successivo Joshua tornò dal suo giro con un pollo vivo, legato per le zampe al manubrio del carretto. Gli era costato più del guadagno dell’intera giornata. Entrò nella baracca e mise il pollo a terra. Mosè si avvicinò all’animale, estroflesse il tentacolo appuntito e glielo conficcò in gola con un movimento troppo veloce per essere visto dall’occhio umano. Il pollo si immobilizzò. Un minuto dopo era rimasto solo un sacchetto di pelle vuota e rinsecchita, coperto di piume. - Cristo Santo - disse Joshua. Mi dispiace se ti ha disturbato, disse Mosè. No. Va bene. Ogni quanto devi fare questa cosa… mangiare, insomma ? Ogni tre o quattro giorni sarà sufficiente. Un pollo due volte alla settimana era un lusso. Avrebbe dovuto raccogliere più lattine e bottiglie vuote. - - Dovrei portarti da qualcuno che possa aiutarti. Nessuno mi può aiutare qui dove sono. Forse un giorno verranno a riprendermi, se hanno ricevuto il mio segnale. Dalle stelle ?, chiese Joshua. Sì. Quando la nave è stata colpita dal meteorite, è partito un segnale. A volte viene raccolto da un’altra nave. Altre volte viaggia nello spazio per milioni di anni, senza che nessuno riesca mai a sentirlo. Insomma, ci vuole un po’ di fortuna, perché qualcuno ti ascolti. Credo si possa dire così. - E’ sempre una questione di fortuna. Tu finora non ne hai avuta troppa. Sei capitato nella casa più miserabile che potessi trovare su questo pianeta. Tu mi hai tolto dall’acqua e mi hai nutrito. Era l’unica cosa che importasse. Non potrò aiutarti a lungo. Io sono solo. Sono vecchio. Forse sono anche pazzo. Ho guardato a lungo la tua solitudine. Adesso sei solo, ma ho visto altre persone, dentro di te. Una donna, dei bambini. Erano importanti per te. Erano la mia famiglia. Dove sono adesso ? Joshua scrollò le spalle. - Non lo so. Li ho persi tanti anni fa. - - Sono morti ? No. Sono morto io per loro. Non capisco. E’ quando è come se tu non ci fossi più per gli altri. Ma tu ci sei. Non per loro. Ah. Me ne sono andato via. Perché ? Perché ero infelice. Sai cos’è la depressione ? No. E’ quando ti passa la voglia. Di cosa ? Di tutto. Non vuoi nemmeno più che arrivi il giorno dopo. Stai male, e la cosa peggiore è che ti ci abitui. Ma gli altri non possono mai abituarsi davvero alla tua sofferenza. Vorrebbero aiutarti, ma non possono fare niente. Così finiscono per odiarti, perché gli ricordi che sono impotenti, che neanche tutto il loro amore ti può salvare. E quando scopri che non serve a niente, anche l’amore muore. Nessuno ne ha colpa, ma la vita diventa lo stesso un inferno. Così qualcuno se ne deve andare. Io sento ancora dolore in te, Joshua. E sento amore per loro. Ti sbagli. Quelli che senti sono solo dei ricordi. Io non sento più niente da tanto tempo. Aveva perso il conto dei giorni passati da quando aveva salvato Mosè dalle acque del canale, eppure non si era ancora deciso a chiamare nessuno. In fondo, Mosè non gli dava un gran fastidio. Doveva solo portargli un pollo ogni tanto, e ormai si era abituato ai suoi pasti cruenti. E poi Mosé gli aveva portato in casa le stelle. Da quando era arrivato, le vedeva tutte le notti, e non erano mai le stesse. Ogni volta era una scheggia diversa di un universo possente e prefetto, affrancato dalla dolorosa coscienza dell’uomo. Mosè aveva visto tutta quella perfezione cosmica e l’aveva portata da lui. Per raccoglierla, doveva avere viaggiato per migliaia di anni, prima di cadere nel fosso davanti alla sua sudicia catapecchia. Quella sera, quando ritornò dal suo giro, sentì all’improvviso una nuova gioia. Ma non era sua, era la gioia di Mosè. - Che cosa è successo, domandò sedendosi sulla branda. Hanno raccolto il segnale, rispose Mosè. - - Verranno a prenderti. Sì. Una nave è già in viaggio. Manderanno un Guscio a raccogliermi. Ci vorrà molto tempo, immagino… No. Succederà presto. La nave era vicina. Ho avuto fortuna, questa