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Napoli verso oriente

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Napoli verso oriente
1
a cura di Rejana Lucci
Michelangelo Russo
Napoli verso oriente guarda il Vesuvio. La vasta pianura, le antiche Paludi fuori le mura, sono oggi un
luogo di attesa, una parte di città da tempo in una condizione di sospensione, in cui le fasi di evoluzione
novecentesca (industriale, di residenza operaia, commerciale, terziaria…) - e i loro progetti - si sono
succedute esaurendosi l’una nell’altra, si sono interrotte sovrapponendosi, sono state abbandonate
senza mai giungere al compimento di una figura urbana definita.
In questo libro, da diversi punti di vista e con approfondimenti differenziati, si è mirato a ricomporre lo
specifico carattere del luogo con letture orientate, svolte per strati tematici, e con l’elaborazione di
progetti urbani di diversa natura che indicano i modi possibili della trasformazione, individuando questioni
e prefigurando assetti. Progetti che delineano futuri urbani restituendo riconoscibilità all’area e un ruolo
alle sue varie parti, rimettendo in tensione punti ed elementi esistenti, innovando la connessione e il
significato degli spazi tra le cose, in funzione di una nuova possibile configurazione complessiva.
Napoli verso oriente
a cura di
Rejana Lucci
Michelangelo Russo
Napoli verso oriente
euro 15,00
1 / Urbana Studi per la città contemporanea
Copyright © 2012 CLEAN
via Diodato Lioy 19,
80134 Napoli
telefax 0815524419-5514309
www.cleanedizioni.it
[email protected]
Tutti i diritti riservati
È vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-230-9
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
Indice
Collana Urbana
Studi per la città contemporanea
Comitato scientifico
Pepe Barbieri
Jordi Bellmunt
Alberto Ferlenga
Carlo Gasparrini
Rejana Lucci
Università di Chieti-Pescara
ETSAB, Barcellona
Iuav, Venezia
Università di Napoli Federico II
Università di Napoli Federico II
Responsabile scientifico
Manuel Aires Mateus
Pasquale Miano
F. Domenico Moccia
Carmine Piscopo
Mosè Ricci
Michelangelo Russo
USI Università Svizzera Italiana di Mendrisio
Università di Napoli Federico II
Università di Napoli Federico II
Università di Napoli Federico II
Università di Genova
Università di Napoli Federico II
6
Introduzione
9
Napoli verso oriente
Rejana Lucci
L’area orientale e il “paesaggio assemblato”
La costa orientale e “l’attraversamento critico”
Connettere mare e città:
progetto per la costa di Portici e il Granatello
Enrico Carafa
13
41
65
Responsabile scientifico
La collana vuole selezionare testi e studi che portino un
contributo originale e innovativo sui temi della città
contemporanea e della centralità del progetto nelle
trasformazioni urbane e territoriali.
Ciò significa porre particolare attenzione alle forme del territorio
che cambia, ai fenomeni che nel contemporaneo caratterizzano
gli insediamenti urbani, con particolare riferimento alla multiscalarità delle reti infrastrutturali, ecologiche e di paesaggio, e ai
nessi tra le forme plurali degli spazi e i modi di abitare la città.
Ciò comporta ampliare il significato di progetto, inteso come
pratica in grado di modificare la città e la sua forma, capace di
affrontare una molteplicità di problemi e di questioni che vedono
coinvolti soggetti plurali; di costruire un’adeguata conoscenza e
rappresentazione dei fenomeni, attraverso saperi e tecniche,
capacità analitiche e valutative, modalità interpretative e
descrittive, artefatti comunicativi; di tenere insieme tradizioni
disciplinari e provenienze.
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144
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185
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Questo volume è stato realizzato con il contributo parziale del
fondo “Ricerca dipartimentale Abitare il futuro” del Dipartimento
di Progettazione Urbana e di Urbanistica dell’Università di Napoli
Federico II.
L’area orientale di Napoli e le variazioni del progetto urbano
Pasquale Miano
La ri-scrittura dello spazio come attraversamento urbano:
il caso dell’ex Macello
Eugenio Certosino
“Fare centro” nella città contemporanea. Il caso del Gasometro
Marina Di Iorio
L’esperienza come progetto: conoscere l’area est di Napoli
Michelangelo Russo
Napoli verso oriente: un laboratorio di futuro
Napoli Est: un campo di norme senza progetto
Enrico Formato
Frammenti di città: spazi liminali e latenti come luoghi della creatività confinata
Danilo Capasso
Interpretazioni dello spazio pubblico: temi del laboratorio di urbanistica
Bruna Vendemmia
Appendice. Conoscere con creatività: l’esperienza di N.EST
Danilo Capasso
213
Riciclo, bonifica e progetto di suolo nell’area orientale di Napoli
Carlo Gasparrini
235
Aree dismesse e architettura
Carmine Piscopo
254
Note biografiche autori
Introduzione
Napoli verso oriente guarda il Vesuvio. Le pendici del vulcano, fin dalle
epoche più remote, hanno attratto le mire insediative delle popolazioni che
abitavano questa regione e che trovavano tra il vulcano e la costa terreni
fertilissimi e agevoli approdi in una piattaforma naturale protesa verso il
golfo di Napoli. Sulla fascia costiera sono sorte importanti città del mondo
antico come Ercolano, Oplonti e Stabia. Lungo la strada delle Calabrie,
nel tratto del Miglio d’oro, si è costruito il nucleo più importante del complesso monumentale delle ville settecentesche e della Reggia di Portici.
E qui si sono sviluppati gli insediamenti lineari costieri intorno alla prima
ferrovia italiana, la Napoli-Portici. Una direttrice su cui si è sviluppata la crescita di una città caotica, dove la densità abitativa ha raggiunto valori ineguagliati in ogni altro comune italiano.
Verso oriente le paludi, la pianura subito fuori le mura solcata da una trama
di fiumi e canali che ne hanno segnato a lungo le giaciture e gli orientamenti, ricevevano l’acqua proveniente dal complesso vulcanico Somma
Vesuvio, e alimentavano il sistema idrografico del fiume Sebeto che segnava il limite est della città.
Napoli verso oriente oggi è una parte di città estremamente rappresentativa dei caratteri tipici della città contemporanea, uno spazio emblematico
delle patologie urbane attuali. È l’area pianeggiante ai bordi della città consolidata, di facile accessibilità che, dal periodo dell’espansione industriale
di fine Ottocento ad oggi, ha rappresentato la stratificazione dei caratteri
complessi dell’evoluzione moderna. Qui la città ha progettato la sua
espansione industriale e i quartieri di edilizia operaia, con piani diversi e in
tempi lunghi: ogni progetto ha depositato su quest’area parti parziali del
proprio programma che si sono via via accostate, contraddette, sovrapposte, intersecate, senza mai completare un assetto integrato, e una figura
urbana conclusa ed equilibrata. A partire dal progetto del Risanamento,
passando per le previsioni degli ampliamenti industriali del Piano Piccinato
del 1939, per il progetto del 1980 del Centro Direzionale di Kenzo Tange,
fino all’attuale disegno del Piano Urbanistico per l’ampliamento del Centro Direzionale, in fase di realizzazione con il project financing di Agorà 6.
A questo, si è sovrapposta la fitta trama delle infrastrutture: dalle linee ferroviarie, alle autostrade, agli oleodotti. Fin dai primi tracciati, infatti, la rete
ferroviaria nazionale, regionale e locale ha gravato principalmente su questa zona, con tutte le differenti ipotesi di stazioni di testa che vi si sono
succedute, con gli articolati rilevati che si sovrappongono all’area e con
tutte le tracce di dismissione che i diversi sedimi hanno lasciato in tempi
6
differenti. E ancora, tutti i raccordi stradali con la grande viabilità esterna e
interna, le rotatorie, le rampe e i viadotti, hanno in questa zona il loro punto
di ingresso. La linea di costa è qui diventata una barriera tra città e mare,
uno spessore bloccato dal porto mercantile, dalle aree per la logistica e
dalle infrastrutture per il suo funzionamento.
E, infine, con le progressive fasi di spostamento e di abbandono delle attività industriali e delle attività pubbliche che vi si erano sviluppate, sono
comparsi i tipici fenomeni di dismissione, di degrado, di spopolamento e
di uso spontaneo degli spazi rimasti liberi che caratterizzano le aree di transizione o di bordo: aree interstiziali e marginali, spesso oggetto di attenzione da parte di popolazioni immigrate. I pochi frammenti insediativi
residui, sparsi come in un arcipelago, sono privi di collegamento e di attrezzature pubbliche: dal trasporto collettivo ai servizi, dal verde urbano
allo spazio pubblico, dalle attrezzature alle amenities per il tempo libero.
Attualmente questa è ancora e soprattutto un’area di attesa, in una costante condizione di sospensione, con grandi vuoti e ampie distanze, recinti e silenzi, natura che si riappropria dei ritagli e attività precarie e
temporanee che invadono gli spazi tra le cose.
Ma Napoli verso oriente è anche un’area in cui ritrovare, con attente osservazioni e letture mirate, tutte quelle memorie, quelle tracce, quei segni
che vi sono stati depositati dalla storia della città e che appartengono alla
sua natura originaria.
Questo libro nasce da qui: dall’interesse manifesto del luogo e dei suoi
caratteri presenti, controversi e complessi, ma anche dalla suggestione di
un’area ancora carica di significati da recuperare per riconnetterli alle ipotesi di trasformazione, nella ricerca dell’individualità e specificità degli interventi. E nasce accostando e mettendo a confronto diverse esperienze
di conoscenza e di progetto di questo territorio provenienti dal lavoro che
ognuno degli autori svolge nel campo della didattica e della ricerca progettuale.
