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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”

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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
per il ciclo
Le forze che muovono la storia. I Cercatori
Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
Lettura dell’attore Andrea Carabelli
a seguire dialogo con
Giancarlo Cesana, Presidente Fondazione Cà Granda Ospedale
Maggiore Policlinico
Giulio Sapelli, Ordinario di Storia economica, Università degli Studi di Milano
Modera
Pierluigi Colognesi, professore di Letteratura italiana
Teatro dal Verme, via San Giovanni sul muro 2, Milano
Martedì 14 febbraio 2012

Via Zebedia, 2 20123 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
www.cmc.milano
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
CAMILLO FORNASIERI: Buona sera, un caro benvenuto a tutti voi. Diamo inizio a questa terza
ed ultima lettura teatrale e conversazione alla ricerca di domande e prospettive per la nostra città
contemporanea. Siamo partiti da Nietzsche, la scorsa volta siamo approdati a Dostoevskij e oggi
facciamo un passo in avanti con Charles Peguy, anche se l’epoca rimane circa la stessa a livello
temporale. Come forse avrete visto, nell’immagine dell’invito è raffigurata una città molto
moderna, fortemente metropoli, con grandi strade e le tre facce degli autori di un’altra epoca.
Con questo ciclo abbiamo voluto rifarci le stesse domande e mettere alla prova i tentativi di
risposta, i ritrovamenti, le certezze o le speranze che questi tre grandi personaggi hanno vissuto in
prima persona, che indicano e continuano ad indicare non solo ai cosiddetti lettori, ma anche a
quelle persone che entrano in contatto con loro tramite degli aspetti che da loro derivano.
È con questa chiave interpretativa che oggi vogliamo fare un nuovo passo con Peguy, un autore che
ai più oggi risulterà poco conosciuto, ma che ritengo colpirà, tramite una chiave nuova, anche
coloro che meglio lo conoscono. Abbiamo scelto delle letture che rappresentano bene la sua
poliedrica attività e sensibilità sulla vita: intera, totale, unitaria, perché era giornalista, poeta,
scrittore, polemista, editore, una figura davvero irruente e senza sosta; un grande amante della vita,
della verità, della realtà, che ha introdotto secondo noi un principio nuovo di conoscenza in
un’epoca alla quale ancora apparteniamo, anche se l’avanzamento della nostra società è
assolutamente distante come possibilità e capacità.
Il nucleo vitale e umano e la cultura di cui noi volgiamo parlare è ancora vicino a questo fuoco. Ci
introduce a questo percorso Pierluigi Colognesi, giornalista e scrittore che sta preparando una
grande biografia e una rilettura di Peguy. A lui la parola per introdurci alla serata.
PIERLUIGI COLOGNESI: Buona sera. Un nesso iniziale per introdurre questo ciclo: il grande
teologo De Lubac, poi diventato cardinale, ebbe a dire che Peguy ci salverà da Nietzsche. Cosa
significa? Significa che la critica della modernità può non diventare nichilista, la ricerca di questi
cercatori, che sono stati protagonisti del ciclo, può arrivare a qualcosa.
Il ritrovamento di Peguy è una cosa molto strana (non posso dilungarmi adesso ma magari nelle
domande se ne potrà parlare). Quello che mi interessa evidenziare - anche per introdurre le letture
che stiamo per ascoltare - è che Peguy è uno di quelli che cercano, ma che cercano veramente, non
fa finta, non si accontenta dell’idea che potrebbe trovare giusta, dello schema, del sistema
intellettuale, dell’analisi teorica; a lui interessa il dato, il vero, scontrarsi con le cose così come
stanno. Per questo la sua ricerca è sempre andata - come lui ha sempre sottolineato - non verso
un’ideologia, verso una teoria, ma verso un più profondo. Tant’è che lui - che era nato cattolico
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
come tutti i bambini di fine 800 francesi, che aveva perso la fede come molti di coloro che avevano
iniziato a studiare e che la ritrovo successivamente dopo un lungo percorso - diceva sempre: «io la
fede cristiana non l’ho ritrovata andando indietro o rinnegando, ma andando a fondo,
approfondendo».
Questo mette in luce un secondo aspetto che sentiremo dalle letture, che è centrale nella concezione
di Peguy della scoperta, cioè dell’esito del cercare (un esito che tra l’altro rilancia la ricerca ma
questo non lo approfondiamo ora). Un fondamento dell’esito del cercare, della scoperta è che si
trova sempre qualcosa che avviene, non qualcosa che si può chiudere in «scatole o scatolette di olio
rancido», diceva lui, ma bisogna tenerle vive come sono nate. Queste cose lui le diceva riferite alla
parola di Dio, al Vangelo, ma anche alle cose vere che uno scopre nella vita: amore, significato del
lavoro, bisogno della giustizia. Tutte cose che succedono di fronte agli occhi di chi ricerca e che
non possono essere incasellate in nessun sistema. Questa idea di avvenimento, «la sovranità
dell’avvenimento» come dice in un suo passaggio, è centrale, io credo, anche per la nostra
condizione, perché ci troviamo in un
mondo in cui si vive spesso di definizioni, di
sistematizzazioni che però lasciano fredda la vita della persona che le affronta e le assume.
Un ultimo accenno riguarda il fatto che Peguy, che ha ritrovato la fede riscrivendo la sua prima
opera da socialista su Giovanna d’Arco e poi molte altre opere significative, applica questo stesso
principio, lo vive, lo sperimenta, lo documenta e ce lo propone rispetto al cristianesimo. La cosa
grave per un cristiano, secondo lui, non è avere un’anima cattiva (questo fa parte del gioco, fa parte
della meccanica del Cristianesimo), ma un’anima abituata, dove abituata significa proprio che non
accetta più la sfida continuamente presente dell’avvenimento così come è il Cristianesimo e come è
qualsiasi cosa vera della vita.
Come sapete Peguy è uno scrittore fluviale. Fare l’antologia per stasera è stato davvero difficile
perché ha scritto prevalentemente sulla sua rivista Cahiers de la Quinzaine, ma ha lasciato
moltissimi inediti, che sono stati pubblicati in un modo abbastanza organico alla fine degli anni ’80
in Francia; molte cose in italiano però non ci sono o sono su volumi introvabili. La sua scrittura
inoltre seguiva la logica dell’avvenimento, cioè si lasciava trasportare dalle sollecitazioni che
c’erano sui giornali, dagli incontri con gli amici, dai suoi affetti, dai suoi dolori. Per esempio non
cancellava mai, teneva sempre tutto (i suoi manoscritti sono facili da studiare perché non ci sono
correzioni): quello che avveniva poteva essere aggiustato da successivi avvenimenti che
illuminavano meglio i precedenti, senza cancellarli, toglierli ma correggendoli in vista di un ideale
di bellezza astratta. Comunque alla fine l’antologia è stata fatta e ora la ascoltiamo.
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
LETTURA TEATRALE DI BRANI DI CHARLES PEGUY INTERPRETATO DA ANDREA
CARABELLI:
“Non perdere in stupore e novità, non perdere il fiore”
Véronique – Dialogo della Storia e dell’anima carnale
Monet, quel gran pittore dipingendo trentasette volte le sue celebri, mirabili ninfee ha dipinto anche
un grande problema, un concentrato di grande problema, un problema di limite.
Dato che ha dipinto trentasette ninfee, anche se sono cose tutte uguali, quale sarà la migliore, la
meglio dipinta? quale sarà la volta migliore?
Il primo impulso, l’impulso del buon senso, l’impulso logico, in un certo senso l’impulso
meccanico è quello di dire: l’ultima, perché da una all’altra fino all’ultima, continuamente acquista,
guadagna, incamera, sale sempre più.
