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Echi d`Oriente - Teatro Regio di Torino

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Echi d`Oriente - Teatro Regio di Torino
[copertina]
consegnata a parte già impaginata
Echi d’Oriente
Suggestioni esotiche nella musica, nell’opera e nel balletto europei1
Echi d’Oriente
Suggestioni esotiche nella musica, nell’opera e nel balletto europei
In collaborazione con MAO - Museo d’Arte Orientale
I contatti tra Oriente e Occidente sono argomento ricco di storia e stimolante nella
sua attualità; i suggerimenti di studio che ne derivano sono molteplici e offrono
varie possibilità di approfondimento.
Il percorso si propone, in particolare, di affrontare l’affascinante ricchezza degli
incontri tra l’arte orientale e il teatro d’opera, la musica classica, la danza.
La conoscenza reciproca tra i due mondi avviene secondo tempi e modalità assai
diverse per ogni area geografica. Infatti, già alla fine del primo millennio d.C.
l’espansione dell’Islam verso il bacino mediterraneo, pur trovando nell’Occidente
un avversario naturale, vi apporta influssi culturali innumerevoli e importantissimi
nell’ambito delle scienze esatte, della filosofia, della letteratura e della musica. Nel
Medioevo si favoleggia poi del magico regno governato da Prete Gianni, figura
leggendaria descritta anche da Marco Polo nel suo Milione (1299), peraltro primo
testo di carattere “scientifico” dedicato alla Cina e alla Via della Seta; sarà però il
fascino dirompente della traduzione in francese, ai primi del Settecento, de Le mille
e una notte, all’origine del cosiddetto mal d’Oriente che colpisce l’Europa del XVIII
e XIX secolo, quando anche la conoscenza dell’elegante poesia del persiano Hāfez
(sec. XIV) giungerà ad ispirare le liriche del Divano occidentale-orientale di Goethe
(1819-1827), poderosa sintesi tra i due mondi. D’altra parte, il Giappone si aprirà
all’Occidente soltanto nel 1854, creando in Europa e soprattutto a Parigi una nuova
ondata di fervore per l’esotismo, che si manifesta addirittura come japonisme. Sempre
a Parigi, le Esposizioni Universali permetteranno anche al vasto pubblico il contatto
diretto con realtà sino ad allora conosciute solo attraverso l’altrui mediazione;
l’Esposizione del 1889, in particolare, farà scoprire ai compositori francesi il timbro
sfavillante e le inconsuete scale modali del gamelan, la colorita orchestra giavanese
e balinese. Tutto questo si congiungerà alla straordinaria fortuna dei Ballets Russes
di Djagilev che, a partire dal 1909, costituiranno un ulteriore ponte culturale con un
Oriente inventato e rimaneggiato, sì, ma di immensa seduzione e in sintonia con le
sinuosità dell’art nouveau.
Nel trattare di arte orientale in relazione con il mondo della musica, dell’opera
e del balletto europei è fondamentale considerare che l’Oriente è stato fonte di
ispirazione, suggerimento, riferimento, ma che, quasi sempre, questi modelli sono
stati riadattati, adeguati e spesso travisati nei loro significati profondi da chi li
utilizzava. Ciò che maggiormente interessava all’Europa tra il Settecento e il primo
Novecento erano gli spunti estetici che l’Oriente era in grado di fornire, uniti,
ovviamente, a una certa aria di mistero e di esotismo che affascinava e irretiva il
pubblico dell’epoca.
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Un nuovo museo per Torino
Il MAO - Museo d’Arte Orientale apre le sue porte al pubblico nel dicembre 2008.
Il Museo è ospitato nella storica sede di Palazzo Mazzonis (sec. XVIII), abilmente
riadattato alla funzione museale dal Settore Edifici per la Cultura della Città di
Torino e fortemente caratterizzato dall’allestimento progettato dall’architetto
Andrea Bruno. Accanto alla funzione principale di raccogliere, conservare e
presentare al pubblico pregevoli opere artistiche, il MAO si propone come
strumento di mediazione culturale: avvicinare il visitatore tradizionale a culture
sinora poco conosciute e comprese, e rappresentare, per i cittadini di provenienza
asiatica, un segno tangibile della stima e della tradizione di buoni rapporti che
questa città ha sviluppato nel tempo con i loro paesi d’origine.
Il patrimonio del museo comprende circa 1500 opere, suddivise e distribuite in
cinque distinte “gallerie”, secondo l’ambito storico-geografico di provenienza:
Asia Meridionale, Cina, Giappone, Regione Himalayana, Paesi Islamici.
Piano terra
Nella galleria dedicata all’Asia Meridionale sono ospitate le collezioni del Gandhara,
dell’India e del Sudest Asiatico. Oltre ai fregi del grande stupa di Butkara, frutto
degli scavi condotti negli anni Cinquanta dalla sezione piemontese dell’Istituto
italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO), la sezione del Gandhara ospita
una serie di statue in scisto, stucco e terracotta acquistate negli ultimi anni.
Nelle sale destinate all’arte indiana sono collocati rilievi e sculture che vanno dal
II secolo a.C. al XIV secolo d.C. e comprendono esempi dell’arte Shunga, Kushana,
Gupta e del Medioevo Indiano.
Le sale dedicate al Sudest Asiatico presentano opere dell’arte thailandese, birmana
e cambogiana con importanti sculture del periodo Khmer.
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Primo piano
La galleria cinese ospita oggetti d’arte della Cina antica dal 3.000 a.C. al 900 d.C.
circa, con vasellame neolitico, bronzi rituali, lacche e terrecotte che comprendono
oltre duecento esempi dell’arte funeraria dei periodi Han e Tang.
Primo e secondo piano
Nelle sale dedicate al Giappone sono esposte statue lignee di ispirazione buddhista
(dal XII al XVII secolo), eccezionali paraventi degli inizi del XVII secolo, dipinti e
xilografie policrome, insieme con una ricca collezione di oggetti laccati di raffinata
fattura.
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Terzo piano
Nella galleria himalayana sono collocate importanti collezioni di arte buddhista
tibetana, con sculture in legno e in metallo, strumenti rituali, dipinti a tempera
databili dal XII al XVIII secolo e una serie di copertine lignee di testi sacri intagliate
e dipinte.
Quarto piano
La galleria di arte islamica presenta una ricca collezione di vasellame e di piastrelle
invetriate che illustrano l’evoluzione della produzione ceramica dal IX al XVII
secolo ed espone inoltre pregevoli raccolte di bronzi e di manoscritti e una preziosa
collezione di velluti ottomani.
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Asia Meridionale
Il Buddha è seduto su un seggio
quadrangolare in padmasana, termine
che indica la postura seduta, con le
gambe incrociate e i piedi appoggiati
sulle cosce opposte, con le piante
rivolte verso l’alto. Le grandi mani
sono atteggiate in dharmachakramudra,
gesto della predicazione del dharma
o messa in moto della Ruota della
Legge, coincidente con il primo
sermone pronunciato dal Buddha
dopo l’avvenuta illuminazione.
