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La scena del crimine 10

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La scena del crimine 10
La scena del crimine
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Il soccorritore sulla scena del crimine
10.1 Scena del crimine: il luogo
Le scene del crimine si dividono in scene aperte e scene chiuse. Per aperte
si intende in luogo aperto, ovvero esposto alle intemperie, all’aria, come
per esempio una strada, un parco, un bosco. Per scene chiuse si intende
un luogo chiuso: una casa, un appartamento, un ufficio.
La prima distinzione è fondamentale poiché l’intervento degli enti preposti cambia in modo sostanziale.
Per scena del crimine, naturalmente, si intende un luogo in cui sia avvenuta una fattispecie di reato prevista e punita dal codice penale.
Contrariamente a quanto si possa pensare, per scena del crimine non si
intende, quindi, solamente il luogo in cui è avvenuto un omicidio, ma anche un negozio in cui si sia consumata una rapina o una casa in cui ci sia
stato un furto.
La scena del crimine non prevede che le vittime, ovvero le persone che hanno subìto un reato, siano necessariamente ferite o siano rimaste uccise. Un
esempio chiarificatore: chi è rimasto vittima di un truffatore che, per operare la sua truffa, si serviva di un ufficio completo di computer, stampanti e telefoni, è sì, vittima, ma non è ferita (se non, al limite, nell’orgoglio).
In questo caso la scena del crimine sarà l’ufficio del truffatore, il suo computer, i dati che ha lasciato dietro di sé che, se trovati e ben repertati, saranno utili per arrivare all’arresto del colpevole, a un giusto processo e alla
giustizia per la vittima.
10.2 Scena aperta
I soccorsi in luoghi aperti sono piuttosto vari: dalla strada al campo incolto, dalla montagna alla spiaggia, a una piscina, a un cantiere ecc.
La scena in luogo aperto porta con sé più persone rispetto a una scena in
luogo chiuso (a meno che non si debba intervenire per un infarto alla prima della Scala).
I soccorritori, così come i Vigili del fuoco e le forze dell’ordine, sono abituati (e addestrati) a lavorare in strada. La gente che si ferma a guardare
un incidente stradale (a rischio di causarne altri) è endemica del soccorso
in strada. Sembra non ci siano mezzi, protocolli, procedure, teli, richieste
(sia gentili che brusche) utili a far sì che la scena resti sgombra.
Capitolo 10: La scena del crimine
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Pare si tratti di un richiamo ancestrale a vedere da vicino la disgrazia, il
sangue, la morte per poi andarsene ancora vivi ringraziando Dio, Allah o
Buddha per averla scampata.
Che sia questo o no, fa poca differenza. Chi lavora in strada sa che necessariamente ha a che fare con gli astanti.
I soccorritori, in genere, si organizzano in modo che tutto l’equipaggio abbia compiti ben precisi cui assolvere, e quindi non si curano molto di cosa
accade intorno a loro.
A meno che gli astanti non siano amici della vittima e non decidano, più
o meno improvvisamente, di intervenire sul soccorso o sui soccorritori.
Non capita spesso, ma capita. Nei casi di risse o di incidenti, quando a essere
coinvolto è un membro di un clan, di una banda, di una famiglia e tutti gli
altri sono preoccupati, arrabbiati, sconvolti, la situazione può degenerare.
Per quanto riguarda le forze dell’ordine delimitare la scena aperta è, spesso, piuttosto difficile: dove è iniziato il reato? Dove è andato il colpevole?
Da dove è venuto? Ha lasciato tracce dietro di sé? E se sì, in quale raggio?
Di solito si opta per delimitare la scena in base a ciò che visivamente è possibile considerare: se vi è un passaggio sia da un lato che dall’altro si opterà per chiuderli entrambi e per usarne uno solo per far entrare gli addetti
sulla scena del crimine di modo da non contaminarla ulteriormente. Se ci
sono tracce visibili a occhio nudo la delimitazione includerà tutte le tracce
evidenti e una zona di “rispetto” in cui, eventualmente, si potrebbero trovare altre tracce più piccole o non visibili a occhio nudo.
I nemici delle scene aperte sono gli agenti atmosferici: il sole a picco, un
temporale, la neve, il vento sono tutti fattori che possono stravolgere, in
pochissimo tempo, la scena di un crimine.
La pioggia rischia di “lavare via” le tracce, così come il vento rischia di
portare qualcosa lontano (magari uno scontrino, un foglio di carta su cui
c’erano impronte digitali e Dna) o, al contrario, di portare qualcosa sulla
scena che non c’entra affatto con il delitto (un altro foglio, per esempio).
Il fattore tempo è fondamentale: quando si è all’aperto non si può umanamente pensare che la scena possa restare “congelata” in eterno: è opportuno mettere in atto tutte quelle misure per preservarla il più possibile e per
repertare bene, ma velocemente, le prove.
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Il soccorritore sulla scena del crimine
10.3 Scena chiusa
Il soccorso in un luogo chiuso (appartamento, ufficio, fabbrica, scuola,
chiesa, teatro) è, in genere, meno “frequentato” rispetto a quello in luogo
aperto. Di solito, in un ufficio, ci sono i colleghi del paziente, ma non accade spesso che tutte le persone presenti nel palazzo si riversino a vedere
cos’è successo. Lo stesso vale per un appartamento o per una scuola. Questo non significa che gli astanti non ci siano: ci sono all’ingresso del palazzo dove si è fermata l’ambulanza, nel giardino condominiale, affacciati
alle finestre e sul pianerottolo. Ma meno facilmente intralciano o potrebbero intralciare il soccorso. Nel caso di lite in famiglia o tra vicini di casa,
naturalmente, gli animi sono caldi, ma gli spazi d’azione sono più ristretti
e, dal punto di vista dei soccorritori, più controllabili (in fin dei conti, per
stare al sicuro e lavorare bene, spesso basta chiudere la porta).
Delimitare una scena chiusa per le forze dell’ordine è meno problematico.
Se la fattispecie di reato è avvenuta in un appartamento la scena non sarà
solo l’appartamento, bensì il palazzo (dalle cantine al tetto), la portineria
ed eventualmente anche la via adiacente. Ma naturalmente è meno difficile “contenere” la scena.
Al contrario della scena aperta, nella scena chiusa difficilmente ci sarà pericolo imminente di pioggia o vento, ma ci possono essere altri fattori che
potrebbero far insorgere problematiche differenti.
La prima è lo spazio. Non sempre gli appartamenti o le case sono ampi al
punto da poter permettere a chi si muove all’interno l’agio di cui avrebbe
bisogno. Molto spesso ci si ritrova a lavorare in ambienti ristretti, angusti,
magari male illuminati (si pensi a una cantina, per esempio). Lo spazio ridotto è sicuramente utile per quanto riguarda le eventuali tracce (non potranno essere sparse nel raggio di chilometri), ma potrebbe rivelarsi terribile dal punto di vista del movimento. Il rischio di inquinare la scena è
molto alto: se è impossibile muoversi senza calpestare le tracce, bisognerà
organizzarsi per contaminare la scena il meno possibile.
Un altro fattore nemico delle scene chiuse è l’affollamento. Se, abbiamo
detto, non è uno spazio particolarmente grande, rischiamo che lo stesso
numero di persone che intervengono su una scena aperta, al chiuso risultino comunque troppe.
Se ho cinque o sei persone in un raggio di venti metri è una cosa. Se le stesse cinque o sei persone si ritrovano in una cantina di due metri per tre, potrebbe risultare impossibile lavorare.
Capitolo 10: La scena del crimine
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In base allo spazio a disposizione e alla condizione in cui è la scena, si deve
decidere come intevernire.
Per quanto riguarda i soccorritori lo spazio molto piccolo, la nostra solita cantina di due metri per tre, rischia di far procedere il servizio in modo
tale da devastare completamente la scena: ciò che non deve mai essere dimenticato è che la priorità resta salvare la vita umana.
In questo capitolo siamo “entrati sulla scena del crimine”.
• La scena del crimine è il luogo in cui è stato commesso un reato previsto e
punito dal codice penale.
• La scena si dice “aperta” se il luogo in cui è avvenuto il reato è all’aperto: una
strada, un campo, un bosco.
– La scena aperta rischia il deterioramento delle tracce per i fenomeni atmosferici (pioggia, vento, sole).
– Sulla scena aperta di solito è più probabile la presenza di gente (se il luogo è pubblico i curiosi hanno libero accesso).
– Lavorare sulla scena aperta espone a rischi.
• La scena si dice “chiusa” se il reato è avvenuto in ambiente chiuso: un appartamento, un solaio, una cantina, un ufficio.
– La scena chiusa è più protetta.
– Ma i rischi ci sono ugualmente.
I punti salienti:
• È bene ricordare che l’autore del reato potrebbe essere presente sia sulla
scena aperta che su quella chiusa.
• Potrebbe essere tra gli astanti.
• Potrebbe tornare sulla scena.
L’ingresso sulla scena del crimine
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Il soccorritore sulla scena del crimine
11.1 Entrare sulla scena del crimine
Sia che si tratti di una scena in luogo aperto che di una in luogo chiuso muoversi sulla scena del crimine rappresenta un momento piuttosto delicato.
I soccorritori, di solito, non fanno molto caso a come si muovono. Le loro
istanze, come è intuibile, sono ben diverse da quelle delle forze dell’ordine.