E’ un impulso illusorio. E’ proprio la teoria del progresso. La teoria dell’inganno e del disinganno.
E’ l’idea, la teoria del progresso temporale indefinito per l’uomo e per l’umanità. Questa teoria,
sostanzialmente moderna, è sostanzialmente una teoria di risparmio e di cassa di risparmio, di
fecola e provvista, una teoria di capitalizzazione e dell’era della capitalizzazione. E io ti dico: la
creazione artistica, l’operazione non è affatto un’operazione di capitalizzazione borghese. Intanto
che acquista ogni volta, intanto che guadagna, invecchia; mentre acquisisce mestiere, e abitudine (il
guadagno), comincia anche, comincia ogni volta ad invecchiare, acquista abitudine (la perdita),
guadagna vecchiaia, acquisisce vecchiaia, guadagna di perdere. Perde la freschezza, perde
l’innocenza prima, quel bene unico che non si può rinnovare. E io ti dico: la prima volta sarà la
migliore, piuttosto, perché è la meno abituata; la prima ninfea sarà la migliore, perché è la nascita
stessa; e l’alba dell’opera; perché ha il massimo di ignoranza, il massimo di innocenza e di
freschezza; anche se sono cose tutte uguali, la prima ninfea è la migliore, perché sa di meno, perché
non sa. No, non l’ultima, proprio no, perché sa di più. Assolutamente no, se sa tutto. L’abitudine,
che (grande) forza; che gran debolezza.
Tutto il problema del genio è proprio là. L’ultima ninfea sarebbe la migliore parlando nella lingua
della logica, se la realtà consentisse di parlare la lingua della logica. Ma lei, la taccagna, non lo
consente. L’ultima ninfea sarebbe la migliore se si seguisse la teoria, la logica della capitalizzazione
capitalista moderna, se la realtà consentisse di essere proprietari di quel libretto di cassa di
risparmio, ma lei, la sperperatrice, non lo consente; la natura non lo consente affatto, la natura
pezzente e miliardaria, mai povera, mai saggia, tutta piena e tutta tronfia della sua rigogliosa
fecondità.
E allora te lo dico: la prima sarà la migliore, perché non sa, perché è lei che è ancora tutta piena di
stupore, anche se sono cose tutte uguali, tutta piena di
e di novità. E’ tutto un problema
di genio, anzi, tutto il suo problema temporale è forse là: guadagnare, se si può (ma questo non è
molto importante), ma senza perdere, guadagnare, acquisire mestiere, Dio mio, sì, ma, soprattutto,
essenzialmente non perdere in stupore e novità, non perdere il fiore, se è mai possibile non perdere
neanche un atomo di stupore. E’ la prima che conta. E’ lo stupore che conta, principio indiscusso di
scienza, come ha detto quell’Antico, ma non tanto principio di scienza quanto davvero e realmente,
quanto infinitamente di più tra i più profondi principi dell’adorazione.
Il vecchio Hugo, amico mio, vedeva il mondo come se fosse appena stato fatto. Voglio dire, come
se il mondo fosse appena stato fatto. Voglio dire, come se dentro e insieme al mondo anche Hugo,
frammento, frazione del mondo, (il più importante), fosse appena stato fatto.
E’ naturalmente il solo modo di vederlo. Purtroppo non è dato a tutti.
Il genio non nasce mai, non arriva mai troppo tardi in un mondo troppo vecchio. Ignora proprio
cosa sia tardi, cosa sia vecchio, cosa sia invecchiare e invecchiamento. E’ solo giovinezza. E’ solo
ignoranza, è tutto ignoranza dell’invecchiare.
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
Basta che un uomo, anche se per un momento, basta che un’opera, anche se come in un lampo,
sfugga a questa universale, perpetua, temporalmente eterna abitudine, a quello smussamento
universale, a quel magistrale invecchiamento, a quell’invecchiamento dominatore, che subito e
tramite e solo in quello ci sia il genio. Che baleni un lampo di interruzione, che ci sia un qualche
corto circuito a interrompere il transito di questa corrente perpetua (di invecchiamento), che la
macchina automatica di memoria e invecchiamento si fermi. Basta che l’effetto e il movimento di
quella rotazione perpetua sia sospeso, per un momento, anche solo per un istante, e allora subito,
istantaneamente dalla finestra del tempo, dallo iato di quell’istante ecco il genio, proprio lui; che
appare; l’uomo e l’opera del genio che intermittente esplode.
Sono così potente, io la Storia, che in un certo senso basta disubbidirmi, un uomo, un’opera, un
momento, e contravvenire alla legge universale dell’invecchiamento, ed ecco che proprio il genio
passa attraverso la smagliatura della disubbidienza.
La grandezza più grande è farmi eccezione.
La sanità del genio è così: nascondere, otturare, annullare la memoria e l’invecchiamento. Farmi
eccezione: è tutto lì. Il genio è un’armata in guardia, non sovraccarica del suo treno di memoria e di
invecchiamento. Un’armata leggera, un’armata di fanteria leggera, capace per questo di riportare
qualche vittoria.
“C’è l’esperienza come essa è. E l’altra esperienza…”
Deuxieme élegie XXX
Ci piace accontentarci.
Accontentarsi, fermarsi all’apparenza, non farsi troppe domande. L’approfondimento metafisico
delle filosofie antiche e delle religioni consisteva nel «passaggio da un reale ad un altro» in «un
approfondimento del reale stesso», nel passaggio dall’apparenza al significato.
Nel lavoro della scienza moderna, al contrario, si tratta di una sostituzione. Ed anzi si tratta di una
sostituzione molto particolare, molto caratterizzata: della sostituzione al reale apparente di un vero
meno apparente, e un po’ più razionale, o semplicemente un po’ meno irrazionale, che noi
continueremo a nominare il vero scientifico.
….
Questo mondo, che ha sempre la parola esperienza in bocca, intesa nel senso tecnico scientifico, nel
senso dell’esperienza di laboratorio, è il primo che disprezza l’esperienza propriamente detta, questa
crescita incalcolabile e costante, che è della vita stessa, questa entrata perpetua dell’avvenimento
totale nell’avvenimento della propria vita. Ci sono due esperienze; c’è l’esperienza come essa è,
come esce dal ventre della natura, la terrosa esperienza, tutta piena ancora delle scorie e dei fanghi e
della ganga; ribelle dunque, ribelle anche alle leggi. E l’altra esperienza, l’esperienza lavata,
ripulita, vestita, abbigliata, con cura, dalle mani dei migliori creatori, resa asettica, presentabile,
conforme, comoda, obbediente, di buona fattura, quella che può andare nei saloni, che si potrà
condurre nelle Accademie e Società di dotti. In una parola c’è l’esperienza reale e l’esperienza
scientifica, l’esperienza fangosa e l’esperienza oggetto di scienza, l’esperienza materiale, ancora
tutta piena della sua materia, e così tutta piena di infinito, almeno di un infinito, e l’esperienza
intellettuale, sola oggetto di una conoscenza veramente scientifica. Tra queste due esperienze c’è
una incomunicabilità. Pensare è rimpiazzato da un operazione che si crede equivalente e non lo è,
da una falsa equivalenza di costruzioni e di ragionamenti e di proposizioni che si architettano da se
stessi».