Buddha assiso in dharmachakramudra.
Asia Meridionale (Gandhāra), II secolo d.C.
Scisto.
La figura rappresentata una yakshini,
semidivinità femminile, nel caratteristico atteggiamento del corpo denominata tribhanga, triplice torsione,
definita dalla postura sporgente del
fianco destro, dall’inclinazione del
busto e della testa, curvati lievemente verso sinistra, e dal braccio destro
arcuato sopra la testa. La yakshini,
collocata vicino a un albero, con un
braccio alzato sopra la testa e appeso a un ramo, è definita shalabanjika,
colei che spezza un ramo dell’albero
shala.
A lato: Shalabhanjika.
Asia Meridionale (India nord-occidentale),
XI secolo d.C.
Marmo.
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Asia Meridionale
L’arte occidentale
guarda a queste figure da un punto
di vista puramente
estetico, lasciandosi affascinare dalla
bellezza di gesti e
posizioni senza approfondirne il significato simbolico
e religioso. È questo
il caso dell’utilizzo
di posizioni ispirate alle mudrâ nella
danza e, in particolare, nei balletti di
argomento orientale
o contenenti danze La Bayadère: l’Idolo d’Oro nell’allestimento del Ballet de l’Opéra
esotiche. Le più im- National de Paris.
piegate sono l’Añjali
Mudrâ (della venerazione) e la Vitarka Mudrâ (del ragionamento).
Il primo esempio, rintracciabile nella
storia della danza, di balletto ispirato
dall’arte figurativa dell’Asia Meridionale e, più in generale, dal concetto
di esotico, è Les Indes Galantes, che debutta il 23 agosto 1735 all’Académie
Royale de Musique et Dance di Parigi, su musiche di Jean-Philippe Rameau (1683-1764) e libretto di Louis
Fuzieler (1672-1752), con coreografie
di Louis Dupré (1697-1774).
Frontespizio de Les Indes galantes (1735)
di Jean-Philippe Rameau.
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Asia Meridionale
L’immagine danzante di Ganesha
è definita dagli arti inferiori piegati
di lato nel passo di danza e da otto
braccia disposte a ventaglio. L’arto
inferiore sinistro segue il profilo del
fianco sporgente, assecondando il
movimento di danza; l’indice e il
pollice della mano sono uniti ad anello.
L’arto inferiore destro è disteso lungo
il corpo, con la mano aperta e tenuta
parallela rispetto al terreno, come in
un gesto di protezione nei confronti
del devoto posto ai suoi piedi.
Ganesha danzante.
Asia meridionale (India), X secolo d.C.
Arenaria.
Buddha sdraiato in parinirvana.
Asia Meridionale (Birmania), XIX sec. Legno laccato e dorato.
Il Parinirvana mostra il Buddha morbidamente disteso sul fianco destro, con
il capo sorretto dal braccio corrispondente e il gomito poggiato al suolo. Il
termine parinirvana significa “supremo nirvana”, momento che coincide con
l’estinzione fisica del Buddha, cioè con il suo distacco completo dalla vita
terrena e il raggiungimento definitivo dell’illuminazione. In iconografia,
il termine identifica un’immagine del Buddha sdraiato sul fianco destro,
simbolicamente raffigurato in punto di morte.
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Asia Meridionale
Altri esempi sono i
balletti La Peri, favola
persiana del 1843, e
La Bayadère, che debutta al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo il 23 gennaio
1877, su musiche
di Aloisius Ludwig
Minkus (1836-1891)
e con coreografie di
Marius Petipa (18181910). L’ambientazione indiana e le
atmosfere misteriose La Bayadère, bozzetto del quadro I dell’atto II di K. Brozh per l’altradiscono fortemen- lestimento del 1877 a San Pietroburgo.
te l’ispirazione esotica, che era prepotentemente tornata di moda nella seconda metà del XIX secolo
grazie alle grandi esplorazioni geografiche e al colonialismo.
Nell’arco dei secoli XVIII, XIX e XX le dottrine indiane esercitano una costante
attrazione sul pensiero tedesco, da Herder, che parla dell’India come di “culla
di tutte le divine infanzie umane”, a Schopenhauer, che dichiara la lettura delle
Upanishad “unico conforto della vita”, fino al Siddharta di Hesse, realizzazione
artistica di tale affinità metafisica. Il compositore Richard Wagner (18131883), a sua volta molto suggestionato dalla lettura di Schopenhauer, nel suo
capolavoro Tristan und Isolde descrive la morte d’amore della protagonista come
una sorta di parinirvana. Isolde, infatti, non affronta un passaggio all’aldilà
come concepisce il pensiero occidentale, ma giunge a una sublime dissoluzione
del suo essere nel “tutto” cosmico in cui si estingue ogni dolore:
…Dolcemente in vapori
dissolvermi?
Nell’ondeggiante oceano,
nell’armonia sonora
del respiro del mondo
nell’alitante Tutto
naufragare,
affondare
inconsapevolmente
suprema delizia!
(atto III, finale)
9
Cina
Porta-tamburo configurato, proveniente da
corredo funerario.
Cina centro-meridionale, V-IV secolo a.C.
Legno dipinto. Proprietà Regione Piemonte.
Il telaio del porta-tamburo è formato
dai corpi e dai colli di due volatili,
sorretti da quattro sottili gambe da
trampoliere inserite nel dorso di due
felini. Il tamburo veniva sospeso
per mezzo di anelli e corde alle
creste e al punto di giunzione delle
code degli uccelli. La parte centrale
dello strumento era costituita da
pelli decorate. Non si sa se questi
fragili strumenti venissero davvero
suonati da musicisti. Sembra più
probabile che venissero utilizzati solo
occasionalmente durante i funerali,
prima di essere deposti nei vani delle
tombe medio-grandi in cui sono stati
ritrovati.
La statuetta rappresenta un attore
di shuochang, esempio tipico di
rappresentazione dei cantastorie, in
parte raccontata e in parte cantata,
in voga soprattutto verso la fine
dell’epoca Han. Il cantastorie qui
raffigurato è intento a declamare
una storia accompagnandosi con un
piccolo tamburo che regge sotto il
braccio sinistro e che percuote con
una mazza tenuta nella mano destra,
per dare ritmo alle parti cantate.
Tutto il corpo sembra partecipare al
racconto con una mimica esagerata
che stravolge il volto in tratti
grotteschi.
Cantastorie, proveniente da corredo funerario.
Cina (Sichuan), seconda metà II secolo d.C.
Terracotta. Proprietà Regione Piemonte
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Cina
A Pechino «al tempo
delle favole», il cuore
di ghiaccio dell’austera e spietata principessa Turandot si
infiammerà d’amore
per
l’ardimentoso
principe Calaf. Ma
prima, per essere
ammesso al rito degli enigmi, il giovane
dovrà percuotere un
immenso gong sacro
per annunciare al po- Figurina Liebig rappresentante i personaggi di Ping, Pang e Pong
polo, all’Imperatore e nell’atto I, che riprendono i bozzetti di Galileo Chini per la prima
rappresentazione assoluta di Turandot al Teatro alla Scala di Mialla stessa Turandot, lano nel 1926.
che un temerario si
predispone alla terribile prova. «Chi quel gong percuoterà / apparire la vedrà
/ bianca al pari della giada / fredda come quella spada / è la bella Turandot!»
