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La Grecia e l`Oriente - Suor Orsola Benincasa

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La Grecia e l`Oriente - Suor Orsola Benincasa
Eva Cantarella
La Grecia e l'Oriente
Per prima cosa, nel ringraziare per l’invito a partecipare a
questo incontro, devo fare alcune precisazioni sul titolo del mio
intervento, che avrei dovuto specificare meglio. Ovviamente, non
penso di poter affrontare in questa sede (e non se comunque se mi
azzarderei a farlo altrove) un argomento complesso, dibattuto e
importante, ed enorme, come il rapporto - in tutti i suoi aspetti,
tra la Grecia e l’Oriente. Io mi limiterò e ripercorrere brevemente
alcune tappe di questo dibattito, a partire da quando, ormai una
ventina di anni fa, venne pubblicato un libro che pose il problema
al centro di un dibattito che coinvolse non solo l’ accademia, ma i
mass media del mondo occidentale. A dimostrarlo una citazione,
molto poco accademica in verità: il verso di una canzone degli
Almamegretta, come alcuni anni fa esortavano a guardare al
nostro passato esortandoci a “ Look back, look back” perchè
“Athena was black, if you look back”. Atena, la dea Atena, era
nera, se guardate indietro.
La frase era a sua volta una citazione che richiamava il titolo
un libro pubblicato nel 1987, intitolato appunto Black Athena.
Autore Martin Bernal. Sottotitolo: The Afroasiatic Roots of
Classical Civilisation. Come la canzone degli Almamegretta
dimostra-Black Athena aveva fatto uscire dal circolo degli
specialisti il dibattito sui rapporti tra Grecia e Oriente.
Come scrive ironicamente Mario Liverani, Black Athena
deve essere il libro sulla storia antica più discusso dopo la Bibbia.1
Perché questa popolarità e questo scalpore? Perché Bernal
sosteneva una tesi che venne interpretata da alcuni come l’inizio di
un modo nuovo di guardare alla storia del rapporto tra Oriente e
1
M. Liverani. The Bathwater and the baby, in Mary Lefkowitz and Guy MacLean Rogers (eds.), Black Athena
revisited , Chapel Hill and London, Univ. Of North Carolina Press(1996).
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Occidente, da altri come una intollerabile provocazione. In effetti,
già il titolo del libro provocatorio: Atena era in realtà era una dea
africana di nome Neith. Dunque, nera, così come era nero Socrate:
a provarlo, una celebre iconografia, che ce lo mostra con il naso
camuso e i capelli ricci, quasi crespi Nessuna meraviglia, diceva
Bernal: nel secondo millennio a.C. la Grecia fu invasa e
colonizzata da Egiziani e Fenici. Le origini della cultura greca
sono afroasiatiche.
La nostra plurisecolare convinzione che le origini della
civiltà occidentale siano indoeuropee sarebbe la conseguenza di
una operazione storiografica, perpetrata a partire dalla fine del
Settecento, quando l’Europa volle costruire un monumento a se
stessa, facendo della Grecia il luogo della sua prodigiosa
adolescenza. Ed escludendo “altri”, che europei non erano.
Un discorso, questo, sul quale in parte si può, e io credo si
debba essere d’ accordo: che l’Occidente abbia costruito il mito
delle sue origini greco-romane è fuori dubbio. Mi limito a una
ciotazione dalla Prefazione a Hellas di Shelley:
“Siamo tutti greci: le nostre leggi, la nostra letteratura, la
nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia. Se
non fosse stato per la Grecia... saremmo ancora selvaggi o idolatri.
Peggio ancora, potremmo essere rimasti a uno stato così
miserabile e estraneo alle istituzioni sociali come possono esserlo
la Cina o il Giappone.»
Così Shelley, nel 1821. Ma nei primi decenni del Novecento
il mito cominciò a subire i primi colpi. Nel 1938 Louis Mac Neice,
poeta e docente dell’Università di Londra, scriveva una poesia
destinata a diventare celebre. La poesia si intitolava: “The Glory
that was Greece”. Ma quale gloria? si chiedeva Mac Neice. «Se
penso ai greci, penso agli avventurieri, agli opportunisti, ai
ragazzini capricciosi, ai demagoghi e ai ciarlatani nell’agorà, alle
donne che versavano libagioni sulle tombe...penso agli schiavi, e
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mi chiedo: come potrei immaginarmi là? Era tutto così diverso, e
tanto tempo fa.»