È manifesta la provenienza di ciascuna delle esperienze presentate, che
sviluppano in maniera delineata percorsi diversi ma tutti legati alla ricerca
architettonica e urbana, con una costante attenzione alla metodologia e ai
materiali che compongono i differenti quadri conoscitivi, generando le immagini progettuali che emergono da ognuno dei contributi.
Senza voler giungere a una interpretazione univoca dei problemi di quest’area, e tantomeno proporre soluzioni onnicomprensive dal punto di vista
degli assetti futuri, l’intento di questo lavoro è quello di far dialogare le diverse provenienze culturali e disciplinari su un tema sentito collettivamente
come fondamentale per lo sviluppo urbano della città. Ciò consente nello
specifico di costruire un quadro interpretativo aperto e non scontato per
guardare ai problemi di questa parte della città, per mettere in evidenza il
nucleo tematico della conoscenza di Napoli verso oriente e i possibili percorsi progettuali capaci di innovarne lo spazio. E, più in generale, vi è la volontà di esporre affinità e differenze dei diversi punti di vista, che individuano
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criticità, potenzialità, argomenti e tecniche proprie di visioni e di tradizioni
culturali differenti per scala, strumenti, attenzioni e riferimenti.
In conclusione, dal confronto delle varie posizioni raccontate nel libro
emerge una evidente sensibilità contemporanea nel mettere in comune
temi e questioni, sviluppando capacità di ascolto di posizioni anche parziali e laterali, sensibilità per gli aspetti tralasciati o negati, attenzione per
elementi di indagine apparentemente secondari e meno importanti, capacità di esplorare le complessità della città attuale senza dare nulla per scontato, e senza mitizzazioni di alcun genere.
E, non da ultimo, dal confronto di prospettive differenti emerge una fiducia comune - non cieca, ma critica - negli aspetti strutturali di una conoscenza interpretativa come fondamento del progetto, come azione
riflessiva - non assertiva - che consente di ripensare i principi di trasformazione della città e dei suoi spazi.
Questo volume è il primo di una collana dedicata alla città e ai suoi studi,
alla sua storia, alle sue forme e alle sue possibili innovazioni. Urbana è un
termine al plurale: sono le cose, le culture, i saperi e le forme della città che
riguardano un campo dove i sedimenti delle storie, gli strati e le concrezioni
delle sovrapposizioni e dei processi, le complesse forme dell’esistente costituiscono un patrimonio di forme e di idee da cui apprendere e a cui fare
riferimento come a un palinsesto. Tuttavia si tratta di un materiale che, di
per sé, non è sufficiente a suggerirci indirizzi né certezze per il futuro, a
meno di non interpretarne il senso con curiosità, senza pregiudizi, liberi
dalle retoriche, evitando sguardi convenzionali: attraverso cioè un progetto
che elabora la trasformazione anche aprendosi verso gli spazi di sovrapposizione tra le diverse discipline, aperto al dialogo tra i saperi e all’innovazione.
Il programma editoriale della collana “Urbana” presenterà quindi testi e
studi che portino un contributo originale e innovativo sui temi della città
contemporanea e della centralità del progetto nelle trasformazioni urbane
e territoriali.
Ciò significa porre particolare attenzione alle forme del territorio che cambia, ai fenomeni che nel contemporaneo caratterizzano gli insediamenti
urbani, con particolare riferimento ai nessi tra le forme degli spazi e i modi
di abitare la città, alla interscalarità delle reti infrastrutturali, ecologiche e
paesaggistiche. Va quindi ampliato il significato di progetto, inteso come
pratica in grado di modificare la città e la sua forma, capace di affrontare
una molteplicità di problemi e di questioni che vedono coinvolti soggetti differenti. Un progetto che tiene insieme tradizioni disciplinari e provenienze,
in grado di costruire un’adeguata conoscenza e rappresentazione dei fenomeni attraverso saperi e tecniche, capacità analitiche e valutative, modalità interpretative e descrittive, artefatti comunicativi.
(R.L., M.R.)
8
Napoli verso oriente
Rejana Lucci
Napoli verso oriente
Napoli. Nell’immaginario collettivo, il solo nome già suggerisce una serie
immediata di paesaggi e di panorami consolidati: il mare e le articolate
modulazioni della linea di costa del golfo, il “sistema ad anfiteatri”1 da
Pozzuoli fino alla Punta Campanella; la complessa struttura collinare degli
emicicli vulcanici che circonda la città e il suo territorio limitrofo a occidente, dalla quale sono state inquadrate le più note viste panoramiche
dall’alto verso il mare; la sagoma armoniosa, ampia e forte del sistema
Somma-Vesuvio, imponente elemento di orientamento per tutta l’area e
per gli insediamenti del territorio napoletano.
Questa particolare conformazione oro-geografica dell’area è sempre
stata la struttura portante, anche dal punto di vista morfologico, che ha
condizionato, orientato e dato forma a ogni tipo di insediamento o di intervento antropico: dalla localizzazione dell’edificazione urbana, alle sue
giaciture; dall’andamento della divisione del suolo agricolo, alla trama
delle acque. E analogamente è stato per gli accessi alla città attraverso
le vie di pianura, a est e a ovest, o dalle vie collinari, a nord.
Ma Napoli è un’area metropolitana moderna, un invaso di circa tre milioni di abitanti, cresciuto stratificandosi a lungo su se stesso. Negli ultimi
duecento anni si è andato espandendo sul proprio territorio circostante
con una occupazione di suolo densa e compatta, a volte in modi convulsi e confusi, con scarse soluzioni di continuità - dovute queste quasi
sempre proprio agli ostacoli fisici creati dalla sua naturale geomorfologia
- lungo tutto l’arco di costa che va da Pozzuoli nei Campi Flegrei alle conurbazioni della costa vesuviana fino a Castellammare. Una grande
estensione urbana in cui il costruito ha assalito le colline, spesso senza
ragionare sul loro carattere panoramico, fino a straripare verso la piana
a nord; ha densificato le coste, saldandosi agli agglomerati esistenti sia
a ovest verso Pozzuoli che a est fino a Castellammare; ha trasformato i
canali di displuvio in strade e coperto alvei e torrenti; ha localizzato grandi
impianti industriali all’immediato ridosso della città, anche in luoghi panoramicamente emergenti; ha trasformato giardini e spazi verdi in lottizzazioni residenziali. Spalmando su tutto ciò la necessaria trama di
infrastrutture che si è sovrapposta acriticamente, con i propri andamenti
tecnici e i propri sedimi, sulla struttura del territorio e della città.
Per comprendere e riconoscere i caratteri della conformazione attuale è
necessario riuscire a leggere, in questa struttura urbana estesa e complessa, le contraddizioni e le molteplici stratificazioni dei differenti e contrastanti sistemi che hanno fatto parte della crescita della città fino ad
oggi, visti anche in relazione alla struttura di questo paesaggio geomor-
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fologico, naturale e antropizzato, molto forte e caratterizzato. Infatti è
proprio dalla relazione con questo che riusciamo a perimetrare e riconoscere alcune aree irrisolte, alcune questioni e problemi della città: si
parla comunemente del problema dell’area occidentale (perfettamente
individuabile nella conca tra la collina di Posillipo, il mare, e le propaggini
dei Campi Flegrei con l’invaso di Agnano). O di quello dell’area orientale
(anche questa identificabile con la piana delle antiche Paludi), o di altre
aree minori ormai interne alla struttura urbana complessiva. E questo
perché l’espansione della città, in tutte le epoche, ha dovuto misurarsi
con la complessa orografia del luogo che di volta in volta ha determinato
cesure, intervalli, sovrapposizioni tra le parti che si andavano espandendo. Da cui le questioni moderne, che nascono o da motivi di separazione e mancato sviluppo coerente di aree “esterne” (a est come a
ovest), oppure dai contrasti di parti intercluse sviluppatesi in tempi diversi (come le aree di frizione tra i tessuti medievali e i tracciamenti ottocenteschi del Rettifilo o quelle del Vomero con i borghi esistenti).
A questo genere di morfologia lo sviluppo contemporaneo ha poi aggiunto le contraddizioni e gli attriti che nascono sempre con il tracciamento delle infrastrutture di trasporto, di ogni natura, che costituiscono
ad oggi importanti elementi da accordare alle trasformazioni urbane future. E nel caso specifico di questo studio, verranno coinvolte nel ragionamento sui caratteri dei luoghi due infrastrutture, due diversi modi
di attraversare parti differenti del territorio napoletano: una, nella parte
a oriente del Centro Direzionale, è la s.s. 162, una moderna strada sopraelevata che arriva in città sorvolando l’area industriale - oggi in generale dismissione - e che viene intesa come un elemento emergente
della struttura urbana da coinvolgere nella morfologia delle trasformazioni. L’altra infrastruttura, sulla costa vesuviana - a partire dal Ponte
della Maddalena - è la ferrovia statale, il rigido segno segregatore che
da Napoli volge verso sud lungo il mare. Questa infrastruttura è invece
intesa come un “filo conduttore”, un pretesto iniziale per la narrazione
dei caratteri dell’area attraversata.
Ma anche al variare dei caratteri e degli elementi del contesto attuale,
anche di fronte a un paesaggio urbano di difficile lettura e comprensione, continua a sembrarci inevitabile cercare di rileggere in esso gli
elementi che lo compongono.
