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La contraffazione del marchio
Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004) in Marketing e Comunicazione Tesi di Laurea La contraffazione del marchio Il caso Gucci contro Guess Relatore Ch. Prof. Alessandra Zanardo Correlatore Ch. Prof. Alberto Urbani Laureando Laura Ziliotto Matricola 827439 Anno Accademico 2013 / 2014 A Nonno Giovanni “Il giovane cammina più veloce dell'anziano, ma l'anziano conosce la strada” (Proverbio africano) 2 INDICE TITOLO: La contraffazione del marchio. Il caso Gucci contro Guess. Introduzione 5 CAPITOLO I: IL MARCHIO 8 1. La nozione e la funzione del marchio 8 2. Le tipologie di marchio 13 3. I soggetti legittimati alla registrazione 14 4. I requisiti di validità della registrazione 4.1 Gli impedimenti assoluti alla registrazione 4.1.1 I segni non rappresentabili graficamente 4.1.2 Il principio di estraneità del marchio al prodotto 4.1.3 (segue) I marchi di forma 4.1.4 L’assenza di capacità distintiva 4.1.5 L’illiceità 4.2 Gli impedimenti relativi alla registrazione 4.2.1 La novità del marchio 17 18 18 21 21 23 27 29 29 5. La tutela del marchio 5.1 Il diritto di esclusiva 5.2 Uso di segno identico per prodotti o servizi identici 5.3 Il rischio di confusione 5.4 Il marchio che gode di rinomanza 32 32 34 36 40 6. Nullità e decadenza 6.1 L’estinzione del marchio 6.2 La nullità del marchio 6.3 La decadenza del marchio 6.3.1 La decadenza per non uso 43 43 43 45 45 CAPITOLO II: LA CONCORRENZA SLEALE 48 1. L’art. 2598 c.c. e le fattispecie di concorrenza sleale 48 2. La concorrenza per confondibilità 2.1 Uso di nomi o segni distintivi confusori 2.1.1 (segue) L’imitazione dell’altrui marchio registrato 2.2 Imitazione servile 2.2.1 Le forme tutelabili 52 53 54 56 57 3 2.3 Gli altri mezzi della concorrenza confusoria 59 3. L’appropriazione di pregi 3.1 (segue) L’agganciamento 60 62 4. Le fattispecie dell’art. 2598 n.3 c.c. 4.1 La concorrenza parassitaria 64 66 CAPITOLO III: LA CONTRAFFAZIONE DEL MARCHIO 70 1. La violazione del diritto di marchio 70 2. L’azione di contraffazione 2.1 (segue) La legittimazione attiva e passiva 73 74 3. Onere della prova 75 4. Le misure cautelari 4.1 L’inibitoria e il ritiro dal commercio 77 79 5.Il risarcimento del danno 5.1 Il danno emergente e il lucro cessante 5.1.1 L’art. 125, co. 3, c.p.i. e la retroversione degli utili 80 82 85 CAPITOLO IV: IL CASO GUCCI CONTRO GUESS 86 1. I fatti e le ipotesi di diritto richiamate 86 2. Le decisioni del Tribunale di Milano 2.1 Contraffazione di marchi 2.2 Imitazione servile 2.3 Concorrenza parassitaria 100 102 112 118 3. Conclusioni del Tribunale di Milano 119 4. Le decisioni della Corte d’Appello 119 Appendice 124 Bibliografia 125 Sitografia 127 Ringraziamenti 128 4 Introduzione La contraffazione è da sempre considerata quale fenomeno che grava in modo consistente sul sistema economico, minacciando il buon funzionamento del mercato. La violazione dei diritti di proprietà industriale, quanto lo sfruttamento della creatività, dell’innovazione e dell’originalità rappresentano, inoltre, una minaccia al patrimonio aziendale altrui, in un territorio quale quello italiano, caratterizzato da realtà aziendali denotate da un ricco know-how. Il fenomeno contraffattivo ha una portata enorme: secondo i dati elaborati dal Censis in collaborazione con il Ministero delle Sviluppo Economico, infatti, il valore del mercato dei prodotti contraffatti nel nostro paese si aggirerebbe sui 6,5 milioni di euro1. L’impatto, sia sull’economia nazionale sia sulle imprese italiane è pesantissimo, tanto che le aziende sono fortemente impegnate nella tutela del loro straordinario patrimonio immateriale di segni distintivi mediante tutti gli strumenti a loro disposizione. Per quel che riguarda il settore della moda, cui ci si riferisce in tale lavoro di tesi, i fenomeni contraffattivi rilevanti sono quelli che hanno ad oggetto il marchio, il prodotto o la commercializzazione dello stesso. Nella prima ipotesi si verifica un’imitazione fedele o una riproduzione simile dell’altrui marchio apposto su prodotti identici o affini a quelli del titolare dei diritti di proprietà. La contraffazione può riguardare anche le linee stilistiche del prodotto che, unitamente all’apposizione di un marchio simile a quello che contraddistingue l’originale, possono indurre il consumatore all’acquisto del prodotto contraffatto. La terza ipotesi riguarda la commercializzazione di un prodotto contraddistinto da un marchio identico a quello di una casa di moda senza l’effettiva produzione da parte di quest’ultima del prodotto in questione. Il presente elaborato si propone di analizzare la causa giudiziaria intercorsa tra le case di moda Gucci e Guess, in virtù delle decisioni prese dal Tribunale di Milano, successivamente, riformate dalla Corte d’Appello, in quanto di particolare interesse posto che l’esito della controversia appare in 1 Dato reperibile in www.censis.it. 5 parziale contrasto con le decisioni prese della Southern District Court of New York chiamata anch’essa a deliberare sullo stesso caso. Nella prima parte del lavoro verranno esplicitate, in particolare, la legislazione, la dottrina e la giurisprudenza vigenti nel nostro ordinamento in tema di marchi, concorrenza sleale e contraffazione, necessarie ad un’adeguata lettura del caso in specie. Nella seconda parte, verrà analizzata la sentenza in oggetto, con taluni riferimenti alle decisioni del giudice americano che sono, come detto, in antitesi, rispetto a quelle del giudice italiano; verrà inoltre riportata e analizzata la sentenza di parziale riforma della Corte d’Appello. Nello specifico, la maison italiana accusava Guess di contraffazione dei propri marchi e di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598, nn. 1, 2, 3, c.c.; ipotesi tutte escluse dal Tribunale di Milano con sentenza del 2 maggio 2013. Detta sentenza mi è parsa rilevante sotto il profilo della tutela dei diritti di proprietà intellettuale e industriale, nonché degna di nota, in quanto parrebbe rifarsi ad una visione dell’illecito contraffattivo legata esclusivamente all’imitazione dei segni distintivi, tralasciando di considerare condotte integranti comunque un richiamo costante ad uno stile caratteristico e riconoscibile presso i consumatori: orientamento questo per lo più superato dalla giurisprudenza più recente2. Al contrario, la Corte statunitense, ritenendo che imitare non significhi riprodurre in maniera identica un marchio o una trama, ma uno stile peculiare e chiaramente riconoscibile, aveva ritenuto Guess colpevole di imitazione di alcuni dei marchi Gucci, con sviamento di clientela e perdita di profitti ai danni dell’azienda italiana: la condotta dell’azienda statunitense avrebbe secondo la Corte causato l’annacquamento del brand “Gucci”. La posizione del giudice italiano sembra, invece, porsi in opposizione alla protezione dell’innovazione e della creatività, in un settore quale quello della moda, dove tali peculiarità, che sono il frutto di ingenti investimenti, appaiono essenziali e determinanti nelle scelte d’acquisto. I provvedimenti del Tribunale sono stati condannati da più parti, oltre che da Gucci stessa, e sono stati visti come una minaccia alla tutela del “made 2 Secondo quando sostenuto da Altagamma, associazione a tutela delle aziende italiane produttrici di beni di lusso. 6 in Italy”, rappresentando la maison italiana una delle eccellenze del nostro paese nel settore di prodotti moda e fashion. Tanto che la stessa Corte d’Appello di Milano, successivamente investita del giudizio, ha evidenziato e condannato la presenza di una tensione imitativa delle pratiche commerciali di Gucci da parte di Guess, accusando l’azienda americana di concorrenza parassitaria con sviamento della clientela, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c.. Le decisioni del Tribunale sono state, dunque, in parte, ribaltate con conseguente, parziale, salvaguardia del patrimonio aziendale della maison italiana che avrebbe ora la possibilità impugnare la sentenza dinnanzi alla Cassazione. 7 CAPITOLO I: IL MARCHIO SOMMARIO: 1. La nozione e la funzione del marchio – 2. Le tipologie di marchio – 3. I soggetti legittimati alla registrazione – 4. I requisiti per la registrazione – 4.1. Gli impedimenti assoluti alla registrazione – 4.1.1. I segni non rappresentabili graficamente 4.1.2 Il principio di estraneità del marchio al prodotto – 4.1.3 (segue) I marchi di forma – 4.1.4 L’assenza di capacità distintiva – 4.1.5. L’illiceità – 4.2. Gli impedimenti relativi alla registrazione – 4.2.1. La novità del marchio - 5. La tutela del marchio - 5.1. Il diritto di esclusiva - 5.2. Uso di segno identico per prodotti o servizi identici – 5.3. Il rischio di confusione –5.4. Il marchio che gode di rinomanza - 6. Nullità e decadenza - 6.1. L’estinzione del marchio - 6.2. La nullità del marchio – 6.3. La decadenza del marchio – 6.3.1. La decadenza per non uso 1. La nozione e la funzione del marchio Si possono definire segni distintivi quegli elementi che identificano un determinato imprenditore, il luogo dove questo svolge la propria attività economica e il segno che contraddistingue beni e servizi che sono il frutto di tale attività. Ditta, insegna e marchio sono considerati segni distintivi tipici e, in quanto tali, sono tutelati dal nostro ordinamento per far sì che l’imprenditore trovi attorno a sé una sfera di protezione che gli permetta di svolgere in piena libertà la propria attività senza alcun ostacolo al dispiegarsi della libera concorrenza. Il marchio, in particolare, è il segno destinato a comunicare informazioni circa la provenienza di un determinato bene o servizio ed è strumento utilizzato dalle imprese nel rapportarsi con i clienti: infatti questo permette ai consumatori di effettuare la loro scelta tra i diversi beni e servizi presenti sul mercato attribuendo meriti e demeriti all’imprenditore dal quale questi effettivamente provengono3. L’imprenditore con l’apposizione di un segno sulla propria produzione costruisce una propria identità di marca che gli consentirà di rendersi, appunto, riconoscibile ai consumatori e di differenziarsi dai concorrenti. Il marchio, quindi, risulta essere strumento di comunicazione fra imprese e consumatori, di informazione e concorrenza; per tali peculiarità assume un rilievo preminente rispetto a tutti gli altri segni distintivi. In considerazione di questa preminenza il legislatore ha dettato per tale segno una speciale ed ampia disciplina, imperniata su di un procedimento amministrativo detto 3 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 149. 8 registrazione. Di qui il termine di marchio registrato che evoca appunto la speciale disciplina cui questo segno è soggetto4. La materia dei marchi nel nostro ordinamento è disciplinata dal codice civile (artt. 2569-2574) e dal codice della proprietà industriale adottato con d.lgs. n. 30 del 10 febbraio 2005. Il c.p.i. dalla sua entrata in vigore ha subito numerose modifiche: anzitutto con il d.lgs. 140/2006 e la legge 99/2009, ma la revisione più ampia è stata apportata con il d.lgs. 131/2010. Secondo l’art. 7 del c.p.i., possono essere registrati come marchi d’impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese. A questi si aggiungono, ove ricorrano determinate condizioni, i ritratti di persone, nomi e segni notori (art. 8 c.p.i.); i marchi di forma (art. 9 c.p.i.); nonché, a certe condizioni, gli stemmi e i segni con significazione politica o di alto valore simbolico, o contenente elementi araldici (art. 10 c.p.i.). Nella l.m. anteriore alla riforma del 1992 unica funzione giuridicamente protetta del marchio era la funzione distintiva, intesa appunto come funzione di distinzione dei prodotti o servizi marcati tra gli altri consimili presenti sul mercato5. L’art. 2569 c.c. parla della registrazione di un “nuovo marchio idoneo a distinguere prodotti o servizi”; l’art. 7 c.p.i. a sua volta prevede che possano essere registrati come marchio certi segni, a condizione che “siano atti a distinguere i prodotti di un’impresa da quelli di altre imprese”; l’art.13 c.p.i. parla di “carattere distintivo” del segno come elemento essenziale di esso, definendolo tuttavia in negativo, cioè indicando le ipotesi di mancanza di esso6. Affinché il segno svolga una funzione distintiva è necessario che il titolare vanti un diritto di esclusiva su quest’ultimo, è, infatti, contrastante con essa un utilizzo del marchio da parte di una pluralità di imprenditori che generi confusione presso il pubblico. 4 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 150. SIRONI, Natura e funzioni del marchio, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 119. 6 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 152. 