“Una cenere intellettuale è caduta su tutto il mondo”
Deuxieme élegie XXX
Bisognava che il mondo moderno ottenesse di seppellire silenziosamente l’umanità vivente sotto la
polvere cineraria delle sue biblioteche. Una cenere intellettuale è caduta su tutto il mondo. Un
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
atomo di cenere non è niente e i primi caduti dei primi atomi di cenere sono stati accolti
gioiosamente. Non c’era niente di così bello che il cielo cinerino. Finalmente abbiamo dei cieli
color cenere. Si cominciava ad averne abbastanza che questo imbecille di cielo fosse blu. E gli
alberi. Soprattutto gli alberi. Diventava barboso, tutto questo verde. Oggi che tutto il mondo è
rivestito di questo lenzuolo, che tutti i testi spariscono sepolti sotto tutti i commenti, che tutti i testi
viventi sono stesi morti sotto la polvere muta e sotto la cenere della chiacchiera delle glosse, che
tutti gli spiriti si irrigidiscono in tutte le lettere, che tutti i popoli spariscono sotto le demografie, le
società sotto le sociologie, che i monumenti cadono sotto le archeologie, che le nazioni spariscono
sotto le demagogie, che perfino tutte le infanzie spariscono sotto le pedagogie, che ogni vita
sparisce sotto il sudario della registrazione, che ogni invenzione è morta, che tutti gli istinti si
vetrificano in intelletti, che tutte le razze (verticali) si stratificano in classi (verticali), l’umanità si
domanda da dove potrà far venire il soccorso».
“Quello sguardo insostenibile a sostenersi”
Il portico del mistero della seconda virtù
Tutto quello che c'è di piccolo è tutto quello che c'è di più bello e di più grande.
Tutto quello che c'è di nuovo è tutto quello che c'è di più bello e di più grande.
Tutto quello che comincia ha una virtù che non si ritrova mai più.
Una forza, una novità, una freschezza come l’alba.
Una giovinezza, un ardore.
Uno slancio.
Un’ingenuità.
Una nascita che non si trova mai più.
Il primo giorno è il più bel giorno.
Il primo giorno è forse il solo bel giorno.
C'è in quello che comincia una fonte, una razza che non ritorna.
Una partenza, un'infanzia che non si ritrova, che non si ritrova mai più.
Ora la piccola speranza
È quella che sempre comincia.
Quella nascita
Perpetua
Quell'infanzia
Perpetua. Cosa si farebbe, cosa si sarebbe, mio Dio, senza i bambini.
Cosa si diventerebbe.
Sono in gamba i bambini, fanno finta di non far nulla,
I birboni,
Sanno bene quello che fanno,
Gli innocenti.
E’ il caso di dirlo.
Sanno bene che fanno tutto; e più di tutto;
Con la loro aria innocente;
Con la loro aria di non sapere nulla;
Di non sapere;
Poiché è per loro che si lavora.
In realtà.
Poiché non si lavora che per loro.
E non sia fa nulla se non per loro.
E che tutto quello che si fa nel mondo non si fa che per loro.
Viene da questo quella loro aria sicura.
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
Cosi piacevole a vedersi.
Quello sguardo franco, quello sguardo insostenibile a vedersi
e che sostiene tutti gli sguardi.
Così dolce, così piacevole a guardarsi.
Quello sguardo insostenibile a sostenersi.
Quello sguardo franco, quello sguardo diritto che hanno,
quello sguardo dolce, che viene diritto dal paradiso.
Così dolce a vedersi, e a ricevere, quello sguardo di paradiso.
Da questo viene quella loro fronte.
Quella fronte sicura.
Quella fronte diritta, quella fronte convessa, quella fronte quadrata, quella fronte alta.
Quella sicurezza che hanno.
E che è la sicurezza stessa.
Della speranza.
E quella parola che hanno, quella voce così dolce, e insieme così sicura.
Così dolce a sentirsi, così giovane.
Quella voce di paradiso.
Perché essa ha una promessa, una segreta sicurezza interiore.
Come il loro giovane sguardo ha una promessa, una segreta sicurezza interiore, e la loro fronte, e
tuta la loro persona.
La loro piccola, la loro augusta, la loro così reverente e reverenda persona.
Beati bambini;
Beata speranza.
Beata infanzia.
Tutto il loro piccolo corpo, tutta la loro piccola persona,
tutti i loro piccoli gesti, sono pieni, grondano, traboccano di una speranza.
Risplendono, traboccano di un'innocenza.
Che è l'innocenza stessa della speranza.
Sicurezza, innocenza unica.
Sicurezza, innocenza inimitabile.
Ignoranza del bambino, innocenza accanto alla quale la santità stessa,
la purezza del santo non è che spazzatura e decrepitezza.
Sicurezza, ignoranza, innocenza del cuore.
Giovinezza del cuore.
Speranza; infanzia del cuore.
Dolci bambini, bambini inimitabili, bambini fratelli di Gesù.
Giovani bambini.
Bambini accanto ai quali i più grandi santi non sono che vecchiaia e decrepitezza.
Bambini, è per questo che siete i padroni e comandate nelle case.
Noi sappiamo bene il perché.
Uno sguardo, una parola da voi fa piegare le teste più dure.
Voi siete i padroni e noi lo sappiamo bene.
Sappiamo bene il perché.
Voi siete tutti dei bambini Gesù.
E quale uomo, quale pazzo, quale bestemmiatore oserebbe dirsi un uomo Gesù.
Quale santo, il più grande santo oserebbe soltanto pensarvi.
E anche voi lo sapete bene che siete i padroni di casa.
La vostra voce lo dice, il vostro sguardo lo dice,
e i vostri capelli ricciuti e la vostra testa sbarazzina.
E quando chiedete qualcosa, lo chiedete come
uno che rida perché è ben sicuro di averla.
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
Voi sapete bene che l'avrete.
Voi bambini imitate Gesù.
Non l'imitate. Siete dei bambini Gesù.
Senza accorgervene, senza saperlo, senza vederlo.
E lo sapete bene.
Bambini la vostra ignoranza, la vostra sicurezza,
la vostra innocenza è l’ignoranza stessa e la stessa innocenza di Gesù,
del bambino Gesù.
E la sua timida sicurezza.
Voi siete delle speranze come il bambino Gesù è una speranza.
(da Il portico del mistero della seconda virtù)
“Abbiamo conosciuto un onore del lavoro”
Il Denaro, Cahiers de la Quinzaine
Abbiamo conosciuto un tempo in cui quando una brava donna diceva una parola, a parlare erano
proprio la sua razza, la sua natura; era il suo popolo che si manifestava. E quando un operaio
accendeva una sigaretta, ciò che stava per dirti non erano le parole stampate da un giornalista su un
quotidiano di quel mattino. I liberi pensatori di quei tempi erano più cristiani dei fedeli di oggi.
Lo si creda o no, noi siamo stati allevati nel seno di un popolo allegro.
Lo si creda o no, fa lo stesso, abbiamo conosciuto operai che avevano voglia di lavorare. Abbiamo
conosciuto operai che, al risveglio, pensavano solo al lavoro. Si alzavano la mattina – e a quale ora
– cantando all’idea di andare al lavoro. E cantavano alle undici, quando si preparavano a mangiare
la loro minestra. Nel lavoro stava la loro gioia, e la radice profonda del loro essere. E la ragione
stessa della loro vita. Vi era un onore incredibile del lavoro, il più bello di tutti gli onori, il più
cristiano, il solo forse che possa rimanere in piedi. Per questo ho potuto dire come esempio che un
libero pensatore di allora era più cristiano di un devoto dei nostri giorni. Un devoto dei nostri giorni
è difatti necessariamente un borghese. E oggi tutti sono borghesi, tutto il mondo è oggi borghese.