volta. Come faranno a trovarti, sulla Terra ? Dentro di me ho un segnalatore. Quando il Guscio sarà più vicino, mi sentirà. Ah. Sei triste, Joshua. No, al contrario. Sono contento per te. Ma sei anche triste. Ti sbagli. Era ora che tu ne andassi. Mi costi un sacco di soldi. Lo sai quanto costa un pollo, in quanta immondizia devo frugare, per pagarne uno ? E poi quel modo disgustoso in cui ti nutri. Hai idea di quanto sia rivoltante, per me ? No, Joshua, io… No, tu non sai niente. Tu non sai un cazzo di niente, di come si vive su una palla di fango. E adesso lasciami dormire, io mi sveglio all’alba, per procurarti i tuoi polli. Stava tornando dal suo solito giro quotidiano, quando li vide. Il ragazzo grasso stava cercando di forzare la porta con una sbarra di ferro, e ce l’aveva quasi fatta. Quello lungo, lo spaventapasseri, teneva in mano una bottiglia piena di benzina. Volevano dare fuoco alla baracca, forse pensavano che lui fosse dentro. Dentro invece c’era solo Mosè. Joshua si mise a correre verso la baracca. Buck, senza capire, saltò giù dal carretto e lo seguì abbaiando. Joshua inciampò, cadde, si rialzò. Intanto il ragazzo grasso aveva avuto la meglio sulla porta e stavano entrando. Joshua urlò, bestemmiò e li maledisse mentre continuava a correre come non credeva che avrebbe mai potuto correre. Era quasi arrivato, quando il ragazzo grasso schizzò fuori dalla baracca e gli finì addosso. Caddero entrambi a terra, ma il ragazzo grasso si rialzò per primo, mentre lo spaventapasseri li sorpassava correndo come se lo inseguisse il demonio. - Brutto schifoso - urlò il ragazzo grasso a Joshua - hai un mostro radioattivo, in quella tana di merda ! Il ragazzo grasso riprese la sua fuga e Joshua corse dentro la baracca. Mosè era lì, nel mezzo del pavimento di terra battuta. Gli stava dicendo che andava tutto bene. - Ti hanno fatto del male ? domandò Joshua a Mosè. No, non ne hanno avuto il tempo. Come hai fatto a farli scappare ? Gli ho messo in testa un pensiero. Che pensiero ? Uno molto brutto. Da come correvano doveva esserlo di sicuro. Joshua si sedette sulla branda, mentre Buck, che non certo di quello che fosse successo, si guardava intorno nervoso, spalancando preoccupato gli occhi appannati. - Ti hanno visto – disse Joshua passandosi una mano tra i capelli impastati di sporcizia. Sì, mi hanno visto. - - Andranno a dirlo a qualcuno. Diranno che tengo un mostro radioattivo in casa. Che cosa vuol dire ? La Centrale nucleare adesso non funziona più, ma dicono che abbia contaminato le acque del fosso in cui ti ho trovato. E’ per questo che qui non ci viene mai nessuno. Raccontano storie di animali strani, mutanti, ripescati da quel fosso. E sono storie vere ? Qualcosa di vero c’è, ma la gente esagera sempre. Le piace spaventarsi con quello che non può farle male davvero. Pensi che mi verranno a cercare ? E’ possibile, Mosè. Cosa mi faranno ? Non lo so. Ma forse non succederà. Successe dopo due giorni. Arrivò un’auto del dipartimento per l’ambiente e ne scesero un uomo e una donna. La donna aveva lo sguardo stupido e un taglio di capelli raffazzonato. L’uomo era magro, il ventre prominente di chi mangia male e gli occhi acquosi. Bussarono alla porta della baracca, tre colpi secchi e perentori. - Cosa volete ? – chiese loro Joshua, rimanendo sull’uscio. Ci hanno detto che lei tiene un animale mutato dalle radiazioni dentro casa – disse la donna – dobbiamo vederlo subito. Vi hanno preso in giro, l’unico animale qui è il mio cane, e vi assicuro che non è mutato, ma solo vecchio - rispose Joshua. Può darsi, ma dobbiamo controllare. In casa mia non entra nessuno. Questa non è casa sua. E’ una vecchia baracca di cantiere che lei occupa abusivamente – Adesso ci abito io e voi non entrate – ribatté duro Joshua. La donna fece per ribattere, ma invece di parlare fece una smorfia di paura, come se di colpo si fosse ricordata di una