(Coro, atto I).
Anche l’Occidente conosce da
tempi immemorabili la figura del
cantastorie, intrattenitore ambulante
che narra di piazza in piazza una
favola, un fatto storico, una storia
edificante, improvvisando sulla base
di uno schema poetico e musicale.
Spesso i cantastorie si avvalgono di
grosse immagini con le scene salienti
del racconto. Elemento di contatto tra
la tradizione colta e quella popolare,
questi artisti di strada resistono oggi
solo nelle aree culturali più legate al
folclore.
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Cina
La giovane compie un passo di danza
e disegna nell’aria gesti lenti con
le braccia e con le lunghe maniche
della veste. La danzatrice ha il viso
truccato di belletto rosa sulle guance
e rosso sulla bocca, dipinto di nero
per le ciglia e gli occhi. Sulla fronte
è disegnato in rosso un motivo
floreale. I capelli neri hanno la
scriminatura al centro e sono pettinati
in un’acconciatura tipica delle donne
di epoca Tang, caratterizzata da due
crocchie distanziate ed alte sopra le
orecchie.
Figura di danzatrice, proveniente da corredo
funerario.
Cina (Shaanxi o Henan), VII - VIII secolo d.C.
Terracotta.
Questa statuina rappresenta una
donna a cavallo che tiene, nella
mano sinistra, il manico di un liuto
cinese o pipa, strumento musicale a
corde simile a un liuto con cassa di
risonanza piriforme, e nel pugno
destro sollevato un lungo plettro. Il
liuto è dipinto di verde chiaro, ha la
parte terminale del manico lanceolata
e due linee perpendicolari incise sulla
cassa. Il volto della donna è bianco, la
bocca rossa e gli occhi dipinti di nero,
così come i capelli raccolti in due
crocchie sopra le orecchie.
Suonatrice di “pipa” a cavallo, proveniente da
corredo funerario.
Cina (Shaanxi), VII - VIII secolo d.C.
Terracotta.
12
Cina
In Cina ancora oggi
la danza tradizionale
utilizza tre strumenti: ventaglio, spada
e lunghe maniche o
nastri. I costumi con
ampie maniche vennero introdotti in
epoca Han, mentre,
all’epoca della dinastia Tang, le ballerine
nascondevano a volte
nelle maniche lunghi
nastri da srotolare Una foto di scena dell’atto I di Turandot nell’allestimento di Zhang
durante l’esibizione. Yimou. Teatro Regio, Stagione 1997-1998.
Tali maniche sono
un mezzo per enfatizzare l’effetto estetico; il loro movimento ricorda quello
delle onde di un fiume e sostiene il linguaggio del corpo, dando espressione a
personalità e sentimenti del personaggio.
La diffusione del liuto, termine di
derivazione araba (cfr. pag. 23),
occupa aree geografiche immense
e investe un lunghissimo periodo
storico. Si hanno immagini di liuti
risalenti al III-II millennio a.C. in
area mesopotamica, troviamo poi
lo strumento nella musica degli
antichi egizi, nella tradizione araba
e persiana, da cui passerà in Europa.
Lungo la Via della Seta, lo strumento
si diffonde fino alla Cina, a partire
dal III secolo d.C.; in cinese il nome
significa “suonare avanti e indietro”.
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Giappone
In questa stampa è rappresentato lo
spaccato dei camerini di un teatro
kabuki, forma di teatro drammatico
popolare affermatosi nelle grandi
città dell’epoca Edo (1603-1868). Il
kabuki, nato come spettacolo di danze
eccentriche, si è arricchito nel tempo
di un vasto repertorio drammatico, in
cui tutti i ruoli sono recitati da attori
di sesso maschile. Sul palcoscenico,
oltre agli attori, sono presenti cantanti
e musicisti. Tra gli strumenti musicali,
è di un certo rilievo uno strumento a
tre corde chiamato shamisen.
Utagawa Kunisada (Toyokuni III),
Camerini di un teatro kabuki.
Giappone, prima metà XIX sec.
Silografia su carta.
Proprietà Regione Piemonte.
Katsushika
Hokusai
(1760-1849) è stato un
pittore giapponese autore, tra l’altro, di stampe ukiyo-e. L’ukiyo-e,
«immagini del mondo
fluttuante», è un genere
di stampa artistica impressa su carta da matrici scolpite in blocchi
di legno, prodotta tra il
XVII e il XX secolo, che
Katsushika Hokusai,
raffigura per lo più paeLa grande onda a largo di Kanagawa.
saggi, soggetti teatrali e
Giappone, secondo quarto XIX sec.
quartieri di piacere. Tra i
Silografia su carta. Collezione privata.
lavori più noti di questo
artista, importante fonte di ispirazione per molti pittori europei come Claude
Monet e Vincent Van Gogh, vi è la serie delle stampe ukiyo-e «trentasei vedute
del monte Fuji». La grande onda è la più celebre di queste vedute.
14
Giappone
All’Esposizione Universale di Parigi
del 1867 il pubblico europeo scopre
il mondo giapponese attraverso la
sua arte. Più di cento stampe dei
maggiori maestri nipponici vengono
esposte e attirano un continuo
afflusso di artisti. Alcune di queste
Ukiyo-e, che avevano la funzione di
manifesti pubblicitari, ritraevano gli
attori più famosi del Teatro Kabuki,
i cui volti perfettamente truccati
venivano reinterpretati secondo la
moda ridondante delle stampe.
La febbre del dilagante japonisme nella
Parigi tra Otto e Novecento coinvolge
anche il grande compositore Claude
Debussy (1862-1918), il quale vuole
sia utilizzato un particolare della
celebre immagine di Hokusai come
frontespizio della partitura a stampa
de La mer, schizzi sinfonici (1905). Sarà
invece una lacca giapponese posta
sopra il suo pianoforte a ispirargli la
splendida pagina pianistica Poissons
d’or (da Images, II, 1908).
Copertina della partitura a stampa
di La mer, schizzi sinfonici
di Claude Debussy.
15
Giappone
Come supporto per
la pittura e per la calligrafia, il ventaglio
pieghevole ha avuto
un ruolo rilevante
nella storia artistica
giapponese. Il ruolo
del ventaglio è della
massima importanza
nei teatri tradizionali, No, Kyogen e KabuDue caratteri calligrafici, ventaglio dipinto.
Giappone, metà XIX sec.
ki. Esso costituisce un
Inchiostro su carta. Collezione privata.
elemento indispensabile della recitazione
e specialmente della danza, in cui rappresenta di volta in volta azioni e oggetti
diversi. Il ventaglio, in Giappone, non é legato solo al mondo femminile, ma
completa anche l’abbigliamento maschile.
