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antologia comico
Prof. Francesco Fiorentino Teorie del comico Breve antologia di alcuni testi trattati durante il corso Platone, Repubblica, X, 605c. Non bisogna tenere lo stesso argomento a proposito del comico? Se ascolti in una rappresentazione teatrale o in una conversazione privata una buffoneria che ti vergogneresti di fare per provocare il riso e d’altra parte ci prendi un reale piacere invece di disprezzarne la mediocrità, non produci lo stesso effetto che nei sentimenti di pietà? A questo desiderio di provocare il riso che contenevi in te stesso grazie alla ragione per paura di passare per buffone, dai invece libero corso, e avendogli offerto in questa occasione la foga della giovinezza, finisci spesso per perdere la coscienza del fatto che ti sei eccitato in compagnia dei tuoi vicini al punto da diventare un fabbricatore di farse. Aristotele, Poetica, V, 49. Il comico consiste in un difetto o una bruttura che non causano né dolore né distruzione; esempio evidente è la maschera comica: è brutta e difforme senza esprimere dolore. Montaigne (1533-1592), Essais (1580), livre I, chap. L. Notre propre et péculière condition est autant ridicule que risible. Th. Hobbes (1588-1679) De Homine (1658). Gli spiriti animali sono trasportati a una gioia improvvisa da qualcosa di conveniente detto o fatto o pensato da altri; e questa è la passione di chi ride. Infatti, se uno ha detto o fatto qualcosa di rimarchevole, a suo giudizio è inclinato al riso. Parimenti se un altro ha detto o fatto qualcosa di sconveniente per cui confrontandoci con lui ci sentiamo più bravi di prima, a stento potremo trattenerci dal ridere. E, in senso universale, la passione di chi ride consiste nell'improvviso riconoscimento della propria bravura, a causa di una sconvenienza altrui. Infatti non si ride in genere che per qualcosa di improvviso; e le medesime persone non ridono più volte della medesima cosa e dei medesimi scherzi. Inoltre, non si ride delle sconvenienze degli amici o dei consanguinei, perché non ci sono estranee. Gli elementi che muovono al riso sono tre congiunti insieme: sconvenienza, estraneità e subitaneità. J.-J. Rousseau (1712-1778), Lettre à d’Alambert sur les spectacles (1758). Fortunatamente la tragedia così com’è risulta talmente lontana da noi, ci presenta esseri così giganteschi, così bolsi e chimerici che l’esempio dei loro vizi non è più contagioso di quanto quello delle loro virtù sia utile, e più essa vuole istruirci di meno, meno anche ci fa male. Ma non è così per la commedia, i cui costume hanno coi nostri un rapporto più immediato e i cui personaggi assomigliano più agli uomini. Tutto vi è cattivo e pernicioso, tutto ha gravi conseguenze per gli spettatori; 1 lo stesso piacere del comico essendo fondato su un vizio del cuore umano, è conseguenza di tale principio che più la commedia è piacevole e perfetta, più il suo effetto è funesto sui costumi [… ] La sua [di Molière] maggiore preoccupazione è di volgere bontà e semplicità in ridicolo e di porre l’astuzia e la menzogna nel partito per il quale ci s’interessa; le sue persone oneste sono persone che parlano solamente, i suoi viziosi sono persone che agiscono che per lo più sono favoriti da un brillante successo; insomma l’onore degli applausi, di rado il più stimabile, è quasi sempre per il più capace. J.