disgrazia imminente. Anche gli occhi acquosi dell’uomo che era con lei baluginarono di una angoscia improvvisa. I due si guardarono, cercando reciproco soccorso, ma l’improvvisa ansia che sentivano crescere dentro di loro ogni istante che passava aveva ormai preso il sopravvento su ogni altra cosa. Entrambi volevano solo andarsene da lì, e così decisero di fare. - Noi adesso ce ne andiamo, ma domani torniamo con la polizia. E vedremo se rifiuta ancora di farci entrare. Saltarono in macchina e se ne andarono come se alle loro spalle una bomba stesse per esplodere. Quella notte Joshua mise tutto ciò che aveva, e non era molto, sul carretto a pedali. Poi prese in braccio Mosè e lo avvolse nella sua vecchia coperta. Lo depose delicatamente sul carretto e lo coprì con un il telo che usava come impermeabile. Buck gli si accucciò accanto. Pedalò per ore, lasciandosi dietro tutto ciò che era rimasto della sua vita. Iniziò presto a piovere, una pioggia grassa e nera che inzuppò Joshua, i suoi passeggeri e tutte le sue cose. Con la pioggia arrivò anche il primo vero freddo dell’anno, e gli si infilò subito sotto la pelle. All’alba arrivarono nei pressi di una discarica di rifiuti dove Joshua, ogni tanto, andava a rifornirsi di ciò che non trovava nell’immondizia della città. Vecchi vestiti, borse, scarpe. Anche la sua branda veniva da quella miniera abusiva. Vicino alla discarica c’era un terrapieno, attraversato da un canale di scolo grande abbastanza per potercisi sistemare. Si rifugiarono tutti e tre nel buco di cemento, fradici e infreddoliti. Solo allora Joshua si rese conto che da troppo tempo non sentiva in testa la voce di Mosè. Lo tolse dalla coperta. La carne morbida e bluastra di Mosè era diventata scura e rugosa; emanava una debole aurea di rassegnata sofferenza che lambiva la mente di Joshua. - Mosè ! Cosa succede ?, disse Joshua proeccupato. Il freddo, rispose fioca la voce mentale di Mosè. Stai male ? Sì. Ho bisogno di calore. C’era la stufetta a kerosene, ma quel poco che era rimasto all’interno era colato fuori quando l’aveva caricata sul carretto. Joshua andò nella discarica. Si mise forsennatamente a cercare qualcosa che potesse bruciare, ma la pioggia cadeva da ore, e tutto quello che gli capitava tra le mani era zuppo d’acqua. Dovette scavare a fondo nei rifiuti, per trovare vecchi stracci e pezzi di legno ancora abbastanza asciutti da poter prendere fuoco. Tornò nel tunnel e, dopo molti tentativi, riuscì ad accendere il fuoco. Vi stese Mosè vicino, e rimase a guardare il riflesso arancio delle fiamme screziargli la pelle inscurita. Passarono diverse ore prima che sentisse di nuovo la voce di Mosè. Insieme alla voce, sentì un filo di speranza attraversare un muro ghiacciato. - Va un po’ meglio, Joshua. Grazie. Senti ancora il freddo ? Sì. Non avevo mai sentito tanto freddo, prima. Ho paura che mi sia successo qualcosa di grave. Ma devo resistere ancora per poco. Cosa vuoi dire ? Ho sentito il segnale della nave. Fra breve saranno abbastanza vicini da mandare il Guscio. Nel Guscio sarò salvo. Quando ? Tra poco. Uno, forse due giorni. Resisterai fino ad allora ? Credo di sì. Ma devo mangiare qualcosa. Va bene. Ti troverò qualcosa. Resteremo qui ad aspettare. Ma non poterono restare lì. Un rigagnolo di acqua nera cominciò a scorrere attraverso il tubo di cemento, ingrossandosi ad ogni minuto che passava. Presto sarebbe stato un fiume di liquame. Joshua avvolse di nuovo Mosè nella coperta, la ricoprì con il telo di plastica e rimise tutte le loro cose sul carretto a pedali. Partirono sotto le ultime gocce di pioggia, in cerca di un altro rifugio. Joshua ringraziò il dio in cui aveva smesso di credere un secolo prima perché il freddo, adesso, non mordeva più come prima. Pedalava da quasi due ore quando vide la fattoria ai bordi della strada. Vi si diresse immediatamente. Sbucò in un cortile dove un uomo si