5 9 Sino al 1992 era accreditato in dottrina che la funzione distintiva si specificasse nella funzione d’origine, il marchio veicolava le informazioni circa la provenienza del prodotto da una determinata azienda e indirettamente garantiva che la provenienza restasse costante nel tempo; tale funzione del segno trovava riferimento normativo nell’ art. 15 l.m. che disponeva in merito all’obbligo di veicolare il trasferimento del marchio alla cessione dell’azienda o del ramo dell’azienda7. Successivamente alla riforma del 1992, la concessione della tutela allargata al marchio di rinomanza e la circolazione libera del marchio, insieme al divieto del suo uso ingannevole, hanno portato ad un ripensamento in senso estensivo della funzione da parte della dottrina che, peraltro, ha avuto riflessi in inducendola giurisprudenza a valutare piuttosto occasionali e di in volta volta non anche sistematici, la funzione attrattiva/simbolica, quella di garanzia della qualità (più o meno ricondotte, a seconda dei casi, a quella distintiva) 8 . Con la riforma vengono meno anche tutte le norme che assicuravano un collegamento tra il marchio e la fonte d’origine individuata, cosicché è necessario ripensare, anche, alla funzione distintiva ampliandone la nozione9. Il fervente dibattito in ordine alle funzioni giuridicamente tutelate del marchio si snoda sul contenuto e sulle finalità del significato portato dal segno distintivo: in altre parole, sulle informazioni che il segno è chiamato a veicolare con riferimento ai prodotti e servizi che contraddistingue10. In tal senso, prendendo atto di una prassi largamente diffusa, sono riconosciute al marchio altre funzioni, attraverso cui la funzione distintiva si specifica. A tal proposito è riconosciuta la funzione di garanzia di costanza qualitativa, alla luce della quale si è soliti distingue tra i marchi generali e quelli speciali a seconda delle informazioni che il segno veicola. In particolar modo, sono i marchi generali che comunicano al cliente informazioni circa l’origine del prodotto. Si definiscono marchi generali quei segni che sono 7 SIRONI, Natura e funzioni del marchio, op. cit., 119; SIROTTI GAUDENZI, Proprietà intellettuale e diritto della concorrenza, UTET, Torino, 2008, 224; SIRONI, Art. 7, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffè, Milano, 2013, 82. 8 SANDRI, L’evoluzione della funzione del marchio nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Dir. ind., 2010, 451. 9 SIRONI, Natura e funzioni del marchio, op. cit., 120. 10 BOTTERO, TRAVOSTINO, I marchi d’impresa. Inquadramento dell’istituto, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, UTET, Torino, 2009, 4. 10 destinati a contrassegnare tutti i differenti prodotti provenienti da una stessa impresa, spesso coincidono con la ditta11. Ne sono esempio, “Microsoft” marchio generale che contraddistingue tutti i beni prodotti dall’omonima azienda informatica o, nel settore automobilistico, “Ford” che contrassegna tutte le vetture prodotte dall’impresa. I marchi speciali, invece, veicolano informazioni attinenti alle caratteristiche tecniche ed estetiche di un determinato prodotto; sono, infatti, quei segni utilizzati per contraddistinguere una singola tipologia di prodotto all’interno dei prodotti/servizi di una determinata impresa12. Riprendendo l’esempio di cui sopra, per quel che riguarda “Microsoft”, “Word”, “Excel”, “Power Point” sono alcuni dei marchi speciali che contrassegnano i differenti prodotti che compongono la suite di applicazioni dell’azienda; per quel che concerne “Ford” sono marchi speciali “Focus”, “Mondeo”, “Fiesta”, in quanto comunicano determinate caratteristiche delle automobili che contraddistinguono. La funzione distintiva del marchio può essere letta, inoltre, come garanzia di conformità del prodotto al messaggio intesa quale garanzia di veridicità delle informazioni che il segno veicola. A presidio di tale funzione vi è il divieto di uso ingannevole del marchio, che con le norme che sanciscono la nullità del marchio ingannevole e quelle che vietano che possa derivare inganno al pubblico dalla cessione o licenza del marchio, formano un vero e proprio “statuto di non decettività” dello stesso. Questo statuto garantisce al pubblico la veridicità dei messaggi comunicati dal marchio e sanziona, anche con la perdita del diritto esclusivo in capo al suo titolare, ogni ipotesi in cui quest’ultimo o terzi da lui autorizzati si servano del segno in modo da suscitare nel pubblico una convinzione che non rispecchia la verità dei fatti13. L’evoluzione della disciplina del marchio mette in luce il valore in sé del segno distintivo, che non è più strettamente connesso ai prodotti e servizi 11 RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino, 2012, 72. SIRONI, Natura e funzioni del marchio, op. cit., 121; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 153 ss; RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, op. cit., 72. 13 SIRONI, Art. 14, op.cit., 258. 12 11 che contraddistingue; aspetto quest’ultimo evidenziato pure dall’abolizione del vincolo aziendale (v. supra il riferimento all’art. 15 l.m.). Il segno non è più semplice latore di informazioni ma trova ed esaurisce in sé i significati, i valori, i messaggi di cui è significante, proiettandoli sul prodotto e sul servizio con cui si viene a trovare in relazione, qualsiasi essi siano14. Il consumatore, più o meno consapevolmente, acquista il prodotto, ma anche il segno che lo contrassegna, insieme ai valori ed ai significati di cui il marchio è portatore. A fronte di tale rilevanza dei valori legati ad un certo segno, il legislatore dispone una particolare tutela per quei marchi che godono di rinomanza, ossia che hanno grande notorietà presso il pubblico. Questi segni trovano nel nostro ordinamento una tutela allargata che si estende a tutti i casi in cui un terzo si impossessa del valore dell’altrui marchio, indipendentemente dal fatto che con ciò si verifichi “un rischio di confusione per il consumatore”. La concessione ai marchi celebri di una tutala allargata e talune norme che vietano l’approfittamento parassitario della rinomanza di tali segni, denotano che l’ordinamento protegge anche la cc.dd. funzione attrattiva o pubblicitaria del marchio che è da intendersi come tutela e riserva in esclusiva al titolare del marchio del potere di vendita che il segno presenta agli occhi del pubblico15 (cc.dd. selling power), ovvero della capacità del marchio di attrarre la clientela indipendente dai prodotti che contraddistingue e dall’azienda di riferimento. La tutela di tale funzione è commisurata ad un fattore socio-economico in precedenza considerato irrilevante, il capitale pubblicitario incorporato nel segno16. 14 BOTTERO, TRAVOSTINO, I marchi d’impresa. Inquadramento dell’istituto, op.cit., 7; GALLI, Comunicazione d’impresa e segni distintivi: le linee evolutive, in Dir. ind., 2011, 119 ss.. 15 SIRONI, Natura e funzioni del marchio, op. cit., 122; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 159 ss.; CGCE, 18 giugno 2009, in Giur. ann. dir. ind. 2009, n.5473, 1425. 16 LECCE, Il marchio nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2009, 28; RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, op.cit., 74. 12 2. Le tipologie di marchio In generale, possiamo distinguere diverse tipologie di marchio a seconda del bene che contraddistinguono e a seconda della composizione del segno in sé17. Per quanto concerna la prima classificazione vi sono i marchi di fabbrica che distinguono i beni e servizi come provenienti da una determinata impresa e i marchi di commercio apposti da un intermediario su prodotti realizzati da terzi. Il riferimento normativo è l’art. 2572 c.c., dove si riconosce al rivenditore la possibilità di apporre il proprio marchio sui beni vietando però di sopprimere il marchio del produttore18. Si distinguono, poi, i marchi di prodotti e i marchi di servizi ricollegandosi alla l. 24 dicembre 1959, n. 1178 che ha introdotto nel nostro ordinamento quest’ultima categoria19; in tal caso la differenziazione si fonda sull’oggetto che il segno connota, nel primo caso un bene materiale nel secondo, per l’appunto, un servizio. Tale classificazione ha dei riscontri per quel che concerne il giudizio di contraffazione e l’uso effettivo ai fini della decadenza. Un’ulteriore distinzione possibile, priva di origine legislativa, è quella fra marchi generali e speciali, a cui si è sopra accennato. Il marchio generale contraddistingue appunto la totalità della produzione di un’impresa; quello speciale si riferisce ad una singola tipologia di prodotto20. Un secondo criterio di classificazione riguarda, come già detto, la composizione del segno in sé. In tal senso distinguiamo i marchi denominativi (composti da una o più parole), i marchi figurativi (composti da disegni o elementi grafici) e i marchi misti (composti da parole e disegni). Recentemente si annoverano tra i segni distintivi i cosiddetti nuovi marchi, tra i quali vi sono i marchi sonori, i marchi olfattivi, i marchi di colore, i marchi di forma, i marchi di movimento, i marchi di posizione e quanti altri segni possono essere apposti sul 17 BOTTERO, TRAVOSTINO, I marchi d’impresa. Inquadramento dell’istituto, op.cit., 7. Il riferimento è presenta anche nel c.p.i. all’art. 20.3. 19 RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, op. cit., 72. 20 RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, op. cit., 72; BOTTERO, TRAVOSTINO, I marchi d’impresa. Inquadramento dell’istituto, op.cit., 8. 18 13 prodotto/servizio di un determinato imprenditore e far sì che sia distinguibile da quella dei concorrenti. A queste classificazioni si aggiunge quella tra marchio registrato e non registrato: il primo gode di una protezione rafforzata per il particolare procedimento amministrativo al quale è sottoposto, il secondo è tutelato dimostrando la sussistenza di determinate condizioni. Si distinguono poi i marchi individuali dai marchi collettivi, a seconda che il segno sia utilizzato dal singolo imprenditore o da imprenditori diversi che si obbligano a rispettare degli standard qualitativi. Infine, a seconda del grado di capacità distintiva di cui sono dotati i segni, si differenziano i marchi forti dai i marchi deboli. I primi sono dotati di un’impronta originale e di fantasia; i secondi sono formati da un nome comune o espressivo con qualche variante21. Sono considerati marchi forti i segni che non ravvisano alcuna attinenza concettuale con il prodotto che contrassegnano 22 ; i marchi deboli denotano, invece, una determinata inerenza concettuale con il prodotto che contraddistinguono 23 . A titolo esemplificativo, sono dotati di un’intrinseca debolezza, come si vedrà nel caso giudiziario tra le due case di moda analizzato al capitolo IV, i marchi composti da una sola lettera dell’alfabeto soprattutto laddove non siano qualificati da una particolare caratterizzazione grafica24. 3. I soggetti legittimati alla registrazione L’art.19 c.p.i. attribuisce la legittimazione alla registrazione di un marchio di impresa a chi “lo utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso”. Nella prima delle ipotesi colui che richiede la registrazione del 21 LECCE, Il marchio nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2009, 52. Ad esempio, Diesel (per abbigliamento), Canon (per macchine fotografiche). 23 Sono marchi deboli Scarpe&Scarpe (per scarpe), Lemonsoda (per bevanda al limone). 24 Il riferimento è alla “G” utilizzata da Gucci di cui la controparte richiedeva la nullità per mancanza di capacità distintiva. 22 14 segno lo sta già utilizzando nella propria attività economica e richiede la formalizzazione del diritto di esclusiva sull’uso dello stesso, si parla in tal caso di marchio di fatto con riferimento ad un segno utilizzato dall’imprenditore con funzione distintiva senza che vi sia ancora intercorsa la registrazione25. Vi è, poi, l’ipotesi nella quale il richiedente si proponga di utilizzare il segno di cui chiede la registrazione solo dopo quest’ultima. La norma, dunque, prevede che chiunque possa registrare un marchio, anche il non imprenditore o chi non si proponga di diventarlo, salvo l’utilizzo diretto o indiretto del segno nell’attività economica a pena della decadenza per non uso26. Nonostante la norma, di cui all’art. 19, preveda che chiunque possa registrare un segno come marchio, sussistono delle limitazioni derivanti da diritti anteriori di terzi su un determinato segno che impediscono ad altri soggetti di effettuare legittimamente il relativo deposito. Il riferimento è alle ipotesi, ai sensi dell’art. 12 c.p.i., in cui un terzo vanti un diritto d’esclusiva anteriore sul marchio che determina il venir meno della novità del segno posteriore: quest’ultima è, infatti, uno dei requisiti necessari per la validità della registrazione, di cui si dirà nel prosieguo della trattazione. Come disposto dall’art.19, co. 2, c.p.i., non può ottenere la registrazione del marchio chi abbia fatto la domanda in malafede. La norma ha un carattere residuale che deve attribuirsi al limite rappresentato dalla malafede del registrante: la registrazione ottenuta dal richiedente in malafede è formalmente e contenutisticamente inoppugnabile sotto ogni altro punto di vista, fuorché per lo stato soggettivo sussistente nel soggetto al momento della presentazione della domanda 27 , a causa di tale stato, il soggetto richiedente non può essere considerato meritevole di tutela. In generale, si è in presenza di malafede qualora si verifichi una condotta disonesta o laddove il depositante tenga un comportamento contrario ai principi di correttezza comunemente accettati28 ma tale stato può essere presente in tutte le ipotesi in cui il depositante sia consapevole dell’esistenza di diritti 25 FREDIANI, Commentario al nuovo Codice della proprietà industriale, Halley, Metalica, 2006, 52. VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 213 ss.; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 67 ss.; SIRONI, Legittimazione alla registrazione del marchio e soggetti aventi diritto, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 136. 27 LAUDONIO, MALTE MULLER, La malafede nella registrazione dei marchi, in Riv. Dir. Ind., 2012, 40. 28 SIRONI, Legittimazione alla registrazione del marchio e soggetti aventi diritto, op.cit., 147. 26 15 anteriori sul marchio. Tuttavia, quest’ultime sono regolate da altre norme; dunque al divieto di registrazione per malafede è lasciata una funzione di chiusura del sistema, è, infatti, applicabile ogni qualvolta non sia possibile fare appello ad un’altra norma29. Tali casi sono stati tipizzati da dottrina e giurisprudenza. 