Come sempre per noi architetti è importante tornare alla individuazione
di ciò che concretamente fa parte della costruzione di una città, o di una
parte urbana, qualsiasi sia la natura dell’area di cui ci si occupa. E
quindi anche nel caso di aree problematiche contemporanee l’obiettivo è sempre quello di pensare che “il preteso caos è piuttosto un ordine difficile da capire”2, da conoscere e indagare nei suoi componenti
per “trovare luoghi nel caos della città, dare loro un nome, sviluppare la
loro peculiarità. Si tratta quindi di un’arte urbana della scoperta e non
dell’invenzione”3. O ancora, si tratta di riuscire a far ritrovare alla città “i
suoi dei”, come diceva Calvino4.
11
1. L’area orientale e il “paesaggio assemblato”
Oggi abbiamo di fronte a noi il compito di capire quali degli elementi di
queste parti urbane complesse (e compromesse) siano i reali componenti della loro struttura, legati al carattere e all’individualità, e quindi
potenziali punti di sviluppo per la trasformazione, e quali invece quelli
da superare e abbandonare, perché legati al caso e all’accumulo involontario, evitando in tal modo di elevare “il degrado” a categoria estetica.
È necessario così descrivere e selezionare, per rimettere insieme con
una logica diversa, quelli che possono essere i dati di interesse dei luoghi, con identica attenzione per tutti: dai caratteri particolari, con le memorie che ogni diverso passato ha depositato e trasformato in segni
significativi, fino agli attuali aspetti emergenti che queste aree ci mostrano. A questo fine, la nostra capacità di lettura, di interpretazione critica, si orienta verso i paesaggi urbani contemporanei con l’obiettivo di
individuarne gli elementi in grado, appunto, di riavviare processi di interrelazione, e per costruire tra loro, attraverso il progetto, quella tensione
che crea attrazione, curiosità e appagamento. Per formare, con l’interpretazione progettuale, nuove e variate relazioni interessanti tra le cose,
che unitamente a visioni del futuro adeguate (ai bisogni) e realistiche
(per realizzabilità e fruizione), ci facciano immaginare ancora una città
bella e vivibile. Parliamo di relazioni interessanti perché riteniamo che la
forma nasca in architettura dalla giusta relazione tra elementi, parti e
pezzi della composizione, a qualsiasi scala, urbana o architettonica:
nell’individuazione di questa giusta relazione è l’alchimia della giusta
soluzione e della bella forma.
I caratteri della lettura che svolgiamo sui territori urbani hanno quindi
una valenza progettuale e interpretativa, perché sarà questa lettura
complessa, effettuata per strati e sistemi diversi, che ci consentirà di individuare i temi propri delle diverse aree, quelli “incorporati nella sua
stessa forma fisica”5, in cui alla generalità e ricorrenza - nella storia delle
città - del tema individuato si unisce la sua delimitazione e le particolari
necessità legate alla specificità del luogo.
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Napoli verso oriente ha sempre trovato, nel tempo, una barriera alla
propria espansione dovuta principalmente al carattere dei luoghi: l’area
orientale è infatti un’ampia zona di displuvio delle acque provenienti
dalle colline a nord-est della città (S. Maria del Pianto, Capodichino) e
dal versante nord-occidentale del Monte Somma. Una vasta piana paludosa, fin dall’epoca degli Aragonesi oggetto di successive bonifiche,
in cui è stato proprio l’andamento delle varie linee d’acqua a determinarne l’assetto e a segnare le principali giaciture. Tutta una serie di fiumicelli, canali, fossi e rivi confluivano dai due declivi ai lati della piana
verso il suo centro in alcuni fiumi e canali principali (il Sebeto, il torrente
Volla, il Fiume Reale, il Canale di Pollena…), che raggiungevano poi la
linea di costa tra il Ponte della Maddalena e Pietrarsa. Ai canali si accompagnava il tracciamento della strade di accesso ai poderi, minutamente disposti con andamento trasversale rispetto alle vie d’acqua. Un
piatto paesaggio agricolo uniforme (nella Pianta dello Schiavoni del
1872 ancora indicato come “Orti detti Le paludi”), punteggiato da
sparse masserie e mulini per la macina del grano, con vaste aree acquitrinose (pasconi e pasconcelli), che arrivava fin sotto le grigie mura
turrite della cinta urbana aragonese.
Da queste mura uscivano due importanti assi stradali di collegamento
territoriale: la via Regia di Poggioreale che si dirigeva verso le Puglie
partendo da Porta Capuana, e la strada che, uscendo dalla Porta del
Carmine, attraverso il Ponte della Maddalena si strutturava nella via per
le Calabrie, secondo l’antica via litoranea già esistente in epoca romana. Due tracciati che nel loro andamento in qualche modo delimitano la piana orientale: l’uno appoggiandosi con andamento est-ovest
alla collina settentrionale di S. Maria del Pianto, l’altro dirigendosi verso
la costa vesuviana, che poi segue in parallelo proseguendo verso sud.
La natura pianeggiante dell’area ha poi favorito, nell’evoluzione della
città, e a seguito delle varie opere di bonifica, la localizzazione in questa zona delle prime linee ferroviarie - anch’esse inizialmente parallele
a questi assi stradali - e dei primi opifici industriali, avviandola rapidamente a un successivo destino di area industriale e di espansione residenziale operaia, che si è mantenuta a lungo e consolidata come
tale6. Fino ad arrivare alle attuali dismissioni e trasformazioni verso attività terziarie, con la mutazione di questa parte urbana in un’area oggi
degradata, nuovamente marginale (seppur “tra le cose”), densa di contraddizioni, di abbandoni, di lacerazioni, e in attesa di nuove interpretazioni.
13
Orografia.
Disegno di S. Bisogni,
A. Renna.
Dettaglio della Veduta
Baratta (1679).
L’area orientale di Napoli e
le variazioni del progetto urbano
Foto aerea dell’area
orientale di Napoli.
Le ragioni della ricerca
Una delle ragioni della perdurante volontà di approfondire le questioni
progettuali relative all’area orientale di Napoli è da ricercare nelle situazioni di “sospensione” di questa parte della città: una condizione che si
riconosce su diversi piani, ma che ha ragioni profonde nella morfologia
e nella storia di questo territorio.
L’area industriale orientale si posiziona tra mare e colline e interrompe
la continuità tra le aree centrali urbane e i quartieri orientali di Barra,
Ponticelli, San Giovanni a Teduccio, dotati di una propria autonoma
struttura insediativa. È un luogo pianeggiante, ma influenzato da di-
Area orientale di
Napoli nella Veduta
Baratta.
78
verse condizioni geografiche e da diverse relazioni e giaciture urbane e
territoriali. Nello stesso tempo è un’area dotata di caratteri propri, nella
quale permangono tracce dell’antica condizione di palude e quindi per
certi aspetti, di barriera, di interruzione rispetto alla naturale continuità
della città, di forte senso di provvisorietà degli insediamenti, di eterogeneità e di frammentazione: un aspetto che ne ha profondamente
condizionato la formazione e la crescita.
All’opposto, la buona accessibilità di questo territorio pianeggiante ha
favorito nel corso dei secoli la tendenza a una intensa occupazione delle
aree disponibili, sulla base di “piani” e di progetti di utilizzazione della palude secondo un disegno preordinato: gli interventi angioini e aragonesi
di trasferimento dei fusari e di prosciugamento della piana mediante incanalamento delle acque superficiali, i programmi settecenteschi borbonici di rafforzamento delle direttrici territoriali di attraversamento
dell’area, gli interventi di Ferdinando II di costruzione di un sistema di collegamenti stradali in direzione nord-sud, le proposte avanzate nel corso
dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento di definizione di tracciati
ortogonali, funzionali all’organizzazione delle destinazioni industriali.
Sulla base di questi progetti si sono realizzati e consolidati nel tempo i
pochi elementi stabili dell’area, permanenze in qualche misura ancora
oggi riconoscibili: le strade di attraversamento territoriale in senso estovest (la strada costiera e la strada di Poggioreale verso l’entroterra), e
le reti dei corsi d’acqua, quali il Sebeto, dei fossi e dei canali, poi divenuti ancora strade (via Brin e via Argine). Si è in realtà consolidata nel
tempo una trama, sufficientemente delineata, ma non compiuta, che ha
rappresentato e per molti aspetti continua a rappresentare un fattore di
identificazione e di riconoscibilità nell’ambito di una prevalente tendenza
all’accentuata variabilità nel tempo della configurazione dell’area: un’area
“sospesa”, in attesa di prossime “decisive” trasformazioni.
L’area industriale orientale può essere considerata, in definitiva, come
il risultato di una serie di sovrapposizioni, almeno parzialmente distruttive rispetto alle precedenti urbanizzazioni, di ondate insediative che
non hanno determinato una crescita per addizioni, ma piuttosto un riassorbimento delle preesistenze entro un nuovo schema molto parziale,
mai portato a compimento fino in fondo.
Riguardando a questi processi insediativi nel loro complesso, anche
sulla base delle letture urbane e delle ricostruzioni storiche che hanno
affrontato il tema dell’area orientale di Napoli1 un fattore costante di
specificità è rintracciabile nella presenza di luoghi di concentrazione, di
polarità determinate da impianti produttivi di particolare rilevanza, che
si sono localizzati in luoghi già insediati prima dell’industrializzazione
vera e propria occupati da “molini” e altre strutture di produzione, a servizio della città e del territorio.
Queste polarità sono prevalentemente costituite da “cittadelle” produttive chiuse, porzioni urbane con proprie articolazioni e regole di funzionamento interno, anche diverse, nelle quali il “recinto”, entro il quale si
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Evoluzione del
rapporto ‘città civile’
industria. Situazione al
1906, 1936, 1956,
2003.
organizza la macchina della produzione, rappresenta uno dei principali
fattori di identificazione. Solo in alcuni casi sono state insediate grandi
architetture isolate, come l’edificio dei Granili, più aperte e relazionate
al territorio circostante.
