L`Australia è un ponte naturale verso il mercato asiatico
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L`Australia è un ponte naturale verso il mercato asiatico
Mondo | Un continente da scoprire L’Australia è un ponte naturale verso il mercato asiatico Le due FACCE del MIRACOLO australiano Una parte del Paese si arricchisce con i profitti stellari che provengono dalle miniere. Ma l’afflusso di capitali, all’origine della rivalutazione del dollaro australiano, sta mettendo a rischio l’economia manifatturiera, il turismo e il commercio. E la vicinanza con l’Asia rilancia il problema di Ugo Bertone dell’identità culturale Mondo ue caffè e un cappuccino (quasi italiano) per 29 dollari. Mancia esclusa. Dollari australiani, certo. Ma non è una grande consolazione perché ormai la moneta del canguro viaggia oltre la parità con lo svalutato buck di Ben Bernanke, presidente della Fed alle prese con i buchi del deficit e la minaccia di nuove manovre espansive. Non c’è da stupirsi se quest’anno la splendida spiaggia di Noosa, una delle gemme della Gold Coast australiana, sarà meno popolata del solito. Per gli australiani una vacanza all inclusive a Bali o in Thailandia costa meno di 400 dollari, viaggio compreso. Che è più o meno quel che il turista spende solo per una cena a due al lussuosissimo resort di Hayman Island, splendida isola privata che fa sentinella alla Grande Barriera Corallina del Queensland, nell’Australia nord-orientale. È l’altra faccia del miracolo australiano, la terra da cui esce il ferro, il carbone, l’oro e così via. Una parte del Paese, la meno popolata (o la più inospitale come si affrettano a precisare i cittadini di Melbourne e Sydney), sta vivendo un boom di dimensioni epocali, scandito dall’afflusso di D AUSTRALIA A DUE VELOCITÀ 22 milioni di abitanti quest’anno festeggiano 21 anni di crescita consecutiva L’Australia e i suoi con la promozione a tripla A delle agenzie di rating La situazione però non è omogenea: lo Stato di Victoria (capoluogo Melbourne) nel prevede un aumento del Pil sopra il di disoccupazione fermo al capitali e dai profitti stellari che sgorgano dalle miniere. E fa da traino al resto del continente. Dall’altra, l’economia manifatturiera, al pari del turismo, soffre. Per carità, la sofferenza è sopportabile, visto che la crescita dello Stato di Victoria (capoluogo Melbourne) quest’anno sarà senz’altro superiore al 2 per cento, mentre la disoccupazione non andrà oltre il 5,1 per cento attuale. Numeri che la povera Italia (ma anche l’Eurozona) si sogna. Ma, si sa, al mondo tutto è relativo: le metropoli del Sud, aree metropolitane dove vive più del settanta per cento dei 22 milioni di Aussie (su un territorio più o meno venticinque volte l’Italia) non possono fare a meno di pensare che sono proprio la fortuna delle miniere del Nord e del Queensland la causa primaria della rivalutazione del dollaro di casa, che ha come conseguenza la difficoltà a competere dell’export manifatturiero e dei servizi, che erano invece fiorenti quando al contrario il dollaro australiano era ben al di sotto del dollaro Usa. D’altra parte, a fronte della crescita del 2 per cento dell’economia manifatturiera dell’Australia più europea, le terre che stanno di fronte Secondo l’ex premier Paul Keating «l’Australia deve smettere di ritenersi una tribù dell’uomo bianco che ha ereditato un intero continente e cominciare a sentirsi parte di una regione del mondo. Dobbiamo aprirci a popoli che non hanno le loro radici nella storia europea». È uno shock per un Paese che fino a pochi anni fa accettava immigranti solo se di madrelingua europea all’Asia si svilupperanno quest’anno al tasso del 9 per cento, più di quattro volte tanto. E questi sono solo gli ultimi motivi per cui la terra dei canguri ha ottime ragioni per festeggiare: nel 2012 il Paese è entrato nel ventunesimo anno di crescita consecutivo con la promozione a tripla A da parte delle agenzie di rating. Ma la doppia velocità del Pil è solo la punta dell’iceberg di un Paese in via di transizione. Una transizione generale, che pone più di un problema politico e culturale oltre che economico. Per spiegare il fenomeno ci si può rifare alle parole che Steve Sargent, il numero uno di General Electric in Australia, ha usato in occasione del lancio di un’obbligazione destinata a finanziare le attività nel Paese da parte del colosso Usa. «Spesso la gente resta meravigliata», ha detto Sargent, «quando scopre che per noi della General Electric questo Paese, con solo 22 milioni di abitanti, oggi ha un peso superiore a quello della Cina». Una Sopra, da sinistra: un’immagine rubata durante una sosta in un bar del deserto; Paul Keating ex primo ministro. Sotto, scorci notturni delle metropoli Melbourne e Sydney 2012 2% e un tasso 5,1%, mentre le regioni del nord, di fronte all’Asia, si svilupperanno al tasso del Nel 9%, più di quattro volte tanto 2011 sono stati creati 60.000 posti di lavoro nell’industria