stava riempendo le braccia di ceppi di legno per la stufa; il suo sguardo fu risucchiato da una conigliera di rete metallica e legno addossata ad un muro. - Buongiorno, disse Joshua all’uomo con la legna. Cosa vuoi ?, chiese l’uomo con diffidenza. Vorrei comperare un coniglio. Non li vendo, i conigli. Ve lo pago il doppio del suo prezzo. L’uomo rifletté per un attimo, poi scrollò le spalle e si diresse verso la conigliera. Tenendolo per le orecchie ne estrasse un coniglio grigio impazzito di terrore. - Lo vorrei vivo, disse Joshua. Come vuoi. Me lo mette in un sacco, per favore ? L’uomo sbuffò scocciato, entro in casa e uscì dopo qualche minuto con un sacco di iuta che si dimenava. - Mi devi pagare anche il sacco. Joshua pagò il coniglio con quasi tutto ciò che gli era rimasto, buttò il sacco nel carretto e si rimise in marcia. Doveva trovare un riparo prima di notte. Prima che il freddo tornasse ad azzannarli. Prima che Mosè si arrendesse ad un mondo in cui non avrebbe dovuto esistere. Pedalando guardava le campagne, in cerca di un capanno per gli attrezzi, una stalla, qualsiasi cosa con un tetto dove non ci fosse un uomo a scacciarli. Un’auto della polizia lo affiancò e rallentò. Il poliziotto alla guida lo guardò sprezzante e sospettoso e gli fece cenno di fermarsi. - Sei tu quello che vive vicino alla Centrale nucleare abbandonata ? – chiese il poliziotto, senza scendere dall’auto. Non sono mica matto, rispose Joshua. Uhm. Che cosa hai, nel carretto ? La mia roba. Vestiti. Una stufetta. Qualche coperta. E dove vivi ? Non ce l’ho, una casa. La sto cercando. Da qualche parte dormirai. Dormo dove capita. Il poliziotto scese dall’auto. Si avvicinò al carretto e ci guardò dentro. Vide muoversi il sacco del coniglio. - Che cazzo c’è li dentro ? Un coniglio. L’ho appena comperato. Fammi vedere. Joshua aprì il sacco e tirò fuori la bestiola spaventata, tenendola per le orecchie pelose. Il poliziotto gli fece cenno di rimetterlo dentro. Mentre Joshua richiudeva con lo spago la prigione del coniglio sentì il poliziotto imprecare. - Cos’è questo schifo di lumacone ? - urlò il poliziotto. Aveva sollevato la coperta e stava fissando disgustato il corpo flaccido di Mosé. Joshua non pensò affatto quello che stava facendo. Se ci avesse pensato, non ne sarebbe stato capace. Fu come se fosse stato un altro a raccogliere il sasso e abbatterlo con tutta la forza della disperazione sulla testa del poliziotto. Il poliziotto cadde con gli occhi trasfigurati dall’ultimo irreversibile stupore. Per fare ciò che aveva fatto Joshua aveva dovuto lasciare il sacco del coniglio, e la bestia con un balzo era scappata in mezzo alla strada. Passò un’auto a tutta velocità e dell’animale restò una chiazza di pelo e sangue spalmata sull’asfalto. Il guidatore non si era nemmeno voltato verso Joshua, né aveva notato l’uomo in uniforme steso a terra con la testa fracassata. Joshua chiuse lo sportello dell’auto e trascinò il corpo del poliziotto fino al piccolo fossato che costeggiava la strada. Non era certo un gran nascondiglio e sapeva che lo avrebbero trovato presto. Pedalò freneticamente, per mettere più distanza possibile tra sé e il suo crimine. Appena poté, svoltò in una stradina sterrata che si perdeva tra i campi, con la voce di Mosè nella testa che gli chiedeva, sempre più debolmente, che cosa avesse fatto. Lui non rispose, e dopo un po’ la voce di Mosè sparì. Quando il buio ed il freddo erano già pericolosamente vicini Joshua scorse, ai bordi di un piccolo paese, una vecchia stazione ferroviaria che sembrava abbandonata. La stazione era stata chiusa con una rete metallica, ma una gran parte era stata divelta da vandali e ladri. Non fu difficile infilarcisi dentro con tutto il carretto. L’edificio principale della stazione era sbarrato da assi di legno inchiodate, ma il tunnel che passava sotto ai binari era ancora aperto. Scese le scale con