-F. Marmontel (1723-99), articolo Comique dell’Enciclopedia (1753). Comico, preso per il genere della commedia è un termine relativo. Ciò che è comico per un tal popolo, per tale società, per tale uomo, può non esserlo per un altro. L’effetto del comico risulta dalla comparazione che si fa, anche senza accorgersene, dei propri costumi con i costumi che si vede volgere in ridicolo, e suppone tra lo spettatore e il personaggio rappresentato una differenza vantaggiosa per il primo. Non che lo stesso uomo non possa ridere della propria immagine, persino quando vi si riconosce: ciò deriva da una duplicità di carattere che si osserva in forma ancora più evidente nel contrasto delle passioni, in cui l’uomo è incessantemente in combattimento con se stesso. Ci si giudica, ci si condanna, si scherza, come un terzo e l’amor proprio ci trova il proprio vantaggio. G. W. F. Hegel (1770-1831), Estetica (1835). A questo rimando si confonde spesso il ridicolo con quel che è propriamente comico . Ridicolo può divenire ogni contrasto fra l’essenziale e la sua apparenza, tra il fine e il mezzo, contraddizione con cui l’apparenza si supera in se stessa, ed il fine, realizzandosi, si priva della sua meta. Ma per il comico noi dobbiamo avanzare un’esigenza ancora più profonda. I vizi degli uomini, ad esempio, non sono affatto comici; la satira, quanto più stridenti sono i colori con cui dipinge la contraddizione che vi è tra il mondo reale e quel che l’uomo virtuoso dovrebbe essere, ci offre a questo riguardo una prova molto schietta. Stoltezza, insania, stupidità, prese in sé e per sé, non hanno bisogno affatto di essere comiche, quantunque ne ridiamo. In generale non c’è nulla che sia più contrastante di ciò di cui ridono gli uomini. Può muoverli al riso anche ciò che vi è di più piatto e banale, ma spesso ridono pure delle cose più importanti e profonde purché vi si mostri un qualsiasi lato del tutto insignificante che sia in contraddizione con le loro abitudini e la loro concezione quotidiana. Il riso è allora solo estrinsecazione di una saggezza compiaciuta, un segno che si è tanto saggi da riconoscere un simile contrasto e da saperla lunga in proposito. Parimenti esiste un riso di motteggio, di disprezzo, di disperazione ecc. Invece sono propri del comico l’infinito buonumore in genere e la sconfinata certezza di essere ben al di sopra della propria contraddizione e di non esserne affatto amareggiati e resi infelici: ossia la beatitudine e l’essere a proprio agio della soggettività che, certa di se stessa, può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue realizzazioni. 2 Wilhelm August von Schlegel (1767-1845), Corso sull’Arte Drammatica (1809). [Lezione 6] L’antica commedia era una mascherata del mondo intero, dove si tolleravano molte facezie che l’ordinaria decenza non avrebbe permesse, ma dove pur brillavano non poche idee gaie, spiritose e anche istruttive che non si sarebbero mai manifestate senza questa momentanea rimozione di tutte le barriere di convenzione. [Lezione 12] In una parola simili commedie [Il Misantropo] sono troppo didascaliche e troppo vi si scorge l’intenzione di istruire, dove non si deve mai dare nessuna lezione allo spettatore, se non di sfuggita e come senza badarvi. […] La classica reputazione di Molière conserva le sue opere in teatro benché esse siano visibilmente invecchiate riguardo alle maniere di società e alla rappresentazione dei costumi. E’ questo un pericolo che minaccia necessariamente quell’autore comico, le cui opere non posano in qualche modo su una base poetica, ma sono fondate unicamente sulla fredda imitazione della vita reale che mai non può far paghi i bisogni della fantasia. Gli originali di certi ritratti di Molière sono da lungo tempo spariti. L’ingegno che aspira all’immortalità deve esercitarsi su oggetti che il tempo non possa mai rendere inintelligibili, e dipingere la natura umana e non i costumi di tale o tal altro secolo. Jean Paul (1763-1825), Introduzione all’estetica, (1804). …ma l’umorista preferirà accogliere sotto la sua protezione i singoli stolti e imprigionare invece lo sbirro della gogna con tutto il pubblico, perché quel che preoccupa il suo animo non è lo scenario della follia di questo o quel concittadino, ma la follia stessa degli uomini, cioè l’universalità. […] Le campagne belliche dello zio Tobia [personaggio del Tristram Shandy di Sterne ] non mettono in ridicolo solo lui o Ludovico XIV; quei trastulli sono piuttosto l’allegoria di tutte le manie degli uomini: di