Abbiamo conosciuto un onore del lavoro identico a quello che nel Medio Evo governava le braccia
e i cuori. Proprio lo stesso, conservato intatto nell’intimo. Abbiamo conosciuto l’accuratezza spinta
sino alla perfezione, compatta nell’insieme, compatta nel più minuto dettaglio. Abbiamo conosciuto
questo culto del lavoro ben fatto perseguito e coltivato sino allo scrupolo estremo. Ho veduto,
durante tutta la mia infanzia, impagliare seggiole con lo stesso identico spirito, e col medesimo
cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali.
Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a
un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato.
Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva
essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben
fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza,
una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte
della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano.
Secondo lo stesso principio delle cattedrali. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il
lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
…..
Ogni cosa, dal risveglio, era un ritmo e un rito e una cerimonia. Ogni fatto era un avvenimento;
consacrato. Ogni cosa era una tradizione, un insegnamento; tutte le cose avevano un loro rapporto
interiore, costituivano la più santa abitudine. Tutto era un elevarsi, interiore, e un pregare, tutto il
giorno: il sonno e la veglia, il lavoro e il misurato riposo, il letto e la tavola, la minestra e il manzo,
la casa e il giardino, la porta e la strada, il cortile e la scala, e le scodelle sul desco.
Dicevano per ridere, e per prendere in giro i loro curati, che lavorare è pregare, e non sapevano di
dire così bene. A tal punto il lavoro era una preghiera. E la fabbrica un oratorio.
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
“Vogliono disfare, smontare il temporale dall’eterno”
Véronique – Dialogo della Storia e dell’anima carnale
Io, la storia, costituisco un pezzo indispensabile nel meccanismo, nell’organismo dell’eternità, un
pezzo non solo inevitabile, ma indispensabile.
Ciò che è al cuore..., ciò che costituisce il proprio del cristianesimo è questo incastro maschio e
femmina, questo innesto, questo aggiustamento di due pezzi, così straordinario, così inverosimile,
l’uno nell’altro...: il temporale nell’eterno e l’eterno nel temporale.
…
Così noi navighiamo costantemente tra due curati, noi manovriamo tra due bande di curati: i curati
laici ed i curati ecclesiastici; i curati clericali anticlericali, ed i curati clericali clericali; i curati laici
che negano l’eterno del temporale, che vogliono disfare, smontare l’eterno del temporale, da dentro
al temporale; ed i curati ecclesiastici che negano il temporale dall’eterno, che vogliono disfare,
smontare il temporale dall’eterno, da dentro all’eterno. Così gli uni e gli altri non sono affatto
cristiani, poiché la tecnica stessa del cristianesimo, la tecnica ed il meccanismo della sua mistica,
della mistica cristiana, è ciò; è l’aggancio, di un pezzo, di un meccanismo, in un altro; è questo
innesto di due pezzi, questo aggancio singolare; mutuo; unico; reciproco, che non si può disfare:
insmontabile; dell’uno nell’altro e dell’altro nell’uno; del temporale nell’eterno, e (ma soprattutto,
ciò che il più spesso viene negato) (ciò che è in effetti la cosa più meravigliosa), dell’eterno nel
temporale.
“Il modernismo è la virtù della gente di mondo”
Il Denaro, Cahiers de la Quinzaine
Essere liberale è l’esatto opposto dell’essere modernista: è solo per un incredibile abuso di
linguaggio che i due termini vengono in genere apparentati. E io non odio nulla quanto il
modernismo. E io non amo nulla quanto la libertà. (E di per se stessa, e perché è la condizione
irrevocabile della grazia). Parliamo chiaro. Il modernismo sta, il modernismo consiste nel non
credere a ciò in cui si crede. La libertà consiste nel credere a ciò in cui si crede e ad ammettere che
il nostro vicino creda anche lui a ciò in cui crede. Il modernismo consiste nel non credere a se stessi
per non ferire l’avversario che a sua volta non crede. È un sistema di reciproca declinazione, di
mutua rinuncia. La libertà consiste invece nel credere. E nell’ammettere, nel credere che
l’avversario creda. Il modernismo è un sistema di compiacenza. La libertà è un sistema di
deferenza. Il modernismo è un sistema di buona creanza. La libertà è un sistema di rispetto. Non
dovrei usare parole grosse, ma alla fin fine il modernismo è un sistema di vigliaccheria. La libertà è
un sistema di coraggio. Il modernismo è la virtù della gente di mondo. La libertà è la virtù del
povero.
“Non sono più vulnerabili”
Nota congiunta su Cartesio e la filosofia cartesiana
C’è qualcosa di peggio dell’avere un cattivo pensiero. È avere un pensiero bell’e fatto. C’è qualcosa
di peggio dell’avere una cattiva anima e anche del farsi una cattiva anima. È avere un’anima bell’e
fatta. C’è qualcosa di peggio anche dell’avere un’anima perversa. È avere un’anima abituata.
Si sono visti i giochi incredibili della grazia e le grazie incredibili della grazia penetrare in una
cattiva anima e anche un’anima perversa e si è visto salvare ciò che sembrava perduto. Ma non si è
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
visto bagnare ciò che era verniciato, non si è visto attraversare ciò che era impermeabile, non si è
visto ammorbidire ciò che era abituato.
…
Proprio le persone più oneste, o semplicemente le persone oneste, o insomma coloro che vengono
denominati tali, che amano ritenersi tali, non hanno essi stessi difetti nell’armatura. Non sono feriti.
La loro pelle morale sempre intatta dà loro un cuoio e una corazza senza difetti. Non presentano
quella apertura prodotta da una spaventosa ferita, da un’indimenticabile miseria, da un invincibile
rimpianto, da un punto di sutura estremamente mal legato, da una mortale inquietudine, da
in’invisibile recondita ansietà, da una segreta amarezza, da un precipitare perpetuamente
mascherato, da una cicatrice eternamente mal rimarginata. Non presentano quell’apertura alla grazia
che è essenzialmente il peccato. Poiché non sono feriti, essi non sono più vulnerabili. Poiché non
mancano di niente non si dà loro niente. Poiché non mancano di niente non si dà loro ciò che è tutto.
La stessa carità di Dio non medica colui che non ha piaghe. Perché un uomo era a terra, il
Samaritano, lo rialzò. Perché la faccia di Gesù era sporca Veronica la asciugò con un panno. Ora
colui che non è caduto non sarà mai rialzato; e colui che non è sporco non sarà mai asciugato.
Le «persone oneste» non si lasciano bagnare dalla grazia. È una questione di fisica molecolare e
globulare. Ciò che si definisce morale è uno strato che rende l’uomo impermeabile alla grazia.
….
Perciò niente è contrario a ciò che si definisce (con un nome un po’ vergognoso) religione quanto
ciò che si definisce morale. La morale ricopre l’uomo contro la grazia. […]
La morale è una proprietà, un regime e certamente un gusto della proprietà. La morale ci fa
proprietari delle nostre povere virtù. La grazia ci dà una famiglia e una razza. La grazia ci fa figli di
Dio e fratelli di Gesù Cristo.
“La bussola è impazzita”
Zangwill
Il mondo moderno, lo spirito moderno, laico, positivista e ateo, credono di essersi liberati di Dio e
in realtà, per chi vuole oltrepassare le formule, mai l’uomo è stato tanto imbarazzato da Dio.
Quando l’uomo si trovava in presenza degli dei, poteva più nettamente rimanere uomo. Essendo
Dio al proprio posto di Dio, il nostro uomo poteva rimanere al proprio posto di uomo. Con una
ironia veramente amara, è proprio nell’età in cui l’uomo crede di essersi sbarazzato di tutti gli dei
che lui stesso non si mantiene più al suo posto di uomo, e che, al contrario, si trova ingombrato da
tutti gli dei. Di fronte allo zero-Dio il vecchio orgoglio fa il suo lavoro, lo spirito umano ha perso il
suo equilibrio, la bussola è impazzita.