Mac Neice aveva certamente le sue ragioni, nel descrivere
“quella” Grecia. Quella che praticava i sacrifici cruenti, che
manteneva in vita i pharmakoi , dei poveri derelitti destinati a
essere sacrificati agli dèi nel momento in cui si riteneva necessario
placare l’ira di questi. La Grecia che riteneva “naturale” la
schiavitù, e liinferiorità delle donne, identificate da Aristotele con
la materia e considerate scarsamente dotate della ragione, il logos
prerogativa e gloria dei maschi.
La denuncia di Bernal della mitizzazione della Grecia
insomma, era giusta: e come dimostra l’esempio di Mac Neice non
era neppure una novità. Ma Bernal ignorava McNiece (o
comunque dimenticava di citarlo, così come dimenticava (o
comunque non citava) “Tra Oriente e Occidente”, di Santo
Mazzarino che (già nel 1946 ) aveva individuato una serie di
contatti diretti tra popolazioni indoeuropee e semitiche. E così,
Black Athena divenne rapidamente, la bibbia degli studenti
african-american delle università statunitensi. Chi metteva in
dubbio Bernal veniva accusato di imperialismo, razzismo e
antisemitismo.
Perché le critiche agli argomenti di Bernal a sostegno dell’
invasione semitica della Grecia venissero prese in considerazione
ci volle circa un decennio. E furono molte. Inutile qui
soffermarvisi. Quello che interessa e basta ricordare è che da
tempo, ormai, nessuno più nega i rapporti tra la Grecia e l’
Oriente, tra l’altro incontestabilmente provati dalla lettura delle
scritture cuneiformi. Tra le quali alcuni famosi Codici (il più
famoso dei quali è quello di Hammurabi, proveniente da
Babilonia, scoperto nel 1901 a Susa, scritto in accadico e risalente
al 1750 a.C.). Se ci fosse il tempo varrebbe la pena soffermarvisi,
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in quanto portati recentemente a soggetto di una tesi ancor più
estrema di quella di Bernal, sostenuta da un giurista Pierluigi
Monateri in un libro signficativamente intitolato Black
Gaius.Secondo Monateri infatti neppure la scienza giuridica
sarebbe nata in Occidente: le XII Tavole, infatti, sarebbero state
ispirate dal codice di Hammurabi. Una tesi a dir poco singolare,
che tuttavia meritava di essere quantomeno ricordata.
E ciò detto veniamo alle connessioni, quelle vere.
Limitiamoci all’esempio dei miti. In particolare quelli teogonici.
Tra gli esempi più lampanti di interscambi e di compenetrazioni di
favole e racconti sta, il parallelo tra la storia di Urano,
Urano e quella di Anu, dio degli Hurriti.
La storia di Urano, si trova come ben noto nella Teogonia: il
primo sovrano del mondo divino greco, racconta Esiodo venne
evirato e detronizzato da suo figlio Crono. Ebbene: nella Teogonia
orientale del popolo mesopotamico degli Hurriti, il dio Anu,
signore del cielo e re degli dei, viene detronizzato ed evirato da
suo figlio Kumarbi, che prende così il suo posto (così come Crono
prende quello di Zeus).( “Regno in cielo”, (Kinship on Heaven),
pubblicato nel 1946
Difficile pensare che un simile parallelismo –non tanto la
detronizzazione, quanto l'atto specifico di evirare il sovrano
spodestato– possa essere una coincidenza. Questo naturalmente
non significa che il più tardo dei due miti, quello esiodeo, sia
direttamente derivato da quello degli Hurriti.