quella testa di bimbo riposta nella testa di ogni uomo come in una cappelliera; per ben custodita che sia, di quando in quando essa si drizza ed esce all’aperto mostrandosi senza pudore, e sovente, sopraggiunta la vecchiaia, la vediamo lei sola, in mezzo all’argento dei capelli. […] Ma in questa derisione generale, che cosa differenzia l’umorista che riscalda l’anima dal canzonatore che la raggela, visto che entrambi sbeffeggiano tutto e tutti? Può l’umorista, ricolmo di sentimento, stare su uno stesso confine col gelido canzonatore che semplicemente esibisce il difetto opposto dell’atteggiamento empfindselig ? Non è possibile; li distingue ciò che spesso distingueva Voltaire da se stesso o dai Francesi: l’idea annientante. […2] Parimenti Sterne, per esempio, si dilunga spesso nel ponderato esame d’un qualche avvenimento, per finire col tagliar corto e dire: comunque sia, in quelle parole non c’è un pizzico di verità. […3] Come il romanticismo serio, così quello comico – in opposizione all’oggettività classica – è il reggente della soggettività. […] Solo una certa confidenziale familiarità garantisce all’autore comico quell’amicizia compiacente con il lettore, che è necessaria a un simile instancabile inventore di 3 eccentricità sempre nuove [Swift] – un’amicizia assai più necessaria a lui che non al poeta serio, interprete di sensazioni e bellezze millenarie. […4]Non vi è comicità senza il sensibile, e nell’umorismo, dove il sensibile si presenta come un esponente della finitezza applicata, non vi sarà mai una tavolozza troppo ricca. […] Consideriamo in dettaglio lo stile sensualista e metaforico dell’umorismo. Innanzitutto l’umorismo individualizza sino al minimo e poi continua con le parti già individualizzate. Shakespeare non è mai più individuale, ovvero più sensualista che nel comico. Per lo stesso motivo Aristofane possiede queste due qualità più di ogni altro antico. Madame de Staël (1766-1817), De l’Allemagne (1810), II, XXVI. Les écrivains de cette école ont donné le nom de comique arbitraire à ce libre essor de toutes les pensées, sans frein et sans but déterminé. Ils s’appuient à cet égard de l’exemple d’Aristophane, non assurément qu’ils approuvent la licence de ses pièces, mais ils sont frappés de la verve de gaité qui s’y fait sentir, et ils voudraient introduire chez les modernes cette comédie audacieuse qui se joue de l’univers, au lieu de s’en tenir aux ridicules de telle ou telle classe de la société. […]les Français ont, comme auteurs comiques, l’avantage sur toutes les autres nations. La connaissance des homes et l’art d’user de cette connaissance leur assurent, à cet égard, le premier rang; mais peut-être pourrait-on souhaiter quelquefois, même dans les meilleures pièces de Molière, que la satire raisonnée tint moins de place et que l’imagination y eût plus de part. Stendhal (1783-1842), Racine et Shakespeare (1823) ch.2. La comédie de Molière est trop imbibée de satire, pour me donner souvent la sensation du rire gai, si je puis parler ainsi. J’aime à trouver, quand je vais me délasser au théâtre, une imagination folle qui me fasse rire comme un enfant. […] Aujourd’hui, il n’y a plus de cour, ou je m’estime autant, pour le moins, que les gens qui y vont; et en sortant de dîner, après la Bourse, si j’entre au théâtre, je veux qu’on me fasse rire, et je ne songe à imiter personne. Victor Hugo (1802-85), Prefazione a “Cromwell” (1827). Nel pensiero dei moderni, al contrario, il grottesco ha un ruolo immenso. E’ dappertutto; da un lato, crea il difforme e l’orribile; dall’altro, il comico e il buffo. […]Il sublime sul sublime difficilmente produce contrasto, e occorre riposarsi di tutto, anche del bello. Sembra al contrario che il grottesco sia un momento di pausa dal quale ci si eleva verso il bello con una percezione più fresca e più acuta. La salamandra fa risaltare l’ondina, lo gnomo abbellisce la silfide. Ch. Baudelaire (1821- 67), Sul riso (1855). […] il