(30.10.1904, Zangwill)
“Senza limitazione né misura”
Il Mistero dei santi innocenti
Conosco bene l’uomo. Sono io che l’ho fatto. E’ uno strano essere.
Perché in lui entra in gioco questa libertà che è il mistero dei misteri.
Gli si può ancora chiedere molto. Non è troppo cattivo…
Quando si sa come prenderlo gli si può ancora chiedere molto.
Farlo rendere molto. E Dio sa se la mia grazia sa prenderlo,
se con la mia grazia so prenderlo. Se la mia grazia è insidiosa,
abile come un ladro. E come un uomo che caccia la volpe.
Io so prenderlo. E’ il mio mestiere. E anche questa libertà è mia creazione.
Gli si può chiedere molto cuore, molta carità, molto sacrificio.
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Testi-CMC
Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
Ha molta fede e molta carità.
Ma quel che non gli si può chiedere, Dio buono, è un po’ di speranza.
Un po’ di fiducia, insomma, un po’ di distensione.
Un po’ di resa, un po’ di abbandono nelle mie mani,
un po’ di desistenza. Lui si irrigidisce sempre.
Ora tu, notte figlia mia, ci riesci, a volte, lo ottieni a volte questo.
Dall’uomo ribelle.
Che acconsenta, questo signore, che si arrenda un po’ a me.
Che distenda le sue povere membra stanche su un letto di riposo.
Che distenda un po’ su un letto di riposo il suo cuore indolenzito.
Che la sua testa soprattutto non funzioni più. Funziona già troppo, la sua testa. E lui crede che sia
una cosa seria, che la sua testa funzioni così.
E i suoi pensieri, no, quel che lui chiama i suoi pensieri.
Che le sue idee non girino e non sbattano più nella sua testa e non suonino più come semi di zucca.
Come un sonaglio in una zucca vuota.
Quando si vede cosa sono, quel che lui chiama le sue idee.
Povero essere. Non mi piace, dice Dio, l’uomo che non dorme.
Quello che brucia nel suo letto di inquietudine e di febbre…
Colui che la sera andando a letto fa piani per l’indomani.
Costui non mi piace, dice Dio.
Lo sciocco, non sa neanche come sarà fatto il domani.
Non conosce neanche di che colore sarà il cielo.
Farebbe meglio a dire la sua preghiera. Non ho mai rifiutato il pane del giorno dopo.
Colui che è nella mia mano come il bastone nella mano del viaggiatore, costui mi è gradito, dice
Dio.
Colui che è nelle mie braccia come un neonato che ride,
e che non si preoccupa di niente,
e che vede il mondo negli occhi di sua madre e della sua balia,
e che non lo vede e non lo guarda che lì,
costui mi è gradito, dice Dio.
Ma colui che fa dei calcoli, colui che in se stesso, nella sua testa, per l’indomani lavora come un
mercenario.
Lavora spaventosamente come uno schiavo che gira una ruota in eterno
(e detto fra noi come un imbecille)
Ebbene costui non mi è gradito affatto, dice Dio.
Colui che si abbandona mi piace. Colui che non si abbandona non mi piace, è così semplice.
Colui che si abbandona non si abbandona ed è l’unico a non abbandonarsi.
Ora tu notte, figlia mia, mia figlia dal grande manto, mia figlia dal manto d’argento,
sei l’unica che vince talvolta questo ribelle e fa piegare questa dura cervice.
E' allora, o Notte, che vieni.
E ciò che hai fatto una volta,
lo fai ogni volta,
ciò che hai fatto un giorno,
lo fai ogni giorno,
come sei scesa una sera,
così scendi ogni sera.
Ciò che hai fatto per mio figlio fatto uomo,
o grande Caritatevole, tu lo fai per tutti gli uomini suoi fratelli.
Li seppellisci nel silenzio e nell'ombra
E nell'oblio salutare
Della mortale inquietudine
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Testi-CMC
Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
Del giorno.
Ciò che hai fatto una volta per mio figlio fatto uomo,
Ciò che hai fatto una sera fra le sere.
O notte, tu lo rifai ogni sera per l'ultimo degli uomini
( E' allora, o notte, che vieni)
Tanto è vero, tanto è reale che lui era diventato uno di loro.
E che si era legato alla loro sorte mortale
E che era diventato uno di loro, per così dire a caso,
E che si era fatto uno di loro
Senza limitazione ne misura.
Perché prima di questa perpetua, imperfetta,
Questa perpetuamente imperfetta imitazione di Gesù Cristo,
Di cui parlano sempre,
C'è stata questa molto perfetta imitazione
dell'uomo da parte di Gesù Cristo,
Questa inesorabile imitazione da parte di Gesù Cristo,
Della miseria mortale e della condizione dell'uomo.
P. COLOGNESI: Comincio con una domanda a Cesana: Il mondo moderno, abbiamo sentito, è
l’idolo con cui Peguy è stato infaticabilmente polemico; il mondo moderno, dice lui, ha ridotto
l’esperienza ad esperimento, l’osservazione libera del dato è stata sostituita dall’idea preconcetta.
Come si documenta questo a livello di comune modo di pensare, nel dominio quindi dello
scientismo che sembra avvolgerci?
GIANCARLO CESANA: Peguy, come avete sentito, è un fiume. Per capire quello che dice bisogna
immergervisi spesso e poi riflettere su quello che si sente.
Ciò che differenzia l’esperienza dall’esperimento è la sostanziale diversità del criterio. Il criterio
dell’esperienza è l’incontro, il rapporto e quindi, in ultima analisi, fondamentalmente, l’imprevisto.
Il criterio dell’esperimento è il controllo, ovvero che tutti i fattori determinanti l’evento che si
chiama esperimento siano controllati. Io credo che l’aspetto in cui si vede maggiormente lo
scientismo sia proprio il bisogno che oggi si ha di controllare quello che si vive.
Rifacendomi alla mia esperienza di medico posso descriverlo attraverso tre considerazioni. La
prima è il riduzionismo. Ippocrate - che è stato quello che ha pensato la medicina moderna e che ha
portato via la medicina ai preti, ha portato via la cura delle malattia dalla magia, dalla
identificazione sciamanica con Dio - non sapeva nemmeno cosa fosse la malattia, un po’ perché non
la conosceva, un po’ perché l’approccio era verso l’uomo malato, quindi la considerazione di tutta
la persona. Lungo i secoli la medicina ha progressivamente ridotto la sua attenzione. Per esempio
Morgagni, nel XVIII sec. ha cominciato a capire che la malattia proveniva dagli organi malati, cioè
si era accorto che la degenerazione vista nei tessuti non era la degenerazione cadaverica ma era il
risultato della malattia. Oggi si usa molto la medicina personalizzata che è il tentativo di curare le
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
persone curando il loro DNA, cioè curando la loro struttura genetica e la si definisce così
intendendo che la persona coincide coi suoi geni. Questo è un pensiero molto diffuso: siamo in
un’epoca in cui vale ancora molto la psichiatria biologica, per cui le malattie mentali dipendono dai
geni. Voi dovete pensare che nel cristianesimo quello che identifica la persona, cioè il suo giorno
natale, è il giorno della morte, cioè quando la persona si compie, non i suoi geni. Il riduzionismo è
quello per cui, soprattutto nelle Università, si sa tutto di ciò che è molto piccolo ma non si sa più
niente di ciò che è molto grande, si sa tutto del locus genetico e non si sa più niente delle stelle.