4. I requisiti di validità della registrazione I diritti esclusivi sono conferiti al richiedente con la registrazione del segno. Il procedimento amministrativo è disciplinato dagli artt. 147 ss. c.p.i. e dalla norme contenute nel d.m. 13 gennaio 2010, n. 3330. Alla registrazione di un segno si procede depositando domanda presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi oppure presso le Camere di commercio e presso determinati uffici o enti pubblici, che, a loro volta, trasmettono la domanda all’UIBM. La domanda dovrà contenere l’indicazione del richiedente, eventuale rivendicazione di priorità, la raffigurazione grafica del segno e l’elenco dei prodotti per i quali si richiede la registrazione. Una volta compiuti tali adempimenti, l’UIBM procede ad una verifica della regolarità e di conformità della domanda ai requisiti richiesti, di cui si dirà nel seguito della trattazione. Se l’Ufficio non evidenzia irregolarità, pubblica la domanda ritenuta registrabile nel Bollettino ufficiale dei marchi (di cui all’art.187 c.p.i.). In secondo luogo, se non vi sono né impedimenti assoluti, né opposizioni di terzi basate su eventuali impedimenti relativi, l’UIBM registra il segno come marchio. Una volta concessa la registrazione del marchio, i suoi effetti, in base all’art. 15, co. 2, c.p.i., risalgono alla data di deposito della domanda, cosicché anche gli usi di terzi nel periodo intermedio tra deposito e registrazione 29 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 223-224; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 72; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino, 2012, 115. 30 Il decreto ministeriale è volto a semplificare le procedure con l’intento di garantire una maggiore tutela ai titoli di proprietà industriale. Nella domanda di registrazione del marchio, in particolare, devono essere bene specificate le generalità del richiedente, oltre al tipo di marchio ed una riproduzione dello stesso. 16 costituiscono a tutti gli effetti contraffazione31. Ai sensi dell’art. 15.4, c.p.i., la registrazione ha validità decennale ma può essere rinnovata alla scadenza. Affinché un marchio sia validamente registrato deve presentare, come già detto, determinati requisiti come disposto negli artt. 7-10, 12, 13, 14 co.1 del c.p.i.. Nel prosieguo della trattazione si farà, invece, riferimento alla terminologia comunitaria (artt. 3 e 4 dir. CE 2008/95 e artt. 7 e 8 RMC) che parla di impedimenti alla registrazione più che di requisiti di validità del marchio32. Facendo riferimento alla Direttiva europea, possiamo suddividere i presupposti per la registrazione di un segno come marchio in due gruppi relativi, il primo, alla natura del segno e all’idoneità a svolgere la sua funzione principale, quella distintiva, e l’altro all’incompatibilità del segni con quello già registrati da terzi. Il primo insieme raggruppa requisiti che sono a presidio della funzione essenziale del segno e degli interessi generali della collettività, in assenza di questi sussistono impedimenti assoluti alla registrazione. In tale ottica, si ha una valida registrazione se il segno è suscettibile di essere rappresentato graficamente, è autonomo rispetto al prodotto che contraddistingue, è dotato di capacità distintiva ed è lecito. Il secondo gruppo di requisiti attiene alla tutela dei diritti di terzi, un segno per essere registrato validamente non deve essere confondibile con altri marchi precedentemente registrati, marchi di fatto o altri segni distintivi, deve, quindi, possedere il requisito della novità33. In ragione di questa differente natura gli impedimenti assoluti possono essere fatti valere da chiunque vi abbia interesse e, sulla loro base, può essere promossa una causa di nullità del marchio anche dal Pubblico Ministero; gli impedimenti relativi, invece, possono essere fatti valere solo dal titolare di diritti anteriori o dal suo avente causa34. 31 SIRONI, Acquisto dei diritti sul marchio registrato. Registrazione e rinnovazione, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 210. 32 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 151 ss.; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 81 ss.; BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, UTET, Torino, 2009, 13 ss.. 33 BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 14. 34 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 152. 17 4.1 Gli impedimenti assoluti alla registrazione 4.1.1. I segni non rappresentabili graficamente Il già citato art. 7 del c.p.i enuncia che possono essere registrati come marchi d’impresa “tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche”. E’ necessario che il segno sia definito in modo chiaro, stabile e preciso in modo da andare incontro ad esigenze di certezza nell’individuazione dell’entità da registrare o registrata, sia da parte degli uffici preposti alle registrazione, sia da parte dei consumatori e degli altri operatori del settore35. La condizione risponde, per lo più, alle esigenze di non incorrere in violazioni del diritto di terzi da parte di soggetti che sono intenzionati ad utilizzare un segno sul mercato, facilitando la tutela contro azioni di contraffazione o utilizzi non autorizzati del segno. Per conseguire questo risultato occorre, per l’appunto, fissare, al momento della registrazione, l’oggetto del diritto in modo chiaro, intellegibile, durevole e, per quanto possibile, oggettivo e quindi non soggetto ad interpretazioni o modificazioni che ne possono alterare, nel tempo, la sostanza 36. Tra i marchi convenzionali il nostro ordinamento riconosce i marchi denominativi, vale a dire quelli composti da parole (che comprendono anche i nomi di persona), lettere e/o numeri e slogan; discussa è, invece, la registrazione di titoli e testate di periodici. Per quel che riguarda i segni composti da una singola lettera o numero, la dottrina e la giurisprudenza37 hanno recentemente sostenuto la tutelabilità di tali marchi, nonostante la precedente formula dell’art. 1, co.1, l.m. 35 SIRONI, Segni registrabili come marchio, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 128; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 165. 36 BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 16. 37 Cass., 25 giugno 2007, n. 14684, in Giur. dir. ind., 2008, 39. 18 anteriore al 1992 ne negasse la valida registrazione in quanto segni di uso generale. Le singole lettere o cifre in sé non sono, tuttavia, appropriabili come marchi ma possono essere registrate e protette solo nella specificità della loro caratterizzazione grafica, dalla quale possono ricevere quella capacità distintiva, di cui si dirà in seguito, che loro altrimenti mancherebbe38. La rappresentazione grafica di tali segni, a tal scopo, deve essere corredata da un grafismo che risulti particolarmente individualizzante. Per quel che riguarda la “forza” e la “debolezza” di tali marchi, questa va tuttavia, affermata o negata non già in ragione dell’appartenenza delle lettere dell’alfabeto ai segni di linguaggio, ma in funzione della capacità distintiva di cui lo specifico segno sia dotato39. In tal senso, nella sentenza di cui si dirà, il Tribunale di Milano ha dichiarato la nullità della lettera “G” circondata da pallini di Gucci, considerandola una rappresentazione banale e scarsamente significativa, quindi priva di capacità distintiva40. I marchi figurativi o emblematici, invece, sono composti da disegni o composizioni grafiche, figurative o astratte. Si possono registrare come segni anche i marchi misti consistenti in parole e figure. Vi sono, poi, i cc.dd. marchi non convenzionali che comprendono i segni di difficile rappresentazione grafica come gli odori, i suoni, i gusti o tonalità cromatiche. Questi sono detti anche nuovi marchi e la discussione riguardo alla loro registrabilità si è sviluppata soprattutto in ambito comunitario, anche grazie a talune pronunce della Corte di Giustizia. Secondo quanto affermato dalla CGCE, “può costituire un marchio d'impresa un segno che di per sé non è suscettibile di essere percepito visivamente, a condizione che esso possa essere oggetto di una rappresentazione grafica - in particolare mediante figure, linee o caratteri che sia chiara, precisa, di per sé completa, facilmente accessibile, intellegibile, durevole ed oggettiva”41. In particolare, per quel che riguarda i marchi di colore, il diritto comunitario, a differenza della legislazione italiana che esclude da registrazione le 38 RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 86. SIRONI, Art. 7, op.cit., 2013, 95; Trib. Torino, 26 novembre 2007, in Giur. ann. dir. ind., 2008, 589. 40 V. Trib. Milano, 2 maggio 2013, in Dir. giust., n. 4792, 2013. 41 CGCE, 12 dicembre 2002, in Giur. ann. dir. ind,. 2004, n. 4763, 1255. 39 19 tonalità c.d. pure42 e che ammette solo segni costituiti da una particolare combinazione di colori diversi o tonalità particolari 43 , consente la registrazione come marchi di tutti i colori44, per quanto quest’ultimi non siano espressamente menzionanti tra i segni registrabili. Per quel che riguarda la rappresentazione grafica, posto che questa dovrebbe essere sempre chiara, precisa, completa, facilmente accessibile, costante ed oggettiva, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza comunitaria 45 , risulterebbe inidonea la rappresentazione mediante il deposito di un campione su una superficie in quanto soggetto ad alterazioni. Al contrario, costituirebbe sempre idonea rappresentazione l’identificazione del colore tramite il codice Pantone internazionalmente riconosciuto. Altri ostacoli alla registrazione riguardano la valenza funzionale di determinati colori per certi prodotti o il fatto che una determinata colorazione può dare un valore sostanziale al prodotto: il problema viene risolto escludendo i colori dalla registrazione mediante un’applicazione degli impedimenti contenuti nell’art. 9 c.p.i. analoga a quella delle forme, di cui si dirà46. Possono in linea generale essere registrati come marchi anche quelli gustativi o di movimento. A tal proposito la giurisprudenza ha, però, negato la registrabilità del “sapore artificiale di fragola” e dell’ “apertura dall’alto della portiera delle vetture Lamborghini”47. Tra i marchi non convenzionali rientrano anche i marchi tattili e di posizione. In generale, permangono le difficoltà nel dare un’adeguata rappresentazione grafica a tali marchi la cui domanda di registrazione è il più delle volte rigettata. A titolo esemplificativo, tra le domande di registrazione accolte c’è quella dell’ “odore di erba appena tagliata” per contraddistinguere palline da tennis, 42 Trib. Milano, 7 giugno 2007, in Giur. ann. dir. ind., 2007, 829. VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 173; SIRONI, Segni registrabili come marchio, op.cit., 131-132. 44 CGCE, 24 Giugno 2004, in Giur. dir. ind., 2004, 1423. 45 CGCE, 6 maggio 2003, in Giur. dir. ind, 2003, 1283. 46 SIRONI, Segni registrabili come marchio, op.cit., 132. 47 BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 26 ss; v. Commissione di ricorso dell’UAMI, 4 agosto 2003, in proc. R-120/2001-2; v. Commissione di ricorso dell’UAMI, 23 settembre 2003, in proc. R-772/2001-1. 43 20 in quanto l’odore in oggetto è stato ritenuto ben riconoscibile da tutti per esperienza diretta48. 4.1.2 Il principio di estraneità del marchio al prodotto Un secondo impedimento assoluto alla registrazione del segno è l’assenza di autonomia rispetto al prodotto. La valida registrazione viene, infatti, condizionata alla circostanza che il segno sia in sé idoneo a distinguere i prodotti provenienti da un’impresa da quelli provenienti dalle altre e il marchio sia separabile dal prodotto senza alterarne la natura, sia cioè estraneo al prodotto stesso e alle sue qualità. Questo tema è strettamente correlato a quello dei marchi di forma, il quale principio sembrerebbe escluderne la possibilità di tutela; in realtà, la forma alla quale ci si riferisce non è quella strettamente legata alla natura del prodotto, ma alla sua struttura funzionale composta da elementi aggiuntivi che possono venir meno senza che il prodotto perda la sua utilità49. 4.1.3 (segue) I marchi di forma I marchi di forma o tridimensionali sono costituiti dalla confezione o dalla forma del prodotto a cui è attribuita una funzione distintiva. In riferimento a tali marchi l’art. 9 c.p.i esclude la registrabilità dei “segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che da un valore sostanziale al prodotto”. La forma conferita dalla natura del prodotto e le forme funzionali sono escluse dalla registrazione per evitare il monopolio che verrebbe a costituirsi in capo al titolare del marchio potendo questi impedire che altri imprenditori possano validamente produrre un oggetto dotato di talune caratteristiche che lo rendono idoneo all’uso cui è diretto50. Per quel che riguarda il concetto di “forma”, rientrano 48 TREVISAN, CUOZZO, Proprietà industriale, intellettuale e IT, Ipsoa, Milano, 2013, 139. BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 29; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 166-167. 50 RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 85. 