Sulla parte di fondo,
è collocato il tokonoma, uno spazio incassato nel quale vengono esposti dipinti o
calligrafie; in basso,
su una tavola poco
rialzata rispetto al
piano del pavimento, sono disposti oggetti spesso costituiti
da lacche preziose e
composizioni floreali
Chashitsu, “stanza del tè” tradizionale giapponese (riproduzione). (ikebana). I pavimenti
sono ricoperti da materassini intrecciati di forma rettangolare, chiamati tatami. Le porte scorrevoli,
shoji, sono in legno e carta.
16
Giappone
Madama Butterfly è la toccante storia
della piccola geisha Cio-Cio San e del
suo amore infelice per l’americano
Pinkerton, uomo insensibile e
incapace di comprendere il mondo
profondo e delicato della fanciulla.
Nel primo atto dell’opera Butterfly
giunge alla casetta dove si sposerà,
portando nelle maniche del kimono
alcuni oggetti: fazzoletti, una
cintura… un ventaglio… gli Ottokè
(le divinità della casa), un astuccio
con un pugnale…
Giacomo Puccini utilizza melodie
popolari giapponesi, inserite in un
contesto musicale squisitamente
italiano.
Giuseppe Palanti, figurino per Madama
Butterfly nell’atto I (1904).
Nel 1901 Giacomo Puccini assiste a
Londra a una rappresentazione della
tragedia Madame Butterfly di David
Belasco; il compositore non capisce
l’inglese, ma decide ugualmente di
trarre un’opera dal soggetto, avvinto soprattutto dalla scena in cui Butterfly, chiusa in un trepidante e poi
malinconico silenzio, attende invano
l’arrivo di Pinkerton, inginocchiata
davanti a una parete della sua casetta. Nell’opera, la scena corrispondente è accompagnata dallo struggente
“Coro a bocca chiusa”.
Locandina di Leopold Metlicovitz per la prima rappresentazione assoluta di Madama
Butterfly (1904).
17
Regione Himalayana
Simhavaktra, divinità furiosa che calpesta l’ignoranza e la sofferenza, ha
il corpo blu, una testa di leone bianca
dotata di tre occhi e una folta chioma
fulva incorniciata da un diadema di
teschi. Indossa gli ornamenti d’osso
propri delle divinità furiose e una
ghirlanda di teste mozze ed è avvolta da un violento alone di fiamme.
Questa thang-ka rappresenta Simhavaktra in Ardhaparyanka, con il piede sinistro a terra e la gamba destra
ripiegata, posizione che nella danza
indiana evoca il viaggio e il volo.
Simhavaktra.
Tibet orientale, XIX secolo.
Tempera su cotone.
Proprietà Regione Piemonte.
La figura più grande
rappresenta il Guru
Rin-po-che, vissuto nel
VIII secolo e divenuto
in seguito un personaggio leggendario.
Verso il 750, egli raggiunse il Tibet e vi diffuse la dottrina buddhista. Intorno alla figura
centrale, sono distribuiti i cinque Buddha Cosmici, associati ai punti
Le otto manifestazioni del Guru Rin-po-che.
cardinali. Tra loro, la fiBhutan, XIX secolo.
gura blu in alto al centro
Tempera su cotone.
rappresenta AkshobhProprietà Regione Piemonte.
ya, il Buddha dell’Est.
La seconda figura blu scuro a sinistra di Akshobhya è Pad-ma-gsol-ba, una
delle otto emanazioni principali del Guru Rin-po-che.
18
Regione Himalayana
I Ballets Russes di Sergej Djagilev
(1872-1929) portano, dal 1909, una
rivoluzione nella danza in Europa
Occidentale. La compagnia mira a
conquistare gli spettatori attraverso
la ripresa dei grandi classici della
tradizione russa e sperimenta nuove
strade, spesso controverse e difficili
da accettare per il pubblico conformista dell’epoca. Uno degli indirizzi seguiti fu quello dell’ispirazione orientale: Cleopatra, Le Chant du Rossignol,
Le Dieu Bleu, Les Orientales, L’uccello
di fuoco, Shéhérazade.
Vera Fokina, Tamara Karsavina e Michail Fokin in Le Dieu Bleu (tournée in Germania
dei Ballets Russes, 1914).
Molti dei costumi e degli allestimenti
disegnati da Léon Bakst (1866-1924)
sono debitori delle colorate divinità
tibetane. Ne è un esempio il bozzetto
del costume di Vaclav Nižinskij
(1890-1950) per il balletto Le Dieu Bleu,
andato in scena al Teatro Châtelet di
Parigi il 13 maggio 1912, su musiche
di Reynaldo Hahn (1874-1947) e con
coreografie di Michail Fokin (18801942), che volle creare dei movimenti
del tutto nuovi, traendo ispirazione
dalle danze tradizionali siamesi e
indiane.
Léon Bakst, figurino per Le Dieu Bleu
(1912).
19
Area islamica
Piastrella con cortigiano.
Iran, XVII secolo (epoca Safavide).
Ceramica.
La piastrella policroma, dipinta in
vivaci tonalità di verde, blu, turchese,
giallo e bianco, è decorata dalla figura
di un cortigiano con baffi e folta barba
nera, circondato da stilizzazioni
floreali e formazioni rocciose di gusto
cinese. La decorazione si staglia su uno
sfondo uniforme di colore blu-cobalto.
Il cortigiano, vestito elegantemente,
indossa una tunica di colore giallo
con colletto turchese e bottone nero.
Al disotto della tunica si intravede
un tessuto di colore verde. In testa
ha un elegante e composito turbante
multicolore.
Da un rumi, motivo di arabesco,
si aprono due foglie lanceolate e
dentellate e un bocciolo stilizzato in
forma di tulipano da cui si originano
sette petali di garofano dal bordo
sfrangiato. Negli spazi fra le foglie e i
petali esterni dei garofani sono inseriti
dei melograni. I due orli simmetrici
presentano tulipani schematizzati. I
velluti di Bursa erano originariamente
fatti come teli a metratura, adatti a
molti usi: potevano venire appesi a
pareti o occasionalmente impiegati
nella decorazione di abiti. Singoli teli
completi di bordi superiore e inferiore
venivano trasformati in copricuscini.
Copricuscino.
Turchia (Bursa), XVI-XVII secolo.
Velluto in seta broccato
con fili d’oro e d’argento.
20
Area islamica
Nel
balletto
e
nell’opera del Settecento si sviluppa
il genere comico o
semi-serio delle turcherie, in cui la paura
secolare del “turco
crudele”’ si stempera in curiosità. Due
sono i personaggitipo: il “turco galante” e magnanimo e la
“favorita”, la schiava
prediletta e bellissima; la scena è l’haOtto Reigbert, Il giardino presso il palazzo di Selim Pascià, bozrem, luogo-simbolo zetto di scena per l’allestimento di Colonia del 1932 del Ratto dal
delle fantasie esoti- serraglio di W. A. Mozart.
che e amorose occidentali. Con “musica turca” si intende invece l’insieme di triangolo, grancassa
e ottavino, usato per imitare le sonorità penetranti delle bande di giannizzeri e
descrivere ambienti orientaleggianti.