Questa impostazione corrisponde ad un tentativo di controllare la realtà. Quanto più riduco la mia
attenzione alla realtà, tanto più divento come il cavallo a cui sono messi i paraocchi, tanto più la
realtà mi appare controllabile.
Ci sono altri due aspetti molto tipici della nostra società in cui si vede l’effetto dello scientismo.
Uno è la sostituzione del concetto di Provvidenza, l’esperienza della corrispondenza tra quello che
io desidero e la realtà, col concetto di assicurazione. Tutti oggi devono essere assicurati, le
assicurazioni sono obbligatorie. Obama ha fatto la sua grande riforma della sanità rendendo
l’assicurazione obbligatoria.
L’altra idea fondamentale è la sostituzione del concetto di peccato con quello di malattia. Io mi
ricordo di aver visto, qualche anno fa, un’importante rivista medica americana che aveva fatto un
numero monografico su “epidemiologia delle armi da fuoco”, come se la diffusione delle armi da
fuoco fosse una malattia. Sono tutti fattori che determinano la preoccupazione dell’uomo moderno
di controllare, un po’ perché può essere portato a credere di riuscirci, un po’ perché è sempre stata
una tensione interna dell’uomo, come diceva Eliot nei Cori da “La rocca”: «essi cercano sempre di
evadere dal buio esterno e interiore sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe
bisogno di essere buono». Questo è il dominio della scienza.
La definizione di salute più utilizzata da tutti, acriticamente, è quella dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità del 1946 che dice: «la salute è una condizione di completo benessere fisico, mentale e
sociale». Capite che è la definizione di una realtà che non esiste; al limite può essere una
definizione di felicità. La cosa impressionante è che questo desiderio del mondo perfetto viene
applicato anche alla religione. Il paradigma scientifico viene introdotto anche nella religione, come
diceva Muller parlando dello gnosticismo: «questa tentazione è tra le più pericolose o addirittura la
tentazione per eccellenza, quella che ferma il più delle volte il cammino della fede perché affascina
con la speciosa speranza di un sistema religioso perfettamente chiaro in cui ogni mistero si svuota».
La realtà dell’imprevedibile da cui eventualmente tutto dipende, la realtà non è più misteriosa.
L’aspetto più impressionante della società moderna è che a questo dichiarato bisogno di controllo
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
corrisponde altrettanto diffusa la superstizione. Come diceva Chesterton, gli atei non sono quelli
che non credono a nulla, sono quelli che credono a tutto, per esempio credono alla scienza.
P. COLOGNESI: Sapelli, una delle osservazioni di Peguy è che il mondo moderno, quello di cui
siamo figli, ha distrutto tutti gli ideali, li ha avviliti. Uno solo, di tutti i principi che dominavano
l’umanità, dice, ha vinto: L’Argent, il denaro. E’ attuale questa lettura?
GIULIO SAPELLI: Io però vorrei parlare di Peguy. Abbiamo già sentito un’interpretazione di
Peguy interessante ma molto parziale, un’interpretazione bergsoniana, un po’ fenomenologica. Non
so se sia proprio nello spirito di Peguy, se uno legge le opere di Peguy nella Pléiade ha un altro
Peguy da quello che è stato presentato qui. Meno impressionistico, meno narcosindacalistico, meno
infuocato. Peguy è un pensatore tragico, è tragico il suo pensiero, è tragica la sua fine. Peguy è un
pensatore nazionalista, è un francese, Jeanne d’Arc è la sua opera più nota. Peguy, come disse bene
Emily Pula in un grande libro, è la quintessenza del pensiero antiborghese del cattolicesimo
francese. Peguy è dentro al cattolicesimo francese senza esserne la “Vandea”, Peguy è appunto il
pensatore con cui ha fatto i conti tutta la grande tradizione cattolica francese, che ci sovrasta e che
nessuno ha mai superato, eccetto forse il cattolicesimo nordamericano, ma venendo da tutt’altra
realtà. Qui c’è un Peguy un po’ anti intellettualistico, che va bene perché è più digeribile, io mi
rendo conto, solletica di più gli animi qui ne sont pas contre le bourgeoisie. Tanto più che adesso
non si conosce neppure il francese e la Plèiade non si può più leggere. Veniamo a L’Argent, non
v’è dubbio che sia il cuore di un pensiero anti capitalistico non marxista di Peguy, assai diffuso:
Drake in Inghilterra, Morris… La grande tradizione del laburismo inglese ha una radice evangelica,
i livellatori, basta leggere Thompson che ce lo spiega. Peguy appartiene a questa tradizione che è
tipicamente ottocentesca in Francia, settecentesca in Inghilterra, che ha le sue radici nel
narcosindacalismo, non a caso infatti Peguy se la prende col capo del Patriarcato massonicosocialista Jean Jouve. Peguy difese l’ebreo Dreyfus, si alleò per una battaglia per la libertà ma è
anche quello che combatte la borghesia e rompe col partito socialista da posizioni che diremmo
oggi di sinistra e mentre fa questo scopre la fede. E’ un pensatore molto complesso, non sta con
nessuno, oggi questo è l’inattualità. Dopo Todi non so più chi riesce a leggere Peguy. Dopo che i
cattolici entrano nello zoo e si fanno identificare come branco leggere Peguy è essere contro la
vulgata in atto. La critica famosa al denaro va di pari passo con quelle frasi bellissime dell’operaio
che ama il lavoro che andrebbero lette ai ragazzi della Bocconi per far vedere che Monti è tutto ciò
che non vogliamo essere. Peguy è un pensatore esplosivo, gli operai sono quelli che avevano la
fierezza del mestiere. Peguy è un pensatore totalitario: non c’è solo l’argent, esso domina perché
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
siamo schiavi di un’economia monetaria, oggi poi siamo in preda ad un nichilismo finanziario,
addirittura siamo governati da chi ha diretto la cattedrale del nichilismo finanziario, la Bocconi. Più
attuale di così Peguy non so riconoscerlo, veramente è un autore che non leggerà nessuno perché
nessuno conosce il francese e L’Argent è in una edizione introvabile, quindi chi comanda può stare
tranquillo. Devo dire che la critica di Peguy all’argent va letta come contrappasso di quelle
bellissime pagine sulla speranza. Non c’è solo l’argent perché la persona è irriducibile anche
all’economia monetaria, la persona non diventa merce. Tutte queste balle sul mercato del lavoro
non hanno fondamento, c’è qualcosa di insopprimibile, la persona non diventa merce. Contro
l’argent c’è il soggetto che è una delle cose più care a Peguy, il cuore, persona. Vorrei sottolineare
questo, Peguy è un pensatore molto difficile, molto colto e non sappiamo cosa sarebbe stato di lui se
il suo acceso nazionalismo non l’avesse portato a combattere per la Francia e a morire sul fronte.
P. COLOGNESI: Una domanda velocissima. L’abbiamo sentito prima, l’idea che Peguy da del
genio, assimilandolo alla figura del bambino, quello che produce una novità dal di dentro dei
meccanismi economici piuttosto che intellettuali. Lei ha mai incontrato un genio?
G. SAPELLI: Ne ho incontrati tantissimi. Per esempio un genio era mio padre, che era un operaio
fotoincisore, un tipografo. Innanzitutto era un genio nel suo lavoro perché faceva delle riproduzioni
fotomeccaniche straordinarie. Il genio è colui che ha un pensiero trasversale. In un film bellissimo
su Einstein c’è la storia di questo quacchero inglese, grande matematico e astronomo che viene
molto criticato in patria perché la sua religione gli impedisce di andare al fronte, e scopre la
genialità di Einstein leggendo alcune sue note. Il genio, direi, è colui che è nel particolare, però,
sempre per arginare questa ondata anti intellettualistica, per essere tale il genio deve essere anche
uno che fatica. Peguy era diventato gobbo e quasi cieco per le letture.