In realtà il protocollo 118 prevede, innanzitutto, che il soccorritore si muova in sicurezza, questo significa che se ci sono ostacoli che impediscono il
passaggio prima dei soccorritori e, in previsione dell’evacuazione del paziente, dei soccorritori e della barella (o della tavola spinale), è necessario rimuoverli in modo da non rischiare di trovarsi il passaggio precluso.
Per esempio sulle scale di un ingresso si possono trovare vasi di fiori o tappetti o altre suppellettili: se ci si passa anche con la tavola spinale con sopra
il paziente si lascia tutto com’è, ma se si nota che il passaggio è difficoltoso,
si tenta, in meno tempo possibile, di spostare ciò che impedisce il percorso.
Se ci si trova su una scena del crimine, anche il solo spostare un vaso da
fiori o un tappeto potrebbe confondere successivamente gli investigatori.
Va da sé che nella maggior parte dei casi i soccorritori si muovono nella
maniera più comoda per loro. E non si tratta certo di noncuranza, ma semplicemente di mancanza di informazioni: i soccorritori non sanno nulla del
lavoro delle forze dell’ordine. E viceversa.
Stiamo sempre parlando di maggioranza. Ci sono sicuramente persone bene
informate, ma quello che si vuole intendere in questa sede è che, anche in
materia di corsi, di training e re-training, formazione, ognuno fa per sé.
Sapendo che dopo i soccorritori, in qualche caso la scena verrà passata al
setaccio da investigatori, forse il lavoro dei soccorritori stessi può presentare “un occhio di riguardo”.
Il fatto di spostare ciò che impedisce il passaggio, per esempio, potrà essere documentato: non è un problema fotografare un vaso di fiori com’era
prima e come è stato spostato. Si tratta di piccole accortezze che difficilmente portano via tempo al servizio (fare una foto con un telefonino è cosa
da qualche secondo) e che si possono rivelare di grande utilità per gli investigatori: avere un’idea precisa di come si trovava la scena, in questo caso
il vaso di fiori, prima e dopo l’intervento dei soccorritore è fondamentale.
Anche perché, come poc’anzi accennato, non solo i soccorritori non sanno molto del lavoro degli investigatori, ma anche gli investigatori sanno
poco e niente del lavoro dei soccorritori: non sanno chi si trova a bordo
delle ambulanze, non sanno se sono medici, infermieri o soccorritori, non
sanno come funziona il sistema 118, confondono spesso i ruoli e, molto
spesso, hanno idea che sulle ambulanze ci siano esclusivamente volontari.
Capitolo 11: L’ingresso sulla scena del crimine
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Detto questo, entrare sulla scena del crimine può essere complicato. Si tratta di
un momento delicato: la scena incontaminata viene “violata” dall’arrivo dei soccorritori. E magari dei Vigili del fuoco e, perché no, dalle forze dell’ordine stesse.
Entrare sulla scena di un crimine significa alterarla. Non è possibile fare diversamente. Ma con attenzione e metodo è possibile evitare grandi devastazioni e preservare la maggior parte delle tracce.
11.2 Principio di Locard
Edmond Locard (1877-1966), francese, era un criminologo e a lui si deve
il principio di interscambio che ha preso il suo nome: Locard infatti stabilì che quando due cose vengono in contatto si attua uno scambio tra loro.
Entrambe quindi lasceranno qualcosa e porteranno via qualcosa.
Un esempio piuttosto semplice è un’impronta sulla sabbia: nella sabbia resterà l’impronta del piede e sul piede resterà la sabbia.
Il principio di Locard non è sempre così chiaro e semplice e molto spesso
ciò che resta e ciò che viene portato via è invisibile a occhio nudo.
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Il soccorritore sulla scena del crimine
Ma partendo dal principio di interscambio può risultare più semplice muoversi sulla scena di un crimine ben sapendo che qualcosa ci resterà addosso
e che qualcosa lasceremo sulla scena. E ragionando sul fatto che la stessa
cosa sarà successa all’autore del reato: qualcosa deve aver lasciato e qualcosa deve essere rimasta addosso a lui.
Gli investigatori conducono l’indagine tenendo ben presente il principio di
Locard: chi è stato sulla scena di un crimine verosimilmente vi ha lasciato
le sue tracce, il suo DNA, le sue impronte digitali, magari quelle dentarie (se
ha addentato una mela o il braccio della vittima). Alcuni interscambi sono
visibili a occhio nudo (l’impronta di una mano insanguinata su una porta
bianca, per esempio) per altri invece servono strumentazioni e apparecchiature adatte a renderli visibili (la polvere per esaltare le impronte digitali, il
luminol per le tracce di sangue, le lampade a lunghezza d’onda variabile crimescope - per l’evidenziazione di tracce biologiche o di altro materiale).
In tutti i casi i soccorritori che intervengono sulla scena di un crimine sanno
che se ci sono entrati sicuramente hanno lasciato qualcosa di loro e quando ne escono sanno che qualcosa (anche fosse solo il dna della vittima, del
paziente soccorso) è rimasto loro addosso.
Secondo il principio di interscambio enunciato da Locard due cose che vengono in contatto lasciano reciprocamente tracce. Un esempio è una traccia di sangue che venendo in contatto con una scarpa lasci un’impronta a terra mentre sulla suola resterà il sangue.
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11.3 Avessi le ali, volerei
Muoversi su una scena del crimine senza lasciare alcuna traccia sarebbe
impresa ardua anche volando.
Per questo motivo è necessario partire dal presupposto che, come la perfezione non è di questo mondo, la scena del crimine, con l’intervento dei
soccorritori, verrà sicuramente alterata.
Ma alterare è meno peggio di devastare completamente.
Per cui sarà necessario accontentarsi.
Il primo passo fondamentale è tenere presente che gli autori dei crimini sono,
come tutti noi, esseri economici. Ovvero fanno quello che gli conviene fare.
Facciamo subito un esempio pratico, in modo da rendere l’idea: siamo in
strada e inizia a piovere, non abbiamo l’ombrello e abbiamo un documento che ci sta molto a cuore e che non vogliamo bagnare. Cosa facciamo?
Per prima cosa tenteremo di trovare un rifugio. Non dovesse esserci cammineremo rasente i muri, magari sotto i balconi dove la pioggia non riesce a raggiungerci. Poi cercheremo di mettere il documento sotto la giacca in modo da ripararlo il più possibile.
Il processo appena descritto è frutto di un ragionamento economico che,
nella realtà, avviene nel giro di pochi, pochissimi secondi.
Sempre in tema di ragionamento economico, se siamo di fretta scegliamo
la via più breve e più veloce per andare o tornare da qualche parte.
E, a proposito di vie più brevi, il criminale che di fretta di solito ne ha parecchia, sicuramente è arrivato sulla scena e, soprattutto, se ne è andato
scegliendo la strada più ovvia.
Non è necessario raccontarsi tutti i milioni di casi in cui i criminali entrano ed escono dalle scene del crimine. Basta sapere che per andare dal punto A al punto B probabilmente il criminale ha tirato una linea retta e l’ha
percorsa (ostacoli permettendo, naturalmente).
11.4 Il percorso del soccorritore
Il soccorritore che si trovi su una scena del crimine (vuoi perché manifesta
o perché è stato avvisato che si è trattato di un crimine, vuoi perché pur non
essendo manifesta e non essendo stato informato, lo sospetta) può procedere con un percorso che sicuramente il criminale non ha fatto.
Per avvicinarsi alla vittima che richiede cure, il soccorritore può fiancheggiare le pareti. Ovvero: invece di tracciare anche lui, come già ha fatto pre-
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Il soccorritore sulla scena del crimine
sumibilmente il criminale, una linea retta andando dal punto A (l’ingresso) al punto B (la vittima), può seguire i muri perimetrali della stanza, del
cortile, dell’appartamento.
L’operazione, soprattutto se l’ambiente non è un campo di calcio, non dovrebbe richiedere molto più tempo di quanto ce ne vorrebbe seguendo la
linea retta.
In questo modo le eventuali tracce lasciate dal criminale si possono considerare salve.
Pensiamo alle suole delle sue scarpe: magari hanno portato con sé qualcosa utile alle indagini, anche solo un’orma, ancorché parziale, può aiutare gli investigatori.
Se l’orma e le tracce vengono calpestate dal soccorritore (che poi sono almeno due su ogni ambulanza, tra l’altro, spesso si aggiungono anche l’infermiere dell’auto infermieristica o il medico dell’auto medica) chi farà
le indagini avrà poco dell’autore e molto di chi ha soccorso la vittima.
In relazione a quanto detto, in un soccorso ideale sarebbe auspicabile che il
soccorritore indossasse, oltre ai guanti, anche dei calzari, in modo da non
lasciare sulla scena tracce delle sue calzature che possano impedire l’evidenziazione delle tracce già presenti.
In questa ottica, dato che il servizio in ambulanza inizia minuti prima rispetto all’arrivo sul posto, non è impossibile utilizzare parte del tempo (pochi secondi) del tragitto per indossare presìdi, come appunto calzari e guanti, ad hoc per preservare le tracce e, altresì, per proteggersi.
Nel delitto di Chiara Poggi e nell’omicidio di Meredith Kercher erano evidenti le impronte lasciate dalle suole delle scarpe degli assassini.