Saggio, cioè colui che è animato dallo spirito del Signore, colui che possiede la pratica del formulario divino, non ride, non si abbandona al riso se non tremando. Il Saggio trema di avere riso; teme il riso, come teme gli spettacoli mondani, la concupiscenza. Egli si arresta 4 sull’orlo del riso come sull’orlo della tentazione. […] Il riso , a loro dire, viene dalla superiorità. Non sarei stupito se dinanzi a una scoperta del genere il fisiologo fosse scoppiato a ridere pensando alla propria superiorità. Bisogna invece dire che il riso viene dall’idea della propria superiorità. Idea satanica come nessun’ altra! Orgoglio e aberrazione! Ora, è noto che tutti i pazzi dei manicomi hanno oltre misura sviluppata l’idea della propria superiorità. Non ho mai conosciuto pazzi affetti da umiltà. Si noti che il riso è una delle espressioni più ricorrenti e costanti della follia. […] per stare a uno degli esempi più volgari della vita, che cosa vi è di tanto spassoso nello spettacolo di un uomo che cade sul ghiaccio o sul selciato, che inciampa sull’orlo di un marciapiede, perché il volto del suo fratello in Cristo si contragga in modo disordinato, e i suoi muscoli facciali scattino di colpo come in un orologio a mezzogiorno o un giocattolo a molla? […] Qui è il punto da cui si deve partire: io, non cado io, io, cammino dritto io; io, ho piede saldo e sicuro. Non sono certo io a commettere la sciocchezza di non vedere un marciapiede sconnesso o una pietra che ostruisce la strada. […] Ma vi è un caso in cui il problema si complica ancora. E’ il riso dell’uomo, un riso vero però, violento, alla vista di oggetti che non sono un segno di debolezza o di sventura dei propri simili. E’ facile intuire che intendo parlare del riso provocato dal grottesco. […] Dal punto di vista artistico , il comico è un’imitazione, e il grottesco è una creazione. […] Qui, voglio dire, il riso è l’espressione dell’idea di superiorità, non più dell’uomo sull’uomo, ma dell’uomo sulla natura. […] Se questa [ipotesi] sembra peregrina e alquanto difficile da sottoscrivere, è che il riso provocato dal grottesco ha in sé qualcosa di profondo , di assiomatico e di primitivo, molto più simile alla vita innocente e alla gioia assoluta che non il riso eccitato dal comico dei costumi. Tra queste due forme di riso, se si astrae dal problema dell’utile, sussiste la stessa differenza che corre tra la scuola letteraria con un fine e la scuola dell’arte per l’arte. Così il grottesco domina il comico da un’altezza in proporzione. Chiamerò d’ora innanzi il grottesco comico assoluto, in antitesi al comico usuale cui assegno il nome di comico significativo. Friedrich Nietzsche (1844-1900), Umano, troppo umano, I (1878). 213.Piacere nell’assurdo. Come può l’uomo trovar piacere nell’assurdo? Nella misura, infatti, in cui nel mondo si ride, ciò avviene; anzi si può dire che quasi ovunque ci sia felicità, c’è il piacere dell’assurdo. Il rovesciare l’esperienza nel suo contrario, ciò che ha scopo in ciò che ne è privo, il necessario nell’arbitrario, e però in modo che questo fatto non faccia alcun male e venga presentato solo per petulanza, allieta, perché ci libera momentaneamente della costrizione del necessario, dell’opportuno e di ciò che è conforme all’esperienza, cose tutte in cui noi vediamo di solito i nostri inesorabili padroni; noi scherziamo e ridiamo allora, quando ciò che aspettiamo (che di solito fa paura e causa tensione) si scarica senza nuocere. E’ la gioia dello schiavo nei Saturnali. 5 Bergson (1859-1941), Du rire (1900). 