Nel 1888 il compositore russo Nikolaj Rimskji-Korsakov (1844-1908) crea
Shéhérazade, suite sinfonica destinata a un grande successo internazionale;
la magistrale orchestrazione e la musica sensuale e coloratissima evocano la
figura della protagonista cui il violino dà voce in un tema ricorrente flessuoso e
arabescato. Le descrizioni di ambienti fiabeschi orientali sono una caratteristica
della musica russa, grazie alla favorevole posizione geografica dell’immensa
nazione, vero “ponte culturale” tra Europa e Oriente.
«Sire» esclamò Shahrazàd, «le mie storie sono così numerose, che non posso
neppure contarle. Temo piuttosto che la vostra maestà si stanchi prima che
mi manchi l’argomento per intrattenerla». «Non pensateci neppure», rispose
il sultano, «e vediamo che cosa avete di nuovo da raccontarmi». Shahrazàd,
incoraggiata da queste parole del sultano delle Indie, cominciò allora a
raccontargli una nuova storia.
(da Le mille e una notte)
21
Area islamica
Pannello di due piastrelle con figura umana.
Iran (Isfahan), XVII sec. (epoca Safavide).
Ceramica.
La coppia di piastrelle, frammento
di una composizione più ampia,
raffigura una fanciulla che, con morbidi
movimenti del corpo, è intenta a versare
del liquido da un recipiente di colore blu.
Alla sua destra si intravedono tessuti
dai vivaci colori che hanno la forma di
eleganti cuscini. Le due piastrelle sono
un esempio degli eleganti rivestimenti
in ceramica che decoravano i sontuosi
palazzi di Isfahan (Iran), capitale dei
Safavidi, che governarono un vasto
impero tra il XVI e il XVIII secolo e che
allacciarono con l’Occidente intensi
scambi sia commerciali che culturali.
A Isfahan, infatti, erano spesso invitati
ambasciatori e funzionari delle più
potenti corti europee dell’epoca.
Moslehoddin ‘Abdollah Sa’dî (11841291), fu uno dei più importanti poeti
della letteratura persiana. Le poesie
raccolte in questo manoscritto sono
redatte in eleganti caratteri neri,
tracciati su pagine impreziosite da
fitte decorazioni in oro e pigmenti.
Due delicate miniature decorano il
volume con scene della vita di corte,
dove il sovrano si riposa in un giardino
circondato dai suoi servitori. La natura
è rappresentata con grande cura: fiori e
alberi sono tracciati con linee precise e
con grande attenzione per i particolari.
Opere di Sa’dì, manoscritto persiano
(scrittura nasta’liq).
India, XVII sec.
Inchiostro nero e rosso, oro e acquerello.
22
Area islamica
Tanti i balletti ispirati al mondo di
religione islamica: Abdallah o La gazzella di Bassora, Le Corsaire, La fontana
di Bakhcisarai, Raymonda; e ancora La
danza araba nello Schiaccianoci. Il balletto più celebre è Shéhérazade, che
debutta a Parigi il 4 giugno 1910 con
coreografie di Michail Fokin su musiche di Nicolaj Rimskij-Korsakov.
I movimenti di coreografia vennero
creati guardando all’Oriente e scene
e costumi, creati da Léon Bakst, rivelano l’ispirazione del pittore.
Vaclav Nižinskij in Shéhérazade (1910).
Tra gli innumerevoli lasciti
della cultura musicale
islamica, gli strumenti
musicali
costituiscono
un ambito tra i più
cospicui: ad esempio, lo
strumento più diffuso
nel tardo Medioevo e nel
Rinascimento europei, il
liuto, altro non è che la
trasformazione dell’arabo
ud (letteralmente “legno”),
mentre il rabab, una sorta
Riproduzione degli strumenti islamici ud e daf, dal
di liuto ad arco, sarebbe
manoscritto
del Khamseh di Nizani. Iran, 1539-43.
all’origine della famiglia
dei violini e delle viole,
attraverso la medievale ribeca; nell’immagine si vede anche un daf, tamburo a
cornice con sonagli.
23
Opere
Richard Wagner (1813-1883), Tristan und Isolde, 1865
Il soggetto è tratto da un poema cavalleresco di Gottfried von Strassburg (sec. XIII).
Il cavaliere Tristan è incaricato di portare in Cornovaglia, prigioniera, la principessa
irlandese Isolde, che dovrà andare sposa a Re Marke. La fanciulla vuole vendicarsi
della morte del fidanzato Morold per mano di Tristan ed è turbata per aver salvato
il giovane prima di sapere chi fosse. Decide allora di bere con lui un filtro di morte,
ma l’ancella Brangäne, spaventata, prepara invece un filtro d’amore. I due giovani,
ormai, sono indissolubilmente legati. Giunti al castello reale, attendono che Re
Marke si allontani per la caccia notturna per potersi incontrare. La notte protegge
gli innamorati avvinti nel loro rapimento e ignari del mondo circostante; nemmeno
l’inquietudine di Brangäne, che li avverte dello scorrere del tempo, può destarli
dal loro sogno amoroso. Giunge infine Re Marke; profondamente addolorato dal
doppio tradimento, stabilisce che Tristan dovrà andare in esilio. Melot, cortigiano
del re, ferisce gravemente Tristan. Cacciato in Bretagna, ormai in fin di vita e
vegliato dal fido Kurvenal, il giovane attende l’amata; quando Isolde arriva, le
corre incontro strappandosi le bende della ferita e cade in terra morto. Re Marke,
informato del filtro d’amore, ha seguito la nave di Isolde ed è pronto al perdono,
ma riesce solo ad assistere, commosso, alla morte d’amore di Isolde.
Giacomo Puccini (1858 – 1924),
Turandot, 1926
(libretto di Giuseppe Adami e
Renato Simoni)
Il soggetto è tratto da una fiaba teatrale di
Carlo Gozzi (1762).
Pechino, “al tempo delle favole”. La
principessa Turandot, in memoria dell’onta
subita dall’ava Lou-Ling, ha giurato di
sposare soltanto colui che risolverà i suoi
tre inesplicabili enigmi e di uccidere chi
non riuscirà nell’impresa. Il principe di
Persia ha fallito e, nonostante le suppliche
della folla, viene condannato; assistono
alla scena il vecchio re tartaro spodestato
Timur, suo figlio Calaf e la schiava Liù, di
lui innamorata. Calaf invece viene stregato
dalla bellezza di Turandot e decide di tentare
la sorte, nonostante i ministri Ping, Pong e
Pang tentino di dissuaderlo. I tre enigmi
Foto di scena di Turandot (Teatro Regio, vengono risolti, ma Turandot cade nella
disperazione: la principessa di gelo non
Stagione 1997-98).