P. COLOGNESI: Sono molto d’accordo. Prima di fare la stessa domanda a Cesana, difendo un po’
la scelta dei testi. E’ un errore grave fare del Peguy anti intellettuale, cosa che era (si scagliò contro
il partito degli intellettuali della Sorbona), un autore anti razionale. Peguy spiega molto bene la
differenza nella sua ultima opera rimasta inedita dicendo che per lui razionalità è ubbidienza al dato
della realtà, è la realtà che non si può chiudere nelle idee. Cesana, tu hai incontrato un genio?
G. CESANA: Anche io credo di averne incontrati molti. Per me la genialità è la capacità di vedere
evidenze di cui non ci si accorge. Mi ha sempre molto colpito il racconto o leggenda che si fa di
Newton che avrebbe scoperto la legge di gravitazione universale vedendo cadere una mela. Lui si è
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
posto la domanda e ha capito perché la mela cadeva perpendicolarmente. Da questo punto di vista
io di geni ne ho incontrati parecchi. Sono stato fortunato, ho incontrato tante persone che mi hanno
fatto vedere cose di cui non mi accorgevo. Per me Giussani è stata questa introduzione ad una realtà
di cui io nemmeno mi ero accorto. Io non so interpretare Peguy, non so neanche il francese e poi mi
piace anche Monti, devo avere qualche difetto…Il mistero, Dio, grande punto interrogativo non è
oltre la storia, è dentro la storia, Peguy è questo. Essere religiosi non essere esentati dalla storia. Ho
fatto una recente discussione con un Cardinale, in cui ad un certo punto lui mi diceva, dopo avermi
spiegato tutta la politica del suo Paese: “ Io non darò mai un’indicazione politica, perché la Chiesa
non deve”. E io gli ho detto:” Scusi Eminenza, lei è un uomo, io sono un uomo. Perché io devo
impegnarmi in politica e lei no?”. Secondo me Peguy è esattamente l’affermazione di questo: Dio si
vede da quelli che lo seguono. E io sono diventato cristiano non perché abbia capito chissà che cosa
di Gesù Cristo o di Dio ma perché ho capito una cosa molto semplice alla quale mi ha introdotto
genialmente don Giussani: se Dio esiste lo si segue, non è come uno che è d’accordo con noi, è
Qualcuno a cui si va dietro e per capire Chi è bisogna andargli dietro. Io sono qui dopo quaranta
anni a seguire questa idea geniale.
P. COLOGNESI: Vorrei tornare sul tema del lavoro già accennato. Rodano parlando della
concezione del lavoro in Peguy, della famosa “sedia ben fatta”, pur difendendola, anzi difendendo
Peguy come uno dei pochi intellettuali che ha trattato seriamente la tematica del lavoro, tutto
sommato alla fine dice: questa idea del lavoro, lavorare come lavoravano gli scalpellini nelle
cattedrali medievali, è un’idea che va bene per una società fatta di contadini al massimo di piccoli
artigiani. Io credo che invece abbia qualcosa da insegnare ancora oggi.
G. SAPELLI: Io sono d’accordo con lei. Sono stato recentemente in una grande fabbrica italiana di
seimila dipendenti che lavora nella missilistica. Lì trovi degli operai che sono degli operatori più
che operai, sono dei tecnici, scienziati, periti. Questa
è stata la diffusione di quell’evento
nichilistico e drammatico che è stato il ’68. Sono le teorie del taylorismo o post-taylorismo secondo
cui l’operaio è una specie di barbaro. Se uno legge Simon Weil o anche Gramsci ci insegnano che
anche l’operaio che lavora nella catena di montaggio riesce a costruirsi degli spazi di autonomia
mentale per sopravvivere, perché altrimenti non sopravivrebbe. Io da giovane ho passato un anno
all’Olivetti in una fabbrica di computer e lì c’erano degli operai che lavoravano in serie e si cercava
di render loro la vita meno difficile perché era un’azienda che non era come la Fiat e cercava di
mettere la persona al centro del lavoro, ma c’erano degli operai che pur facendo azioni ripetitive
avevano un’autonomia. Sono stato di recente in una grande fabbrica alimentare quasi del tutto
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
automatizzata, mi sono occupato di studiare i turni di notte ma è difficile che l’operaio perda
completamente la sua anima, la sua spiritualità. In fondo Peguy scrive in quel modo perché lui è un
pensatore che pensa sempre al soprannaturale. Questa è la sua forza, anche le cose più quotidiane le
vede da una visione soprannaturale. In questo è un anticlericale, è un cattolico non clericale. Anche
il lavoro ha una soprannaturalità ed è il frutto della presenza di Cristo nella storia che va oltre
l’alienazione capitalistica o del plusvalore capitalistico che continua ad esserci ma un conto è
vedere la cosa dando di questa una visione negativa, nichilistica e un conto è vederla da un punto di
vista soprannaturale, vedere che la persona anche quando fa il lavoro più umile non si aliena mai
completamente. Si immagini oggi dove anche il lavoro di fabbrica è fatto con delle tecnologie che
richiedono attenzione, quindi diciamo che questo brano che è stato spesso interpretato come una
favola alla “Menenio Agrippa”. In fondo Rodano non era Felice Balbo, voglio dire che i cattolici
comunisti c’erano quelli un po’ inferiori intellettualmente che erano i rodaniani e quelli colti e
intelligenti che erano con Felice Balbo e lui non ha mai detto una banalità simile. È una pagina
straordinariamente attuale che bisognerebbe far leggere a ogni operaio neoassunto. Se poi abbiamo
le cooperative sociali che sono delle nuove forme di schiavismo perché fanno una cooperativa di
pulizia e la gente non sa neanche che è un socio quella pagina non va bene, non bisogna
generalizzare, c’è la marginalità nel lavoro. Ci deve essere responsabilità dell’operaio e soprattutto
del padrone. Ci sono stati dei padroni che si sono uccisi perché hanno dovuto licenziare delle
persone. Io penso che sia estremamente attuale e, dico di più, straordinariamente moderna e che
indica il futuro del lavoro. In ogni caso indica ciò che dobbiamo essere, santificando il lavoro in
ogni nostro atto.
P. COLOGNESI: Peguy ha detto: “Cosa si sarebbe, Dio mio, senza i bambini?”. Perché allora non
se ne fanno più?
G. CESANA: La risposta che mi viene d’immediato è perché gli adulti sono rimasti bambini. Ciò
che differenzia un adulto da un bambino è che l’adulto è fecondo. Il bambino non deve generare,
l’adulto sì, altrimenti non è adulto, è cresciuto per nulla. Non ha protagonismo nella storia. Un
aspetto che caratterizza la nostra società è l’infantilismo. Sembra legato a quel discorso del
controllo che si faceva prima e cioè la riduzione della vita a gioco. Io lo penso sempre quando vedo
l’agire di molti impegnati in politica, dove la politica viene utilizzata per ridurre a gioco, cioè per
togliere drammaticità alla durezza dei tempi e alla fatica dei rapporti. Noi di CL cantiamo una
canzone che dice: “Se non ritornerete come bambini non entrerete mai” ma il Vangelo dice: “Se non
diventerete come bambini…”. Cioè se tu adulto non diventerai come un bambino, cioè con la tua
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
capacità di generare non manterrai lo stupore di un bambino non entrerai mai nel Regno dei cieli,
cioè non entrerai mai nell’esperienza definitiva dell’amore che è l’anticipo di oggi, che è necessario
per poter generare. Per poter generare bisogna esser capaci di amare, cioè di riconoscere l’altro,
l’imprevisto che è l’altro e portare il sacrificio che questo comporta, perché riconoscere l’altro è un
sacrificio che non vuol dire solo rinunciare a qualcosa, ma riconoscere che c’è qualcosa di più
grande di me che non sono io ma l’altro. Uno per fare un bambino deve desiderare l’altro,
l’imprevisto che è l’altro, altrimenti non ha il coraggio di farlo. Questa secondo me è la vera
questione: l’infantilismo. Io mi ricordo che una volta Amendola disse: “Non è la scuola che
seleziona, ciò che seleziona è la vita”. Appunto! Parafrasando Brera, la vita non è uno sport per
signorine.