1.Voici le premier point sur lequel nous appellerons l’attention. Il n’y a pas de comique en dehors de ce qui est proprement humain. Un paysage pourra être beau, gracieux, sublime, insignifiant ou laid ; il ne sera jamais risible. On rira d’un animal, mais parce qu’on aura surpris chez lui une attitude d’homme ou une expression humaine. On rira d’un chapeau ; mais ce qu’on raille alors, ce n’est pas le morceau de feutre ou de paille, c’est la forme que des hommes lui ont donnée, c’est le caprice humain dont il a pris le moule. Comment un fait aussi important, dans sa simplicité, n’a-t-il pas fixé davantage l’attention des philosophes ? Plusieurs ont défini l’homme « un animal qui sait rire ». Ils auraient aussi bien pu le définir un animal qui fait rire, car si quelque autre animal y parvient, ou quelque objet inanimé, c’est par une ressemblance avec l’homme, par la marque que l’homme y imprime ou par l’usage que l’homme en fait. Signalons maintenant, comme un symptôme non moins digne de remarque, l’insensibilité qui accompagne d’ordinaire le rire. Il semble que le comique ne puisse produire son ébranlement qu’à la condition de tomber sur une surface d’âme bien calme, bien unie. L’indifférence est son milieu naturel. […] 2. Essayez, un moment, de vous intéresser à tout ce qui se dit et à tout ce qui se fait, agissez, en imagination, avec ceux qui agissent, sentez avec ceux qui sentent, donnez enfin à votre sympathie son plus large épanouissement : comme sous un coup de baguette magique vous verrez les objets les plus légers prendre du poids, et une coloration sévère passer sur toutes choses. Détachez-vous maintenant, assistez à la vie en spectateur indifférent : bien des drames tourneront à la comédie. Il suffit que nous bouchions nos oreilles au son de la musique, dans un salon où l’on danse, pour que les danseurs nous paraissent aussitôt ridicules. Combien d’actions humaines résisteraient à une épreuve de ce genre ? […] 3. Seulement, cette intelligence doit rester en contact avec d’autres intelligences. Voilà le troisième fait sur lequel nous désirions attirer l’attention. On ne goûterait pas le comique si l’on se sentait isolé. Il semble que le rire ait besoin d’un écho. Écoutez-le bien : ce n’est pas un son articulé, net, terminé ; c’est quelque chose qui voudrait se prolonger en se répercutant de proche en proche, quelque chose qui commence par un éclat pour se continuer par des roulements, ainsi que le tonnerre dans la montagne. Et pourtant cette répercussion ne doit pas aller à l’infini. Elle peut cheminer à l’intérieur d’un cercle aussi large qu’on voudra ; le cercle n’en reste pas moins fermé. Notre rire est toujours le rire d’un groupe. […] Ce qu’il y a de risible dans un cas comme dans l’autre, c’est une certaine raideur de mécanique là où l’on voudrait trouver la souplesse attentive et la vivante flexibilité d’une personne. Il y a entre les deux cas cette seule différence que le premier s’est produit de lui-même, tandis que le second a été obtenu artificiellement. Le passant, tout à l’heure, ne faisait qu’observer ; ici le mauvais plaisant expérimente. 6 Pirandello (1867-1936), L’umorismo (1908). Vediamo ora un esempio più complesso, nel quale la speciale attività della riflessione non si scopre così a prima giunta; prendiamo un libro di cui abbiamo già discorso: il Don Quijote del Cervantes. Vogliamo giudicarne il valore estetico. Che faremo? Dopo la prima lettura e la prima impressione che ne avremo ricevuto, terremo conto anche qui dello stato d’animo che l’autore ha voluto suscitare. Qual è questo stato d’animo? Noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo povero alienato che maschera della sua follia stesso e gli altri e tutte le cose; vorremmo ridere, ma il riso non ci viene alle labbra schietto e facile; sentiamo che qualcosa ce lo turba e ce l’ostacola; è un senso di commiserazione, di pena e anche d’ammirazione, sì, perché se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pur non v’ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico. Noi abbiamo una rappresentazione comica, ma spira da questa un sentimento che ci impedisce di ridere o ci turba il riso della comicità rappresentata; ce lo rende amaro. Attraverso il comico stesso abbiamo anche qui il sentimento del contrario. L’autore ha detestato in noi perché s’è destato