Nelle scene del crimine caratterizzate da una grande quantità di sangue è
bene che il soccorritore valuti anche la possibilità di cambiarsi più volte
calzari e guanti, che imbrattandosi con l’uso, possono contaminare aree
pulite nonché lo stesso soccorritore esponendolo a ulteriori rischi.
Capitolo 11: L’ingresso sulla scena del crimine
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Un’accortezza che può salvare le prove è quella di entrare sulla scena del crimine percorrendo il perimetro invece che il centro della stanza.
11.5 Sempre a proposito di gesti economici
Gli investigatori, quando iniziano un’indagine, si domandano se la scena così
come gli si presenta sia la stessa che è stata lasciata dall’autore del reato.
E iniziano con domande semplici: la luce era accesa o spenta? La porta di
ingresso era aperta o chiusa? E le finestre? Erano aperte o chiuse?
Domande che, a prima vista, sembrano piuttosto banali. Un non addetto ai
lavori potrebbe non cogliere l’importanza di questi che dettagli non sono.
Chiunque abbia letto un libro giallo d’altri tempi (di Agatha Christie, per esempio) sa che le porte e le finestre c’entrano sempre con la risoluzione del caso.
Nella realtà non è detto che c’entrino sempre, ma è meglio tenerne conto.
E gli investigatori bravi lo fanno.
Di solito chi entra in una casa che non è la sua o ha trovato le chiavi da
qualche parte, o si fa aprire la porta da qualcuno (chi è in casa, per esempio) oppure deve ricorrere alla violenza e scassinarla.
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Il soccorritore sulla scena del crimine
E ancora. Se è entrato dalla finestra e poi è fuggito dalla stessa finestra difficilmente è riuscito a chiuderla (non dall’interno, comunque).
Se invece è entrato dalla finestra e poi è uscito dalla porta può essere che
la finestra sia aperta o chiusa (dipende se il criminale ha avuto tempo e voglia di chiuderla).
Se l’irruzione nell’ambiente chiuso è stata diurna, la luce sarà spenta: c’era
ancora luce quando il criminale se ne è andato, per cui non ha avuto bisogno di accenderla.
Se invece l’irruzione è stata serale o notturna (e in casa pensava non ci fosse nessuno) magari ha acceso le luci: giusto per vedere dove mettere i piedi.
C’è anche il fattore abitudine. Quando lasciamo un ambiente spesso siamo
preda del “l’ultimo chiuda la porta”. Per cui, istintivamente, chiudiamo le
porte e spegniamo la luce.
Il criminale, che spesso fa le cose in fretta (il suo obiettivo principale è non
farsi prendere), in qualche occasione resta “vittima” di gesti abitudinari.
In questi casi può essere che, dopo aver svaligiato un intero appartamento con i guanti calzati, aver legato le vittime, magari averle picchiate, alla
fine di tutto si levi i guanti. E poi spenga la luce. Abitudine.
Sull’interruttore l’ultima impronta sarà la sua.
Se i soccorritori (e, magari prima di loro, le forze dell’ordine o i vigili del
fuco) entrando accendono per prima cosa la luce, magari senza guanti (dato
che il protocollo prevede di indossarli prima di toccare la vittima, ma non
necessariamente prima di entrare in un appartamento) a quel punto l’unica impronta disponibile verrà seriamente compromessa.
11.6 Luci, porte e finestre: il ruolo del soccorritore
Il soccorritore che voglia preservare eventuali tracce non visibili a occhio
nudo (le impronte digitali, per esempio, devono essere esaltate con polveri per essere poi viste e rilevate, proprio come si vede fare in tv nei telefilm
come CSI) deve preoccuparsi di indossare i guanti in lattice prima di intervenire sulla scena. In questo modo, anche se gli capitasse di dover toccare qualcosa, almeno non lascerà le sue impronte digitali.
Ricordarsi se una luce era accesa o spenta entrando in una stanza è utile
alle indagini: se il soccorritore è costretto ad accenderla dovrebbe, come
detto, farlo con i guanti e, comunque, dovrebbe poi comunicare che ha acceso la luce agli investigatori.
Capitolo 11: L’ingresso sulla scena del crimine
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Si tratta pur sempre di un’alterazione della scena del crimine.
Lo stesso dicasi se ha aperto o chiuso le finestre. Le maniglie, anche in
questo caso, andrebbero toccate il meno possibile e sempre con i guanti.
Naturalmente la porta di ingresso è fondamentale. Se arrivando il soccorritore l’ha trovata aperta (nel senso di non chiusa a chiave o socchiusa) deve
riferirlo. Si tratta di un dettaglio importante.
Anche in questo caso dovrebbe preoccuparsi, come detto, di indossare i
guanti. Sulla porta e sulla maniglia (presumibilmente toccate dal criminale) ci potrebbero essere tracce importanti: DNA, impronte digitali, orme di
scarpe (se l’ha presa a calci o l’ha aperta o chiusa aiutandosi con un piede).
Trovare la porta di ingresso aperta, la luce spenta, le finestre chiuse ha un valore per le successive indagini. Il soccorritore deve
documentare con foto e video (ove ne fosse impedito con “il colpo d’occhio” e la successiva nota scritta) lo stato della scena.
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Il soccorritore sulla scena del crimine
In questo capitolo abbiamo analizzato il modo in cui il soccorritore può fare il suo
ingresso sulla scena di un crimine.
• Tenere presente che, se è stato commesso un reato, la scena non è sicura.
• Abbiamo parlato del principio di Locard: per cui se due oggetti o persone entrano in contatto tra loro si attiva un interscambio per cui entrambi prenderanno qualcosa dall’altro e lasceranno qualcosa sull’altro.
• Il soccorritore non può volare! Non è possibile entrare sulla scena senza alterarla, ma:
– si può e si deve (ove possibile) fare foto e video della scena e dell’ingresso sulla scena in modo da documentare lo stato dei luoghi, delle persone
e delle cose;
– si sceglie un percorso che rasenti i muri invece di passare per la strada
più veloce: se non si deve attraversare un campo da calcio, la strada, per
tempo, più o meno si equivale: percorrere un corridoio stando più vicino
al muro che al centro non porta via tempo, ma preserva le prove!
• Il criminale, come tutti, compie gesti economici (che gli fanno risparmiare tempo) e automatici (che tutti noi abbiamo imparato).
• Importante, fondamentale, che il soccorritore documenti:
–
–
–
–
Porte: aperte o chiuse
Luci: accese o spente
Finestre: aperte o chiuse
Tapparelle, imposte: aperte, chiuse, abbassate, alzate
I punti salienti:
• La scena in cui si è consumato un reato NON È SICURA!
• Ogni volta che entriamo in contatto con qualcuno o con qualcosa lasciamo
tracce e portiamo via tracce: un viaggio in tram, una serata tra amici, stare
tra la folla di un concerto ci fa tornare a casa “contaminati” dal Dna di altri
soggetti, da fibre e da tante altre sostanze.
• Aperto/Chiuso
• Acceso/Spento
Congelare la scena del crimine
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Il soccorritore sulla scena del crimine
12.1 Riprese audio, video e foto
Il soccorritore che si trovi a intervenire sulla scena del crimine può filmare e/o fotografare la scena.
La premessa, va da sé, è che l’uso delle immagini resti nell’ambito del soccorso e delle indagini. L’uso improprio, come per esempio la diffusione via
internet, la vendita o la consegna delle immagini alla stampa, è perseguibile, oltre che esecrabile.
L’utilità di filmare la scena è decisamente rilevante ai fini delle indagini.
Come già detto mantenere inalterata la scena di un crimine è compito piuttosto arduo, soprattutto se è necessario compiere tutte quelle operazioni
per prestare i primi soccorsi a una vittima. Per permettere a chi, dopo l’intervento dei soccorritori, dovrà occuparsi dell’indagine, di farlo in modo
da avere le informazioni il più complete possibile, la videoregistrazione o
le fotografie sono uno strumento ottimo.
Sebbene i soccorritori, molto spesso, siano chiamati a testimoniare sulla
condizione in cui si trovava la scena al loro arrivo, può essere molto difficile ricordare i dettagli.
Soprattutto se lo scopo ultimo, nel caso del soccorritore di salvare la vita
del paziente, non collima con lo scopo degli investigatori (scoprire il colpevole e assicurarlo alla giustizia).
Naturalmente tentare di fotografare o riprendere una scena mentre si sta
prestando soccorso non è mai semplice (a meno che l’equipaggio sia composto da una quarta persona o che il servizio lo consenta). Ma basta organizzarsi e stabilire i compiti precisi prima.
Una buona organizzazione di équipe può risolvere facilmente il problema:
la distribuzione dei compiti e delle mansioni può essere estesa anche alla
preservazione e alla documentazione della scena.
L’arrivo dell’ambulanza potrebbe essere precedente all’arrivo delle forze
dell’ordine. In molti casi, infatti, sono i soccorritori ad allertare, secondo
necessità, le forze dell’ordine.
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
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La legge consente al soccorritore di filmare e/o fotografare lo stato di cose, luoghi e persone. In questa foto abbiamo optato per una piccola fotocamera digitale, ma è possibile usare il proprio smartphone e consegnare poi quanto filmato o fotografato all’autorità competente. Foto e video non possono essere, naturalmente, utilizzati per scopi differenti dall’indagine.