49 21 nell’ambito di applicazione dell’art. 9 c.p.i. tutti i segni costituiti dall’aspetto esteriore del prodotto51. Dunque la forma non è necessariamente un segno tridimensionale, potendo trattarsi anche di elementi bidimensionali intrinsecamente connessi al prodotto, quali particolari disegni o lavorazioni apposte su un prodotto e i caratteristici tessuti utilizzati da molte case di moda52. Per quanto riguarda la forma naturale del prodotto, la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell’affermare che debba trattarsi della forma naturale o standardizzata essenziale all’esistenza stessa del prodotto, quindi priva di capacità distintiva 53 . Ne sono esempio la forma di uno schiaccianoci o di un pallone, la cui valida registrazione provocherebbe il monopolio di un tipo di prodotto54. La “forma necessaria per ottenere un risultato tecnico” è, invece, la forma funzionale, dettata da ragioni di utilità tecnica, e quindi non monopolizzabile, appunto, se non nei limiti e secondo le regole proprie dei brevetti per invenzione o per modello di utilità55; inoltre, una forma proteggibile con brevetto non è tutelabile come marchio in virtù della non cumulabilità delle due protezioni. Più problematico appare il tema riguardante le forme che conferiscono un valore sostanziale al prodotto: non è registrabile come marchio quella forma ornamentale il cui pregio superi una determinata soglia ovvero quella che incide significativamente sulla valutazione del prodotto ed è determinante nella scelta di acquisto da parte del consumatore56. L’accento posto dalla giurisprudenza è sul valore sostanziale della forma laddove apporti un vantaggio competitivo significativo57. Il carattere sostanziale della forma è, talvolta, influenzato dalla tipologia di prodotti cui si riferisce, in particolare l’impedimento è pensato essenzialmente per i prodotti della moda, 51 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 173. SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 80; ne sono esempio i noti tessuti Burberry, Vuitton, Gucci. 53 V. Cass., 23 novembre 2001, in Giur. ann. dir. ind. 2002, n. 4334, 11; Trib. Venezia, 10 aprile 2006, in Giur. ann. dir. ind. 2006, n. 5026, 742. 54 RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 95; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 172. 55 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 81. 56 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 170; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007,82; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 96. 57 In tal senso v. Trib. Torino, 14 novembre 2008, Riv. dir. ind. 2009, II, 289. 52 22 dell’arredamento e dell’industrial design 58 . Ancora, l’impedimento è applicabile se la forma rappresenta, per le sue caratteristiche intrinseche, ragione d’acquisto per il consumatore, ma non lo è se un determinato prodotto viene acquistato perché noto al pubblico come forma caratteristica di una determinata impresa: in quest’ultimo caso, infatti, la forma attrae il consumatore non come forma in sé, ma come segno distintivo 59. Per concludere, se il prodotto viene acquistato in ragione della sua forma come indice di provenienza da una certa impresa, la forma medesima è suscettibile di registrabilità come marchio di forma; se l'acquisto del prodotto dipende, invece, dalla forma in funzione meramente estetica, essa è brevettabile come disegno o modello60. 4.1.4 L’assenza di capacità distintiva Si è detto più volete che per poter essere registrato validamente il segno deve essere dotato di capacità distintiva. L’art.13.1 del c.p.i. dispone che non possono essere registrati come marchi “i segni privi di carattere distintivo e in particolare: a) quelli che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio; b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l'epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”. L’esigenza alla base della disposizione, come rimarcato dalla dottrina italiana61, è il libero utilizzo dei segni da parte degli operatori di settore che 58 SARTI, Segni distintivi e denominazioni d’origine, in AA.VV., La proprietà intellettuale, Giappichelli, Torino, 2011, 51; ROSSI, Art. 9, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà intellettuale, Giuffrè, Milano, 2013, 151. 59 GALLI, Comunicazione d’impresa e segni distintivi: le linee evolutive, in Dir. ind., 2011, 125; BOGNI, Il design: registrazione e tutela di fatto dei diversi valori delle forme, in Dir. ind., 2011, 136. 60 FIGINI, TETTAMANTI, Sentenza Gucci: tra marchio di forma e modello ornamentale, in Norme & Tributi, fascicolo 5, 2013, 13. 61 RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 86 ss; SARTI, Segni distintivi e denominazioni d’origine, op.cit., 44-45; BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 36. 23 verrebbero ostacolati se termini di impiego comune fossero oggetto di appropriazione in esclusiva come marchi62. La presenza o meno del carattere distintivo, ovvero della capacità del segno di comunicare al pubblico l’origine del prodotto, deve essere valutata con riferimento ad “un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto” 63 , come disposto da numerose pronunce della CGCE. La capacità distintiva del marchio può in oltre essere legata alla percezione del consumatore di riferimento, in particolare, nel caso di prodotti destinati ad un pubblico specialistico, si deve tener conto del fatto che questo pubblico può percepire nel segno un’indicazione descrittiva in termini tecnici sconosciuti al di fuori della cerchia di riferimento64. Tale carattere distintivo può, inoltre, variare nel tempo: può accadere, infatti, che l’uso nel tempo diminuisca la percezione del segno quale marchio o che la capacità distintiva del marchio accresca; ancora, un segno originariamente privo di capacità distintiva la può acquisire o, al contrario, può verificarsi la perdita del carattere distintivo di un segno che in origine ne era provvisto. Prima delle influenze da parte della giurisprudenza comunitaria, nel nostro paese si annoveravano tra i segni privi di capacità distintiva le denominazioni generiche, le indicazioni descrittive e i segni divenuti di uso comune. A seguito delle decisioni della Corte di Giustizia UE e del Tribunale UE, devono considerarsi privi di tale caratteristica, oltre alle denominazioni generiche e le indicazioni descrittive (cui si riferisce l’art.13.1 b) c.p.i.), anche i segni che vengono percepiti dal pubblico non come segni distintivi, e quindi come un’indicazione dell’origine imprenditoriale del prodotto o servizio, bensì come elementi strutturali del prodotto cui sono pertinenti, ovvero come slogan pubblicitari65. 62 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 155. Ad esempio, CGCE, 12 febbraio 2006, causa C-173/04P, in Giur. ann. dir. ind. 2006, n. 5051, 1053; CGCE, 3 settembre 2009, causa C-498/07P, in Foro.it, 2009, 541. 64 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 157. 65 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 175-176. 63 24 Tra i segni tradizionalmente privi di capacità distintiva, l’art.13.1, lett. b), come supra riportato, individua quei segni costituiti “esclusivamente” da denominazioni generiche o indicazioni descrittive e stilla un elenco, non tassativo, degli elementi in relazione ai quali il segno può presentare, appunto, una valenza descrittiva 66 . Con denominazioni generiche si intendono le parole, figure o altri segni che indicano, nel linguaggio o nei mezzi di comunicazione comuni, il prodotto67. Sono escluse, ad esempio, da una possibile registrazione l’utilizzo della denominazione “pesce” o della raffigurazione di un pesce per contrassegnare un prodotto ittico. Possono, al contrario, essere registrati segni generici inseriti all’interno di un marchio complesso, ovvero arricchiti o modificati da prefissi, suffissi o combinati con altre parole (ad esempio, “Oransoda” per contraddistinguere bibita al gusto di arancia). In quest’ultimo caso, infatti, l’elemento descrittivo è arricchito da elementi distintivi; tali segni sono denominati “espressivi” in quanto, per l’appunto, esprimono una caratteristica del prodotto68. Inoltre, l’impedimento non trova applicazione se vengono impiegati come marchi parole di fantasia o segni che hanno un proprio significato lessicale nel linguaggio comune ma sono privi di aderenza concettuale con il prodotto che contrassegnano (ad esempio, “Puma” nel designare scarpe sportive). Sono considerati marchi descrittivi e, dunque, invalidi i cc.dd. marchi geografici, se sono idonei ad avere una qualche rilevanza sull’impressione che il consumatore riserva ai beni o servizi prodotti in quel determinato luogo. Una seconda ipotesi di segni privi del carattere distintivo, come disposto dall’art. 13.1, lett. a), è quella dei segni divenuti di uso comune. Tali segni, pur non avendo valenza descrittiva, sono utilizzati di frequente nel commercio per esaltare le qualità dei prodotti, per una generica magnificazione o per collocarli all’interno di una classe merceologica 69. Ne sono esempio, parole quali “super”, “extra”, “ultra”, “universal”, “standard” e 66 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 158. FRANZOSI, Marchi descrittivi, suggestivi, arbitrari, di fantasia, in Dir. ind., 2002, 125. 68 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 160-161; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 89. 69 GALLI, I segni distintivi e le denominazioni d’origine, in GALLI (a cura di), Codice della proprietà industriale: la riforma 2010, IPSOA, Milano, 2010, 31; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 176 ss.; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 162. 67 25 segni figurativi quali una croce per designare farmaci o una saetta per dispositivi elettrici. Come sostenuto dalla dottrina nazionale anche i numeri e le singole lettere dell’alfabeto, se non caratterizzati da particolari configurazioni grafiche, non sono registrabili come marchi in quanto ritenuti segni di uso comune. Tale impedimento fa riferimento al fatto che numeri e lettere, dato il loro impiego generalizzato del commercio, anche per comporre sigle o abbreviazioni, dovrebbero restare, come più volte sottolineato, di libero impiego. La loro eventuale validità deve essere valutata caso per caso considerando l’uso comune in relazione al genere di beni per i quali si richiede la registrazione e eventuali particolarità grafiche del segno. La Corte di Cassazione ha ritenuto, infatti, che lettere e numeri non possono essere automaticamente ritenuti segni di uso comune, essendo invece onere di chi contesta la loro valida registrazione come marchio dimostrare che nella fattispecie concreta essi sono effettivamente tali70. Un’ ultima categoria di segni privi di carattere distintivo individuati dalla giurisprudenza comunitaria e, successivamente, anche dalla dottrina nazionale comprende tutti quegli elementi del prodotto che non comunicano l’origine imprenditoriale di quest’ultimo: ci si riferisce, in particolare, alle forme, confezioni e colori. In talune ipotesi, infatti, questi vengono visti come una caratteristica intrinseca del prodotto senza essere percepiti dal pubblico come marchi. A questi segni è riconosciuta una capacità distintiva solo se divergono in maniera significativa da quelli a cui il consumatore è abituato71. Più difficilmente si individuano marchi denominativi o figurativi che non sono descrittivi o di uso comune ma che sono comunque privi di capacità distintiva72. L’art. 13, c.p.i. prevede, inoltre, come già sottolineato, che la capacità distintiva del segno possa variare nel tempo considerando sia l’ipotesi in cui un segno, inizialmente privo del carattere distintivo, a seguito dell’utilizzo 70 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 165; il riferimento è alla posizione della Cassazione in Cass. 25 giugno 2007, n. 14684, in Giur. ann. dir. ind. 2008, n. 5207, 39. 71 Sul punto CGUE, 20 ottobre 2011, cause riunite C-344/10P e C-345/10P secondo cui “la percezione del consumatore medio non è la stessa nel caso di un marchio tridimensionale, costituito dalla forma del prodotto stesso, e nel caso di un marchio denominativo o figurativo, rappresentato da un segno indipendente dall’aspetto dei prodotti che contraddistingue”; CGCE, 6 maggio 2003, causa C-104/01, in Giur. ann. dir. ind. 2004, n. 4765, 1283. 72 Ipotesi emerse si riferiscono a cognomi di particolare diffusione, slogan, lettere o numeri non di uso comune. 26 l’acquisti, sia l’ipotesi in cui un segno, inizialmente dotato di capacità distintiva, la perda (si parla in tal caso di volgarizzazione, v.infra). In particolare, il secondo comma dell’art. 13 c.p.i. afferma che “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell'uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo”. Il fenomeno è, però, assai raro in giurisprudenza e la disposizione risulta superflua in quanto, non vi sarebbe ragione di escludere dalla registrazione un segno già dotato di capacità distintiva al momento della domanda73. Oltre a questo, non può essere dichiarato o considerato nullo un marchio se per l’uso che ne è stato fatto ha acquisito capacità distintiva prima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità. La legge prevede, dunque, la sanatoria di vizi originari del segno o della registrazione con la riabilitazione di un marchio all’origine sicuramente generico, che però, tramite l’uso che ne è stato fatto nel tempo, ha acquistato un significato ulteriore (per l’appunto, un secondary meaning, secondo la terminologia anglosassone), che, convivendo con il significato “ordinario”, ha consentito di individuare un determinato bene o servizio 74 . L’acquisto del carattere distintivo suppone che il segno, a seguito del suo utilizzo per contrassegnare i prodotti, possa essere percepito come marchio da parte del pubblico di riferimento che abituandosi a questo uso, comincia a collegare il segno al soggetto da cui provengono e a vedere in questo un’indicazione di origine imprenditoriale 75 . Il marchio acquista capacità distintiva se vi è il riconoscimento del segno come marchio da una parte di una frazione significativa del pubblico di riferimento; è lasciata ai giudici nazionali la facoltà di stabilire di caso in caso la soglia rilevante76. In particolare la giurisprudenza italiana, per valutare l’acquisto di capacità distintiva del marchio dispone una valutazione globale del caso concreto e ne valuta alcuni fattori tra i quali l’intensità, l’estensione geografica, la quota 73 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 166; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 183; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 95-96. 