in lui, e noi ne abbiamo già veduto le ragioni. Ebbene, perché non si scopre qui la speciale attività della riflessione? Ma perché essa - frutto della tristissima esperienza della vita, esperienza che ha determinato la disposizione umoristica nel poeta - si era già esercitata sul sentimento di lui, su quel sentimento che lo aveva armato cavaliere della fede a Lepanto. Spassionandosi di questo sentimento e ponendovisi contro, da giudice, nella oscura carcere della Mancha, ed analizzandolo con amara freddezza, la riflessione aveva già destato nel poeta il sentimento del contrario, e frutto di esso è appunto il Don Quijote: è questo sentimento del contrario oggettivato. Il poeta non ha rappresentato la causa del processo, [...] ne ha rappresentato soltanto l’effetto, e però il sentimento del contrario spira attraverso la comicità della rappresentazione; questa comicità è frutto del sentimento del contrario generato nel poeta dalla speciale attività della riflessione sul primo sentimento tenuto nascosto. [...] Chaplin (1888-1977), La mia autobiografia (1964). A metà canzone una pioggia di monete investì il palcoscenico. Mi interruppi immediatamente per annunciare che prima avrei raccolto il danaro e poi mi sarei rimesso a cantare. Questa uscita provocò le risa del pubblico. Arrivò il direttore con un fazzoletto per aiutarmi a raccattare i soldi. Io credetti che volesse tenerseli lui. Il pubblico, evidentemente, comprese miei timori e rise ancora più forte, specie quando egli uscì col danaro e io, preoccupato, gli tenni dietro. Non tomai in scena finché non l’ebbe consegnato a mia madre. Ero perfettamente a mio agio. Parlai al pubblico, ballai ed eseguii diverse imitazioni, compresa quella di mia madre mentre cantava una delle sue marcette irlandesi che diceva così: Riley, Riley, that’s the boy to beguile ye, Riley, Riley, that’s the boy for me. 7 In all the Army great and small, There’s none so trim and neat As the noble Sergeant Riley Of the gallant Eighty-eight.1 E ripetendo il ritornello, imitai in tutta innocenza la voce di mia madre nel momento in cui si era spezzata. Rimasi sorpreso dalla reazione del pubblico. Echeggiarono applausi e risate, poi piovve sul palcoscenico una seconda ondata di monetine; e quando mia madre entrò in scena per portami via, la sua presenza suscitò un applauso fragoroso. Quella segnò la data della mia prima esibizione in teatro e dell’ultima di mia madre. [...] Non tenterò di sondare gli abissi della psicoanalisi per spiegare il comportamento dell’uomo, che è inesplicabile come la stessa vita. Più che dal sesso o da aberrazioni infantili credo che la maggior parte delle nostre costrizioni ideazionali discenda da cause ataviche: però non devo leggere dei libri per sapere che il tema della vita è il conflitto e il dolore. Per istinto, tutta La mia comicità si basava su queste cose. Il mezzo al quale ricorrevo per creare l'intreccio comico era semplicissimo. Non si trattava che di mettere la gente nei guai per poi trarla d’impaccio. Ma l’humour è diverso e più sottile. Max Eastman lo analizza nel suo libro intitolato A sense of Humour, dove giunge alla conclusione che esso deriva dall’«allegro dolore». Egli scrive l’homo sapiens è un masochista, il quale gode del dolore in molte forme, e che al pubblico piace soffrire per interposta persone come fanno i bambini quando giocano agli indiani; essi infatti si divertono a farsi sparare addosso e a patire gli spasimi della morte. In questo sono perfettamente d’accordo. Ma si tratta più di un’analisi della tragedia che della comicità, anche se le due cose sono strettamente connesse. Pure, il mio concetto della comicità è lievemente diverso: essa scaturisce dalle sottili discrepanze che percepiamo nel normale comportamento umano. In altre parole, attraverso la comicità vediamo l’irrazionale in ciò che sembra razionale; il folle in ciò che sembra sensato; l’insignificante in ciò che sembra pieno