12.2 La memoria e la testimonianza
La tecnologia mette a disposizione ormai strumenti per immortalare i momenti salienti delle nostre esistenze e vi è altresì la possibilità di condividere con altri l’importanza che hanno per noi quegli attimi.
Quasi tutti i telefoni cellulari in commercio sono dotati di fotocamere e videocamere digitali di uso intuitivo. Se poi parliamo di smartphone, ovvero di apparecchi “intelligenti”, la tecnologia ci ha traghettati verso lidi che
solo pochi anni fa ci sembrano inesistenti o fantascientifici.
L’offerta di strumenti tecnologici a prezzi abbordabili e di facile uso ha fatto sì che ognuno di noi (o almeno chi di noi ne sente il bisogno) può essere sempre in contatto con il mondo.
Di contro sembra quasi che le videoregistrazioni in sede di assunzione di
sommarie informazioni non siano una pratica ancora radicata. In tanti casi
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Il soccorritore sulla scena del crimine
abbiamo a che fare con verbali scritti in modo standard che, se da un lato
riportano il fatto, dall’altro non danno modo a chi li legge in momenti successivi, di comprendere cosa abbia detto esattamente la persona ascoltata.
Se poi più persone sono state sentite nella stessa giornata dallo stesso verbalizzante, il rischio di avere “verbali fotocopia” è altissimo: gli aggettivi
e gli avverbi usati saranno sempre i medesimi, la formulazione della frase sarà identica per ogni persona e la possibilità di cogliere le sfumature,
i toni, le pause di chi parla andranno per sempre perdute nella sintesi interpretativa della verbalizzazione.
Se la prassi adottasse un sistema di audio e video registrazione, chiunque
e solo all’occorrenza, nei momenti successivi, potrebbe accedere al video
in modo da risalire a quanto detto senza esistazioni, senza dubbi e senza
“mediazioni” da parte del verbalizzante.
Ma cosa c’entra tutto questo con i soccorritori?
C’entra.
Nel caso il soccorritore si trovi a intervenire sulla scena di un crimine, gli
attimi in cui “mette piede” sulla scena sono quelli per cui quella scena non
sarà mai più la stessa.
Abbiamo già più volte specificato in questa trattazione che un intervento del
soccorritore altera per sua natura la scena e non potrebbe essere altrimenti.
Un soccorso diverso sarebbe impensabile.
Ma se i soccorritori fossero dotati, come accade già in molte realtà come
quella americana, di videocamere che si attivano con il movimento, si farebbe un enorme passo avanti. Sul mercato esistono prodotti a costi accessibili e di facile uso e manutenzione che, se montati su caschi, divise o
ambulanze, possono offrire grandi risultati.
Se l’ambulanza fosse dotata di una telecamera (a grandangolo o a uovo)
sul cruscotto da attivare nel momento in cui il mezzo parte per la destinazione non sarebbe escluso che, nel filmato, potrebbe immortalare la fuga
del colpevole.
Una volta giunti sul posto i soccorritori, anche loro muniti di telecamera,
potrebbero “portare sulla scena” gli investigatori: se il ferito fa un nome è sicuramente una testimonianza. Nome che, magari, durante il servizio sfugge.
Si avrebbe così la possibilità di visionare la scena, nei momenti successivi il soccorso e dagli enti preposti alle indagini, come è stata trovata. Se ci
si sofferma un attimo sui casi di cronaca più conosciuti e sui processi lunghi e tortuosi proprio perché la scena del crimine è stata a più riprese alterata si ha un’idea immediata di quanto importante possa essere la videoregistrazione.
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
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Il secondo passo avanti riguarda proprio il soccorritore che potrebbe trovarsi nella condizione di dover rendere testimonianza in merito al proprio
operato sulla scena di un crimine.
Ogni processo si basa su ciò che i testimoni ricordano. Partendo dal presupposto che vi è un obbligo di legge, sia per i processi civili che per quelli penali, che impone al testimone chiamato in giudizio di dire la verità e
di non nascondere nulla di cui è a conoscenza. Se il giudice scopre che il
testimone mente si rivolge alla procura per intentare un procedimento penale per falsa testimonianza.
In questa foto abbiamo voluto esagerare. Abbiamo dato a uno dei soccorritori un registratore per raccogliere le testimonianze
degli astanti. Impossibile? Fino a un certo punto. Basterebbero microcamere fissate alla divisa (o a un casco) come già accade in diversi Stati del mondo e registrare e filmare sarebbe semplice. I costi di questa tecnologia sono ormai decisamente
accessibili. E tutto è possibile anche attraverso il proprio smartphone.
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Il soccorritore sulla scena del crimine
La testimonianza
Dal testo art. 497 cpp e art. 251 cpc: “Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta
la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.
Secondo il legislatore la testimonianza deve essere la più oggettiva possibile e di conseguenza priva di valutazioni soggettive e di deduzioni. Per esempio il testimone che racconta di aver trovato un siringa ipodermica accanto
a un corpo e ne deduce che la persona in questione sia tossicodipendente.
Il punto di vista di chi racconta, non fosse altro che è lui e non altri, che racconta è naturalmente imprescindibile.
Resta il problema di ciò che si ricorda e come lo si ricorda.
“È ormai noto come il processo mnemonico consista in una complessa funzione della mente di tipo ricostruttivo piuttosto che riproduttivo. Si è, infatti, ampiamente superata quella concezione che considerava il funzionamento della memoria umana assimilabile a quello della fotografia: non si tratta
di un processo che semplicemente immagazzina un’immagine relativa a ciò
che viene osservato. Tale processo si articola, tradizionalmente, secondo tre
fasi: acquisizione, ritenzione e recupero. In quest’attività ricostruttiva è importante sottolineare come l’elaborazione dell’informazione sia possibile anche per la presenza della memoria sensoriale, della memoria a breve termine e di quella a lungo termine. È nell’ambito di quest’ultima che troviamo la
cosidetta memoria episodica e la memoria semantica: nel primo caso si tratta della ritenzione di episodi che sono chiaramente collocabili nel tempo e
nello spazio; la memoria semantica invece è quella relativa alla conoscenza
concettuale e linguistica legata alle esperienze maturate.
La memoria, benché unico processo, può quindi differenziarsi sotto vari aspetti, in base agli elementi che contiene. La memoria autobiografica, ad esempio, ci permette di dire chi siamo e di mantenere nel tempo la nostra identità. (...). La memoria episodica è una forma di memoria legata a eventi e ci
aiuta nella vita di tutti i giorni, quando, ad esempio, abbiamo bisogno di ricordare come tornare in un certo luogo.
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
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Se di un’informazione o di un evento conserviamo il significato, allora il dato
è rappresentato sotto forma di memoria semantica che, come dice la parola, conserva il significato delle informazioni e delle conoscenze. La memoria semantica è strutturata in schemi e scripts. I primi sono formati dall’associazione tra concetti ed elementi, per tale motivo ognuno di noi ha una
rappresentazione ad esempio di “albero” attraverso l’associazione di attributi in grado di dargli concretezza. Gli scripts sono strutture più complesse, poiché riguardano rappresentazioni di eventi come l’andare al ristorante o l’andare a comprare il giornale. Gli schemi e gli scripts sono importanti
perché strettamente coinvolti nel processo della testimonianza e ci guidano nell’interpretazione degli eventi e della loro ricostruzione. Alla base della
memoria episodica e semantica c’è infine la memoria procedurale, una forma, più che altro, operativa, in grado di trattenere le connessioni tra stimolo e risposta e che agisce in modo indipendente dagli altri due sistemi. (...).
Il racconto di una persona che ha, ad esempio, assistito a un incidente o a
una rapina, non potrà mai avere caratteristiche di totale accuratezza e coerenza con i fatti realmente accaduti, poiché non sarà mai la riproduzione fedele dell’evento vissuto” (1).
Un fatto noto è la tendenza di ognuno di noi a ricordarsi dei particolari che
ci colpiscono: ognuno di noi ha la sua esperienza di vita, il suo background,
le sue paure, le sue manie e le sue inclinazioni. Tutto questo contribuisce
a fissarsi su alcuni particolari e non su altri. Alcuni ricorderanno benissimo
marca e modello di un’auto che a momenti li metteva sotto sulle strisce pedonali, altri invece ricorderano il colore, ma pochi avranno la prontezza e la
capacità di guardare e memorizzare la targa.
Uno studio di Loftus e Messo del 1987 ha evidenziato quello che viene chiamato weapon focus ovvero il concentrasi sull’arma durante una rapina piuttosto che sul rapinatore. In quel caso la vittima sarà così impegnata a “tenere a bada” il vivo di volata (ovvero la bocca della canna dell’arma) che non
avrà il tempo e il modo di considerare chi le sta di fronte.
(1) Gaetano De Leo, Melania Scali, Letizia Caso, La testimonianza - Problemi, metodi e strumenti nella valutazione dei testimoni, Il Mulino, 2005
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Il soccorritore sulla scena del crimine
In tantissimi casi le vittime ricordano i loro aggressori come “alti” o comunque “più alti” di loro. In molti casi, quando gli aggressori vengono arrestati,
si scopre che non erano affatto alti o più alti delle vittime: ma il ricordo “lavora” in modo che l’essere sopraffatti diventi un dato di fatto, piuttosto che
un’emozione o una sensazione. Motivo per cui l’aggressore, se ci ha sopraffatti, in qualche modo doveva essere “alto” o “più alto” di noi.