La planimetria dell’area del 1906 consente di mettere in evidenza questi elementi primari nel sistema insediativo dell’area orientale: le Officine Pattison su via Reggia di Portici, le Officine Sofia su via Brin, le
Officine Napoletane su corso Malta, le Cotoniere Meridionali su via Poggioreale, volendo fare solo alcuni esempi significativi. Si tratta di un sistema che progressivamente si complica con la localizzazione di nuovi
insediamenti produttivi, come attesta la planimetria del 1936. Nell’area
orientale inoltre alcuni grandi servizi a scala urbana, quali il carcere, il
macello, il cimitero, il mercato ortofrutticolo, localizzati in tempi diversi,
tendono ad assumere i caratteri di “cittadelle”, macchine specializzate
chiuse entro il loro recinto, formando una complicata e interessante
trama di luoghi insediati, connessi parzialmente dalla maglia stradale
principale prima descritta, una trama che è cambiata nel tempo e che
ha già subito diverse crisi.
Un ulteriore elemento caratterizzante, che si è formato progressivamente sin dai primi decenni dell’Ottocento, è costituito da un elevato
numero di infrastrutture ferroviarie e stradali, alcune delle quali molto
importanti nel sistema dei collegamenti metropolitani, veri e propri tagli
nella continuità dell’area, che hanno determinato barriere e separazioni
spesso insormontabili (i fasci dei binari verso le stazioni ferroviarie, i raccordi autostradali verso il centro della città e verso il porto, etc.): un
processo che nell’Ottocento ha riguardato prevalentemente le ferrovie
a partire dalla costruzione della Napoli-Portici e della stazione Bayard,
e poi progressivamente nel corso del Novecento, sempre più le strade
e i raccordi viari.
Queste infrastrutture “rigide” si sono sovrapposte agli elementi che avevano caratterizzato nel tempo la formazione dell’area, quali le direttrici
territoriali, i luoghi concentrati della produzione, i canali, i fossi e le “griglie” parziali, derivanti da preesistenti suddivisioni del suolo, giocando
un ruolo fondamentale nella definizione della morfologia del costruito
che caratterizza l’area orientale.
In realtà la particolare organizzazione per poli ha rappresentato una co-
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stante significativa, con caratteri di resistenza molto forti, che in qualche modo ha impedito la formazione di un vero e proprio tracciato regolatore o “graticolato”. I progetti di Maiuri, Sabatini, Giura, Alvino, che
tentavano di completare la maglia costituita dalle strade urbane nordsud, parallele al vecchio alveo dell’Arenaccia (corso Malta, via Gianturco, via Traccia), sono risultati in definitiva troppo schematici e
incapaci di assorbire le “preesistenze” di diversa origine e natura2. Nello
stesso tempo anche le ipotesi di arretramento della stazione ferroviaria a via Traccia si sono arenate di fronte alla molteplicità e all’eterogeneità delle tensioni e delle resistenze storicamente presenti nell’area. In
queste vicende di progetti attuati solo in misura molto parziale, si possono citare, quali “più recenti” tentativi di riorganizzazione sistematica
dell’area orientale, la proposta di arretramento della stazione di Piccinato del Piano del 1939 e il nuovo reticolo del Piano Regolatore del
1946, di Luigi Cosenza.
Il confronto tra le soluzioni avanzate dai piani regolatori del Novecento
per l’area orientale di Napoli mette in evidenza le differenze tra le parti
urbane più vicine al centro-città, molto articolate e strutturate e per le
quali si ipotizzano meccanismi di crescita in continuità con il centrocittà, e quelle a oriente di via Traccia, meno caratterizzate e dense e
quindi potenzialmente regolamentabili sulla base di nuovi tracciati urbani, a maglia più o meno fitta.
In realtà nell’area orientale nel suo complesso non è riuscita a incidere
in maniera decisiva neanche la specifica legge del 1904, finalizzata al
“Risorgimento economico della città di Napoli”, in base alla quale l’area
orientale fu definita zona aperta, una zona franca da imposte per gli
edifici industriali: nonostante i piani infrastrutturali del 1906 e del 1920,
all’incremento di industrie non ha mai corrisposto un vero e proprio
piano di assetto e di “riqualificazione”, con regole e norme definite, attuabili in tempi lunghi.
Nonostante i molteplici tentativi di razionalizzazione, l’attuale impianto
della zona industriale orientale è in definitiva il risultato della progressiva
delimitazione di “sacche edilizie”, perimetrate dai tracciati stradali e ferroviari, che hanno finito per inglobare le preesistenti cittadelle, già a loro
volta prevalentemente caratterizzate dalla logica del recinto: un vero e
proprio insieme di macroisolati eterogenei per forma e per funzioni, che
81
L’area orientale di
Napoli nelle previsioni
di Piano. Prg 19141939-1946-1972.
Piano dell’industria
1918-1922.
Processo di
formazione delle
sacche. Situazione al
1880-1906, 19061936, 1936-1956,
1956-1993.
ha anticipato per molti aspetti tendenze insediative diffuse nel contesto
metropolitano di Napoli, ma anche di tante altre città, con diversi elementi di specificità, che devono essere attentamente valutati.
Nell’area orientale napoletana, sin dalle fasi di più intenso sviluppo industriale, si registra una tendenza alla commistione funzionale, con la presenza di piccoli quartieri residenziali3 e anche, in altri punti, di attività
commerciali. Spesso queste compresenze funzionali risultano particolarmente accentuate anche all’interno di una stessa “sacca”, che quasi
mai corrisponde a un unico regime proprietario e che frequentemente si
configura come sommatoria di elementi urbani di dimensioni completamente differenti. In alcune sacche si intersecano giaciture differenti della
viabilità interna, con edifici che assumono forme articolate derivanti da logiche di occupazione di lotti molto irregolari.
In diversi casi negli scarti tra le “cittadelle produttive” di maggiore estensione e le infrastrutture sono state inserite altre attività, realizzando un
particolare processo di “densificazione” dei margini, che ha reso ancora più estranei i grandi spazi aperti interni rispetto alle strade di bordo.
All’opposto, nelle parti più interne delle “sacche”, proprio per le modalità e i caratteri di formazione dell’insediamento industriale, si rilevano
densità basse, con spazi non costruiti che, connessi tra loro, determinano potenzialmente consistenti interruzioni della continuità, secondo
meccanismi assolutamente propri di questa parte della città. Le modalità di articolazione degli spazi all’interno dei recinti industriali e il particolare rapporto di apertura e di chiusura del recinto lungo le strade,
con fronti chiusi e strade prive di caratteri urbani, sono alla base di queste peculiarità spaziali del tessuto dell’area orientale. Mettere a sistema
gli spazi aperti, anche in autonomia rispetto alle strade e reinterpretarli
come elementi di connessione tra le aree più dense non è sicuramente
una operazione semplice: “rompere” alcuni recinti e realizzare un insieme di grandi spazi aperti e verdi tra la città centrale e i quartieri residenziali orientali costituisce un obiettivo ancora completamente
irrealizzato, al pari della riqualificazione dell’area, che può assumere caratteri urbani del tutto originali, esaltando proprio questa particolare
spazialità che si è formata, nonché i fattori di multifunzionalità che, per
certi versi, ne hanno segnato lo sviluppo.
Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso ho iniziato a studiare l’area
industriale orientale napoletana, nell’ambito di una convenzione universitaria, al fine di coglierne le specificità e le potenzialità trasformative,
82
in una fase problematica di dismissione dell’apparato industriale, cercando di comprenderne i meccanismi di costruzione avvenuti in tempi
diversi e le peculiarità urbane di un insediamento molto articolato e stratificato4.
D’altra parte, in quel periodo le parti industriali napoletane non erano
state studiate a fondo sotto il profilo dei caratteri urbani e architettonici.
Risultava quindi interessante ragionare su un metodo e su una tecnica
di lettura, che consentisse di approfondire adeguatamente molteplici
aspetti spesso sottovalutati.
Proprio allo scopo di delineare una tecnica di lettura unitaria di questo
insediamento che tenesse insieme i vari elementi si è ragionato sui macroisolati, definiti forse più propriamente “sacche”, studiate come l’unità
di morfologia di base dell’area industriale orientale, al pari degli isolati
della città antica, anche se prive di un disegno unitario. In questo modo
si intendeva introdurre uno strumento conoscitivo attraverso il quale
leggere sinteticamente i diversi aspetti costitutivi di questa particolare
configurazione insediativa, che finivano per incidere in maniera peculiare
anche sotto il profilo del processo di dismissione.
Le “sacche” sono intese come unità di grandezza conforme, morfologicamente riconoscibili, dotate di individualità, con alcuni caratteri ricorrenti e con significative analogie sotto il profilo dimensionale, anche
se di diversa configurazione geometrica, da sottoporre a progetti unitari di riqualificazione e di riconfigurazione: unità nelle quali i recinti, i
83
I ‘recinti’.
Napoli verso oriente: un laboratorio di futuro1
Napoli è uno straordinario laboratorio di sperimentazione del progetto
urbanistico contemporaneo. Il suo spazio urbano, a tratti discontinuo
e frammentato, è costantemente attraversato dai fenomeni di trasformazione che caratterizzano la città post-fordista: dismissioni e ritrazioni
funzionali, abbandono e marginalità, specializzazione funzionale, segmentazione e degrado dello spazio collettivo, attraversamenti critici di
fasci infrastrutturali, parcellizzazione del sistema ambientale. Una condizione che si contrappone in molti punti con la presenza di strati densi
di tracce di storia materiale, di archeologia, di memorie, di forme e spazi
che, al contrario, concentrano un fortissimo senso di identità, di appartenenza, di continuità: della storia, del tempo, delle tradizioni e dei
flussi di vita.