Regia di Zhang Yimou. Allestimento Teatro vuole appartenere a nessun uomo. Calaf le
Comunale di Firenze.
pone allora a sua volta un indovinello: se
24
la crudele riuscirà a scoprire il suo nome prima dell’alba, egli accetterà di morire.
Pronta a tutto Turandot fa imprigionare e torturare Timur e Liù, che preferisce
uccidersi piuttosto che svelare il segreto che darebbe la morte all’uomo che ama.
Turbata da un tale gesto di dedizione, Turandot si lascia baciare da Calaf, che le
rivela infine il proprio nome. Al mattino, davanti alla folla, Turandot, ormai vinta,
dichiara che il nome dello straniero è Amore.
Giacomo Puccini, Madama Butterfly, 1904
(libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa)
Il soggetto è tratto dalla tragedia Madame Butterfly di David Belasco (1900), a sua
volta ispirata all’omonimo racconto di John Luther Long (1898).
Nagasaki, alla fine dell’Ottocento. Il tenente della marina americana Pinkerton sta
per sposare la piccola geisha Cio-Cio-San, detta Madama Butterfly, ma, come lui
stesso ammette al console Sharpless, secondo la legge giapponese, non valida in
America. La fanciulla, giunta nella nuova casa con le proprie poche cose, viene
maledetta dallo zio bonzo per aver tradito la religione degli avi, ma è felice di
dedicare la sua vita all’amore per Pinkerton. Trascorsi tre anni Butterfly è sola,
l’uomo l’ha lasciata senza nemmeno sapere dell’esistenza del loro figlioletto.
Tuttavia la fanciulla è fiduciosa nel ritorno del marito e rifiuta la proposta del ricco
e nobile Yamadori. Sharpless, commosso, non ha la forza di informarla di una
lettera di Pinkerton, nella quale il tenente annuncia il proprio arrivo con la moglie
americana. La nave infine giunge nel porto di Nagasaki, ma Butterfly attende
invano tutta la notte che Pinkerton salga alla loro casetta. Infine, il giorno seguente
arreca la cruda verità: Butterfly intravede in giardino la “sposa americana”. Decide
allora di morire con onore: benda il piccolo e si suicida facendo harakiri, mentre
risuona inutile il grido di rimorso di Pinkerton.
Balletti
Les Indes Galantes
Il balletto debutta il 23 agosto 1735 all’Académie Royale de Musique et Dance di
Parigi, su musiche di Jean-Philippe Rameau e libretto di Louis Fuzelier, autore
di successo nel genere dell’opéra-ballet, con coreografie di Louis Dupré. Narra le
vicende sentimentali di quattro coppie, che vivono rispettivamente in Turchia,
Perù, Nord America e Persia; le relative entrées vennero intitolate Il turco generoso,
Gli Incas del Perù, I selvaggi e I fiori. Inizialmente limitato a prologo e due entrées, lo
spettacolo venne ampliato con una terza entrée (Les Fleurs) già in occasione della
terza andata in scena, successivamente rimaneggiata perché non aveva incontrato
il favore del pubblico. Per l’inizio del 1736 lo spettacolo aveva già avuto ventotto
riprese e gli autori decisero di arricchirlo ulteriormente con l’entrée Les Savages. Le
riprese del balletto fatte nel corso del Settecento non tennero conto né dell’ordine
né del numero delle entrées inizialmente progettate. Per quanto pare certo che le
stravaganti storie d’amore venissero create sulla base di riferimenti storici precisi
25
a tradizioni, nomi e luoghi, cosa che conferiva alla rappresentazione una rara
precisione, per l’epoca, nel creare il colore locale, l’intero spettacolo risentiva della
mentalità del secolo, che generalmente indicava, con il termine Indie, tutti i territori
extra-europei conosciuti, senza preoccuparsi della loro effettiva collocazione né
approfondirne la tradizione o la cultura.
La Bayadère
Il balletto, concepito in quattro atti e sette quadri con apoteosi, debutta la sera del
23 gennaio 1877 sul palcoscenico del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, ad opera
del coreografo Marius Petipa su musiche di Ludwig Minkus. Difficile indicarne la
trama, poiché, con il passare degli anni, se ne è, di volta in volta, eliminato il quarto
quadro, spostato l’ordine delle scene, messo in scena il solo Atto Delle Ombre. Il
guerriero Solor, infatuato della bayadéra Nikia, danzatrice custode della fiamma
del dio, la incontra di nascosto. Ma il Bramino, innamorato anch’egli di Nikia, spia
il loro incontro e ne riferisce al Rajah, la cui figlia Gamzatti, che ascolta non vista la
conversazione, è promessa a Solor. Gamzatti convoca Nikia e le rivela il tradimento
di Solor; Nikia tenta di ucciderla. Alla festa per il matrimonio la bayadéra balla per
la coppia; Gamzatti ha fatto nascondere un serpente tra i fiori della danza e Nikia,
morsa, muore. Solor, disperato, si rifugia nell’oppio e sogna di ballare con l’ombra
di Nikia. Al risveglio si avvia alle nozze; ma il tempio crolla, sotterrando i due
sposi sotto le macerie. Al racconto della Bayadère si innesta il tema letterario del
Dramma di Sakuntala, noto in Europa sin dal 1789, opera di Kalidasa, il più insigne
poeta classico dell’India. Una prima informazione su Sakuntala venne a Petipa da
Parigi, dove, nel 1858, suo fratello Lucien (1815-1898), secondo maître du ballet al
Teatro dell’Opera, aveva allestito un balletto intitolato, appunto, Sakuntala.
Le Dieu Bleu
Il balletto, in un atto, debutta il 13 maggio 1912 presso il Teatro Châtelet a Parigi,
con coreografie di Michail Fokin su musiche di Reynaldo Hahn e libretto di Jean
Cocteau (1889-1963); in scena Tamara Karsavina (1885-1978) e Vaclav Nižinskij.
Sullo sfondo esotico di un’India fantastica un giovane sta per diventare sacerdote
indù. Alla cerimonia di iniziazione una fanciulla, innamorata di lui, lo supplica
di rinunciare al proprio proposito, ma i religiosi separano i due ragazzi e il Gran
Sacerdote la condanna a morte. È notte; la ragazza cerca di fuggire, ma gli animali
sacri del tempio le sbarrano la strada; terrorizzata prega gli dei di aiutarla. Appaiono la Dea Loto e il Dio Blu, che, con una danza spettacolare, soggioga le bestie,
salvandola. Sopraggiungono i sacerdoti, cui la Dea intima di liberare la fanciulla. I due innamorati possono così ricongiungersi mentre gli dei risalgono in cielo
benedicendoli. I Ballets Russes di Sergej Djagilev erano una compagnia unica nel
suo genere, all’interno della quale eccezionali ballerini (Vaclav Nižinskij, Tamara
Karsavina, Serge Lifar, Anna Pavlova), coreografi (Michail Fokin, Léonid Massine, Bronislava Nižinska, George Balanchine), musicisti (Igor Stravinskij, Erik Satie,
26
Sergej Prokof’ev) e pittori (Pablo Picasso, Henri Matisse, Giorgio De Chirico, Léon
Bakst) ebbero la possibilità di sperimentare e dettare le nuove regole della danza e
dell’arte in generale.