Greci e Hurriti erano separati dall'intera Anatolia – la macroregione occupata dall'attuale Turchia, dall'Egeo orientale e, più a
sud, dalla Mesopotamia. Con ogni probabilità, le due culture non
vennero mai a diretto contatto l'una con l'altra. Ma la religione
degli Hurriti venne assimilata dagli Ittiti, che abitavano
nell'Anatolia centrale, e dai Luvi, che abitavano nell'Anatolia
occidentale. E questi ultimi ebbero certamente contatti culturali
col mondo greco miceneo
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All’interno degli intensi rapporti commerciali e intellettuali
esistenti tra il continente asiatico, quello africano e parte (la parte
orientale) di quello che oggi chiamiamo europeo, i miti e i topoi
della letteratura viaggiavano insieme ai marinai e alle mercanzie,
si mescolavano e si fondevano, in un mondo di cui era parte
integrante - questione da non sottovalutare- il territorio che
diventerà greco.
A dimostrarlo, stanno la storia e le caratteristiche della civiltà
micenea, che grazie al genio di Michael Ventris e alla decifrazione
della Lineare B sappiamo essere una civiltà greca, fiorita tra il
1400 e il 1200 sia a Creta che sul continente (Pilo, Tirinto, e
Micene). Una civiltà greca di tipo palaziale, retta da un sovrano
assoluto, il wanax, in cui non vi erano cittadini, ma sudditi, tenuti
a prestare corvées e a versare tributi al sovrano.
Collocata alla periferia occidentale di un area il cui centro era
la Mesopotamia e che arrivava a coinvolgere le isole dell’Egeo, la
civiltà micenea (legata da intensi scambi con il Vicino Oriente e
l’Egitto) era parte integrante del mondo orientale.
Nel II millennio a.C., la Grecia non era parte di un mondo
che potesse essere contrapposto a quello orientale. Era parte
integrante del mondo Orientale. Più precisamente, di quel un
mondo che giustamente, oggi, gli storici del mondo antico
definiscono “Mediterraneo Orientale”.
Se è vero infatti che il “Mediterraneo” può essere un concetto
senza tempo e trans-storico, quel che ricade nella sua orbita non è
tale (mi limito a citare i contributi inseriti nel volume Rethinking
the Meditteranean, a cura di W. Harris, Oxford Univ. Press 2005).
E’ l’attività umana a definire quel che fa parte del mondo
mediterraneo. Horden e Purcell, in The corrupting Sea, insistono
su questo concetto: le varie zone che compongono il Mediterraneo
sono connesse le une alle altre in modo che dipende dalle attività
di chi le abita. E poiché l’estensione geografica di queste
connessioni varia, quel che può essere chiamato Mediterraneo
cambia al punto che, a volte il centro (focus) di quel mondo può
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essere fuori dell’Europa, in regioni dell’Asia e dell’Africa,
marginalizzate dagli studi sul Mediterraneo. Come accadde,
appunto, nella tarda età del Bronzo, quando la Mesopotamia era
parte del Mediterraneo, e il Mediterraneo, quantomeno quello
orientale era parte dell’Oriente.
Perché esistesse una contrapposizione “Grecia (occidente) –
Oriente” doveva nascere in Mesopotamia l’impero Persiano, che
nel giro di due secoli avrebbe conquistato la zona levantina (Siria,
Palestina, Anatolia), ma non la Grecia.
Fu solo a quel punto che nacque la contrapposizione. Dai
cosiddetti secoli oscuri (come venivano una volta chiamati quelli
successivi al crollo dei Palazzi micenei) emerse una Grecia molto
diversa da quella che era stata parte del mondo orientale. Ora, la
Grecia era effettivamente diversa da quel che era rimasto del
mondo orientale (asiatico ed egiziano). E’ a partire da quel
momento che si pone veramente il problema del rapporto tra la
Grecia e l’Oriente.
I sostenitori a oltranza del “miracolo greco”, decisi a lasciare
la Grecia nel suo splendido isolamento, innalzarono l’ultimo
baluardo: l’esistenza di scambi nell’età del bronzo -dissero- non
significa che questi scambi siano continuati, nei secoli. Ma gli
studi di storia dell’arte smentivano questa ipotesi. L’arte del
periodo che va dalla metà dell’ VIII alla metà del VII secolo viene
definita non a caso “orientalizzante”. E a partire agli studi di
Santo Mazzarino, cui abbiamo già accennato, siamo a conoscenza
delle vie attraverso le quali le correnti artistiche si erano diffuse,
insieme alle idee religiose, le teorie scientifiche, le conoscenze
tecniche, i costumi e le tradizioni.