L’ossimoro identità/discontinuità genera possibili letture dei diversi piani
della città che rappresentano un materiale caleidoscopico e ricchissimo
per i laboratori di ricerca progettuale in urbanistica. In particolare l’area
orientale, la storica parte industriale e produttiva della città di Napoli,
con i suoi caratteri di specializzazione e di obsolescenza, con l’intersecarsi di storie e preesistenze diverse, dagli alienanti quartieri storici di
case popolari alle aree industriali più dure e ingombranti (zone di deposito e di raffinazione dei carburanti), rappresenta un ambiente di
grande interesse progettuale, di straordinaria valenza didattica. Cono-
scere gli spazi senza nome e senza luoghi di questa città densa e ostile,
riconoscerne il senso di appartenenza per comunità ormai rassegnate
al disagio, individuarne gli spazi potenziali, sono temi di ricerca che risultano preziosi nel lavoro didattico.
Comprendere il carattere di questa parte di città è l’obiettivo di un itinerario di apprendimento incentrato su Napoli Est e finalizzato a individuare gli elementi di un futuro possibile, nonché le questioni e i luoghi
per un progetto di territorio capace di trasformare le “criticità” in nuove
potenzialità, cioè in scenari e risorse del possibile cambiamento.
Si vuole qui riportare il senso di un’esperienza di ricerca didattica nel Laboratorio di Urbanistica con la collaborazione di Enrico Formato, Danilo
Capasso e Bruna Vendemmia, come spunto per riflettere sul senso dell’insegnamento del progetto urbanistico nelle condizioni attuali. Questo esercizio ci ha consentito di comprendere un’area cruciale della
conurbazione napoletana, attraverso l’esplorazione creativa di luoghi
dimenticati, spazi negati, sedimi da riscoprire, valori diffusi che hanno
ogni possibilità di essere riconfigurati in nuovi paesaggi e in assetti in
grado di riaffermarne l’identità. Questo lavoro, una forma di “riflessione
nel corso dell’azione”, utilizza l’esperienza maturata nel laboratorio per
ripensare ai modi e ai metodi attraverso cui sia oggi possibile insegnare
e apprendere l’urbanistica nei percorsi formativi universitari. Una riflessione che prende le mosse dalla conoscenza come atto fondativo per
costruire le intenzioni del progetto, per misurare la complessità dei fenomeni che attraversano il territorio contemporaneo. La conoscenza
si incentra sulle realtà specifiche e locali che vanno modificate dal progetto multiscalare, interdisciplinare, plurale: una conoscenza che afferma un punto di vista soggettivo, intenzionale, cioè delinea il progetto
di trasformazione prendendo le distanze dagli stereotipi fissi e immuta-
Cavalcavia dello
Sponzillo.
Parco della Marinella.
144
145
bili di una razionalità tecnica che ha caratterizzato le pratiche più convenzionali della pianificazione. In tal senso, la conoscenza è interpretazione critica della realtà urbana, una ricerca di valori e di materiali in
grado di definire morfologie di temi, luoghi, parti trasformabili che consentono di dare forma a una visione capace di radicarsi nel contesto
specifico, locale.
La ricerca di questa appropriatezza è una condizione irrinunciabile per
un progetto di futuro.
[Con]fusion, nuovi assi
di mobilità dolce.
Insegnare urbanistica nelle condizioni della contemporaneità
Insegnare urbanistica ha senso in relazione alle forme del progetto urbanistico contemporaneo e alle sue modificazioni: alcune considerazioni più generali in questa direzione, consentono di chiarire i criteri e il
metodo con cui si è proposta una lettura dell’area orientale di Napoli,
in una prospettiva legata essenzialmente alla sua trasformabilità.
Apprendere il progetto urbanistico è un esercizio concreto, contestuale
e contingente, che deve costantemente riferirsi al senso e al ruolo che
assume nella società e nel governo dei fenomeni che attraversano le
città e i territori contemporanei. La progettazione urbanistica è una pratica complessa che utilizza in maniera coordinata e coerente un insieme
di tecniche2, e richiede diverse capacità e competenze, tenute insieme
da un principio di intenzionalità finalizzato a prefigurare un assetto capace di mettere in tensione quadri normativi, teorie e principi, con la
conoscenza della realtà indagata. È una pratica che compone idee e
scelte, valutazioni e decisioni, cioè istanze che hanno una valenza “politica”, proiettate sull’asse del tempo, con azioni specifiche e circoscritte, che hanno un carattere puntuale e modificano lo spazio fisico e
sociale della città, contribuendo a dare forma alle sue parti. Una pratica,
cioè, che mette costantemente in “tensione” diversi livelli di scelta (fattibilità, attuabilità, bilancio di risorse, forma dello spazio, relazioni funzionali, connessioni infrastrutturali e ambientali, etc.) con dimensioni
disomogenee che possono essere tenute insieme da un’attenta e costante verifica della rispondenza tra obiettivi e azioni, cioè tra scelte di
carattere politico e dispositivi che determinano il loro potenziale grado
di realizzazione, attraverso i progetti.
L’insegnamento dell’Urbanistica ha subito profonde trasformazioni negli
ultimi anni nelle Scuole di architettura e di pianificazione italiane, con
un andamento che, nei contenuti e nei tempi, si collega alle modificazioni e alle innovazioni più generali del progetto urbanistico negli ultimi
venti anni. Una nozione attraversata da un “terremoto”3 che ha investito a partire dalla metà degli anni Settanta la disciplina urbanistica, e
che ha subito profonde variazioni tematiche e tecniche, drastici cambi
di prospettiva, di strumenti cognitivi e operativi, di linguaggio.
Sin dalla fine degli anni Ottanta il leitmotiv della cultura urbanistica è
stata una riflessione ossessivamente incentrata sul tema della forma
del piano, in un dibattito che ha comportato una revisione radicale dello
146
Napoli Est verso il
futuro, veduta del
parco.
strumento simbolo della pianificazione urbanistica, a partire da un più
profondo ripensamento dei fondamenti e dello statuto disciplinare dell’urbanistica (A. Tutino, 1986; Secchi, 1982, 1989; Mazza, 1997). La comunità
scientifica si è profondamente interrogata sull’efficacia degli strumenti
della pianificazione e sulla loro effettiva capacità di incidere sulla realtà,
mettendone in discussione i fondamenti storici e culturali. Si trattava di
una pratica che, seppure con continue oscillazioni, era ormai convenzionalmente conformata sui principi e sulle pratiche operative introdotte
dalla Legge del 1942, funzionali a una domanda di cambiamento propria del contesto italiano (Campos Venuti, 1987; Di Biagi, 1997) e per alcuni
aspetti europeo4 del secondo dopoguerra, che chiedeva alla pianificazione soluzioni tecniche e procedurali per sostenere le trasformazioni
territoriali in forma di “addizione urbana”.
Il piano urbanistico, negli ultimi decenni, è stato profondamente ripensato per affrontare fenomeni urbani complessi che hanno chiesto di riformulare le questioni della città e del suo spazio, per trattare problemi
e morfologie che sfuggivano agli strumenti più convenzionali di analisi,
di conoscenza e di interpretazione (P.C. Palermo, 1992): un’ampio lavoro
sulle pratiche cognitive ha attraversato l’urbanistica negli ultimi decenni
(Secchi, 2000; Bianchetti, 2003), per ridefinire i criteri di conoscenza e di valutazione di una realtà territoriale in profonda trasformazione e in attesa
di nuovi modelli d’intervento.
Il dibattito disciplinare sulla crisi e l’innovazione del piano si muove, a
partire dalla fine degli anni Ottanta, verso un progressivo svuotamento
dell’approccio burocratizzante e formalistico per riappropriarsi di una
valenza operativa, ma anche progettuale e immaginifica dell’urbanistica, capace di nuove traiettorie narrative (Secchi, 1984), attraverso il rinnovato interesse per la fisicità (De Carlo, 1989), e il recupero di una grande
147
Piano generale di
espansione di
Amsterdam, C. van
Eesteren 1929-32.
tradizione culturale italiana legata all’arte e alla grande architettura urbana (Belli, 1996), per la morfologia, per l’immagine dello spazio e per la
qualità della sua forma. La nozione di progetto urbano afferma l’attualità di questi temi e restituisce centralità allo spazio fisico e alla sua
forma, attraverso un interesse che mette al centro dell’innovazione disciplinare gli strumenti propri del progetto della forma urbis (Secchi, 2000;
Gasparrini, 1999; Clementi, Ricci, 2004). Tuttavia il richiamo al progetto urbano non esaurisce il senso e i contenuti che il mutamento dei linguaggi
e dei riferimenti disciplinari dell’urbanistica determinano nella ricchezza
dei temi, degli approcci, delle suggestioni, degli argomenti e delle domande che progressivamente divengono oggetto di lavoro per una disciplina che - come poche altre - si trova continuamente a rivedere e
riscrivere i propri paradigmi, i riferimenti culturali, tecnici, sociali e politici per poter ricalibrare il proprio ruolo nella società contemporanea.
Altre pratiche, altri modi di pensare alle trasformazioni urbane e alle
forme di sviluppo della città, compongono - utilizzando e talvolta integrando la dimensione del progetto urbano - una gamma ampia e complessa di strumenti per il progetto del territorio, attraverso una razionalità
più ricca e composita: i piani strategici, gli approcci fortemente interscalari per orientare le politiche territoriali regionali, il disegno delle infrastrutture, il trattamento innovativo dei temi ambientali, dell’ecologia e
del paesaggio, costituiscono terreni di sicura innovazione dell’attualità e
per il futuro.