P. COLOGNESI: Infatti l’accusa più grave che Peguy faceva al kantismo era di essere celibe, di
non generare. L’ultima domanda riguardo la concezione del cristianesimo che aveva Peguy che,
come è stato detto, nella seconda parte della sua vita permeava un po’ tutto. Vorrei soffermarmi su
due aspetti di questa concezione con il professor Sapelli. Peguy dice che il cristianesimo non è un
insieme di persone che la pensano in un certo modo ma di persone che appartengono a una certa
razza. Quest’ultima parola è stata interpretata in termini razzisti, però mi sembra molto importante
soprattutto perché siamo in un contesto dove l’appartenenza è demonizzata. Questa domanda mi è
sorta leggendo sul Corriere della Sera il predicozzo laico di uno scrittore triestino che se la prendeva
con un parroco della città perché aveva messo fuori un cartello che diceva: “non chiedeteci più la
carità perché non abbiamo più soldi e per prima cosa io aiuterò i parrocchiani”, e lo scrittore diceva:
“ma come? Il cristianesimo è apertura. Se vivi di appartenenza difendi solo la tua famiglia. Che
cristianesimo è?”. Mi sembra che l’appartenenza sia demonizzata mentre Peguy parlava del
cristianesimo come di appartenenza ad una razza. Cosa significa?
G. SAPELLI: Il termine “razza” non aveva il significato che ha oggi. Anche gli studi
dell’antropologia parlavano di “bon sauvage”, anche Montaigne parla di sauvage ma non nel senso
in cui lo intendiamo noi. Se lei va all’archivio de Las Indias a Siviglia, vede che i missionari de Las
Casas che sono quelli che difendevano gli Indios dalla schiavitù dei portoghesi compilavano dei
ritratti degli Indios e li chiamavano “les sauvages”. Il problema di fondo di Peguy è un altro. La
razza è la tradizione. Anche gli operai che lavorano sono una razza. Poi dobbiamo pensare come
pensavano i coevi, cioè quelli di allora. L’appartenenza non aveva il significato negativo che ha
oggi. Oggi con il fondamentalismo diamo al termine appartenenza un significato che ci fa paura.
Peguy parla della razza cattolica. Qual è? È quella che ha scoperto che il cristianesimo era un
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
elemento di convivenza e di libertà e che aveva consentito a Peguy come consentirà al cattolico
Bernanos di dire alla Chiesa spagnola: “hai fatto male a metterti al fianco di Franco”. Questo è il
cattolicesimo francese: capire che la religione è diversa dalla fede. La religione può diventare
instrumentum regni e la Chiesa è diventata, ahimè, troppe volte instrumentum regni e anche oggi, se
farà ciò che pensa di fare. Invece la fede non è instrumentum regni ma è il soprannaturale. I cattolici
sono quella razza la cui religione è l’unica in cui Dio si è fatto uomo. L’elemento di libertà è
l’Incarnazione. Peguy ha delle pagine straordinarie sull’Incarnazione. Anche qui bisogna
contestualizzare, in questo senso bisogna essere degli intellettuali per capire Peguy, non è una
lettura da fare nei ritagli di tempo.
P.COLOGNESI: Grazie. Sottolineo il nesso razza-tradizione perché mi sembra molto significativo.
Ultima domanda a Cesana. L’abbiamo già sentito: una delle cose più sorprendenti sul Cristianesimo
pronunciata da Peguy è l’opposizione secca alla morale come verniciatura che impedisce la
penetrazione della Grazia. Cosa vuol dire oggi questo?
G.CESANA: L’ha già detto Sapelli prima, quando lui ha introdotto la differenza tra religione e fede.
La religione è una idea che noi abbiamo di Dio e delle regole connesse, e sempre finisce nel
fanatismo, perché i capi ne sono i chierici, quelli che questa idea di Dio l’ hanno studiata, e ai laici
vengono affidati dei compiti che loro controllano. Mentre la fede è riconoscimento di una Presenza,
riconoscimento di una Presenza positiva per la vita. La fede in Dio ha la stessa matrice della fiducia
che uno ha nella mamma. La prima si risolve in regole, e può essere una religione che riguarda Dio,
che riguarda i soldi, che riguarda la scienza... quando l’uomo si affida a delle regole per condurre la
proprio vita, si affida in qualche modo ad una religione, cioè ad una cosa, una forza più grande di
lui ma che lui però pretende di controllare. E da questo punto di vista il moralismo non è tanto la
morale o la moralità, che sono importanti. La morale è la capacità che l’uomo ha, quando cade, di
rialzarsi. È la fedeltà con cui uno ama una donna, è la dedizione con cui la mamma si alza dieci
volte per il bambino che piange di notte. il moralismo è il privilegio di un valore sottolineato dalla
mentalità comune contro tutti gli altri. Il valore può essere giustissimo, l’onestà, il pagare le tasse,
che non sono disvalori, ma il problema è che non ci sono più tutti gli altri. Allora la vita come
tensione, come realizzazione ideale diventa impossibile, perché diviene la sottomissione alla regola,
o meglio al consenso che determina la regola, e in questo modo non se ne esce. E non è che ora si
può dire che l’onestà non conta, che pagare le tasse non conta, no, non sto dicendo questo. Tant’è
che Gesù stesso dice “ Io non voglio cambiare neanche una iota della legge” ma, come dice san
Paolo, “è venuto per introdurre la Grazia”. Perché la sostanza della vita, la verità della vita è che
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Charles Peguy: “…Nulla è mai nulla, tutto è nuovo”
questa è un dono, e questo è il principio della speranza. Peguy, non citato oggi, diceva che “per
sperare uno deve aver ricevuto una grande Grazia”. Bisogna aver avuto un dono, aver la certezza di
un dono oggi. La morte monta, perché tutto scompare, anche noi. Pensare che la vita non sia
dominata dalla morte è un’esigenza che noi abbiamo, ma averne la certezza, al punto da fare gli
ospedali, da curare i malati infettivi, come accadeva nell’Alto Medioevo, per cui gli infermieri
morivano, eppure facevano assistenza negli ospedali. Per fare questo ci vuole speranza, ci vuole
questa virtù bambina, questo filo apparentemente sottilissimo, ma in realtà molto resistente che è
quello che conduce la vita. Tutte le mattine ci si alza sperando, perché se no non ti alzeresti. Questo
filo è dato dal fatto che in fondo si riconosce che la vita è un dono, noi siamo fatti oggetto di una
Grazia, ci è stato dato qualcosa, non ce lo siamo dati noi, ci è stato dato. Se non c’è questa certezza
sperare è difficilissimo, e allora la morale diventa la più grande oppressione. Il moralismo è una
cosa tremenda.
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