“La nostra percezione non subisce, infatti, in modo passivo gli stimoli provenienti dall’esterno, ma si comporta come un processo attivo e costruttivo,
per questo l’oggetto percepito rappresenta il prodotto finale tra lo stimolo
esterno e fattori interni, come le ipotesi, la conoscenza, la motivazione e le
emozioni di chi percepisce” (2).
(2) La testimonianza, cit.
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
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Non solo. Il ricordo di ciò che vediamo o sentiamo, magari per brevissimo
tempo e in condizioni di stress, ha una durata limitata. Nei film si vede spesso il protagonista bello e bravo che, visto o sentito un numero di targa o di
telefono o un indirizzo, li memorizza per poi usarli facilmente in seguito.
Nella realtà non è così. Ci sono persone che hanno meno difficoltà nel ricordare numeri, lettere, fatti, ma la verità è che sotto stress, ricordiamo ciò che
ci colpisce e, nel riportarlo, aggiungiamo tutte le emozioni di quel momento: ansia, paura, rabbia, sorpresa.
Il ricordo in genere viene amplificato dal racconto di quel momento. Chiunque abbia vissuto un momento traumatico o conosca qualcuno che lo ha
vissuto, noterà come quell’evento traumatico, che è durato, per esempio,
meno di tre minuti, nel ricordarlo e raccontarlo si dilaterà fino a occupare
dieci minuti di racconto, un quarto d’ora. A volte ore e ore.
Non si sta raccontando il fatto, in quel caso, si sta raccontando l’esperienza vissuta.
Con la videoregistrazione, proprio in momenti di stress, si potrebbe documentare ogni istante.
Vi è poi da fare una differenza tra un testimone di passaggio e un testimone
che invece si trova nella condizione di svolgere un compito.
Un esempio: una signora che passa per strada e assiste a un incidente stradale è una testimone diversa rispetto a un soccorritore giunto sul posto per
prestare soccorso alle persone coinvolte nell’incidente.
Mentre la signora di passaggio avrà un’attenzione generale al fatto, il soccorritore sarà focalizzato sul compito da svolgere nell’immediatezza del soccorso: avrà probabilmente meno occasione di notare particolari che, invece, la
signora di passaggio ha il tempo e il modo di notare.
Questo per dire che ricordare ciò che si è vissuto non è sempre pacifico,
semplice e atraumatico.
Motivo per cui la videoregistrazione dovrebbe diventare più la norma che
l’eccezione anche attraverso l’uso di un semplice smartphone. La norma attuale è che la testimonianza resa verbalmente viene verbalizzata, quindi per
iscritto di solito a mano, e deve essere sottoscritta dal testimone.
Un consiglio che può essere dato è quello di farsi rileggere la dichiarazione
resa, questo perché una volta “letto, confermato e sottoscritto” il verbale
assume il valore di evidenza probatoria.
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Il soccorritore sulla scena del crimine
12.3 L’importanza di scrivere
Nei casi di interventi su eventi violenti, scene del crimine, incidenti sul lavoro, incidenti domestici, incidenti stradali o di tutti quei servizi che potrebbero in qualche modo avere un seguito giuridico, è importante mettere per iscritto una memoria.
Chi c’era, a che ora, in che luogo, come si è giunti sul posto, cosa si è visto
e tutti gli altri elementi utili per ricostruire i fatti in mancanza di fotografie o videoregistrazioni.
Memoria 118
Un esempio di come potrebbe essere un verbale di servizio è questo (i dati,
naturalmente, sono fittizi):
Rapporto di servizio: missione 118 n. 1234567890
Venivamo attivati in codice rosso alle ore 8.53 per un evento cardiocircolatorio a Milano in via Po 716.
Giunti sul posto siamo stati accompagnati nelle cantine dello stabile dall’agente di polizia locale Nome Cognome (o grado o numero di matricola o niente
se non si hanno a disposizione altri dati) che ci ha detto di non inquinare le
prove per un probabile omicidio dovuto a un accoltellamento.
Io, capoequipaggio Nome Cognome e il soccorritore Nome Cognome siamo
entrati nel corridoio della cantina.
La paziente era prona a una distanza di circa 5 metri dal luogo di osservazione (l’imbocco del corridoio della cantina). Molteplici macchie di sangue a
terra e, sulla parete d’angolo verso le scale, segni di impronte insanguinate
di dita indirizzate verso l’uscita. Porta di una cantina alle mie spalle aperta,
luci spente: la paziente non si muoveva.
Telefono alla Centrale operativa per la descrizione della scena e l’attesa delle istruzioni. Dopo qualche secondo dalla telefonata, noto nella paziente
espansione toracica.
Interviene il terzo dell’equipaggio, Nome Cognome. Paziente “P”; dinamica
respiratoria lenta e superficiale, espansione solo a un emitorace, polso radiale flebile, carotideo più marcato, ma flebile anch’esso, 25 frequenza cardiaca.
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
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Si notano ecchimosi sul torace e sulle gambe. Cannula non inseribile. Esame del capo: ecchimosi in volto, occhi aperti, forse infossamento cranico.
Decido di evacuare la paziente al di fuori della scena in quanto luogo troppo angusto per procedere con le manovre di soccorso.
Con somministrazione di ossigeno a 14 litri/minuto, la saturazione risultava 94% con frequenza cardiaca di 30 come letta sul saturimetro. Paziente
scarsamente reattiva.
Si applica collare più tavola spinale e sistemi di immobilizzazione.
Ci spostiamo al di fuori dello stabile e ci raggiunge l’auto medica appena varchiamo la soglia di uscita del palazzo.
La paziente indossa una maglietta, tagliata da me per osservazione torace, e pantaloncini, non indossava scarpe, che erano buttate a terra lontano dalla paziente.
Non si sono notati oggetti particolari o armi sulla scena.
Sul posto intervengono i Carabinieri.
Durante il trasporto i Carabinieri sono a bordo dell’ambulanza insieme al
medico dell’auto medica.
Si allega fotocopia della scheda di missione (1 foglio) già consegnata alle
forze dell’ordine.
Data, firma di tutti i componenti della squadra.
In questo modo ciò che il soccorritore ha visto e sentito può essere “fissato” nonostante la mancanza della videoregistrazione. Importante, in seguito, per gli investigatori sarà sapere, per esempio, che vi erano tracce di sangue che potevano essere impronte di dita sull’angolo del muro prossimo
all’uscita del corridoio della cantina.
Un altro dato importante potrebbe essere che la vittima era scalza e che le
sue calzature erano in posto ma erano lontane dal corpo. Può far pensare
a una colluttazione.
Anche il fatto che al soccorritore sia stato detto di non inquinare la scena e
che sia stato lui ad accorgersi che la vittima non era morta, come ritenuta
evidentemente dall’agente della polizia locale (fittizio) che gli ha fatto strada, è fondamentale: se dovesse trovarsi nella condizione di testimoniare si
può ricostruire la cronologia del soccorso.
Naturalmente se il soccorritore avesse la possibilità di fotografare, filmare
e registrare l’intervento, la documentazione sarebbe sicuramente più completa e utile per le indagini.
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Il soccorritore sulla scena del crimine
12.4 L’importanza della videoregistrazione
I soccorritori sono incaricati di un pubblico servizio e, secondo i pareri
del giudice Luigi Levita e del docente ordinario di procedura penale, Luigi Kalb, la videoregistrazione è consentita.
La documentazione delle attività svolte dai soccorritori in occasione di
eventi di rilevanza penale e la successiva utilizzabilità, sia endoprocedimentale che, poi, processuale, delle informazioni assunte è stata, finora,
lasciata in sospeso.
Secondo il professor Kalb “lo strumento idoneo per documentare le informazioni sull’attività svolta dai primi soccorritori (gli operatori del 118, i Vigili del fuoco, etc.) è senza dubbio l’assunzione da parte della Polizia giudiziaria di “sommarie informazioni” nei confronti di coloro che sono intervenuti sul luogo dell’evento delittuoso (art. 351 c.p.p.). In tal modo l’autorità di Polizia giudiziaria procedente - tanto in forma autonoma, quanto
su direttiva dell’ufficio del pubblico ministero - è in grado di raccogliere,
mediante verbale (art. 357, comma 2, lett. c) c.p.p.), le notizie riguardanti data, ora, luogo e modalità di intervento degli operatori del settore oltre
tutte le altre circostanze utili ai fini delle indagini che sono in grado di riferire perché direttamente percepite. Se poi ci fossero eventuali relazioni
di servizio redatte dai primi soccoritori all’amministrazione cui afferiscono per la funzione svolta, l’autorità di p.g. potrà chiederne l’acquisizione
in copia, ove sussistano incertezze in merito alle informazioni da loro direttamente assunte ex art. 351 c.p.p.
Ovviamente il contenuto delle informazioni assunte nel corso delle indagini preliminari diventa oggetto di testimonianza tutte le volte in cui la vicenda giunga alla fase processuale. In tal caso, il soccorritore sarà citato
come testimone per offrire, nella sede processuale, il proprio contributo
espositivo. In questa stessa fase, l’eventuale relazione di servizio potrà rilevare quale “prova documentale” ai sensi dell’art. 234 c.p.p.