L’urbanistica ha, nel tempo, continuamente modificato i criteri e gli
obiettivi del proprio fare per adeguare impostazioni, teorie e tecniche al
carattere delle mutazioni della città e del territorio. Così, ad esempio, il
piano razionalista e funzionalista degli anni Trenta, viene codificato con
la Carta d’Atene e con i piani che divennero i riferimenti per le pratiche
dei decenni successivi (Di Biagi, 1998; Huet, 1984), come, ad esempio, il
Piano generale di espansione di Amsterdam (Aup, Algemeen Uitbreidingsplaan van Amsterdam) coordinato da van Eesteren tra il 1929 e il
1932 e considerato “un piano esemplare, lo strumento normativo su cui
si fonda la scienza urbanistica moderna”5.
Si trattava di un modello di piano che, per obiettivi e criteri, sostanziava
la domanda di crescita delle città: la zonizzazione razionalista, accoppiata con le tecniche e le tecnologie costruttive seriali e industriali, dava
forma agli ampliamenti delle città e ai quartieri popolari della ricostruzione post-bellica. Il piano e i principi della pratica urbanistica codificati
in Italia dalla Legge Urbanistica Nazionale, rappresentano dunque la
cristallizzazione di modelli, legati a una concezione di territorio riferita a
un contesto economico e culturale ormai inattuale. Il territorio era inteso
come mero supporto allo sviluppo, senza limiti sostanziali alla sua modificabilità, dotato di una forte inerzia in grado di sostenere processi intensivi di trasformazione urbana ed edilizia, rivelatisi poi devastanti.
Questa concezione ha prodotto una generalizzata depauperazione dei
valori del territorio e del paesaggio italiano, in un’epoca dove era pre-
148
Vuoti/Verdi,
Masterplan.
sente una profonda consapevolezza sociale e collettiva dello spessore
storico del territorio, dei suoi valori e delle sue istanze (Belli, 2012).
Un’idea contemporanea di spazio urbano, si distanzia dalla tradizione
della modernità, e include una gamma ampia e diversa di approcci al
governo del territorio e di strumenti per il suo progetto. Il territorio e i suoi
caratteri definiscono un’entità plurale (Lanzani, 1991), di difficile codificazione in base ai riferimenti convenzionali, per la molteplicità dei fenomeni
e dei soggetti che ne definiscono la forma (dismissioni produttive, periferizzazione, dispersione insediativa, etc.): risulta sempre più astratta la
possibilità di conoscere e definire questi fenomeni e i loro effetti territoriali attraverso l’uso di immagini e descrizioni omologate e convenzionali
e gli approcci quantitativi non hanno la possibilità di descrivere la complessità dei fenomeni né la loro ricaduta sullo spazio urbano.
Irrompono i concetti di identità e di specificità: la conoscenza deve essere sempre più selettiva e al contempo sistematica, per guardare e
comprendere la realtà scomponendola in parti elementari (Viganò, 2000),
scorgendo la grana più fine della sua texture, attraverso una razionalità
sempre vigile nel distinguere i materiali appropriati che definiscono la
natura del territorio, la struttura del suo funzionamento, oltre che della
sua forma. Il suolo non è più un mero supporto, ma una morfologia
complessa: il suo progetto diviene la metafora della complessità e dell’interdipendenza tra il dato sensibile e quello sociale, così ben rappresentato nella figura del “progetto di suolo” (Secchi, 1989; 2006).
Il piano cambia, al variare dei dispositivi normativi (strumenti che dalla
fine degli anni Ottanta mirano a rilanciare forme di sviluppo su base territoriale, come i programmi integrati e complessi o la programmazione
negoziata) che - anche in assenza di una riforma organica - hanno
149
Ex Montecatini
(ph. M. Rianna).
completamente ridisegnato l’impostazione convenzionale e tradizionale
della legge urbanistica del 1942 nelle diverse forme normative definite
dalle legislazioni regionali che hanno costituito - di fatto - una rivoluzione silenziosa ma profonda, avvenuta negli ultimi anni, nella complessiva gerarchia e architettura degli strumenti urbanistici.
Il piano cambia per dare risposta a esigenze diverse, per dare conto a
soggetti plurali, spesso conflittuali, e si muove attraverso fenomeni urbani che mutano costantemente e richiedono creatività per una loro
adeguata conoscenza, per la costruzione di piani e progetti di modificazione, e per disegnare i dispositivi della relativa attuazione.
La funzione principale a cui l’urbanistica è chiamata a rispondere non
riguarda più la razionalizzazione delle aree di espansione della città moderna, né la garanzia del soddisfacimento degli standard urbanistici,
né la difesa delle funzioni deboli e potenzialmente minacciate dal mercato (industria e residenza sociale), né il vincolo di tutela dei valori: di tali
questioni, alcune sembrano superate dai fatti, altre sono ormai posizioni acquisite.
La domanda che la società pone all’urbanistica è quella del governo di
una realtà complessa che non può essere pianificata attraverso una
gerarchia rigida di strumenti che non hanno tempi e duttilità tali da essere coerenti con la rapidità del cambiamento in atto, né la capacità di
creare convergenza e condivisione tra i soggetti su obiettivi di interesse
comune, per garantire efficacia di strategie e di azioni.
È indispensabile capire, decodificare e descrivere i fenomeni che producono città, che configurano spazio e che ne attestano, spesso, la
negazione: costituiscono una realtà complessa da gestire dal punto di
vista amministrativo, economico e finanziario, per l’eclissi - rispetto alle
prassi della modernità - del soggetto pubblico come attore in grado di
150
attuare le strategie di trasformazione e di produzione della città; complessa da progettare e prefigurare per la “densificazione” dei materiali
urbani che richiedono competenze sempre più specifiche e settoriali
(infrastrutture, ambiente, paesaggio, tecnologie) ma che al contempo
deperiscono rapidamente in assenza di intersettorialità (Russo, 2011).
La “ricentratura sulla fisicità”6 rappresenta senza dubbio il riemergere di
una cultura profondamente radicata nella tradizione dell’urbanistica italiana (Belli, 1994), dei suoi strumenti e delle sue tecniche, da cui affiorano
quelle provenienze che, dopo la conflagrazione del “piano burocratico”,
rilanciano il ruolo dell’immaginazione come attitudine anche comunicativa, che pone lo spazio al centro della forma mentis dell’urbanista. Questa specificità caratterizza il contesto metodologico e disciplinare entro
cui l’urbanistica si è mossa negli ultimi anni per affrontare e rappresentare le nuove questioni urbane (Belli, 2011; Secchi, 2011) e le sfide che attualmente richiedono alla disciplina una nuova capacità di ricerca e di
elaborazione attraverso un dialogo sempre più intenso con altri saperi
e altre competenze.
I tipi di spazio che oggi rappresentano una questione irrisolta sono quelli
senza nomos, privi di statuto, di forma e ruolo nella città contemporanea: gli spazi aperti e residuali, tra le cose, dove è possibile rintracciare
una potenziale identità che deriva dagli usi, ma anche dalla natura del
suolo, delle colture, delle stratificazioni ambientali e paesaggistiche.
151
Zeroline, la linea del
tram come asse di
riqualificazione dei
sistema urbano.
Riciclo, bonifica e progetto di suolo
nell’area orientale di Napoli
A est della stazione ferroviaria e del fascio dei binari, il nuovo Piano urbanistico di Napoli approvato nel 2004 perimetra un’area di oltre 400 ettari - il
cosiddetto “Ambito 13” - che ospitava un’importante raffineria fino alla fine
degli anni Novanta e che comprende ancora oggi i depositi petroliferi della
Campania (Q8, Esso, Agip), oltre a un insieme di impianti industriali di svariata dimensione in fase di riconversione funzionale, ancora attivi o dismessi.
Qui negli ultimi anni è stato promosso dall’Amministrazione Comunale un
ambizioso progetto urbano che costituisce il più importante investimento
per il futuro della città. Per certi versi un investimento ancor più forte di
quello compiuto per l’ex acciaieria Italsider di Bagnoli a ovest che, nonostante sia stato avviato 20 anni fa, stenta tuttora a esprimere le sue potenzialità. All’“Ambito 13” e alla sua rigenerazione è attribuito un valore
strategico anche in ragione della posizione di cerniera rispetto alla collina
di Poggioreale, il Centro Direzionale, l’area di Gianturco e la piana vesuviana. Pur essendo diventata la più grande zona industriale della città a
partire dagli inizi del secolo scorso, ormai da tempo i napoletani vivono
l’area orientale come un grande “buco nero”, come una vasta, impenetrabile e pericolosa barriera tra il centro della città e la periferia dei popolosi
quartieri di San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli. Il Piano urbanistico
punta quindi a integrarla nel disegno e nel funzionamento della città, spostando progressivamente le fabbriche e i depositi inquinanti e innalzando la
qualità urbana e ambientale.
Il progetto urbano è chiamato a dare risposte a queste domande e a proiettarle in un arco temporale compatibile con la graduale soluzione delle
criticità esistenti nell’ambito, dichiarato peraltro “sito di interesse nazionale”
alla fine degli anni Novanta per la particolare densità dei fattori di rischio e
dei necessari interventi di messa in sicurezza e bonifica1. Per la trasformazione dell’Ambito è stato predisposto uno schema di assetto urbanistico definito “Preliminare dei Piani Urbanistici Attuativi”2 - un vero e proprio strumento di progettazione urbana che ha il compito di fornire un quadro di
conoscenze approfondite, definire il disegno urbano dell’area sviluppando
quello abbozzato col Piano urbanistico della città, configurare un complesso di regole morfologiche, funzionali e procedurali con funzioni di guida
dei futuri piani e progetti attuativi di dettaglio e restituire un quadro della fattibilità economico-finanziaria.