74 BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 43. 75 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 168. 76 Vedi sul punto Trib. UE, 29 aprile 2004, T-399/02, in Giur. ann. dir. ind. 2004, n.5055, 1105. 27 di mercato, la durata dell’uso del marchio e gli investimenti effettuati a livello promozionale77. 4.1.5. L’illiceità Un’ ulteriore causa di non registrabilità del marchio o di nullità dello stesso laddove ne sia stata concessa la registrazione è l’illecità del segno. A tale impedimento vengono ricondotte una serie di fattispecie previste dalla legge che sono eterogene fra loro. Sono considerati illeciti i segni contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume. La disciplina nazionale, a differenza di quella comunitaria, è più restrittiva prevedendo, per l’appunto, anche l’illeceità del marchio contrario alla legge. Quest’ultima fattispecie è destinata ad essere applicata in rare occasioni e comprende tutti quei casi in cui il segno, oggetto di registrazione, contrasti con il divieto posto da una disposizione; in genere i divieti a cui ci si riferisce sono quelli contenuti in norme esterne a quelle sui marchi78. Si parla di segni contrari all’ordine pubblico in tutti quei casi in cui il segno contrasti con i principi fondamentali su cui è fondato l’ordinamento dello Stato 79 . Sono esempi di segni non registrabili per motivi riconducibili ai divieti imposti dall’ ipotesi in esame, il fascio littorio o la svastica nazista. Sono considerati, infine, segni contrari al buon costume quelli che si pongono in contrasto con il comune senso del pudore (v. art. 529 c.p.) 80. Il nostro ordinamento prevede, anche, il caso in cui tale contrarietà (alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume) sopravvenga nel tempo, in seguito, deve ritenersi, a modifiche intervenute nell’ordinamento o nel costume (art. 14.2 b) c.p.i.)81. 77 Trib. Torino, 19 ottobre 1999, in Giur. ann. dir. ind.,2000, 448; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 185; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 170; LECCE, Il marchio nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2009, 62. 78 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 187 s.; in riferimento a tale ipotesi è stato ritenuto illecito il marchio “I Grandi Veggenti d’Italia”, v. Trib. Milano, 14 febbraio 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2005, n. 4854, 687. 79 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 187. 80 Si veda il caso della A maiuscola unita a due punti, sul caso Trib. Milano, 17 dicembre 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2006, n.4990, 569. 81 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 101. 28 L’ art. 14.1 b) considera illeciti anche i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi. La norma va coordinata con la previsione relativa alla decadenza del marchio per decettività sopravvenuta del segno, di cui all’art. 26 c.p.i.82. L’ingannevolezza del pubblico è valutata con riferimento al consumatore medio “normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”83. Sono, infine, illeciti gli stemmi, gli emblemi ed altri segni considerati in convenzioni internazionali o di interesse pubblico (di cui all’ art.10 del c.p.i.). 4.2 Gli impedimenti relativi alla registrazione 4.2.1 La novità del marchio La novità del marchio attiene alla diversità del segno rispetto ad altri marchi o segni distintivi ed, in particolare, a quelli eguali o simili sui quali un terzo abbia acquistato un diritto anteriore al deposito della domanda di registrazione. L’art. 12 c.p.i. enuncia le ipotesi nelle quali sussiste un’interferenza dell’ambito d’esclusiva acquisito da terzi e, dunque, quando si determina una mancanza di novità del segno. Le lettere a), b) e f) fanno riferimento a marchi di fatto o altri segni distintivi non registrati preusati da terzi; le lettere c), d) ed e) riguardano, invece, il conflitto con marchi registrati preesistenti. In base alla lett. a) dell’art.12 c.p.i., sono privi di novità i segni che “siano identici o simili ad un segno già noto come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell'identità o somiglianza tra i segni e dell'identità o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni”. Per quel che riguarda il requisito della “notorietà”, si considera noto il marchio che sia conosciuto presso il pubblico 82 83 RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 97. V. Cass., 26 marzo 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, n. 4630, 95. 29 interessato, non essendo considerata condizione sufficiente la semplice adozione del segno come marchio84. Non si tratta, tuttavia, di una mera conoscenza del segno ma di una notorietà “qualificata”, ovvero è necessario che il segno sia percepito dal pubblico come marchio, ossia come un’indicazione della provenienza imprenditoriale del prodotto85; la notorietà del marchio di fatto deve, dunque, raggiungere una certa “significatività” (c.d. notorietà generale). Per evitare che l’uso precedente del segno scarsamente rilevante presso il pubblico determini una condizione di nullità del marchio posteriore registrato, l’art. 12.1 a) dispone che un preuso, laddove non comporti una notorietà generale del segno o, comunque, comporti una notorietà puramente locale, “non toglie la novità, ma il terzo preutente ha diritto di continuare nell'uso del marchio”86. La notorietà del segno può, inoltre, variare nel tempo passando da generale a locale o, per converso, da locale a generale87. Quanto poi alla dimensione territoriale della notorietà, è pacifico che non occorre, affinchè possa aversi notorietà “generale”, una notorietà estesa all’intero territorio nazionale, cosicché possa riconoscersi l’impedimento anche di fronte a marchi di fatto noti solo in una parte del paese88. Se il marchio preusato gode di notorietà generale, il marchio posteriore sarà privo di novità se ricorre l’ulteriore condizione, di cui all’art. 12, ovvero il rischio di confusione o associazione, di cui si dirà nel capitolo dedicato alla tutela del marchio. 84 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 193; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 106 s.; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 193; TRAVOSTINO, Gli impedimenti relativi alla registrazione, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009, 86; SIRONI, Art. 12, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffè, Milano, 2013, 181. 85 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 188; SARTI, L’impresa nel mercato, in AA. VV., Diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2012, 246; TRAVOSTINO, Gli impedimenti relativi alla registrazione, op.cit., 87. 86 In merito, Cass., 26 settembre 2003, n. 14342, in Giur. dir. ind. 2004, 50, afferma che “mentre nel caso di uso precedente di un marchio non registrato, che non importi notorietà di esso o che importi notorietà puramente locale, il preutente ha diritto di continuare l’uso del marchio nei limiti della diffusione locale, ma la successiva registrazione del segno da parte di un terzo è legittima, nel caso di preuso di un marchio non registrato con notorietà generale l’uso è idoneo a togliere al marchio successivamente registrato il carattere della novità così da rendere invalida la registrazione”. 87 SIRONI, Art. 12, op.cit., 185. 88 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 188; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 195. 30 Le lett. c), d) ed e) dell’articolo in esame, disciplinano il conflitto tra un marchio posteriore privo di novità e il marchio precedentemente registrato. Affinché si verifichi tale tipo di conflitto, l’elemento formale necessario è il deposito anteriore della domanda di marchio cui sia seguita una valida registrazione 89 . Nonostante la norma faccia riferimento a marchi già registrati in Italia o con efficacia nel nostro paese, il conflitto può verificarsi anche in relazione a marchi comunitari o internazionali estesi all’Italia90. Per stabilire quale marchio sia anteriore, ci si riferisce, in generale, alla data di deposito della domanda di registrazione. Vi sono, però, alcune eccezioni in cui si deve far riferimento ad una data anteriore alla data di deposito: ad esempio, in riferimento alla priorità disposta dall’art. 4 c.p.i. oppure, ai sensi degli artt. 34 e 35 RMC, qualora sussista una “valida rivendicazione di preesistenza”. Ai sensi dell’art. 12, co. 1, c.p.i., si verificherà una mancanza di novità laddove il marchio posteriore sia identico a quello anteriore e ne sia depositata domanda di registrazione per prodotti identici (lett. c)); “possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione” (lett. d)); o il marchio anteriore goda di rinomanza e quello posteriore rechi pregiudizio alla sua rinomanza o alla capacità distintiva (lett. e))91. Nel valutare la novità vanno posti a confronto i segni come risultanti dalle rispettive registrazioni e i prodotti in esse indicati; il giudizio di novità assumere, così, un carattere astratto non facendo riferimento a specifiche modalità d’uso e al contesto in cui questo avviene92. Solo nel caso dei marchi che godono di rinomanza è inevitabile considerare nella valutazione elementi che dipendono dal contesto concreto d’uso e di conoscenza del marchio anteriore93. A differenza del marchio di fatto, il marchio registrato priva di novità il segno posteriore anche in mancanza di una notorietà “qualificata”. Ai sensi dell’articolo in esame, il marchio anteriore, nel caso non sia più “vitale”, ovvero sia scaduto 89 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 194 ss.; SIRONI, Art. 12, op.cit., 196. SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 201. 91 Ipotesi parallele sono previste all‘art. 20, co.1 c.p.i., di cui si tratterà nel prosieguo della trattazione; in dottrina vi è, infatti, “un parallelismo fra definizione del potere invalidante del marchio anteriore e limiti della tutela contro le violazioni del diritto”; v. sul punto VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 203-204. 92 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 122; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 194 ss.; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 202. 93 Sul punto, VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 202 ss.. 90 31 o decaduto per non uso, non priva di novità quello posteriore. Per quel che riguarda i marchi scaduti il loro “potere invalidante” viene meno dopo due anni dalla scadenza, ovvero dopo un periodo ritenuto sufficiente ad estinguere il ricordo del marchio non rinnovato94. I marchi decaduti per non uso protratto per cinque anni, ai sensi dell’art. 24 c.p.i., perdono, invece, la loro efficacia invalidante alla scadere del quinquennio. E’ discusso in dottrina se tali termini siano perentori o se per aversi novità del marchio posteriore occorra comunque anche la perdita del ricordo95. Come la capacità distintiva, anche la novità può essere sanata mediante la convalida, di cui all’ art. 28 c.p.i.. Nel caso di convalidazione, ovvero di tolleranza quinquennale all’uso di un marchio posteriore, non registrato in malafede, simile o uguale a quello antecedente, quest’ ultimo resta efficace e non può essere dichiarata la nullità per mancanza di novità di quello posteriore, né può essere contestato con l’azione di contraffazione96. La convalida può aversi rispetto sia a marchi anteriormente registrati97, sia ad altri segni su cui vige un “diritto di preuso”98. 5. La tutela del marchio 5.1 Il diritto di esclusiva Con la registrazione del marchio, sorge in capo all’imprenditore, titolare dello stesso, un diritto esclusivo sul segno, interesse tutelato e protetto dalla legge. Ai sensi dell’art. 20, co.1, c.p.i., il diritto, di cui sopra, consiste nella “facoltà di fare uso esclusivo del marchio” in capo al titolare. Il suddetto 94 SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 203. A sostegno di quest’ultima posizione si veda FLORIDIA, Il riassetto della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2006, 136. 96 LECCE, Il marchio nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2009, 163; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 204. 97 In riferimento alla Legge dei Marchi vigente anteriormente alla riforma del 1992, la giurisprudenza aveva per molto tempo ritenuto che non potesse verificarsi convalida rispetto ad un marchio anteriore registrato; tale orientamento appare però oggi superato (v. Cass, 13 febbraio 2009, n. 3639, in Foro.it, 2009, 1037, nota CASABURI). 