mineraria, ma se ne sono persi 50.000 in altri settori produttivi I consumi nelle regioni del nord ovest sono cresciuti del 14%, quelli del Nuovo Galles del Sud (lo Stato di Sydney e della capitale Canberra) sono scesi di quasi il 2% OUTLOOK 19 Mondo | Un continente da scoprire circostanza che vale anche per diverse aziende italiane: da Prysmian, che sta posando i cavi per la fibra ottica, all’Ansaldo Sts, impegnata nello sviluppo del sistema ferroviario e metropolitano. «Ricordatevi che qui non sono gli australiani a comprare», spiega Sargent, «bensì un continente con tre miliardi di persone che sta a nord ovest: se lo sviluppo dell’Asia è il motore della crescita dell’economia globale, non dimenticatevi mai che la benzina viene da qui». Insomma, la terra dei canguri e dei koala è ormai stabilmente nell’orbita asiatica, il che spiega la straordinaria crescita a tassi a due cifre che dura dal 2007. Non è uno shock da poco per questa terra giovane, dove un cittadino su quattro è emigrato da qualche terra lontana e dove il 60 per cento della popolazione ha almeno un nonno in arrivo da fuori, molto spesso dall’Italia. Fino alla Seconda guerra mondiale l’australiano medio era un «inglese d’oltremare», che studiava la geografia della terra di Shakespeare per cui era andato a morire, senza esitazioni, sulle colline di Gallipoli nel 1916, in una campagna lanciata da Winston Churchill contro l’Impero ottomano, 20 OUTLOOK Per le metropoli del sud, dove vive il 70 per cento della popolazione australiana, sono le miniere del nord e del Queensland la causa della rivalutazione della moneta nazionale, che ha portato alla crisi dell’export manifatturiero e dei servizi, molto fiorenti quando il dollaro australiano era ben al di sotto di quello Usa In alto una delle tante miniere del nord dell’Australia. Qui sopra Gina Rinehart, proprietaria delle miniere Hancock alleato dei tedeschi. In quella guerra l’Australia ebbe decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti, su una popolazione di non oltre dieci milioni di abitanti. Dopo il secondo conflitto mondiale si inaugurò la politica della «porta aperta» verso gli emigranti dalla vecchia Europa: le colline sopra Melbourne si riempirono così dei vigneti e degli olivi piantati dagli italiani, la nazionalità più numerosa in quell’affascinante melting pot che è Melbourne. Intanto, la costa di Sydney si riempiva di factory legate agli Usa, alleato economico ma ancor più politico: i ranger di Canberra hanno combattuto in Vietnam e in Afghanistan al fianco dei marine, e a fine 2011 il presidente Barack Obama è riuscito a ottenere una base militare in territorio australiano, prezioso avamposto per fronteggiare la potenza cinese nel Pacifico, l’oceano dove è schierata la maggior parte delle navi Usa. Però, accanto ai tradizionali legami con l’Occidente, si sente sempre di più la vicinanza dei clienti asiatici, nell’ordine cinesi, giapponesi e coreani. «Il tempo in cui americani e inglesi ci spiegavano la rotta da seguire sono ormai finiti», scrive George Me- Mondo | Un continente da scoprire galogenis, giornalista e commentatore politico, autore di «The Australian Moment». «Ora tocca a noi spiegare loro come va il mondo». Una novità che non rende tutti felici. E basta ripercorrere la storia di Melbourne per capirne la ragione. Ancora oggi il magnifico grattacielo che sovrasta lo Yarra River porta sul frontone la sagoma stilizzata di alcune api ricoperte di vero oro, simbolo di un’età perduta. Melbourne, poco più di un villaggio nel 1859, conobbe uno spettacolare sviluppo nei 35 anni successivi, diventando alla vigilia della fine dell’Ottocento una delle metropoli più ricche del pianeta, grazie alla corsa all’oro. Poi, quasi all’improvviso, tutto svanì assieme alle vene aurifere esauste. E per risalire la china ci volle il duro lavoro di pastori e contadini, il più delle volte immigrati da Italia e Grecia. Uno shock che, in qualche maniera, è rimasto nel Dna degli abitanti di questa terra: ha senso affidare i propri destini all’estrazione di metalli e gas destinati ad altri? Certo, nel 2011 sono stati creati oltre 60.000 posti di lavoro nell’industria mineraria, ma ne sono andati in fumo 50.000 in 22 OUTLOOK Cartello stradale «tutto australiano» su una delle strade che si avvia verso il deserto altri settori produttivi. E, mentre i consumi delle aree minerarie sono saliti del 14 per cento, quelli del Nuovo Galles del Sud (lo Stato di Sydney e della capitale Canberra) sono scesi di quasi il 2 per cento. Una nazione orgogliosa del suo terziario avanzato, dicono i più critici, rischia di trasformarsi in una terra di frontiera al servizio delle acciaierie di Pechino. Insomma, il boom di rame, ferro, uranio, oro, per non parlare degli immensi giacimenti di gas naturale (al cui sviluppo partecipano anche Eni e Saipem) è senz’altro una bella cosa, ma l’afflusso di capitali che è all’origine della rivalutazione del dollaro