Rispetto alle originarie pretese urbanistiche di un intervento sincronico in un
gigantesco “vuoto urbano” da espropriare e riportare a un assetto preindustriale e pseudonaturalistico, si è fatta strada negli ultimi anni una strategia alternativa di progetto. Quella appunto dell’intreccio virtuoso tra una
214
Ambito 13 della Ex
Raffineria. Foto aerea
dello stato attuale da
est.
visione aggiornata d’assieme, un sistema di regole del disegno urbano e la
messa in moto di procedure di adattamento di questo disegno alle dinamiche asimmetriche e sussultorie di dismissione/riconversione, connesse
anche all’articolata compagine proprietaria esistente. Le reti infrastrutturali,
idriche ed energetiche svolgono in tal senso una funzione essenziale di
guida del processo trasformativo, interagendo con le esigenze di bonifica
e la progressiva permeabilizzazione e rinaturazione, dentro scenari spaziali
e temporali condizionati da molteplici variabili, non sempre prevedibili.
Ambito 13 della Ex
Raffineria. Foto aerea
dello stato attuale da
ovest.
215
Street-landscape e riurbanizzazione
L’idea di progetto è basata sull’interazione innovativa di due materiali urbani
tradizionali: un grande parco di scala urbana e territoriale e un complesso
di nuovi isolati destinati a insediamenti urbani integrati. Il parco avrà
un’estensione di 150 ettari mentre gli insediamenti integrati saranno costituiti da circa 1.250.000 mq di superficie di pavimento destinati a una mixité potenzialmente attrattiva di residenza, servizi pregiati, attrezzature
urbane e industrie pulite che non cancella quindi la vocazione produttiva
dell’area. Il progetto urbano propone un avanzamento concettuale e figurativo del parco e delle regole edificatorie rispetto a quello del Piano urbanistico del 2004, pur non contestandone i principi strutturanti. La proposta
di parco conferma infatti l’obiettivo di far “riemergere” la rete fluviale del Sebeto, obliterata dal consumo di suolo pervasivo della zona industriale nel
secolo scorso. In realtà l’acqua già oggi riaffiora, in modo episodico e dannoso, nelle cantine degli edifici e nelle smagliature dei suoli impermeabili
per effetto di una progressiva risalita della falda inquinata causata dalla dra-
216
217
Ambito 13 della ex
Raffineria. Planimetria
di progetto delle aree
Q8.
nella pagina accanto
Ambito 13 della ex
Raffineria. Vista
zenitale di progetto.
stica riduzione del suo emungimento. Una sorta di prevedibile nemesi degli
“orti delle paludi” leggibili nella splendida Carta del Duca di Noja del 1775.
La ricomparsa delle acque affronta questa criticità assumendo una prospettiva pienamente contemporanea di coesistenza della città con esse sicuramente complessa ma fattibile nel tempo con l’avanzamento del processo di bonifica - piuttosto che provare a “resistere” con soluzioni tanto
dure quanto costose e fallimentari. Questa prospettiva si coniuga al recupero e alla reinterpretazione della matrice agraria ancora leggibile e delle
sue giaciture “diagonali”, prodotte da un plurisecolare adattamento del parcellario catastale alle direttrici di scorrimento idrografiche. Il disegno di suolo
che prende forma da questo lavoro sulle acque superficiali e profonde da
bonificare è sinergico con la riorganizzazione della rete infrastrutturale stradale ed energetica e con la previsione di una ricca tessitura formale di spazi
verdi che interessa l’intero ambito. In questo modo il progetto urbano pro-
duce un ripensamento delle relazioni fisiche, funzionali e percettive tra la
linea di costa e le aree interne della piana compres[s]a tra il sistema orografico dei Campi Flegrei e quello del Somma-Vesuvio. Un parco quindi
non più confinato dentro perimetri rigidi e regolari - frammento recintato di
una naturalità perduta da ripristinare - ma diffuso in tutto l’ambito lungo le
linee di addensamento della rete di strade nord-sud ed est-ovest.
In modo complementare, il disegno degli isolati di nuova edificazione è caratterizzato dalla scelta di trasformare la “superficie fondiaria” in un “nuovo
suolo”, tridimensionale e attrezzato, che si presenta come una sequenza di
placche sagomate e rialzate rispetto al livello della falda poco profonda, con
cui quindi non interferiscono da un punto di vista costruttivo. Ciò consente
di accogliere in sicurezza, all’interno di ciascuna placca, le attrezzature di
servizio e pertinenziali dei nuovi insediamenti, ma anche alcune attività rivolte all’uso urbano degli spazi esterni e interni agli isolati. Allo stesso tempo,
Ambito 13 della ex
Raffineria. Vista aerea
di progetto
da sud-est.
Ambito 13 della ex
Raffineria. Vista aerea
di progetto da ovest.
Ambito 13 della ex
Raffineria. Vista aerea
di progetto da est.
218
219
Aree dismesse e architettura
I termini di un dibattito
Eterogeneità, discontinuità, frammentazione: sono i termini di un dibattito,
che dagli anni Ottanta ad oggi attraversa l’orizzonte di attesa dell’area orientale di Napoli, definendo scenari e ipotesi trasformative. Se da un lato questo dibattito1 ha avuto la forza di evidenziare la natura di alcuni processi
che hanno caratterizzato l’area nel tempo, dall’altro esso ha decretato, per
questo luogo, una sorta di stereotipo, finendo con il legare, non solo nell’immaginario degli architetti, il destino dell’area al destino delle dinamiche
industriali e alle sue alterne vicende. Annodando, in modo quasi deterministico, l’immagine del luogo ai programmi nazionali e locali di rilancio, di riconversione o di contrazione dei cicli industriali. Come un racconto in stile
quasi monista, dove l’apparato produttivo sta alla città come un destino
inalienabile e minaccioso, dal quale non è possibile separarsi.
Come per effetto di un transfert, così, qui più che altrove, concentrazione,
dispersione, contrazione, sono divenuti i termini di un lessico condiviso,
che accomuna la natura dei processi economici e i suoi programmi di riconversione alle dinamiche che disegnano il suolo. Dall’economia, alla po-
Napoli, area delle
Raffinerie, 1980.
litica, al territorio: se il linguaggio conta ancora qualcosa, la natura di questi processi ha trasmesso in questi luoghi profonde tracce del proprio passaggio, definendo, a lungo, i termini di un discorso e le sue figure. Come
un quadro di Sironi, che si apre al mondo e si fa mondo, offrendosi a profonde mutazioni.
Una sorta di “processualità dell’architettura”, per utilizzare una locuzione
fortemente diffusa negli anni Novanta, allorché la trasformazione dell’area
orientale si disponeva al centro di un vasto programma di riconversione e
di rilancio economico e produttivo, includendo, in questa definizione, il
senso di un “luogo a termine”, fatto di profonde solitudini, dove l’architettura può sempre essere sostituita, secondo requisiti prestazionali e dinamiche d’uso, secondo intenzioni squisitamente produttive, come un ciclo
edilizio che ha un proprio inizio e una propria fine, che può sempre essere
“processato”. Così, l’area orientale di Napoli ci restituisce oggi l’inizio e la
fine di un processo, dove questo inizio e questa fine non sono scritti nell’architettura o nel carattere del luogo, ma, piuttosto, in una tassonomia
dell’industrializzazione. Proveremo a seguire questo tracciato, ricostruendo
il quadro di alcune vicende che hanno segnato profondamente il destino di
questo luogo, per provare a prenderne le distanze, proponendo uno
sguardo diverso, che liberi l’attualità non dal suo carico di storia, ma dalla
camicia di forza di un dibattito che a partire dagli anni Ottanta ha ingessato
questo luogo, finendo con il legarlo a un destino prevalentemente industriale.
Immagini e figure
Da territorio aperto e disponibile a molteplici usi, a luogo della memoria industriale e delle conquiste operaie, a paesaggio profondamente mutato
per effetto della mano dell’uomo: come un grande libro dei sogni, quest’area ha vissuto promesse, ha incarnato principî e speranze, ha conosciuto il declino e l’abbandono, facendo dell’attesa il proprio destino, come
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Emscher Park, Bacino
della Ruhr, anni
Cinquanta.
Emscher Park, Bacino
della Ruhr, 1990.
Cesare Beruto, Piano
Regolatore della Città
di Milano, dettaglio
con il tracciato del
nuovo viale per la
stazione, Milano 1884.
Pierre Patte,
Monuments Érigés en
France, Parigi 1765.
Planimetria generale
di Napoli con il Piano
municipale di
risanamento e di
ampliamento e col
tracciato ferroviario
del progetto Cichelli
per sistemazione
orientale della Città,
Napoli 1888.
si vive nell’imminenza di una rivelazione. Non a caso, all’inizio degli anni
Novanta, Ignazio Gardella2, nel commentare alcuni progetti che prendevano in esame la trasformazione dell’area orientale, affermava che l’urbanistica non è un progetto, ma un programma; e la realizzazione del progetto
sta nella realizzazione del programma. Un’asserzione profondamente vera,
che ritrae ancora oggi un tratto distintivo dell’area: il suo essere, ancora, al
centro di un dibattito legato a programmi e a processi di riconversione, di
contrazione, di diversificazione, di “produzione di beni e di servizi”, come un
gigantesco Piano di Zona.