Shéhérazade
La vicenda dalla quale Nicolaj Rimskij-Korsakov trasse spunto per la suite sinfonica è quella narrata ne Le mille e una notte. La principessa Shéhérazade si offre sposa
al sultano Shahriyar, che, avendo in odio le donne, uccide le mogli dopo la prima
notte di nozze. Per salvarsi e riscattare il genere femminile Shéhérazade, donna
abile e indipendente, gli narra, per mille e una notte, vicende straordinarie, conquistandolo infine con la propria intelligenza e il fascino delle sue parole. Il balletto, in
un atto unico, debuttò a Parigi la sera del 4 giugno 1910, con coreografie di Michail
Fokin su musiche di Nicolaj Rimskij-Korsakov; scene e costumi di Léon Bakst. Era
l’occasione ideale per presentare il giovane e talentuoso Vaclav Nižinskij, che, nella
parte dello Schiavo d’Oro, incantò e affascinò le platee dell’epoca con la sua carica
sensuale, evidenziando la bellezza del corpo maschile nella danza. Il balletto narra
l’antefatto de Le mille e una notte, in cui Shahriyar, che sospetta l’infedeltà della
concubina Zobeide, la mette alla prova fingendo di recarsi a caccia. Non appena si
allontana, le compagne di Zobeide sottraggono all’Eunuco le chiavi degli alloggi
degli schiavi e li invitano a unirsi a loro per una festa sfrenata. Zobeide e lo Schiavo d’Oro, di cui ella è innamorata, danzano insieme, ma, quando la festa è ormai
giunta al suo massimo culmine, il sultano fa irruzione nell’harem e uccide tutti
senza pietà.
Foto di scena di Shéhérazade (Teatro Regio, Stagione 2003-04).
Coreografia di Michail Fokin. Allestimento Teatro Mariinskij di San Pietroburgo.
27
Mudrâ e Tribhanga
Una mudrâ è un gesto simbolico o rituale impiegato nell’iconografia e nella pratica spirituale
delle religioni indiane. Le mudrâ vengono anche utilizzate nella danza classica indiana;
scorrendo attraverso miriadi di mudrâ le mani parlano, in forma simbolica, della storia che il
danzatore sta rappresentando.
Le mudrâ sono molte e complesse, sia nelle loro forme originali che nelle loro varianti. Alcune,
in particolare, hanno ispirato i coreografi occidentali; la citazione, ovviamente, non è mai
precisa, né si interessa del significato religioso della mudrâ stessa; l’interesse è puramente di
tipo estetico.
L’Añjali-mudrâ è la mudrâ dell’offerta e della venerazione. Le
mani sono giunte verticalmente
davanti al petto, come nell’atteggiamento della preghiera. È un
gesto comunemente usato da tutti in India e nel Sud-Est asiatico
per il saluto, per evocare un’offerta, per esprimere venerazione
se si fa all’altezza del viso.
Añjali-mudrâ
Vaslava Nijinskij in Les Orientales
(1910).
Vitarka-mudrâ
La Vitarka-mudrâ è la mudrâ che
convince l’uditore, che lo conduce
alla conversione spiegandogli la
Legge. Si esegue con le due mani
in Abhaya-Varada-mudrâ, con i
pollici che toccano le punte degli
indici, a formare un cerchio che
rappresenta la perfezione, ciò che
è eterno, nozione assimilata alla La Bayadère, allestimento del
Royal Ballet di Londra
Legge del Buddha.
La tribhanga è, letteralmente, una posa piegata
in tre punti, riscontrabile in molta della
statuaria dell’India e del Sud-Est Asiatico.
Viene utilizzata anche nella danza tradizionale
indiana e ha, anch’essa, ispirato i passi e i
movimenti del balletto classico.
La Bayadère, allestimento del Ballet
dell’Opéra di Parigi.
28
Tribhanga
Il Teatro Regio nella storia
Le origini del Teatro risalgono all’inizio del XVIII secolo quando Vittorio Amedeo
II decise di commissionare all’architetto Filippo Juvarra la progettazione e la
costruzione di un nuovo grande teatro nell’ambito del più generale riassetto urbano
della Piazza Castello. L’intento venne però perfezionato solo qualche anno più tardi
da Carlo Emanuele III (incoronato re di Sardegna nel 1730) il quale, in seguito alla
morte di Juvarra, scelse di affidare il progetto all’architetto Benedetto Alfieri con
la richiesta di progettare un teatro di grande prestigio. Il “Regio Teatro” di Torino,
edificato nel tempo record di due anni, venne inaugurato il 26 dicembre del 1740,
diventando subito un punto di riferimento internazionale per la capienza - circa
2.500 posti tra platea e cinque ordini di palchetti, le magnifiche decorazioni della sala
fra le quali spiccava la volta dipinta da Bernardino Galliari, gli imponenti scenari e le
attrezzature tecniche, nonché la qualità delle rappresentazioni. Gli scritti entusiasti
di grandi letterati-viaggiatori come Burney testimoniano il prestigio raggiunto
dal Teatro all’interno dei Grand Tour europei dell’epoca, prestigio riconosciuto e
avvalorato con la pubblicazione, nel 1772, delle incisioni illustrative dell’Alfieri
nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert.
Il Teatro proseguì la sua intensa attività, seguendo da vicino la vita di corte, fino
alla fine del secolo XVIII, quando l’invasione delle truppe napoleoniche portò
il possesso della Città ai francesi: le insegne sabaude vennero rimosse e l’edificio
rinominato a più riprese in “Teatro Nazionale”, “Grand Théâtre des Arts” e infine,
nel 1804, “Théâtre Impérial”. Nel 1814 il Piemonte tornò sotto il governo dei Savoia
e il ristabilito Regio Teatro, per volere del re Carlo Alberto, venne ridecorato in stile
neoclassico. Con l’unificazione dell’Italia e il successivo trasferimento della capitale
a Roma, la casa regnante decretò la cessione della proprietà del Teatro al Comune
di Torino. A cavallo del 1900, il Regio divenne una delle roccaforti wagneriane in
Italia, anche grazie agli straordinari vertici musicali raggiunti dall’orchestra sotto la
direzione artistica e musicale di Arturo Toscanini. Quegli stessi anni di splendore
furono coronati dalle prime rappresentazioni assolute di due capolavori di Giacomo
Puccini: Manon Lescaut (1893) e La bohème (1896).
Insieme alla radicale ristrutturazione del palcoscenico e della sala, che vide la
capienza aumentare fino a 3.000 posti grazie alla creazione di tre ordini di gallerie, il
nuovo secolo portò al Regio la peggior catastrofe possibile per un teatro: nella notte
fra l’8 e il 9 febbraio 1936 un incendio causato da un cortocircuito distrusse in poche
ore l’illustre corso di un’istituzione che per quasi duecento anni aveva legato la sua
storia con quella della Città.