Mosè in braccio e Buck al seguito e si sistemarono nel sottopassaggio infestato dal puzzo di piscio. Joshua mise a terra dei cartoni, ci appoggiò Mosè e risalì in cerca di qualcosa da bruciare. Trovò una catasta di cassette sfasciate, abbandonate sotto una pensilina che le aveva preservate dalla pioggia. Le portò nel sottopassaggio e aiutandosi con un pezzo di cartone accese un fuoco. Dopo una mezz’ora i pensieri tiepidi di Mosè si riaffacciarono debolmente nella mente di Joshua. - Come stai ? Ho freddo, Joshua. E ho molta fame. Il freddo ha consumato tutte le mie forze. Tra un po’ il fuoco ti scalderà. Ma non so cosa darti da mangiare. Il coniglio è scappato, un’auto lo ha ucciso. Il Guscio è vicino, Joshua. Devo resistere fino a domani. Ce la farai, Mosè. Forse, Joshua. Forse. Tieni duro. Non devi morire proprio adesso. Non dipende da me. Sì, invece. Ci proverò – disse Mosè con un sussurro esausto. Joshua di addormentò con la testa di Buck sulle gambe e negli occhi la faccia sbigottita del poliziotto che crollava a terra con la testa spaccata dal suo sasso. Non dovrebbe essere così facile poter uccidere qualcuno, pensò Joshua. Chi ci ha creato ci ha fatto troppo fragili. Che assurda follia rinchiudere un’anima dentro la carne. La luce del mattinò colò apaticamente nel tunnel e risvegliò Joshua da un sonno desolato. Nei suoi sogni, per la prima volta da quando aveva incontrato Mosè, non c’erano state stelle, ma solo cieli neri e vuoti. Chiamò Mosè, e per la prima volta si rese conto che lo stava facendo senza parlare. Mosè rispose con un sussurro. - Come va ? Sono debole, Joshua. Il freddo mi ha rubato tutta l’energia. E non mangio da troppo tempo. Ma c’è ancora una speranza. il Guscio ormai è quasi arrivato. Sento il segnale vicino. Devi portarmi subito fuori da qui. Joshua prese tra le braccia Mosè e insieme sbucarono dal sottopassaggio per ritrovarsi dentro un’alba livida e fredda. Un vagone merci abbandonato su un binario morto si aprì di colpo; ne uscirono un uomo ed una donna stracciati e sporchi, preceduti dal loro tanfo, un misto di vino e sporcizia. Guardarono Joshua, preoccupati per la sicurezza della loro casa ferroviaria. Joshua fece un cenno di saluto che cadde nel vuoto dei loro occhi. Buck sentì la presenza dei due relitti, senza vederli, ed abbaiò verso di loro. I due si spaventarono e richiusero velocemente la porta scorrevole del vagone. - Dobbiamo allontanarci, disse Mosè. Il Guscio non si avvicinerà, se ci sono altre persone. Dove devo andare ? Andiamo dove non c’è nessuno. E poi ? E poi aspettiamo. Joshua si incamminò lungo i binari che puntavano verso i campi bigi, con Mosè tra le braccia. Buck li seguiva ciondolando sulle zampe malferme. Allontanandosi dalla stazione, le rotaie si infilavano tra due terrapieni, coperti di ghiaia e immondizia. Camminarono tra i due rialzi per una decina di minuti, poi Joshua sentì una debole eccitazione provenire da Mosè. - Joshua, il Guscio sta arrivando ! Dov’è ? Vicino. Ma tra queste due scarpate non ci vedrà, e noi non vedremo lui. Joshua iniziò ad arrampicarsi sul terrapieno ghiaioso. Scivolò una, due, tre volte. Arrancò e bestemmiò, ma alla fine riuscì ad arrivare in cima insieme a Mosè. Buck non ce la fece, la massicciata era troppo ripida per le sue gambe malferme. Restò sulle rotaie, uggiolando malinconico per il ultimo abbandono. Oltre la massicciata si stendeva una spianata incolta, l’erbaccia e gli arbusti spinosi arrivavano alle ginocchia di Joshua. D’un tratto colse un riflesso argenteo bucare il piombo del cielo; una sfera metallica scendeva velocemente verso terra. La vide sparire dietro una macchia di arbusti, lontana da loro forse cinquecento passi. - Mosè, il Guscio !, gridò Joshua, mettendosi a correre verso il punto dov’era sceso. Fece dieci metri, poi urlò e cadde a faccia in giù, mentre un dolore straziante partiva dalla gamba e gli