Una riflessione, questa, già presente anche in uno scritto di Daniele Vitale3
di quegli anni, che prova a fare da scudo all’idea delle “aree dismesse”
come un fenomeno radicalmente nuovo ed eccezionale, come il dispiegarsi di una nuova armatura urbana, teorizzata da Bernardo Secchi4. Nel
suo intervento, dal titolo Le pietre d’attesa, Vitale richiama infatti la necessità di riportare la questione delle aree dismesse a un principio di ordine
culturale e generale, a un disegno di insieme, dentro cui l’architettura possa
ritrovare un proprio ordine formale. Non, dunque, a una logica funzionale legata a processi e programmi, quanto, piuttosto, a un principio di ordine
formale che concerne la vita dell’architettura. Giacché la necessità, così
viva in quegli anni, di affermare una perdita di aderenza dei manufatti alle dinamiche che ne avevano presieduto la formazione, rappresentava, ancora,
una visione ideologica e, dunque, volontaristica e parziale. E, insieme, essa
si definiva come una metafora ambigua, disponibile a usi diversi, in primis,
all’idea che legava le aree dismesse a nuovi “vuoti urbani”.
Così, nel suo scritto, Vitale poneva, da un lato, il richiamo a un principio
formale dell’architettura, dentro cui la periferia industriale assume una facies, si lega a un’organizzazione spaziale, dove gli elementi e le parti ritrovano un proprio ordine e una propria gerarchia, rintracciando nel recinto
una propria organizzazione spaziale, come, ad esempio, accade nella pianura padana o nella bassa Francia, dove la cascina sta all’organizzazione
rurale e a un suo principio di formalizzazione.
Dall’altro, il richiamo all’idea che “la condizione della città di frammentazione, di divisione, di scontro tra parti e logiche differenti”, come osserva Vitale, “è la condizione nella quale noi operiamo. Così noi dobbiamo
riconoscere questo fatto, e cioè che le realtà urbane hanno delle logiche differenti dai singoli fatti urbani”5. È per questa ragione, afferma Vitale, che le
aree industriali vanno viste nel loro mostrarsi insieme, dentro la città, secondo una logica di distribuzione che invita a un progetto complessivo,
come si rileva, ad esempio, nella formazione del Piano per le aree industriali di Milano nel 1884 e nel 1889, a opera di Cesare Beruto.
È questo un punto molto interno alla nostra disciplina, dentro cui l’architettura ritrova una propria capacità astratta, in grado di legare insieme idea e
formulazione. Così l’idea si identifica con il manufatto e diviene esperienza
storica; il manufatto la fissa come un fatto concreto e la ripropone nel tempo.
Un principio, dunque, di ordine narrativo, e, insieme, di ordine segnico, per
il quale le realtà urbane assumono con il tempo logiche differenti dai signi-
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ficati di partenza. Dentro questo principio, la frammentazione, la dispersione, lo scontro tra tecniche, modelli, dinamiche differenti, non può esser
visto come il dispiegarsi di un’improvvisa disponibilità di suoli, di “vuoti urbani da riempire”, ma, piuttosto, come un riferimento che travalica la contingenza, dentro cui l’architettura si ripropone come un’immagine concreta.
Come parte di una costruzione più grande. Come, ad esempio, è accaduto
nei grandi processi della storia, di riconversione di intere parti di città, a seguito di dinamiche che ne hanno decretato la fine.
Così, Vitale, nel richiamare le descrizioni del Pirenne6 delle città romane abbandonate intorno al X secolo, svuotate oramai di vita urbana, definisce,
con parole dello storico, questi luoghi “pietre di attesa”, non diversamente,
dunque, da come il Pirenne definiva le rovine delle città romane del X secolo. Ecco perché all’immagine di Secchi, che paragona le aree dismesse
della città contemporanea alle cittadelle conventuali del Medioevo, che a un
certo punto della loro vita cessano di essere tali per andare incontro a usi
diversi7, Vitale ribatte con la forza di un’altra immagine, che oppone all’idea
della cittadella conventuale la nudità monumentale del Sant’Ambrogio di
Milano, come qualcosa a lungo rimasto scarno, di fronte a cui la città di Milano di volta in volta ha dovuto ripensarsi. Non, dunque, l’idea di una parte
di città che si rende disponibile a un nuovo uso per effetto di una deterritorializzazione, quanto, piuttosto, l’affermazione di una logica che vive nella
complessità della città e rende i suoi ritratti biografici verso un nuovo possibile destino.
Manufatti, afferma Vitale, che devono essere dunque guardati come una realtà geografica dalle tante memorie, e, insieme, come un riferimento d’ordine culturale complessivo, non diversamente dai resti delle città romane,
intorno “alle cui mura”, nel Medioevo, “tornava a prender forma una rinascita economica, i cui sintomi si erano già manifestati”8.
Un’immagine, questa, molto bella, che oppone alla visione della fine di un
processo, quello industriale, l’idea di un processo più grande che concerne
la vita dell’architettura, nell’attesa che essa torni ad abitare quelle stesse
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A. Baratta,
Fidelissimae Urbis
Neapolitanae Cum
Omnibus Viis
Accurata Et Nova
Delineatio, 1627,
(riedizione 1679).
Giovanni Carafa Duca
di Noja, Niccolò
Carletti, Mappa
topografica della città
di Napoli e de’ suoi
contorni, 1775.
Camillo Guerra, Progetto
di spostamento della
Stazione Centrale di
Napoli al Pascone,
Napoli 1934-1935.
Camillo Guerra, Progetto
di una piazza con canale
navigabile al Ponte della
Maddalena, Napoli
1934-1935.
Francesco De Simone,
Piano Regolatore
Generale della Città di
Napoli, 1914.
nella pagina accanto
Luigi Piccinato, Pianta
generale d’insieme,
Piano Regolatore
Generale della Città di
Napoli, 1939.
Piano per le Industrie
redatto sulla base del
Prg della Città di Napoli
del 1914, Napoli 1920.
Copertina del n. 231 di
“Casabella-Continuità”,
Inchieste sul
Mezzogiorno, 1959.
pietre. È questo il senso delle pietre d’attesa. Come un progetto da costruire a partire da fuori le mura, dentro cui la città prende a ripensarsi.
Un’immagine, questa, che la vedustica del tempo (dal Duca di Noja, al Baratta, alle vedute di Napoli a Oriente) ha da sempre formulato per quest’area: un luogo di attesa.
Napoli rifiuta i piani
Un ritratto, questo, molto diverso da quello che i piani regolatori hanno
sempre voluto assegnare a tale area, a partire dall’istituzione stessa
dell’“Area orientale di Napoli”, in origine, la “Zona Aperta”, a cura di Francesco Saverio Nitti9.
A partire dal Risanamento, infatti, i piani per l’area orientale hanno sempre
visto nel completamento del reticolo della città ottocentesca la maglia attraverso cui estendere il disegno della città di Napoli, interpretando l’area
come l’ampliamento della città esistente. Un disegno da attuare attraverso
il superamento delle aree da bonificare e il rafforzamento di direttrici territoriali di sviluppo (via Traccia, via Argine, via Nuova Poggioreale), che trovano completamento e, in parte, attuazione, nell’ambito degli interventi del
Piano straordinario per l’edilizia residenziale di Napoli10. Seguono, poi, il
Piano per le industrie, con la sua impronta a maglie larghe, visibile ancora
oggi nell’organizzazione dei tracciati, i piani Francesco De Simone e Giorgio Piccinato, nei quali trovano attuazione alcuni disegni condotti anni prima
da Camillo Guerra, tra cui, l’ampliamento della stazione. Da qui in poi, è
l’avvio alla costruzione di una città fatta per leggi speciali. Dal dopoguerra
alla metà degli anni Settanta, afferma, infatti, Vezio De Lucia11, le leggi speciali per la città di Napoli, sono state più di cinquanta. Sarebbe qui lungo il-
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lustrare le cicliche varianti ai piani regolatori condotte attraverso la legislazione speciale, che hanno dato volto a questa parte di città, fino all’istituzione del Centro Direzionale, che trova completamento nelle realizzazioni
della s.s. 162, degli assi di collegamento con i Paesi vesuviani, e nei programmi di edilizia residenziale.
Andrebbero ancora qui segnalati, tra le complesse vicende che hanno segnato la trasformazione dell’area orientale, la proposta, avviata nel 1998 e
mai approvata12, della Variante al Piano Regolatore Generale del 1972, l’insieme delle politiche urbane che hanno favorito la corsa all’acquisizione dei
suoli, i project financing e gli interventi di riconversione dei “lotti sottoutilizzati”, che, messi insieme, configurano oggi, per diversi e molteplici aspetti,
nella loro spinta e nella loro realizzazione concreta, un’intera e massiccia variante al Piano Regolatore Generale del 1972.
Si tratta di una vicenda, che prima o poi andrà ricostruita analiticamente,
nelle sue determinate applicazioni e nelle sue alterne vicende. Ma ciò che
ci interessa sottolineare, in questa sede, è la stridente discrasia, che ha da
sempre caratterizzato la vita di questo luogo, tra i progetti redatti, la mole
degli studi e le logiche dei piani regolatori.
È del 1959, ad esempio, il richiamo di Rogers, di Samonà, di Quaroni13,
alla costruzione di una logica unitaria nel disegno dell’area orientale di Napoli. “Occorre favorire”, scrive Rogers14, “una vita reale fondata sul senso
della storia […] aprire il futuro con concretezza, affinché [esso] non sia il
frutto dell’utopismo o della demagogia, ma riscatti il debito degli italiani…”.
Qui, ancora, si richiama alla memoria l’idea di “progresso”, così come definito nelle parole di Carlo Pisacane15. Analogamente, nell’affrontare la questione dell’ampliamento della città di Napoli, Giuseppe Samonà16,
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