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«Il danno alla reputazione va provato da chi ne chiede il
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«Il danno alla reputazione va provato da chi ne chiede il risarcimento»
(Cassazione civile sez. III, 30 settembre 2014, n. 20558)
danni – reputazione – risarcimento – prova - in genere
Il danno alla reputazione e all'immagine è un danno-conseguenza che richiede,
pertanto, specifica prova da parte di chi ne chiede il risarcimento.
***
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SEGRETO Antonio
- Presidente -
Dott. TRAVAGLINO Giacomo
- Consigliere -
Dott. CARLUCCIO Giuseppa
- Consigliere -
Dott. CIRILLO Francesco Maria
- rel. Consigliere -
Dott. ROSSETTI Marco
- Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 5618/2011 proposto da:
C.F. (OMISSIS), considerato domiciliato ex lege in
CANCELLERIA DELLA CORTE
DI
ROMA,
presso la
CASSAZIONE, rappresentato e
difeso da se medesimo con studio in 60121 ANCONA - C.SO GARIBALDI
110;
- ricorrente contro
CU.VI. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BARNABA
TORTOLINI, 13, presso lo studio dell'avvocato FERRARI Aldo, che la
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rappresenta e difende unitamente all'avvocato VITTORIO MICUCCI giusta
procura in calce al controricorso;
- controricorrente e contro
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE TRASPORTI (OMISSIS);
- intimato avverso la sentenza n. 67/2010 della CORTE D'APPELLO di ANCONA,
depositata il 22/01/2010 R.G.N. 1315/2002; udita la relazione della causa
svolta nella pubblica
udienza
del 07/07/2014 dal Consigliere Dott.
FRANCESCO MARIA CIRILLO; udito l'Avvocato ALDO FERRARI per
delega; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. L'avv. C.F. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Ancona, la Dott.ssa
Cu.Vi. e il Ministero dei lavori pubblici per sentirli condannare, in solido, al
risarcimento dei danni da lui patiti nella qualità di Presidente della società
cooperativa edilizia "Spes".
Espose, a sostegno della domanda, che la Cu., nominata commissario
governativo della suddetta cooperativa, aveva deciso di presentare ai
competenti uffici tributari, per conto della società, la denuncia di inizio attività
ai fini dell'IVA, nonchè le dichiarazioni annuali IRPEG e ICI, ritenendo che la
cooperativa fosse obbligata a tali adempimenti. Poichè tale decisione era, a suo
dire, errata e costituiva illecito doloso o colposo, l'attore chiese il risarcimento
dei relativi danni.
Costituitisi entrambi i convenuti, il Tribunale rigettò la domanda,
condannando l'attore al pagamento delle spese.
2. La sentenza è stata appellata in via principale dall'avv. C. e in via
incidentale dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti; la Corte d'appello
di Ancona, con pronuncia del 22 gennaio 2010, ha respinto entrambi gli
appelli, confermando la sentenza di primo grado e condannando l'appellante
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principale al pagamento delle ulteriori spese del grado in favore dell'appellata
Cu..
Ha osservato la Corte territoriale, per quanto di interesse in questa sede, che
nell'azione
di
responsabilità
extracontrattuale
spetta
al
danneggiato
dimostrare l'esistenza di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito. Nel caso
di specie, doveva ritenersi che la società cooperativa fosse tenuta alla denuncia
ai fini IRPEG e che, comunque, non potesse ravvisarsi un comportamento
doloso o colposo nella decisione della Dott.ssa Cu. di disporre l'apertura di
una partita IVA in capo alla cooperativa.
Quanto al comportamento tenuto dal commissario in ordine alla gestione
della contabilità della società, la Corte ha osservato che non era possibile
affermare che i rilievi compiuti dal medesimo fossero frutto di un suo
comportamento illegittimo. Nè, infine, era stata dimostrata in alcun modo la
sussistenza di un discredito a carico dell'avv. C. in conseguenza dell'operato
della Cu..
3. Contro la sentenza della Corte d'appello di Ancona propone ricorso l'avv.
C.F., con atto affidato a tre motivi.
Resiste la Dott.ssa Cu.Vi. con controricorso.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c., in relazione
alla disciplina delle cooperative edilizie (r.d. 28 aprile 1938, n. 1165), nonchè in
relazione alla insussistenza degli obblighi tributari ipotizzati dal commissario
governativo.