australiano sta mettendo seriamente a rischio il turismo, il settore educativo e il commercio: in tutto tre milioni di posti di lavoro a rischio, insidiati tra l’altro dalle paghe favolose che i signori delle miniere offrono per attirare i lavoratori in un’area selvaggia alla «vecchio West», dove è difficile ca- pire se siano più numerosi i dingo, i conigli o i serpenti più velenosi della terra. Non è roba da poco. «Alcuni tecnici segnalati da noi», dichiara al settimanale inglese «The Economist» Edwina Shanahan, direttore marketing dell’agenzia irlandese Visa First che si occupa di assistenza agli emigrati, «guadagnano tra i 1.000 e i 1.500 dollari al giorno». Lo stipendio medio di un minatore è attorno a 155.000 dollari all’anno, circa il doppio del salario medio australiano. Anche i camionisti che accettano di battere le piste delle regioni più remote guadagnano stipendi a sei cifre. Sono paghe da favola eppure la gente di Sydney o Brisbane è restia ad accettare le offerte, al punto che le miniere sono state costrette a organizzare mini assunzioni per dodici settimane, trasferta aerea compresa, formula estremamente dispendiosa. L’alternativa potrebbe essere il ricorso all’immigrazione, ma qui l’opposizione si fa vivace: per quale motivo, ruggiscono le Unions (i sindacati), si dovrebbe far affluire braccia a esclusivo vantaggio dei profitti di Bhp Billiton (la maggiore società mineraria al mondo) o di altri colossi del settore? Nel 2007 l’Australia ha alzato le sue barriere all’ingresso, permettendo l’arrivo solo a un ristretto numero di lavoratori specializzati, 126.000 all’anno. Ma i tycoon delle miniere chiedono ben altro. A partire da Gina Rinehart, australiana, proprietaria delle miniere Hancock, secondo le ultime classifiche la donna più ricca del mondo anche se ha fatto scalpore la sua decisione di cercare di sfilare ai tre figli le quote possedute nel fondo di famiglia. «Sono troppo viziati», è stata la sua spiegazione in tribunale. «Il nostro patrimonio non è stato creato per mantenere le loro auto di lusso o i viaggi all’estero. Vadano a lavorare». Nel frattempo la Rinehart ha fatto shopping di carta stampata comprando la Fairfax che controlla il «Sydney Morning Herald». Anche grazie a quest’influenza è riuscita a strappare al governo il permesso di importare, con un contratto triennale, 1.715 lavoratori, necessari per dare l’avvio allo sviluppo della miniera di ferro di Roy Hill nelle terre di Pilbara, nell’Australia Occidentale, forse una Mondo GR FO FONET soluzioni web @ Siti internet Applicazioni Posizionamento Web marketing E-commerce Pay per click Sviluppo App Tecnologia Creatività al vostro servizio Grafonet è un marchio Nouvelle S.r.l. via Giardini, 456/C - 41124 Modena GRUPPO NOUVELLE delle regioni più inospitali del pianeta dove, con il contributo di capitali asiatici sta per partire un progetto da oltre 9,5 miliardi di dollari. È su questi temi che si giocherà la prossima campagna elettorale del 2013: dopo quella che è entrata in vigore a luglio, i laburisti propongono una nuova tassa sulle miniere. A cui il mondo industriale si oppone agitando lo spettro del blocco degli investimenti, spauracchio che per la verità fa poca paura in un Paese che ha già approvato (e trovato i capitali necessari) per 500 miliardi di opere e che l’anno prossimo toccherà il record di 120 miliardi di investimenti in dodici mesi. Un conflitto, ha dichiarato l’ex premier Paul Keating, che «è psicologico ancor prima che economico. L’Australia deve smettere di ritenersi una tribù dell’uomo bianco che ha avuto la fortuna di ereditare un intero continente e cominciare a sentirsi parte di una regione del mondo. Dobbiamo aprirci a popoli che non hanno le loro radici nella storia europea». Uno shock per un Paese che, fino a pochi anni fa, accettava immigranti solo se di madrelingua europea, anche se non necessariamente inglese, cosa che ha favorito l’arrivo degli italiani. Certo, non bastano poche righe a dare un’idea di questa terra fortunata che senz’altro sarà tra i grandi protagonisti del ventunesimo secolo. Ma forse sono sufficienti a mostrare il bivio davanti al quale si trova la terra dei canguri: o si riesce a conciliare la sorte dell’economia manifatturiera e dei servizi con la velocità di crescita dell’industria mineraria o l’Australia rischia di diventare una sorta di stazione di servizio (ma anche dei rifiuti) della vicinissima Asia. In altri termini, l’Australia va considerata come un ponte prezioso per chi vuole sbarcare nel sud del mondo portando cultura, diritto e competenze tecnologiche d’avanguardia, a patto che si comprenda che, per forza di cose, questo continente è sempre più connesso con l’Asia. Il che non è necessariamente un difetto. In questa cornice, il manifacturing made in Italy deve ragionare come i vertici di General Electric: l’Australia non è un mercato di 22 milioni di consumatori, ma la chiave d’accesso a tre miliardi di persone. •