98 Il riferimento è ai marchi di fatto e ad altri segni distintivi non registrati: RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 109 ss.. 95 32 articolo, fissando i confini entro i quali l’uso del segno è riservato al titolare, precisa, anzitutto, il diritto di quest’ultimo ad assumere liberamente scelte circa le modalità di utilizzo del marchio (che possono includere anche l’autorizzazione a terzi a servirsene) e, in seconda battuta, il diritto del titolare di vietare a terzi non autorizzati l’utilizzo del segno che rientri nei confini dell’esclusiva99. Se il titolare non ne autorizza l’uso si verifica una violazione del diritto esclusivo sul marchio, ovvero una sua contraffazione. La norma sopra riportata considera separatamente il caso della identità, della somiglianza e dell’associazione fra segni, ma la sua ratio, e quindi il trattamento delle tre fattispecie, è la medesima e cioè quella di tutelare la funzione distintiva del marchio, evitando il rischio di confusione100. L’articolo in esame prevede, come indicato, tre ipotesi nelle quali il titolare può far valere il suo diritto sul marchio; tali fattispecie corrispondono, come già detto, alle tre ipotesi, di cui all’art. 12 c.p.i., nelle quali un marchio anteriormente registrato priva di novità un marchio posteriore 101 . Nonostante il parallelismo sia evidente, va messa in luce una differenza tra giudizio di novità e di contraffazione. In particolare, se nel giudizio di novità vengono confrontati i marchi come risultano dalle rispettive domande di registrazione e i prodotti in esse indicati, nel giudizio di contraffazione vengono raffrontati il marchio anteriore come registrato e i prodotti per cui è registrato con il marchio posteriore quale concretamente usato per determinati prodotti, considerando il contesto d’uso102. Ai sensi dell’articolo in esame, la contraffazione del marchio sussiste solo se il terzo utilizza il marchio nell’attività economica; tale circostanza è la soglia preliminare nel giudizio del terzo, infatti, solo se è superata si può stabilire se effettivamente si è in presenza di una delle ipotesi di contraffazione previste dalla norma. Non sono oggetto di contraffazione gli usi personali del marchio altrui o i riferimenti al marchio in opere letterario, artistiche o scientifiche103. 99 SIRONI, Ambito di tutela del marchio, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 216; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 237 ss.. 100 SARACENO, I diritti conferiti dalla registrazione, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009, 150 ss.. 101 Parallelismo ben rimarcato in VANZETTI, GALLI, La nuova legge dei marchi, Giuffrè, Milano, 2001, 122. 102 SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 217. 103 SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 220. 33 Affinché si verifichi contraffazione di un marchio l’uso deve avvenire nel territorio del nostro paese, secondo il principio della territorialità. Alcune perplessità sono sorte nel caso in cui il marchio sia utilizzato in Internet: in generale, si ritiene effettivo un uso in Italia se il server si trova in Italia o se si trova all’estero ma è rivolto al consumatore italiano; mentre non sussiste un uso in Italia se il sito contiene offerte rivolte a consumatori di altri stati anche se è visibile nel nostro paese. Non costituisce, infine, contraffazione del marchio il mero deposito del marchio cui non segue un effettivo utilizzo; in tal caso il titolare potrà richiedere la declaratoria di nullità o ottenere il rigetto della domanda di registrazione per mancanza di novità del segno104. Al secondo comma, l’art. 20 definisce un elenco non tassativo di attività riservate in esclusiva al titolare del segno registrato che costituiscono ipotesi di contraffazione se compiute da un terzo non autorizzato. In particolare, è riservata al titolare l’apposizione del marchio su prodotti e confezioni; le attività di offerta, immissione in commercio, detenzione, esportazione e importazione, utilizzo in corrispondenza e pubblicità di prodotti recanti il marchio. In tali ipotesi, si verifica contraffazione anche qualora non sia il produttore a porle in essere ma il distributore o il rivenditore di prodotti fabbricati da altri. Le previsioni di cui sopra vigono anche per gli altri segni distintivi ai sensi del c.d. principio della “unitarietà dei segni distintivi”, di cui all’art. 22 c.p.i.105, ovvero sono estese a tutte le ipotesi di utilizzo di un segno simile al marchio in funzione di segno distintivo diverso. 5.2. Uso di segno identico per prodotti o servizi identici Ai sensi dell’art. 20, co. 1, c.p.i., è vietato a terzi l’utilizzo di un segno identico al marchio per prodotti identici a quelli per cui il marchio è registrato. 104 SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 222; DI CATALDO, I segni distintivi, Giuffrè, Milano, 1993, 95. Su tale principio v. SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 128-129; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 193 ss.; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 88 ss.. 105 34 Lo scopo della norma in esame è quello di rafforzare la tutela sul marchio registrato proteggendone, non solo la funzione d’origine, ma anche le altre funzioni, in particolare, quella attrattiva contro ipotesi di agganciamento parassitario106. La norma si applica anche nelle ipotesi in cui sembra che una confondibilità sia da escludere, ad esempio, nel caso in cui il terzo contrassegni il proprio prodotto con altri marchi che evidenziano la natura non originale oppure quando il contesto renda chiara la non provenienza del prodotto dal titolare del marchio107. In merito alla identità fra segni, in dottrina vi sono differenti orientamenti: si parla di identità assoluta e sostanziale, riferendosi nel primo caso a due segni che non presentano alcuna differenza; nel secondo a due segni che, seppur diversi per alcuni aspetti, presentano lo stesso carattere distintivo 108 o sono percepiti dal pubblico come identici109. Nella giurisprudenza italiana sembra prevalere l’orientamento dell’identità sostanziale, affermandosi l’identità tra due marchi anche qualora siano stati aggiunti “elementi di differenziazione marginali, irrilevanti e non percepibili dal consumatore medio”110. D’altro canto, la Corte di Giustizia afferma che “v’è identità fra il segno e il marchio quando il primo riproduce, senza modifiche, né aggiunte, tutti gli elementi che costituiscono il secondo”, ma ammette l’identità fra i segni se quello del terzo “considerato complessivamente, contiene differenze talmente insignificanti da poter passare inosservate agli occhi del consumatore medio”111. Per quel che riguarda l’identità fra prodotti, questa “deve essere valutata con riferimento alla classe di prodotto per la quale è stato registrato il marchio” e il confronto deve avvenire “sul piano della tipologia merceologica”112; in tal senso si ritengono identici i prodotti che il pubblico non distingue tra loro, mentre vengono considerati diversi quelli che, anche 106 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 239; SIRONI, in AA.VV., Studi di diritto industriale in onore di Adriano Vanzetti, Giuffrè, Milano, 2004, 1543 ss.. 107 SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 223; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 239; SIRONI, in AA.VV., Studi di diritto industriale in onore di Adriano Vanzetti, Giuffrè, Milano, 2004, 1543 ss.; SARTI, Segni distintivi e denominazioni d’origine, op.cit., 78-79. 108 GALLI, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, Giuffrè, Milano, 1996, 170-171. 109 SIRONI, in AA.VV, Studi di diritto industriale in onore di Adriano Vanzetti, Giuffrè, Milano, 2004, 1549 ss. 110 Trib. Milano, 21 febbraio 2009, in Giur. ann. dir. ind. 2009, n.5405, 726. 111 CGEU, 20 marzo 2003, causa C-291/00, in Giur. ann. dir. ind. 2003, n.4605, 1418. 112 Trib. Pistoia, 15 ottobre 2001, in Giur. ann. dir. ind. 2002, n. 4371, 347, in motivazione a p. 355. 35 se sono ricompresi all’interno della stessa categoria merceologica, vengono considerati appartenenti a differenti tipologie. La valutazione sull’identità dei segni e dei prodotti è, comunque, secondo un consolidato orientamento della Corte di Giustizia, subordinata al fatto che l’utilizzo di un segno identico su prodotti identici “pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio”113. In particolare, deve verificarsi presso i consumatori un rischio di confusione sull’origine imprenditoriale o una lesione delle altre funzioni tutelate del marchio 114 , ovvero un indebito vantaggio per il terzo o un pregiudizio per il marchio115. 5.3 Il rischio di confusione Nella fattispecie riportata all’art. 20, co. 1, lett. b), c.p.i., l’uso del marchio da parte di terzi è vietato quando possa determinarsi “un rischio di confusione tra il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione” a causa dell’utilizzo di un marchio uguale o simile per prodotti identici o affini. La tutela del marchio contro la confondibilità è volta a proteggere la sua funzione distintiva, nel senso di funzione di indicazione di provenienza del prodotto da un determinato imprenditore consentendo di distinguerlo, senza confusione, da quello di origine diversa116. Inoltre, “il marchio deve costituire la garanzia che tutti i prodotti che ne sono contrassegnati sono stati fabbricati sotto il controllo di un’unica impresa alla quale possa attribuirsi la responsabilità della loro qualità” 117 . Rispetto alla funzione distintiva così definita, l’erroneo convincimento del pubblico circa la medesima origine imprenditoriale dei prodotti rappresenta l’ipotesi della c.d. confusione in senso stretto che si verifica laddove il consumatore acquista il prodotto dal contraffattore credendo che questo provenga dall’impresa del titolare del 113 CGUE, 22 settembre 2011, causa C-323/09, in Riv. dir. ind. 2012, 81, nota STEFANI. A sostegno della posizione della Corte di Giustizia GALLI, Marchi e invenzioni, in GALLI, GAMBINO (a cura di), Codice commentato della proprietà industriale e intellettuale, UTET, Torino, 2011, 332-333; per critiche alla posizione v. SARTI, Segni distintivi e denominazioni d’origine, op.cit., 77 s.. 115 SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 225. 116 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 239; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 127 ss.. 117 CGCE, 12 febbraio 2004, causa C-218/01, in Giur. ann. dir. ind., 2006, n. 5047, 999. 114 36 marchio 118 ; mentre, l’erroneo convincimento circa la provenienza dei prodotti da imprese tra di loro economicamente collegate costituisce la c.d. confusione in senso lato che coincide in sostanza con il rischio di associazione, che si verifica quando il consumatore è consapevole della provenienza del prodotto dal contraffattore ma ritiene vi sia un collegamento economico con l’impresa del titolare, in realtà inesistente119. In genere, ci si riferisce al rischio di associazione come ad un rischio di confusione “allargato” che si verifica, appunto, qualora il pubblico riconosca dei legami economici fra titolare e contraffattore120. Un diverso orientamento muove, invece, da un collegamento/trasferimento dell’immagine di un marchio all’altro ad opera del consumatore, il quale richiama alla mente il messaggio collegato al marchio imitato pur in assenza di un pericolo di confusione121. La giurisprudenza comunitaria, alla quale si è adeguata quella italiana, interpreta la norma secondo il primo orientamento dottrinale, ovvero colloca il rischio di associazione all’interno del rischio di confusione a chiarimento di quest’ultimo; inoltre, non consente, in tal senso, la repressione di fenomeni di agganciamento non confusorio122. E’ discusso, inoltre, se sia rilevante ai sensi dall’articolo in esame, anche un rischio di confusione presente in un momento anteriore all’acquisto, ovvero nel momento in cui il consumatore entra in contatto con il prodotto, ma che viene meno al momento dell’acquisto; si parla in tal caso di pre-sale confusion. In tale ipotesi, il pregiudizio per il titolare del prodotto imitato non sta tanto nel fatto che questo rischia di essere confuso con altri: il rischio è il contatto, e sta nel fatto che il consumatore è attratto dalla somiglianza con il prodotto noto, indipendentemente da ogni confusione successiva sulla fonte, e lo 118 SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 226. VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 247; MAYR, I segni distintivi e il design, in UBERTAZZI (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Cedam, Padova, 2012, 145; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 132 ss.; SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 226-227. 120 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 139-140; MAYR, I segni distintivi e il design, op.cit., 145 ss.; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 247. 121 SANDRI, Associazione e confondibilità per associazione, in Riv. dir. ind., 2012, 186 ss.; GALLI, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, Giuffrè, Milano, 1996, 190 ss.; v. anche CASABURI, Segni e forme distintive. La nuova disciplina, Giuffrè, Milano, 2001, 65-66. 122 App. Milano, 25 luglio 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 520; Trib. Roma, 25 ottobre 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2003, 521; v. RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 132-133; MAYR, I segni distintivi e il design, op.cit., 2012, 271; SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 227-228. 