Rileva il ricorrente, dopo aver ricostruito tutta la vicenda storica della
cooperativa da lui per lungo tempo presieduta, che la stessa non era tenuta ad
alcun obbligo ai fini dell'IVA, nè ai fini dell'IRPEG, sicchè il comportamento
tenuto dalla Dott.ssa Cu.
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integrerebbe gli estremi dell'illecito, almeno sotto il profilo dei maggiori costi
sostenuti dai soci - e, quindi, dal ricorrente - per gli adempimenti fiscali non
dovuti.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., in
relazione al capo della domanda relativo alla pretesa falsità dei bilanci, nonchè
insufficiente motivazione sul punto.
Secondo il ricorrente, la Corte d'appello non avrebbe ammesso le prove
richieste e non avrebbe motivato in modo adeguato circa la presunta illiceità
del comportamento della Dott.ssa Cu.
consistente nella denuncia sporta alla Procura della Repubblica di Pesaro circa
la falsità dei bilanci tenuti dalla società cooperativa. Il punto sarebbe stato
specificamente dedotto, con conseguente omissione di pronuncia da parte
della Corte d'appello.
3. I due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro connessi, non
sono fondati.
Essi - mentre contengono una lunga e non necessaria ricostruzione della
normativa relativa alle società cooperative edilizie, nonchè una storia della
cooperativa presieduta dal ricorrente - non superano le convincenti
argomentazioni sulle quali si fonda la sentenza impugnata, la quale resiste alle
censure proposte.
Ed invero la Corte d'appello, richiamando l'ampia e dettagliata motivazione
della sentenza di primo grado, ha spiegato che: 1) non poteva ravvisarsi nel
comportamento della Dott.ssa Cu. alcun profilo di dolo o di colpa, in quanto le
attività svolte dalla medesima erano comunque dovute; 2) neppure era
ravvisabile l'esistenza di un comportamento doloso o colposo per ciò che
riguarda le osservazioni compiute dal commissario circa la tenuta della
contabilità; 3) comunque, ove anche la Dott.ssa Cu.
avesse sottoposto la cooperativa ad adempimenti fiscali indebiti, ciò non si
sarebbe mai potuto tradurre in un danno, e tantomeno nei confronti del solo
presidente della medesima (ossia l'odierno ricorrente), dovendo semmai la
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legittimazione attiva sussistere in capo alla società cooperativa e non al suo
presidente come persona fisica (punto, quest'ultimo, neppure affrontato nel
ricorso).
In altre parole, la Dott.ssa Cu. aveva assunto alcune iniziative che mancavano,
in concreto, di ogni potenzialità dannosa in quanto, a prescindere
dall'esattezza o meno delle scelte compiute da un punto di vista tributario,
nessuna lesione poteva derivarne a carico dei soci. Anche in relazione al
secondo motivo, concernente la denuncia compiuta alla Procura della
Repubblica di Pesaro, il ricorrente prospetta censure vaghe, senza neppure
dare conto di come si sia poi conclusa l'indagine penale.
I due motivi di ricorso in esame, in sostanza, ripresentando una serie di
elementi già valutati dalla Corte d'appello, si risolvono nel vano tentativo di
ottenere da questa Corte un nuovo e non consentito esame del merito.
4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c.,
dovendosi ritenere la sicura esistenza di una danno da lesione all'immagine.
Tale danno, secondo il ricorrente, non doveva essere inteso come dannoconseguenza, consistendo anche nella "valutazione negativa che gli altri
possono dare della persona".
4.1. Il motivo non è fondato.
Il danno alla reputazione e all'immagine, per pacifica giurisprudenza di
questa Corte, è un danno-conseguenza che richiede, pertanto, specifica prova
da parte di chi ne chiede il risarcimento (v., tra le altre, le sentenze 13 maggio
2011, n. 10527, 21 giugno 2011, n. 13614, e 14 maggio 2012, n. 7471); prova che
il giudice di merito, con accertamento non sindacabile in questa sede, ha
ritenuto non essere stata fornita dall'avv. C.. E, d'altra parte, mancando il
carattere dell'antigiuridicità del comportamento della Dott.ssa Cu., non vi
sarebbe comunque spazio per un danno risarcibile.
5. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti
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dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, sopravvenuto a disciplinare i compensi
professionali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 3.200, di cui Euro 200 per
spese, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 7
luglio 2014.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2014
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