Queste vie erano due, una di terra, una di mare. Quella di
terra passava dalla penisola anatolica, ove erano stanziate le
colonie greche: un territorio vasto, nel quale Ittiti, Lici, Frigi, Cari
e Greci avevano contribuito a creare una cultura microasiatica
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comune. Era, questa, la via della koine culturale: in Anatolia,
Greci e barbari (per usare la terminologia greca, peraltro
posteriore) veneravano gli stessi dèi, spesso negli stessi santuari.
La circolazione delle conoscenze era continua: i greci, appreso
l’alfabeto dai fenici, lo insegnarono ai Frigi; la moneta, inventata
in Lidia, venne subito adottata dalle città greche. I matrimoni tra
famiglie aristocratiche della Lidia, della Frigia e delle poleis
greche erano frequenti: una delle allieva amate da Saffo lascia il
tiaso per andare a Sardi, probabilmente per sposare un nobile
locale (alcuni dicono per sposare il locale re).
Una città, in particolare, era un crogiolo di culture,
fortunatamente documentato dai versi (o meglio dai frammenti) di
un poeta, Ipponatte, che usa parole lidie e presenta personaggi che
parlano questa lingua. Ma non era solo a Efeso che le diverse
culture convivevano e si influenzavano a vicenda: i nobili di
Colofone sono accusati da un altro poeta, Senofane, di un “inutile
lusso” appreso dai Lidi (fr. 3 Diehl).
Alle spalle del cd miracolo greco, insomma, stanno secoli di
civiltà, di cui la Grecia, fin dall’inizio della sua storia, fu parte
integrante, anche se periferica. Sin dai secoli nei quali il centro,
anche se non geografico della civiltà mediterranea era la
Mesopotania, i greci intrattennero con gli altri popoli che
gravitavano su questo mare intensi scambi non solo commerciali
ma anche culturali, che correvano in due direzioni: dagli altri
popoli (tutti, indoeuropei e semiti), verso i greci, ma anche dai
greci verso gli altri popoli.
Che molti aspetti della cultura alta greca derivano i da
suggestioni
orientali,
è
indiscutibile.
Ma
altrettanto
indiscutibilmente queste suggestioni vennero elaborate dai greci e
assunsero nuova forma, sino a diventare vere e proprie invenzioni:
come ha messo in evidenza Arnaldo Momigliano (la cui storia
personale esclude qualunque sospetto di antisemitismo). Con
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decisione, Momigliano, reagì -in particolare- all’idea che la
storiografia fosse nata in Grecia: altro è registrare alcuni eventi su
lapidi o materiale di altro genere, come si faceva in Oriente, egli
osservò; altro è inventare un genere letterario, che si prefigge di
raccontare gli eventi e individuare i metodi e fonti di questo
“scrivere la storia”. La storiografia nacque in Grecia, perché lì -e
non altrove- nacque l’atteggiamento critico verso la registrazione
degli eventi, vale a dire lo sviluppo di metodi critici che
consentono di distinguere tra fatti e fantasie.
Io aggiungerei due cose che distinguono registrazioni
orientali dalla storiografia:
1) autorialità: in oriente lo storico non si firmava,
insomma, non esisteva il “mestiere”;
2) teorizzazione: in Oriente non è mai stata scritta una
riflessione sui metodi della storia, che pure venivano impiegati (
Ma tutto ciò posto, questo non toglie che la “trasformazione
creativa” operata dai greci in molti settori della cultura, materiale
e ideale, non debba far dimenticare i debiti. Dimenticarli vorrebbe
dire attuare ancora una volta una strategia di immunizzazione,
volta a coprire d’ombra quel che è estraneo e quindi inquietante.
La sfida che si pone a noi storici dell’antichità, la prova in cui
dobbiamo impegnarci, e quella costruire un modello multiculturale
che spieghi nascita e sviluppo della civiltà greca nel contesto delle
civiltà del mediterraneo orientale.
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