119 37 acquista perché lo ritiene somigliante a quello originale123. Ne è esempio, l’utilizzo di una bottiglia simile all’altrui forma registrata come marchio ma con elementi differenti, tali da escludere un eventuale equivoco: in tal caso, si verificherebbe, oltre alla mancanza di novità, un’ipotesi di pre-sale confusion, in quanto il consumatore può in effetti avere compiuto un'associazione mentale in un momento anteriore124. Un’ulteriore ipotesi di rischio di confusione è il post-sale confusion che si verifica in un momento successivo all’acquisto, qualora si riscontri confusione nei terzi circa la reale provenienza del prodotto nonostante chi ha acquistato il prodotto conosca l’effettiva titolarità del marchio125. Il riferimento è, ad esempio, all’acquisto da parte del consumatore di prodotti che imitano le forme distintive di quelli di celebri case di moda, quali Gucci o Luis Vuitton, per far credere a terzi che vedono il prodotto-copia che si tratti dell’originale, nonostante l’acquirente sia pienamente consapevole della diversa provenienza. E’, dunque, evidente, e per questo la loro rilevanza ai sensi dell’art. 20 c.p.i. è discussa, che queste forme di confusione non intaccano direttamente la funzione del marchio come indicatore di origine e hanno in comune con la confondibilità “tradizionale” essenzialmente il fatto di sfruttare parassitariamente i valori di avviamento commerciale incorporati nel marchio126. Ulteriore motivo di discussione nella dottrina e nella giurisprudenza, è se la confondibilità debba considerarsi in astratto o in concreto. Nella prima ipotesi, per valutare il rischio di confusione tra i segni si fa riferimento alle risultanze dalla registrazione, sia per quel che riguarda il segno che per i prodotti rivendicati, a prescindere dalle modalità concrete d’utilizzo del segno, dal contesto in cui questo avviene e dalle peculiarità del prodotto offerto; in tal modo l’effetto confusorio viene confermato anche se in realtà non sussiste in concreto127. 123 CASABURI, I looks-alike: situazione e prospettive in Italia, relazione in il problema dei look-alike: limiti alla “libertà di imitare”, in www.indicam.it, Milano, 2003, 15. 124 CGCE, 29 settembre 1998, causa C-39/97, in Giur. It., 1999, 549, nota RICOLFI. 125 CASSANO, Fattispecie della concorrenza sleale mediante internet: gli atti pertinenti ai segni distintivi, in CASSANO, CIMINO (a cura di), Diritto dell'Internet e delle nuove tecnologie telematiche, Cedam, Padova, 2009, 427. 126 GALLI, “Nuova” contraffazione di marchio: dalla confondibilità all’agganciamento parassitario, in relazione al convegno indicam, in www.indicam.it, 20 settembre 2007. 127 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 56 ss.; SENA, Confondibilità fra segni e fra prodotti o servizi nella giurisprudenza comunitaria: alcuni considerazioni pertinenti e impertinenti, in Riv. dir. ind., 2004, 201 ss.; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 229. 38 Per quel che riguarda la seconda ipotesi, ovvero quella della confondibilità in concreto, prevede che, nella valutazione, si debba considerare se le modalità e il contesto d’uso interferiscono con la funzione d’origine, creando un reale rischio di confusione sulla provenienza 128 . La giurisprudenza italiana sembra aver superato la dicotomia astratto/concreto tendendo a valutare la confondibilità in concreto e, solo per un’eventuale integrazione, quella in astratto. Per quel che concerne i criteri di valutazione del rischio di confusione, in genere questo deve essere valutato globalmente considerando “tutti i fattori pertinenti del caso in specie” 129 che devono essere simultaneamente presenti, ma possono “bilanciarsi” e compensarsi tra loro. Anzitutto i fattori da considerare sono l’identità o somiglianza tra i segni e l’identità o affinità tra prodotti; a questi si aggiunge, inoltre, la valutazione della “forza” distintiva del marchio che orienta il giudizio di confondibilità130. Si è già detto cosa si intenda per prodotti identici, per quel che riguarda i prodotti affini, invece, ci si riferisce all’ipotesi in cui, pur essendovi la possibilità di distinzione, dal punto di vista merceologico, fra i prodotti, la situazione sia tale da indurre i consumatori a ritenere che vi sia un collegamento tra di loro131. Il riferimento per valutazione è il consumatore medio, ossia, come già detto, quello “normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”132. Si considera, inoltre, il livello di esperienza, di preparazione e di attenzione. In genere, il rischio di confusione è più elevato per prodotti poco costosi, di consumo corrente, tipicamente acquistati da un consumatore che non presta molta attenzione e che non ha particolari qualificazioni; è più ridotto se si tratta di prodotti costosi che il consumatore acquista con molta attenzione o di prodotti specialistici destinati a professionisti esperti133. 128 GALLI, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, Giuffrè, Milano, 1996, 113 ss. CGCE, 12 giugno 2007, causa C-102/07, in Giur. ann. dir. ind. 2009, n.3469, 1357. 130 RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 231. 131 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 259; SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 246-247; Trib. Milano, 7 luglio 2010, in Giur. ann. dir. ind., 2010, 760. 132 CGCE, 12 febbraio 2006, causa C-173/04P, in Giur. ann. dir. ind., 2006, n. 5051, 1053; CGCE, 3 settembre 2009, causa C-498/07P, in Foro.it, 2009, 541. 133 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 246; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 134; SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 232; CGCE, 12 gennaio 2006, in Foro It., 2006, 354. 129 39 5.4 Il marchio che gode di rinomanza In base all’art.20.1 lett. c) c.p.i. i marchi che godono di rinomanza beneficiano di una tutela che va oltre il limite di rischio di confusione sull’origine e che può operare anche quando i prodotti o i servizi del terzo non siano affini a quelli per cui è registrato il marchio134. Per tali marchi non vige il “principio di relatività della tutela”, in base al quale il marchio è protetto in relazione ai prodotti per i quali è registrato o a prodotti affini. La loro tutela, che si definisce “ultramerceologica”, va oltre il limite della identità o affinità fra prodotti, in quanto essi esercitano un potere attrattivo nel consumatore che acquista il prodotto non solo per ragioni legate alla sua particolare provenienza. La protezione è volta a riservare in esclusiva al titolare la capacità di vendita e di richiamo di tali marchi, impedendo a terzi l’agganciamento o la lesione con la loro attività135. La norma in esame è oggetto di interpretazioni differenti da parte della dottrina e della giurisprudenza. Secondo un primo orientamento, la funzione essenziale del marchio sarebbe quella distintiva e, in tal caso, la norma centrale del sistema sarebbe l’ipotesi di cui all’art. 20, co.1, b) c.p.i., alla quale, per alcuni marchi, si aggiungerebbe la protezione oltre il rischio di confusione prevista dalla norma in analisi136. Secondo un differente orientamento, la funzione distintiva sarebbe solo una componente della funzione principale del marchio che è, oggi, quella di comunicare messaggi al consumatore: nel senso che tra i messaggi comunicati al consumatore vi è anche quello sulla provenienza del prodotto137. In tal caso, l’ipotesi, di cui alla lett. c) dell’art. 20.1, sarebbe considerata ipotesi centrale e generale di contraffazione. Ai sensi dell’art. 20, co.1, c), affinché la disciplina possa applicarsi è necessaria la rinomanza del marchio, che può essere definita come una 134 SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 249. VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 261 ss.; GALLI, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, Giuffrè, Milano, 1996, 135-136. 136 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 239 ss.; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 49-50; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 127 ss.. 137 GALLI, Marchi e invenzioni, op.cit., 260 ss.; GALLI, in VANZETTI, SENA (a cura di), Segni e forme distintive. La nuova disciplina, Giuffrè, Milano, 2001, 22 ss.; CASABURI, in VANZETTI, SENA (a cura di), Segni e forme distintive. La nuova disciplina, Giuffrè, Milano, 2001,108 ss.. 135 40 conoscenza presso il pubblico a seguito del suo utilizzo. Nell’ orientamento prevalente in dottrina e giurisprudenza, tale peculiarità è considerata in termini molto “ampi”; come affermato dalla Corte di Giustizia138, il segno, per godere dello stato di notorietà/rinomanza, deve essere “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti e servizi contraddistinti da detto marchio”, dove con “pubblico interessato” si intende “il grande pubblico, ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio, un determinato ambiente professionale”. In giurisprudenza, come in dottrina, non si fissa una soglia percentuale di conoscenza del marchio da parte del pubblico e, in particolare, la dottrina ritiene sufficiente una bassa soglia di conoscenza del marchio 139. Tale rinomanza deve, inoltre, sussistere per parte “sostanziale” del territorio italiano140. Per quel che riguarda l’estensione merceologica, la protezione si applica laddove il segno venga utilizzato per prodotti identici o affini e anche non affini, ai sensi dell’articolo in esame. Tale estensione è influenzata dall’ampiezza e intensità della rinomanza: laddove un marchio sia celebre o molto noto si creerà indebito vantaggio o pregiudizio anche se le categorie merceologiche di prodotti contrassegnati sono molto distanti tra loro. Come per l’ipotesi di cui all’art. 20, co.1, b) c.p.i., anche in tale fattispecie è necessaria l’identità o somiglianza tra i segni che in tal caso, tuttavia, si traduce in un “nesso” tra il segno posteriore e il marchio d’impresa141. Dove per “nesso” si intende “il fatto che il marchio posteriore evochi quello anteriore nella mente del consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”142. La valutazione della somiglianza si basa su un’impressione complessiva generata dai marchi, considerando i loro elementi distintivi e tenendo conto del profilo visivo, fonetico e concettuale143. 138 CGCE, 6 ottobre 2009, causa C-301/07, in Foro.it 2010, 320; Trib. UE, 13 dicembre 2004, in Foro.it 2005, 508; CGEE, 14 settembre 1999, causa C-375/97, in Giur. ann. dir. ind. 1999, 1569. 139 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 151-152; RONCAGLIA, in VANZETTI, SENA (a cura di), Segni e forme distintive. La nuova disciplina, Giuffrè, Milano, 2001, 367 ss.. 140 QUATTRONE, in GHIDINI, DE BENEDETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Il sole 24 ore, Milano, 2006, 81. 141 CGCE, 23 ottobre 2003, causa C-408/01, in Riv. dir. ind. 2004, 130, nota GALLI; CGCE; 18 giugno 2009, causa C487/07, in Giur. Comm. 2010, 969, nota DI CATALDO. 142 CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, nota SANDRI. 143 Trib. UE, 16 aprile 2008, T-181/05, in Foro.it, 2008, 442. 41 Altre peculiarità da tenere in considerazione sono anche: “la natura dei prodotti per i quali i marchi in conflitto sono registrati”, “il livello di notorietà del marchio anteriore”, “la distintività intrinseca o acquisita, grazie all’uso del marchio anteriore”, e “l’esistenza di un rischio di confusione nella mente del pubblico” 144 . Dunque, la norma prevede un richiamo del marchio anteriore che può dipendere dalla somiglianza tra i segni ma anche da altri fattori, non essendo quest’ultima sufficiente a tal fine. Per tali segni, ai sensi dell’articolo in esame, la tutela è, dunque, ampliata all’ipotesi in cui “l'uso del segno – identico o simile da parte di terzi- senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi”. Per stabilire se vi sia pregiudizio o indebito vantaggio occorre valutare anzitutto, la capacità distintiva e la rinomanza del marchio, oltre a quanto il segno del terzo richiama il marchio noto145. Sarà, dunque, più probabile si verifichi pregiudizio o indebito vantaggio quanto più la presenza dei fattori messi in evidenza sia elevata. Il consumatore al quale il legislatore si rifà è quello di riferimento per i prodotti o servizi per cui è adottato il marchio posteriore, nel caso di indebito vantaggio, quello di riferimento per prodotti o servizi per cui il marchio è stato registrato, nel caso di pregiudizio146. L’indebito vantaggio tratto dalla capacità distintiva o dalla rinomanza del marchio noto si verifica con l’agganciamento, da parte del terzo, a quest’ultimo e alla sua capacità di attrarre il consumatore, con lo scopo di agevolare l’accreditamento sul mercato di un prodotto, creando un clima di favore da parte dei consumatori nei suoi confronti, e di ottenere un risparmio di costi promozionali147. Si verifica, invece, un pregiudizio al carattere distintivo del marchio noto quando “il marchio anteriore non è più in grado di suscitare un’associazione immediata con i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato” e vi è un indebolimento della sua “presa esercitata nella mente del consumatore”148. 144 CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, nota SANDRI. SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 255-256. 146 CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, nota SANDRI. 147 Trib. Bologna, 6 febbraio 2009, in Giur. ann. dir. ind. 2009, 711; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 261 ss.; GALLI, in VANZETTI, SENA (a cura di), Segni e forme distintive. La nuova disciplina, Giuffrè, Milano, 2001, 40-41. 148 CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, nota SANDRI; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 247. 145 42 Vi è, invece, un pregiudizio alla rinomanza nei casi in cui l’uso del segno del terzo nuoce all’immagine e alla reputazione del marchio, ad esempio perché si tratta di prodotti o servizi di qualità scadente o, comunque, non in linea con l’immagine connessa al marchio149. Infine, l’art. 20 alla lett. c) prevede che il terzo possa sottrarsi dall’accusa di contraffazione e continuare l’uso del segno se sussiste “giusto motivo”, non è facile però individuare casi in cui la clausola si applichi. 