d’importanza. Essa ci aiuta anche a sopravvivere preservando il nostro equilibrio mentale. Grazie all’umorismo siamo meno schiacciati dalle vicissitudini della vita. Esso attiva il nostro senso delle proporzioni e c’insegna che in un eccesso di serietà si annida sempre l’assurdo. Per esempio a un funerale dove amici e parenti sono raccolti in rispettoso silenzio intorno alla bara del defunto, un ritardatario entra proprio mentre la funzione sta per iniziare e in punta di piedi si dirige frettolosamente al proprio posto, dove uno degli uomini in lutto ha lasciato il cilindro. Nella fretta, egli vi si siede 1 Riley, Riley, ecco il tipo che ti metterà nel sacco / Riley, Riley, ecco il tipo che fa per me. / In tutto l’esercito grande e piccolo, / Non c’è nessun ed elegante / Come il nobile sergente Riley / Del prode Ottantottesimo. 8 accidentalmente sopra, poi con aria solenne, facendo le sue scuse silenziose, lo porge schiacciato al proprietario, il quale lo prende con un’espressione di muto fastidio senza smettere seguire la funzione. E la solennità della circostanza diventa ridicola. Vladimir Jankélévitch (1903-1985), L’ironie (1964) p.9. L’art, le comique et l’ironie deviennent possibles là où se relâche l’urgence vitale. Mais l’ironiste est plus libéré encore que le rieur ; car le rieur bien souvent ne se dépêche de rire que pour n’avoir pas à pleurer, comme ces poltrons qui interpellent bruyamment la nuit profonde pour avoir du courage ; il croient qu’ils préviendront le danger rien qu’en le nommant, et ils font les esprits forts, dans l’espoir de le gagner de vitesse. L’ironie, qui ne craint plus les surprises, joue avec le danger. Francesco Orlando (1934-2010), Lettura freudiana del «Misanthrope» (1979). Nella ricca casistica di formazioni di compromesso che secondo Freud, da buona manifestazione dell’inconscio, offre il fenomeno del motto di spirito, una è per noi di specialissimo interesse a questo punto. È quella che combina in qualche modo, anzi in modo tale che la loro convergenza risulta «deducibile teoricamente»2, le due definizioni di comicità e di Witz. Accade che le tecniche spiritose lascino libero corso, in un motto, a forme di pensiero consuete nell’inconscio, ma che figurano necessariamente come errori di ragionamento al livello della coscienza. Il costo psichico di simili pensieri o ragionamenti essendo inferiore a quello che il livello della coscienza esigerebbe, la differenza implicita nel confronto ridonda per definizione in piacere comico3. Ma Freud parla in questi casi della comicità come di una «facciata»; e può darsi, aggiunge, che «questa facciata sia destinata a ingannare chi osserva e indaga, che queste storie abbiano dunque qualcosa da nascondere», e che siano in grado «di nascondere non solo ciò che hanno da dire, ma anche che hanno qualcosa di "proibito” da dire»4. I mezzi tipici della logica dell’inconscio, infatti, se in superficie possono divertire come non senso, secondo la logica che è la loro hanno perfettamente un senso: e una analisi lo ottiene senza sforzo raddrizzando lo «spostamento», che negli esempi dati è il principale dei mezzi in questione5. La stessa ostentazione di un assurdo di facciata suole nascondere un giudizio «spostato» sull’assurdità di qualcosa - cioè sempre, per meglio dire, di qualcos’altro6. Una variante dello stesso modello appaiono i motti con facciata «logica» anziché comica: di una logica sofistica, esagerata, che dissimula anziché ostentarla l’erroneità dei propri ragionamenti secondo il livello della coscienza, e con ciò stesso 2 FREUD, II motto cit., p. 225 (G.W. VI 232). Ibid., pp. 226-27 (G.W. VI 233-34). 4 FREUD, II motto cit., p. 130 (G.W. VI 116). 5 Ibid., pp. 71-80, e cfr. pp. 185-86 (G.W. VI 48-58, 187). 6 Ibid., pp. 82 e 131-33 {G.W. VI 61,116-19). 