In conclusione, per quanto concerne la documentazione a supporto del
referto redatto dal soggetto che presta attività sanitaria, le registrazioni audio e video confortano e sostengono la notizia oggetto del referto e
non integrano illeciti perché correlati all’esercizio delle funzione svolta”.
Anche il giudice Levita sembra dello stesso avviso.
“Un importante aggancio normativo può rinvenirsi, su tutti, nell’art. 47 del
TU Privacy: Art. 47. Trattamenti per ragioni di giustizia
1. In caso di trattamento di dati personali effettuato presso uffici giudiziari di ogni ordine e grado, presso il Consiglio superiore della magistratura,
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
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gli altri organi di autogoverno e il Ministero della giustizia, non si applicano, se il trattamento è effettuato per ragioni di giustizia, le seguenti disposizioni del codice:
a) articoli 9, 10, 12, 13 e 16, da 18 a 22, 37, 38, commi da 1 a 5, e da 39 a 45;
b) articoli da 145 a 151.
2. Agli effetti del presente codice si intendono effettuati per ragioni di giustizia i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione
giudiziaria di affari e di controversie, o che, in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, hanno una diretta incidenza sulla funzione giurisdizionale, nonché le attività ispettive su uffici
giudiziari. Le medesime ragioni di giustizia non ricorrono per l’ordinaria
attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi o strutture, quando
non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla predetta trattazione”.
Interpretando quindi estensivamente tale norma, potrebbe subito ritenersi
che non sussista alcuna violazione dell’altrui riservatezza laddove si proceda alle attività acquisitive di documentazione audio e video.
Nè, onestamente, scorgo preclusioni di alcun tipo laddove, anche in casi
“dubbi”, sanitari intervenuti nell’immediatezza (che rivestono pur sempre
la qualifica di incaricati di un pubblico servizio) provvedano a documentare nelle forme più varie il loro intervento.
È infatti corretto l’aggancio normativo nell’art. 234 c.p.p. (3).
Cosa dice la legge
Art. 234 c.p.p. e art. 54 c.p.
234. Prova documentale
1. È consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo.
(3) Luigi Levita, Andrea Conz, Codice di Procedura Penale, Roma - 2014
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Il soccorritore sulla scena del crimine
2. Quando l’originale di un documento del quale occorre far uso è per qualsiasi causa distrutto, smarrito o sottratto e non è possibile recuperarlo, può
esserne acquisita copia.
3. È vietata l’acquisizione di documenti che contengono informazioni sulle voci
correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo o sulla moralità in generale delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti.
1. Questioni di legittimità costituzionale.
(omissis)
2. Documenti in genere.
Il supporto, contenente la registrazione di riprese filmate, costituisce una
prova documentale, disciplinata dall’art. 234 c.p.p., e come tale ritualmente versata in atti, a disposizione delle parti, con il diritto di trarne copia e di
prenderne visione in camera di consiglio, sicché nessuna lesione sulla conoscenza del contenuto delle riprese è ravvisabile nella omessa riproduzione
in aula. Cass. 19 febbraio 2014, n. 18999.
Le videoregistrazioni costituiscono una prova documentale, la cui acquisizione è consentita ai sensi dell’art. 234 c.p.p. essendo inoltre irrilevante che siano state rispettate o meno le istruzioni del Garante per la protezione dei dati
personali, poiché la relativa disciplina non costituisce sbarramento all’esercizio dell’azione penale. Cass. 7 giugno 2013, n. 28554.
(omissis)
La Suprema Corte sostiene ripetutamente - e condivisibilmente - che per
l’acquisizione di tali documenti non è necessaria l’instaurazione del contraddittorio.
Ciò significa che, in attesa dell’auspicato avvento di videocamere su divise e
ambulanze, ogni soccorritore, nell’ambito dell’espletamento delle sue funzioni, ovvero di incaricato di pubblico servizio, può documentare la scena,
le persone e le cose.
Può farlo, più semplicemente, facendo fotografie o girando video con il proprio smartphone. O anche con l’attivazione del registratore vocale.
In questo modo, se per disgrazia il paziente a cui sta prestando soccorso morisse, ma nel frattempo avesse detto qualcosa, quel qualcosa non sarebbe
di esclusiva responsabilità del soccorritore che, impegnato nel suo lavoro,
difficilmente può anche rivestire il ruolo di chi raccoglie una testimonianza.
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
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Ma se quelle parole fossero registrate allora i risvolti giuridici e pratici potrebbero essere sorprendenti.
Supponiamo, ancora per un attimo, che la persona soccorsa dal nostro soccorritore non sia italiana, non parli cioè la stessa lingua del soccorritore (che
in questo momento supponiamo italiano). Se la persona soccorsa parla un
idioma sconosciuto al soccorritore trattenere il ricordo di ciò che ha detto
diventa praticamente impossibile: se quelle parole per il soccorritore non
hanno alcun significato, perché incomprensibili, non potrà averne memoria.
Ricorderà che ha detto qualcosa, ma non ricorderà cosa ha detto. Potrà forse ricordare il suono. Ma sarà tremendamente difficile, se non impossibile,
ricostruire a posteriori le ultime parole della persona soccorsa.
Per quanto riguarda la videoregistrazione è importante per il lavoro successivo degli investigatori che, quasi sempre, trovano difficoltà a ricostruire la
scena come è stata trovata dai soccorritori intervenuti per primi sulla scena per prestare soccorso.
Da non dimenticare l’art. 54 del Codice Penale in merito all’agire in stato di
necessità. “Lo stato di necessità esclude la punibilità per chi ha commesso
il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato
al pericolo e che non sussista un dovere di esporsi al medesimo.
Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico
di esporsi al pericolo”.
Per fare un esempio pratico: un vigile del fuoco che intervenga su incidente
stradale e, per permettere ai soccorritori di estrarre il corpo di una vittima
incastrata tra i rottami, proceda con un tronchese a svellere il tetto dell’auto o a rompere un vetro non ha sicuramente compiuto un atto vandalico su
una proprietà privata. Ha, infatti, agito in stato di necessità: ha evitato che
un pericolo oggettivo, il fatto che una persona sia intrappolata in un’auto incidentata, potesse causare la morte della persona stessa.
Lo stesso dicasi per il soccorritore che, dopo l’operato del vigile del fuoco,
entra nel veicolo e mette in atto tutte le misure necessarie al soccorso del
paziente.
La stessa possibilità di fare riprese video e di fare fotografie rientra nella necessità di preservare lo stato dei luoghi e di preservarli dal pericolo della contaminazione e dell’inquinamento in seguito al soccorso.
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Il soccorritore sulla scena del crimine
Accogliendo alcune obiezioni fatte da soccorritori provenienti da varie parti di Italia in merito alla possibilità di filmare, fotografare e registrare, abbiamo pensato a poche righe sulla questione “competenza”.
I soccorritori, infatti, hanno fatto notare che, se da un lato la legge prevede
la possibilità di agire in questo modo per preservare luoghi, persone e cose,
in qualche sporadico caso è accaduto che la polizia giudiziaria intimasse ai
soccorritori di non riprendere o fotografare.
O, addirittura, in alcuni, per fortuna pochi casi limite, che contradicesse i
soccorritori sulla validità di preservare la scena, sul delimitarla o sull’effettuare video o foto.
La conoscenza della legge e quindi dei propri diritti e doveri, siamo convinti, offre uno strumento in più per contrastare fenomeni circoscritti quanto
saltuari appena portati ad esempio. Siamo dell’idea che indicare gli articoli di legge appena citati sia un un valido ausilio per comunicare all’autorità
e quindi ai soccorritori il diritto, oltre che il dovere, di preservare il più possibile eventuali prove e tracce anche, e soprattutto, grazie alle opportunità
che la tecnologia mette a disposizione.
Case history
La strage di Erba
Gli investigatori hanno, tra gli altri, il compito di ricostruire la dinamica di un delitto. Il loro ingresso sulla scena di un crimine determina l’inizio dell’indagine. In alcuni
casi il corpo della vittima può essere ancora presente. Se invece sono intervenuti i soccorritori e hanno evacuato il paziente, gli investigatori avranno una scena del delitto senza il corpo.
Se la vittima sopravvive, individua l’autore del reato e ne dà
testimonianza, il lavoro degli investigatori è più semplice.
È successo, per esempio, nella strage di Erba. La sera di lunedì 11 dicembre 2006, verso le 20, si susseguono “nove minuti di furia bestiale. (...) La prima a essere aggredita e
uccisa è Raffaella Castagna, sulla soglia di casa: sei colpi
alla testa e dodici coltellate. Poi, proseguendo nel corridoio dell’appartamento, i soccorritori trovano il corpo della
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
139
madre di Raffaella, Paola Galli, cinquantasette anni, cinque
colpi alla testa e cinque coltellate alla gola. Poi, ed è la
scoperta più dura anche per i pompieri, tanto che all’inizio qualcuno aveva sperato che il bambino dormisse; invece il
piccolo Youssef era stato sgozzato con due coltellate e giaceva immobile sul divano della sala: appena due anni e tre
mesi, davvero troppo pochi per finire così. (...) Subito dopo
i primi tre omicidi, l’appartamento del primo piano viene incendiato: si vogliono cancellare le tracce della mattanza.