uncinava il cervello. Qualcuno aveva messo una tagliola per animali nascosta tra l’erba alta. Con Mosè ancora stretto tra le braccia Joshua cercò di rimettersi in piedi, ma un dolore abbacinante gli rese subito chiaro che non ci sarebbe riuscito. La gamba era spezzata, e senza aiuto non si sarebbe più mosso da lì. - Mosè, devi andare da solo. Io devo fermarmi qui. La risposta che gli arrivò nella testa fu un’ondata di disperazione. - - Non ce la faccio, Joshua, mormorò Mosè. Per me è un cammino lungo, e io sono troppo debole. Perché non fai venire il Guscio da noi ? Una volta atterrato, il Guscio resta immobile. E’ programmato per restare fermo. Aspetterà per un po’, poi se ne andrà per sempre. Devi provarci, Mosè. Non posso, disse una voce ridotta a un sussurro mentale. Nel mio corpo non c’è più un briciolo di energia. Fai un ultimo sforzo, maledizione ! Sarebbe inutile. Non mangio da troppo tempo… Mangia, allora ! – urlò Joshua, come se fosse l’ultimo grido di guerra prima di una battaglia senza speranza di vittoria e vita. Joshua, io… Mangia, ti ho detto ! E facciamola finita. Non sarà una perdita per nessuno. Tanto meno per me. Io non ho più niente da fare, su questa palla di fango. La mia vita non è servita mai a nessuno, almeno la mia fine servirà a te. Ti devo un’altra volta la vita - disse Mosè, mentre dal suo corpo affusolato spuntava il sinuoso tentacolo spinato. Aspetta. Prima dimmi una cosa. Tutto quello che posso, amico mio. In tutto quello spazio che hai percorso, in quell’oceano di tempo, lui lo hai mai visto ? Mosè tacque. Fu un silenzio immenso come lo spazio e il tempo che Mosè aveva attraversato nella corso di tutta la sua esistenza. Poi la sua voce arrivò nella mente di Joshua come il soffio di un sospiro. - No. Ma non credo che ci sarebbe permesso vederlo, se anche ci fosse. Già. Me lo aspettavo. Allora fammi vedere almeno le stelle, per l’ultima volta. Mosè raccolse tutte le sue forze, e una miriade di astri fluttuanti nel silenzio nero del tempo irruppero nella mente di Joshua, soffocandola di asfissiante bellezza. L’infermiere più giovane scese per primo dell’ambulanza e si avviò verso il corpo steso tra i rovi a faccia in giù, la gamba lunga e magra serrata tra i denti della tagliola. - Vorrei sapere chi è quel bastardo che ha piazzato una tagliola. Ma cosa cazzo sperava di prendere, in questo posto di merda ? - Le mettono per i cani randagi, - disse il collega più anziano, spegnendo il mozzicone di una sigaretta sotto la suola delle scarpe. L’infermiere più giovane si chinò, liberò la gamba dalla tagliola e rigirò il corpo rinsecchito di Joshua. Quando vide ciò che gli restava della faccia vomitò. Faceva quel lavoro da poco tempo, e non si era ancora abituato a tutte le sfumature della morte. - Dio, che schifo, hai visto com’è conciato ? - disse al collega più anziano, quando ebbe finito di svuotarsi lo stomaco – sembra che gli abbiano succhiato via la vita…. Questi vagabondi quando muoiono non ce l’hanno già più da un pezzo, una vita; se la consumano tutta vivendo per strada, come animali. Tu lo conoscevi, questo disgraziato ? So chi era. Abitava in una baracca vicino alla vecchia centrale nucleare. Ogni tanto dava di matto e ci toccava portarcelo via. Lo tenevano un paio di giorni in ospedale, poi lo rimettevano fuori. Era un balordo, ma non era mai stato pericoloso, prima di rompere la testa a quel poliziotto. L’infermiere più giovane fece due passi indietro; si guardò intorno e contemplò in silenzio la distesa grigia di erbacce e sporcizia che li avvolgeva da ogni direzione. Il buio non avrebbe tardato a scendere ed inghiottirla. - Ma cosa ci sarà venuto a fare quaggiù ?, - disse il giovane infermiere, tenendo gli occhi fissi su un punto immaginario che galleggiava nell’avviso della sera. E chi lo sa cosa gli passa per la testa, a questi matti. Magari era venuto qui per ammirare le stelle.