3 9 ostenta fingendo di dissimularla la validità dei ragionamenti stessi secondo un’altra logica di fondo. È a proposito di questa variante che Freud ha sottolineato meglio l’incredibile precarietà e sottigliezza, l’estremismo bilaterale del compromesso raggiunto: «se una parvenza di logica è appiccicata sulla facciata di una storiella, il pensiero vorrebbe dire in tutta serietà: "costui ha ragione”, ma per via della contraddizione che vi si oppone non osa dargli ragione se non nell’unico punto in cui è facile dimostrare che ha torto. La pointe prescelta è il giusto compromesso fra la sua ragione e il suo torto, il che lungi dall’essere una decisione, corrisponde al nostro conflitto interiore »7. Un simile compromesso si presta meno che mai a essere formalizzato come un compromesso alla pari, visualizzato come l’esito di una tensione per cosi dire orizzontale. Ricorro anche stavolta a simboliche «frazioni», perché sono una formula che visivamente suggerisce bene l’idea di una tensione per cosi dire verticale, e qui può ricordarci che il torto letteralmente sovrasta e copre la ragione. Sappiamo che il torto corrisponde alla facciata di comicità (o di falsa logica) che sta per il momento della non-identificazione, e a cui più sopra ho riservato la formula NON SONO IO. Sappiamo che la ragione corrisponde al fondo di complicità del Witz che sta per il momento della identificazione, e a cui più sopra ho riservato la formula SONO IO. La sovrapposizione non reversibile di queste due formule parziali ci permette di inserirne una completa e chiarificatrice, fra quella del modello freudiano più generale, e quella propria a questo gruppo di motti di spirito: REPRESSIONE = NON SONO IO = COMICITÀ. REPRESSO SONO IO WITZ Per i lettori della mia Lettura freudiana della «Phèdre» accentuerei la parentela della seconda formula con quella della negazione freudiana, se la abbreviassi cosi: NON. SONO IO E l’utilità della terza formula, in vista dell’analisi di una commedia di Molière come il Misanthrope, promette di rivelarsi abbastanza prolungata o ripetuta per consigliare di abbreviarla fin da ora cosi: C/W. Che infine il misantropo sia un personaggio tale da far coincidere la distanziazione comica di fronte a lui con un momento repressivo, e la complicità o identificazione in lui con un ritorno del represso, è ipotesi probabile anche prima di intraprendere qualunque analisi. Mi rendo conto che fin qui sarà stato impossibile per i lettori non trovare astratta l’esposizione, quand’anche la si fosse trovata chiara. Ma la via migliore per dar corpo ad essa con numerosi esempi passa ovviamente dalla lettura diretta del libro di Freud, di cui del resto non potevo riassumere in modo adeguato nemmeno la trattazione teorica, e da cui sarebbe ozioso riprendere ora esempi e riprodurne il commento. Ritengo più interessante, prima di trarre conclusioni sull’esempio del 7 Ibid., p. 133: modifico la traduzione, perché la pointe, vocabolo francese tra virgolette nel testo tedesco (Littré: «Trait subtil, recherché, jeu de mots»), non può diventare, sia pure tra virgolette: il «punto» (cfr. G.W. VI 120). 10 Misanthrope, considerarne qualcuno che prendo da commedie diverse dello stesso Molière; o da altri grandissimi autori del secolo di triplice fioritura teatrale che si stende - via via in Inghilterra, Spagna e Francia - fra il tardo Cinquecento e il tardo Seicento. Osservo che è senza dubbio lecito, da brani di commedie (o di parti comiche di drammi), aspettarsi comicità. Ma mi chiedo, al di là dei nostri esempi: sarà frequente incontrarla allo stato puro della non-identificazione assoluta, quale l’ha teorizzata Freud senza distinguere fra natura e arte? Sarà per caso se mi è riuscito così facile trovare esempi conformi proprio al modello C/W, il quale insinua di soppiatto l’identificazione dietro la facciata del suo opposto, e vincola il momento possibile anche in natura al momento che presuppone l’artificio verbale? Arte e identificazione non celebrano in questo modello una loro solidarietà tanto più immancabile quanto più, nel caso specifico, è paradossale? 11