Poi, per le scale, tra il primo piano e la mansarda, viene
uccisa la vicina, Valeria Cherubini, cinquant’anni. Era stata attratta dai rumori, dalle urla, dal fumo. Una curiosità,
o una generosità, che aveva pagato con otto colpi alla testa
e undici coltellate. Il marito della Cherubini, Mario Frigerio, sessantacinque anni, viene aggredito sul pianerottolo, buttato per terra con la faccia all’ingiù, sgozzato senza pietà. Per un caso straordinario, rimarrà in vita: la sua
carotide è deviata rispetto alla posizione normale. La lama
del coltello non ci arriva, perde molto sangue, ma si salva.
Armi usate per la mattanza: una spranga, un coltello grande
e un pelapatate. Un delitto premeditato, visto che sono stati usati i guanti. (...) Ventotto giorni dopo la strage, l’8
gennaio 2007, vengono arrestati Rosa Bazzi e Olindo Romano”
(4). A incastrarli una traccia invisibile di sangue presente
sul montante inferiore sinistro della loro auto evidenziata
con il luminol. Quel sangue apparteneva a Valeria Cherubini,
moglie dell’unico sopravvissuto, Mario Frigerio, che, tornando faticosamente alla vita, aveva riconosciuto in Olindo il suo aggressore. Poco dopo l’arresto i due confessano.
Grazie all’ottima indagine e al testimone oculare fortunatamente scampato al massacro, Olindo e Rosa sono in carcere a
scontare la loro pena.
Quando invece la vittima non sopravvive a un destino infausto,
il lavoro degli investigatori si complica poiché non ci sarà
la sua testimonianza dell’accaduto.
Ma gli oggetti, i luoghi e anche i cadaveri “parlano”, l’importante è mettersi in ascolto e documentare.
(4) Claudio Brachino, Barbara Benedettelli, I delitti del condominio - Milano, 2008
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Il soccorritore sulla scena del crimine
Un ambiente dove si è consumato un omicidio porterà quasi sicuramente le tracce di quanto è accaduto. Più l’omicidio è stato
efferato, violento, più le tracce saranno evidenti.
Ma cosa raccontano quelle tracce? Cosa possono dire agli investigatori?
Le macchie di sangue che, molto spesso, sono presenti possono essere scientificamente interpretate grazie all’applicazione della BPA acronimo che sta per Bloodstain Pattern Analysis
ovvero analisi delle macchie di sangue.
Le impronte di scarpe o di mani raccontano anch’esse una storia: non fosse altro per la direzione che hanno “disegnato” sul
pavimento o sui muri.
Ci sono poi molti altri residui. Nel caso, per esempio, di colpi di arma da fuoco, se l’arma che ha sparato è una semiautomatica ci possono essere i bossoli, ma si possono trovare proiettili e residui di sparo.
In quel caso si dovrà stabilire, per esempio, quanti colpi sono
stati esplosi, da che arma, da quale direzione, da chi e verso chi.
In mancanza di videoregistrazione, ciò che gli investigatori
possono fare è assumere le testimonianze di chi, a vario titolo, era sul posto. Ma quante informazioni vanno perse se non
si è documentato nulla?
Case history
Dove si trovava chi ha sparato?
Il caso che viene proposto è un caso reale, ma per proteggere l’identità delle persone coinvolte, non verranno riportati
nomi e luoghi che, ai fini di questa trattazione, risulterebbero comunque superflui.
In una palazzina vengono uditi colpi di arma da fuoco, qualcuno chiama un’ambulanza. L’utente riferisce di vedere una persona che sanguina da un braccio e di fare presto a intervenire. L’operatore di centrale invia un’ambulanza all’indirizzo
indicato dal chiamante.
Sul posto arriva l’equipaggio composto da tre persone, tra cui
un medico, ma i feriti sono due.
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
141
Due uomini, dall’apparente età di venticinque o trent’anni, entrambi coscienti, ma uno sembra subito molto più grave dell’altro, motivo per cui i primi soccorsi si concentrano su di lui.
Nessuno dei due, al momento, sul posto, racconta cosa sia accaduto: hanno però ferite da arma da fuoco. Nel frattempo, allertata, giunge una seconda ambulanza mentre il ferito più grave viene evacuato.
Il secondo equipaggio si occupa del ferito meno grave, gli presta
soccorso e poi lo carica in ambulanza e lo trasporta in ospedale.
L’uomo con le ferite più gravi purtroppo muore. Mentre l’altro sopravvive.
Non si sono sparati tra loro, ma è intervenuta una terza persona che ha sparato a entrambi. Il problema degli investigatori è capire, stabilita la responsabilità di chi ha fatto fuoco, dove si trovasse quando ha sparato.
Ricostruire la planimetria dell’appartamento in cui è avvenuto il fatto è semplice: gli investigatori sono andati sul posto, hanno preso le misure, fatto i rilievi.
A quel punto hanno chiesto ai soccorritori che hanno fatto dichiariazioni tra loro contradditorie. Non si tratta di malafede,
si tratta, come si accennava prima, della capacità di ricordare.
Ai soccorritori, infatti, è stato chiesto dove avessero trovato
le persone, in quale posizione fossero (sedute, in piedi, sdraiate), di indicare in quale luogo dell’appartamento si trovassero.
Concordi nel dire che i due feriti si trovavano all’interno
dell’abitazione, nei pressi di una porta l’uno e di un mobile
l’altro, entrambi affacciati o vicini all’ingresso della camera da letto.
Il compito degli investigatori, a quel punto, è “far parlare”
le prove. Nei corpi e all’interno dell’abitazione sono rimasti reperti balistici: proiettili, bossoli e residui di sparo.
I soccorritori, purtroppo, sono stati utili, ma fino a un certo
punto, le loro versioni non collimano e, dato che non avrebbero alcun interesse a raccontare il falso, evidentemente il
problema è ricordare o meno alcuni particolari.
Ricordano di non aver spostato nessuno dei mobili per farsi
largo e soccorrere le vittime, ma uno di essi racconta che non
era necessario spostare i mobili, poiché le vittime giacevano
vicino all’ingresso.
142
Il soccorritore sulla scena del crimine
Un altro soccorritore dice però che per raggiungere la vittima meno grave è entrato in camera: quindi uno dei due uomini
feriti era all’interno della stanza e l’altro era all’esterno, sulla soglia.
Ma quanto all’interno era?
Per i soccorritori era tutto nei pressi, vicino, non lontano.
E allora, come stabilire esattamente dove si trovavano le vittime?
Dalle macchie di sangue. Anche loro, come i reperti balistici,
possono “parlare” e “raccontare” ciò che è successo.
Agli investigatori i reperti balistici e le macchie di sangue
raccontano che chi ha fatto fuoco si trovava all’interno della
camera da letto e ha fatto fuoco verso le due persone ritrovate ferite dai soccorritori mentre queste erano vicine alla
porta di ingresso della camera da letto.
Ora agli investigatori non resta che capire il perché. Come
mai ha sparato?
Come mai una persona, estranea alla casa, esplode dei colpi di
arma da fuoco stando all’interno di una delle stanze?
Se avesse voluto uccidere i due occupanti della casa sarebbe forse entrato in camera da letto? Probabilmente no. Avrebbe semplicemente fatto fuoco quando questi avessero aperto la
porta dell’abitazione.
E quindi, ancora, questa persona era già armata? O si è armata in
seguito? E quando ha deciso di estrarre l’arma, se era armata?
Gli investigatori hanno una teoria: la persona che ha sparato
sembrava non avere più vie di fuga, si trovava infatti nel punto più angusto della camera, con due persone (le due poi ferite) parate davanti all’unica via d’uscita rappresentata dalla
porta della stanza da letto che, dando sul corridoio, conduce
alla porta principale dell’abitazione.
La deduzione, data non tanto e non solo dalle ipotesi, bensì dallo studio delle macchie di sangue secondo la già citata tecnica della BPA e dallo studio della traiettoria seguita
dai proiettili e dal luogo di rinvenimento dei bossoli espulsi
dall’arma semiautomatica, è stata di un uomo “braccato” all’interno dell’appartamento che è stato costretto a fare fuoco (forse l’arma l’aveva già con sé, forse l’ha trovata sul posto)
contro i suoi aggressori. La traiettoria seguita dai proietti-
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
143
li “racconta” di qualcuno che non ha sparato per uccidere, ma
ha sparato per difendersi da una minaccia: i colpi infatti non
hanno superato mai il metro e quaranta di altezza (la misurazione parte dal pavimento). Ciò significa che reggeva l’arma con
un’inclinazione verso il basso, con l’intento di non colpire,
probabilmente, parti vitali.
Purtroppo l’intento è stato sbugiardato dai fatti, poiché una
delle due persone colpite è deceduta. Ma resta il fatto che se
i soccorritori avessero avuto l’opportunità di documentare la
scena così come l’hanno trovata al loro arrivo, il lavoro degli
investigatori sarebbe stato più semplice. E più semplice sarebbe
ricostruire, in sede processuale, il fatto per come accaduto.
L’importanza di stabilire la posizione di chi ha sparato è utile
ai fini del processo e della pena da comminare allo sparatore.
Diversa è infatti la posizione giuridica di chi spara per offendere e di chi invece spara per difendersi.