Benché il bando di concorso per la ricostruzione venisse pubblicato meno di un
anno dopo, la seconda guerra mondiale e i numerosi emendamenti ai progetti
originari tardarono i lavori di ricostruzione, che iniziarono negli anni Sessanta.
Il progetto vincente risultò essere quello dell’architetto Carlo Mollino, artista del
design e docente di composizione architettonica al Politecnico di Torino.
29
La visita guidata al Teatro
La facciata del vecchio Regio, l’unica parte rimasta integra dopo l’incendio,
necessitava di essere conservata per rispetto della conformazione architettonica
della storica Piazza Castello: il difficile problema del rapporto con gli edifici storici
adiacenti è stato risolto da Mollino in modo audace e originale con la creazione di
linee e volumi al contempo contrastanti e attinenti. Infatti, la pianta del nuovo Teatro
Regio, inaugurato nel 1973, curvilinea anziché a parallelepipedo, oltre a costituire
un elemento di estrema novità è anche un esplicito richiamo, evidenziato dall’uso
del laterizio e delle bugnature a forma di stella, al barocco Palazzo Carignano di
Guarino Guarini. L’imponenza della struttura è poi alleggerita dall’apertura di
ampie vetrate a tutt’altezza che creano giochi di rifrazioni e vedute con le attigue
architetture dello Juvarra (oggi Archivio di Stato) e dell’Alfieri (l’antica manica
divenuta sede degli uffici del Teatro). Una grande cancellata bronzea, l’Odissea
Musicale, opera dello scultore Umberto Mastroianni, dal 1994 costituisce la soglia
della Galleria Tamagno, primo elegante punto di raccolta del pubblico. Di qui si
può apprezzare l’immensa “vetrina” che espone alla vista il foyer interno, con la sua
molteplicità di piani e la presenza, al centro, delle scale mobili.
L’ingresso nel foyer è filtrato da una serie di dodici doppie porte in cristallo brunito,
oltrepassate le quali si accede a un ambiente confortevole e soft, cromaticamente
dominato dal rosso della moquette, delle poltrone e delle pareti, impreziosite
dall’alternanza delle superfici a specchio, in marmo bianco e in cotto. Un gran
numero di globi luminosi disposti a grappolo illumina questo spazio aperto,
distribuito su quattro livelli, senza corridoi o divisioni di piani, per una superficie
totale di ben 3700 mq.
Oltre alle zone di servizio,
come l’ampio guardaroba
e i due bar (composti
da banconi marmorei a
pianta ellittica), due saloni
costituiscono il contesto
ideale per incontri e
conferenze: sono il Foyer
del Toro, che deve il suo
nome al grande mosaico
in marmo che raffigura un
toro rampante, simbolo
della Città di Torino,
e la Sala Caminetto,
caratterizzata
dalla
presenza del focolare un
tempo collocato nel palco
reale dell’antico Teatro
Regio.
Due grandi scaloni a spirale, insieme alle scale e alle
passerelle che percorrono
30
il perimetro della sala, permettono al pubblico
di raggiungere
da più punti sia
la platea, sia i
palchi. La sala,
dall’originale forma a conchiglia
semiaperta che
modella intorno
a sé tutti i volumi
dell’edificio, è in
grado di contenere quasi 1.600
persone, di cui
circa 200 nei palchi. Il colore rosso delle poltroncine della platea e del legno di faggio che riveste
pavimento e pareti è accostato agli originali colori della copertura acustica: l’iniziale bianco avorio appena venato di indaco digrada progressivamente verso l’indaco
intenso della parte più alta. L’illuminazione è data da una grande cascata luminosa
composta da più di 3.600 steli riflettenti il cui effetto complessivo è quello di una
nuvola iridescente. Altre fonti luminose sono le coppie di globi collocate in corrispondenza dei 31 palchi pensili disposti, su un’unica arcata, lungo il perimetro
della sala.
Tutto converge verso il palcoscenico, uno dei più grandi d’Europa, secondo solo
a quello dell’Opéra-Bastille di Parigi. Il suo boccascena, dall’originale sagoma “a
video” disegnata da Mollino, è stato in parte coperto dalle quattro cornici concentriche installate nei lavori di restauro acustico del 1996. Il golfo mistico, lo spazio
riservato all’orchestra, poggia su un piano mobile collocabile a diverse altezze (fino
a tre metri più in basso del piano di scena) in modo tale da adattarsi alle esigenze
degli spettacoli.
Il palco, vero e proprio cuore del teatro, ha una pianta a croce latina formata dalla
scena centrale, dalle due scene laterali e dal carrello dorsale, per una superficie
totale di oltre 1000 mq. La scena centrale, o “d’azione” (l’unica visibile al pubblico),
poggia su sei ponti mobili in grado di alzarsi, abbassarsi e inclinarsi indipendentemente tra loro permettendo di ricreare i più disparati tipi di scenografia. La sormonta una torre di scena alta 32 metri, capace di contenere un elevato numero di
macchinari, fondali, quinte e luci manovrabili tramite 64 tiri di scena. Le due scene
laterali, disposte simmetricamente a quella centrale, e la piattaforma mobile, posta
sul retro della stessa, sono in grado di ospitare elementi di attrezzeria e intere scenografie, in modo tale da consentire rapidi, e altrimenti ardui, cambi di scena.
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FONDAZIONE TEATRO REGIO DI TORINO
DIREZIONE SVILUPPO E MARKETING
[quarta di copertina e colophon]
LA SCUOLA ALL’OPERA
Attività didattica del Teatro Regio Torino
consegnato
parte
già impaginato
in collaborazione
conaCittà
di Torino,
Regione Piemonte, Agiscuola,
Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia
scolastica – nucleo regionale ex I.R.R.E. Piemonte
Direzione Sviluppo e Marketing
Direttore Ugo Sandroni
Capoufficio Attività Scuola Vincenza Bellina
Segreteria Andreina Fanan
MAO - MUSEO D’ARTE ORIENTALE
Direzione
Prof. Franco Ricca
Servizi Educativi
Eva Morando, Mia Landi
ECHI D’ORIENTE
Progetto didattico
Vincenza Bellina, Caterina Lucia Cugnasco, Elisabetta Lipeti (Teatro Regio),
Eva Morando (MAO - Museo d’Arte Orientale)
Testi e percorso iconografico
Caterina Lucia Cugnasco, Elisabetta Lipeti (Teatro Regio),
Servizi Educativi MAO in collaborazione con il Personale Scientifico
Immagini
Archivio Fotografico della Fondazione Torino Musei,
Archivio Fotografico del Teatro Regio
In copertina: Katsushika Hokusai, La grande onda a largo di Kanagawa
Edizioni Fondazione Teatro Regio di Torino
www.teatroregio.torino.it
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