Nel primo caso avremo una persona che, portandosi un’arma, si
reca a casa di qualcuno con l’idea (la premeditazione, quindi)
di ucciderlo appena questi apre la porta dell’appartamento. In
questo caso avremo un morto sull’uscio.
Diversa è la situazione di chi invece va a casa di qualcuno,
magari perché invitato, vi trova due persone e queste due persone lo chiudono in un angolo, magari lo minacciano, gli impediscono di uscire dall’appartamento e questi, sentendosi in
pericolo, si arma (magari dopo una colluttazione, forse l’arma
da fuoco era dei due che l’hanno invitato a casa) e fa fuoco
per garantirsi la fuga temendo per la propria vita.
Non sempre, però, la realtà è chiara come la si vede nelle serie televisive: la tv infatti offre allo spettatore una visione di insieme (cosa accade prima dell’evento delittouso, come
avviene l’evento delittuoso, cosa accade in seguito) che la
realtà non offre.
La videoregistrazione, però, potrebbe come abbiamo visto far
compiere enormi passi avanti: ciò che è videoregistrato è utile per ricomporre la verità.
144
Il soccorritore sulla scena del crimine
Case history
Il delitto di Garlasco
13 agosto 2007 ore 9.12 Chiara Poggi, 26 anni, disattiva l’allarme della villetta di via Pascoli, a Garlasco in provincia
di Pavia. Qualcuno suona alla porta e Chiara va ad aprire. È
ancora in pigiama. Conosce la persona a cui ha aperto la porta, la fa entrare.
Alle 13.50 di quel giorno il suo fidanzato Alberto Stasi, 24
anni, studente all’università Bocconi, chiama il 118, chiede
un’ambulanza e all’operatrice che gli risponde al telefono dice:
“Credo che abbiano ucciso una persona, ma non son sicuro, forse è viva. C’è sangue dappertuttto e lei è sdraiata per terra”.
Il disimpegno davanti le scale in cui fu lasciata Chiara Poggi priva di vita. Sono presenti tracce di sangue da contatto, da
gocciolamento e da proiezione, oltre ad impronte di suole insanguinate. Il fatto che non vi sia stata una documentazione iniziale ha complicato le indagini.
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
145
L’operatrice gli chiede qualche informazione e Alberto risponde che in quel momento lui non è in casa, ma sta andando dai
Carabinieri. In caserma arriva a bordo della sua Golf.
Ai carabinieri dice di
aver chiamato Chiara quella mattina, più volte,
senza ottenere risposta
e, preoccupato, è andato
in via Pascoli, ha suonato il citofono, ha scavalcato il cancello ed è entrato nella villetta poiché la porta d’ingresso
era socchiusa, ha camminato fino alla soglia delle
scale del piano di sotto
ed è lì, a metà delle scale che portano in taverna, che ha trovato il corpo senza vita di Chiara.
Nella villetta, intorno
alle 14, arrivano i carabinieri della stazione di
Garlasco e pochi minuti
dopo le 14 arriva il medico del 118 che constaterà il decesso di Chiara.
Chiara è stata colpita più
volte alla testa con un
oggetto metallico e poi
gettata giù dalle scale.
L’arma non verrà mai ritrovata. Gli esperti sono
sicuri nell’affermare che
Chiara era inerme di fron- Il corpo di Chiara scagliata dal suo assassino lungo le scale
te al suo aggressore, che che dalla zona giorno portavano al garage.
si fidava di lui: non ha
nemmeno provato a difendersi. Forse perché non si aspettava un
attacco, non pensava di essere in pericolo.
146
Il soccorritore sulla scena del crimine
Alberto Stasi è l’ultimo ad averla vista viva la sera prima ed
è quello che ha trovato il corpo il mattino dopo.
A non convincere gli inquirenti sono le scarpe immacolate che
Alberto indossava quando è entrato in casa di Chiara, sospetta anche l’assenza delle sue orme sul pavimento, lui stesso,
al telefono, dice che “c’è sangue dappertutto” e il sangue di
Chiara, in effetti, è davvero ovunque: sul pavimento, sui muri,
sulle scale, vicino al telefono.
Ci sono poi dei dettagli sul ritrovamento di Chiara che, una
volta di più, fanno sorgere molti dubbi negli investigatori che
iscrivono, una settimana dopo l’omicidio di Chiara Poggi, Alberto Stati nel registro degli indagati.
Un altro indizio è rappresentato dalla bicicletta che una vicina di casa ha notato nei pressi della villetta di via Pascoli.
Su quella di proprietà della mamma di Alberto vengono ritrovate tracce biologiche, verosimilmente ematiche, compatibili con
il Dna di Chiara. Le tracce sono sui pedali della bicicletta.
Particolare della foto precedente: si vedono in corrispondenza della spalla sinistra del pigiama, impronte
insanguinate che non sono state mai documentate , né successivamente analizzate.
Capitolo 12: Congelare la scena del crimine
147
Inoltre il sequestro del computer su cui Alberto dice di aver
lavorato alla tesi di laurea quella mattina tra le 9.35 e le
12.20 conferma che non è così: secondo gli investigatori Alberto non era al computer mentre Chiara veniva uccisa.
Alberto è l’unico imputato per il delitto di Chiara, ma il 17
dicembre 2009 viene assolto in primo grado e il 5 dicembre 2011
viene assolto anche in secondo grado dopo solo cinque udienze.
Il 5 aprile 2013 la Suprema Corte emette il verdetto: Alberto Stasi dovrà essere nuovamente processato, annullando quindi l’assoluzione precedente.
Il 16 marzo 2015, al processo bis, la Corte d’assise d’appello
di Milano condanna Alberto Stasi a 16 anni di carcere: avrebbe ucciso la fidanzata perché “evidentemente era diventata, per
un motivo rimasto sconosciuto, una persona pericolosa e scomoda, come tale da eliminare per sempre dalla vita di ragazzo per
bene e studente modello, da tutti concordamente apprezzato”.
Se il medico del 118 (e anche i Carabinieri, naturalmente) intervenuto sul posto appena dopo la telefonata di richiesta di
aiuto di Alberto Stasi avesse documentato con un video la scena probabilmente il lavoro successivo degli esperti che hanno
analizzato il luogo del delitto e contestualmente le macchie
di sangue con l’ausilio della BPA (Bloodstain Pattern Analysis) sarebbe stato forse più agevole.
Infatti per valutare i tempi della morte e il tempo trascorso tra la morte e la richiesta di aiuto da parte di Stasi sono
state utilizzate anche le testimonianze di chi, per primo, è
accorso sul posto. Per alcuni le macchie di sangue erano già
secche, secondo il giudizio di qualcun altro erano invece ancora fresche, se non tutte, almeno in parte.
Naturalmente basarsi sulle testimonianze a posteriori di chi,
per ovvi motivi, non sta considerando come prioritario lo stato delle macchie di sangue bensì il focus del suo lavoro (la
possibilità, per esempio, di mettere in atto tutte quelle procedure per garantire la sopravvivenza a un paziente) rischia
di essere fuorviante.
L’importanza della documentazione foto-video, alla luce di quanto appena esposto, dovrebbe essere comprensibile e condivisibile, ma soprattutto irrinunciabile.
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Il soccorritore sulla scena del crimine
Questo capitolo è per noi di fondamentale importanza. Rappresenta il futuro del
soccorso in ambulanza. Forse e inconsciamente, per questo motivo, si colloca
più o meno al centro della nostra trattazione.
• Fotografare e filmare una scena di un crimine, anche con mezzi di uso quotidiano, come gli smartphone, fa la differenza, in sede di indagini, tra avere a
disposizione la scena “integra” e non averla.
• Abbiamo parlato della memoria e della testimonianza e ci siamo soffermati
sulla fragilità del ricordo.
• Abbiamo parlato delle leggi che consentono ai soccorritori di documentare lo
stato dei luoghi, delle persone e delle cose.
• Abbiamo altresì detto che fotografare, filmare e registrare è legale se il fine è
quello, esclusivo, di consegnare il tutto alle forze dell’ordine e all’autorità che
svolgerà l’indagine. Va da sé che pubblicare, vendere, condividere il materiale filmato o fotografato è reato.
• Abbiamo preso in esame tre casi:
– la strage di Erba, in cui la testimonianza dell’unico sopravvissuto ha permesso di “incastrare” i due autori del reato;
– una sparatoria in cui c’è stato l’intervento di soccorritori e la cui mancanza di documentazione e le testimonianze contradditorie hanno rallentato
le indagini;
– il delitto di Garlasco, in cui le impronte sul pavimento e la mancanza di documentazione, ancora una volta, hanno reso il lavoro degli investigatori davvero impervio.
I punti salienti:
• Foto, filmati e registrazioni audio sono FONDAMENTALI per il futuro del soccorso che, in alcuni casi, è strettamente legato alle indagini.
• Una scena non documentata è una SCENA PERSA.
• FOTOGRAFARE, FILMARE e REGISTRARE è POSSIBILE: il futuro è la possibilità, per i soccorritori, di essere dotati sia in ambulanza che sulle divise di strumenti di video registrazione che si attivano in automatico (come già accade,
da tempo, in molte realtà) affinché il servizio sia documentato.
• Non si pensi che sia utile esclusivamente all’indagine: la documentazione del
proprio operato è fondamentale per prendersi le giuste responsabilità (e non
quelle di altri!).
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