6. Nullità e decadenza 6.1 L’estinzione del marchio Attraverso la registrazione o l’uso del marchio (per i marchi di fatto) viene a costituirsi in capo al titolare del segno un diritto di esclusiva. Tale diritto, come previsto dalla normativa nazionale e comunitaria, può estinguersi totalmente o parzialmente al ricorrere di determinate cause o comportamenti. Tale estinzione può conseguire, come nel caso della nullità o della decadenza del marchio, alla sopravvenienza di vizi (quali il venir meno dei requisiti di validità o il successivo accertamento di impedimenti alla registrazione), o, come nel caso della scadenza, decorso il termine di efficacia della registrazione senza che sia intervenuto il rinnovo (a fronte di una validità del marchio decennale) 150. 6.2 La nullità del marchio Come è stato detto più volte, il marchio per poter essere registrato deve possedere i requisiti di validità; qualora il marchio sia registrato nonostante 149 SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 257. PECORARO, Nullità, convalidazione e decadenza, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009, 504. 150 43 sussistano degli impedimenti, potrà essere promossa un’azione di nullità, ai sensi dell’art. 117 c.p.i.. Può accadere, infatti, che sussistano degli impedimenti che l’UIBM non ha rilevato o ha valutato in modo inesatto nell’esame della domanda; che il soggetto legittimato non presenti opposizione o questa sia respinta; oppure, che sussistano impedimenti che non sono oggetto d’esame151. L’elenco tassativo delle cause di nullità del marchio è disposto dall’art. 25 c.p.i.. La normativa comunitaria distingue, in riferimento agli impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, le cause di nullità assoluta e relativa: le prime posso essere fatte valere da “qualsiasi persona fisica o giuridica” e dal Pubblico Ministero, mentre le seconde dai titolari dei diritti anteriori, dai loro aventi causa o aventi diritto152. L’onere di provare la nullità del titolo “incombe in ogni caso su chi impugna il titolo”, ai sensi dell’art. 121, co.1, c.p.i.. La declaratoria di nullità ha effetti ex tunc, essendo la registrazione invalida priva di effetti ab origine153 e ha efficacia erga omnes. Tale declaratoria può, inoltre, interessare solo una parte dei prodotti per i quali è registrato il marchio, nel caso in cui solo per tali prodotti manchino i requisiti di validità: si parla in tale ipotesi di nullità parziale. Ai sensi dell’art. 21, co. 3, c.p.i., a seguito della declaratoria di nullità, “quando la causa di nullità comporta l’illiceità dell’uso del marchio”, quest’ultimo sarà vietato a chiunque. Tale illiceità ricorre nell’ipotesi in cui il marchio sia decettivo o contrario alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume o sia stato registrato in violazione dell’art. 10 c.p.i.; vi sono, invece, orientamenti divergenti nel caso in cui il marchio sia registrato in violazione di diritti anteriori di terzi, di cui all’art. 14, co. 1, lett. c)154. La nullità relativa, di cui si è detto, può essere sanata qualora il titolare dei diritti anteriori tolleri consapevolmente per un periodo di cinque anni l’uso 151 SIRONI, Nullità e decadenza, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 290. SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 290. 153 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 553; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 189. 154 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 295; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 192-193; SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 291. 152 44 del marchio registrato155. Tale ipotesi prevista dalla legge italiana è definita come convalidazione del marchio (art. 28 c.p.i.) e si spiega sull’assunzione che il marchio in conflitto, grazie all’uso quinquennale, abbia acquisito un autonomo accreditamento presso il pubblico. 6.3 La decadenza del marchio La decadenza del marchio consiste nell’estinzione dei diritti d’esclusiva di cui gode il titolare dovuta al sopravvenire di situazioni ostative al perdurare della registrazione e al protrarsi dei suoi effetti. Ai sensi dell’art. 26 c.p.i. il marchio decade: a) per volgarizzazione, ai sensi dell'art. 13, co. 4; b) per illiceità sopravvenuta, ai sensi dell'art. 14, co. 2; c) per non uso, ai sensi dell'art. 24. La decadenza, come la nullità, può essere totale o parziale, ossia riguardare tutti i prodotti per cui il marchio è registrato o una parte di questi. Al contrario della nullità, che opera ex tunc, la decadenza non opera con efficacia retroattiva, determinando i propri effetti solo dal manifestarsi della causa che la determina156. Per quel che riguarda le diverse fattispecie citate all’art. 26, la decadenza per volgarizzazione si verifica quando vi è una perdita della capacità distintiva del marchio dovuta ad un’attività o inattività del titolare; si parla, invece, di decadenza per illiceità sopravvenuta nell’ipotesi in cui un marchio, a causa dell’utilizzo che ne viene fatto, divenga idoneo ad ingannare il pubblico. La decadenza per non uso, ipotesi che si verifica nel caso giuridico di cui si dirà nel capitolo IV, sarà approfondita di seguito. 6.3.1. La decadenza per non uso Tra le altre ipotesi di decadenza del segno, la più importante è la cc.dd. decadenza per non uso. 155 156 SARTI, L’impresa nel mercato, in AA.VV., Diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2013, 263. SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 194; PECORARO, Nullità, convalidazione e decadenza, op.cit., 511. 45 Ai sensi dell’art. 24.1 c.p.i., si è in presenza di tale ipotesi se il marchio non viene effettivamente utilizzato entro cinque anni dalla registrazione ovvero se l’uso venga sospeso per un periodo ininterrotto di cinque anni. Con questa norma si vuole evitare che marchi “vivi” dal punto di vista giuridico, ma “morti” nel relativo mercato di beni o servizi, possano impedire l’accesso a nuovi competitors in virtù di un titolo giuridico che, sia pur formalmente valido, non ha (più) un effettivo riscontro presso i consumatori157. Per quel che riguarda la nozione di uso “effettivo” a cui la norma fa riferimento, la giurisprudenza prevalente e la dottrina affermano che questo debba essere connotato da un sufficiente grado di intensità e di continuità158. Affinché non si verifichi la decadenza del marchio l’uso deve essere economicamente rilevante, non puramente simbolico, “deve rispondere ad un ragionevole requisito di effettività” e “testimoniare una certa presenza della relativa impresa sul mercato”159; il segno deve contrassegnare prodotti o servizi realmente destinati al mercato secondo le modalità e per le finalità proprie dell’attività economica del titolare, considerandone le peculiarità. Ad esempio, non vi è utilizzo effettivo quando l’uso del marchio avviene internamente all’impresa del titolare, senza un contatto con i consumatori; inoltre, l’uso non potrà essere invocato dal titolare per escludere decadenza se il marchio sia utilizzato da un terzo senza il suo consenso160. La decadenza non si verifica se il titolare utilizza il marchio in una forma modificata ma che non sia idonea ad alterarne il carattere distintivo, ovvero, nel caso in cui abbia la titolarità di una pluralità di marchi simili in vigore, faccia uso di almeno uno di tali segni per contraddistinguere i medesimi prodotti o servizi161. La norma lascia libertà al titolare nell’ apporre variazioni o “aggiornamenti” rispetto al marchio registrato senza ricorrere nella perdita del diritto di esclusiva su di esso. L’uso in forma modificata può essere 157 LICHERI, Il tema della decadenza del marchio per non uso, in www.diritto24.ilsole24ore.com, 17 gennaio 2014; sul punto v. VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 282; FLORIDIA, Il riassetto della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2006, 136; SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 300. 158 SIRONI, Art. 24, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2013, 497. 159 Trib. Milano, 30 settembre 2002, in Dir. ind. 2003, 67; Trib. Roma, 22 maggio 2003, in Giur. ann. dir. ind., n. 4676, 479. 160 SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 301 ss.. 161 PECORARO, Nullità, convalidazione e decadenza, op.cit., 516; SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 304. 46 equiparato all’uso del marchio come registrato finché abbia ad oggetto un marchio simile, i cui caratteri originali corrispondano a quelli del marchio di cui si tratta 162 . In giurisprudenza si fa riferimento ad una “modalità di utilizzazione che non incide né singolarmente, né complessivamente su alcuno degli elementi individualizzanti del segno”163. Inoltre, il marchio non decade quando il suo non utilizzo sia “giustificato da un motivo legittimo” e sia, dunque, legato a questioni indipendenti dalla volontà del titolare. L’orientamento prevalente nella nostra giurisprudenza comprende nell’ipotesi in esame, anche scelte volontarie del titolare, quali scelte imprenditoriali fondate su valutazioni ragionevoli di politica aziendale: ne sono esempio, l’attesa di un’autorizzazione amministrativa o ripetute contraffazioni che impediscono la vendita a condizioni vantaggiose164. Non sono, invece, considerati “motivi legittimi” la mancanza di mezzi finanziari e il fallimento dell’imprenditore165. Il titolare del segno può sempre dimostrare che i motivi, a causa dei quali non ha fatto uso del segno registrato, sono legittimi. Sono esclusi della decadenza per non uso i cc.dd. marchi difensivi, ossia quei segni simili, ma non confondibili al marchio principale che il titolare registra, non per farne uso ma per ampliare la tutela di quest’ultimo. Ai sensi dell’art. 24, co. 3 c.p.i., se decorso il termine quinquennale di non utilizzo, il titolare o qualcuno da lui autorizzato, inizino o riprendano l’uso del marchio, si verifica una sanatoria della decadenza per uso; quest’ultima, infatti, non può essere fatta valere e il titolare conserva il diritto esclusivo sul segno166. 162 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 282. Trib. Milano, 24 febbraio 2003, in Giur. ann. dir. ind. 2004, n. 4664, 402. 164 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012,284; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 195. 165 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 195. 166 SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 306. 163 47 CAPITOLO II: LA CONCORRENZA SLEALE SOMMARIO: 1. L’art. 2598 c.c e le fattispecie di concorrenza sleale - 2. La concorrenza per confondibilità - 2.1 Uso di nomi o segni distintivi confusori - 2.1.1 (segue) L’imitazione dell’altrui marchio registrato - 2.2 Imitazione servile - 2.2.1 Le forme tutelabili - 2.3 Gli altri mezzi della concorrenza confusoria - 3. L’appropriazione di pregi - 3.1.1 (segue) L’agganciamento - 4. Le fattispecie dell’art. 2598 n.3 c.c. - 4.1 La concorrenza parassitaria 1. L’art. 2598 c.c. e le fattispecie di concorrenza sleale In tema di contraffazione viene in rilievo la disciplina in materia di concorrenza sleale, di cui all’art. 2598167 e ss., c.c. che è da mettere in relazione con l’analoga struttura dell’art 10-bis della Convenzione d’ Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale168. La prassi giurisprudenziale nazionale si basa però sull’articolo del c.c., in quanto la tutela è più ampia. E’ d’obbligo, inoltre, come da preambolo dell’art. 2598, un coordinamento con il c.p.i., che tutela, come si è visto, i segni distintivi; il medesimo articolo, inoltre, non può prescindere dall’art. 41 Cost. che dispone in merito alla libertà di iniziativa economica privata e il vincolo posto alla stessa dell’utilità sociale169. L’articolo 2598 c.c., può, poi, essere posto in relazione con l’art. 2043 c.c., il quale, presuppone il verificarsi di un fatto ingiusto a differenza del primo che, prevedendo una sanzione solo nel caso in cui si verifichi un’ipotesi di concorrenza sleale, ha efficacia preventiva. 167 L’art. 2598 così prevede: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto , compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”. 168 Tale articolo dispone: “I Paesi dell'Unione sono tenuti ad assicurare ai cittadini dei Paesi dell'Unione una protezione effettiva contro la concorrenza sleale. Costituisce un atto di concorrenza sleale ogni atto di concorrenza contrario agli usi onesti in materia industriale o commerciale. Dovranno particolarmente essere vietati: 1) tutti i fatti di natura tale da ingenerare confusione, qualunque ne sia il mezzo, con lo stabilimento, i prodotti o l'attività industriale o commerciale di un concorrente; 2) le asserzioni false, nell'esercizio del commercio, tali da discreditare lo stabilimento, i prodotti o l'attività industriale o commerciale di un concorrente; 3) le indicazioni o asserzioni il cui uso, nell'esercizio del commercio, possa trarre in errore il pubblico sulla natura, il modo di fabbricazione, le caratteristiche, l'attitudine all'uso o la quantità delle merci” 169 MALAGOLI, Art. 2598, in CENDON (a cura di), Commentario al codice civile, Giuffrè, Milano, 2009, 36. 48 L’art. 2598 può essere applicato solo nel rapporto tra imprenditori nel senso che devono essere imprenditori, sia il soggetto attivo che quello passivo170. Dunque, entrambi i soggetti sono imprenditori, ma non necessariamente imprenditori commerciali, in quanto la norma è posta a garanzia di corretti rapporti di competizione sul mercato con riguardo a ogni categoria di imprenditori 171 . Infatti, la tendenza di dottrina e giurisprudenza va verso un’interpretazione “ampia” della qualifica di imprenditore rispetto a quanto disposto dall’ art. 2082 c.c.172. La disciplina, di cui all’articolo in esame, presuppone, inoltre, che tra i due imprenditori vi sia un rapporto di concorrenza economica173. In altre parole, tra i due soggetti deve esserci una comunanza di clientela, intesa come l’insieme di consumatori che avvertono lo stesso bisogno o bisogni simili. Il rapporto di concorrenza al quale si fa riferimento non è solamente quello attuale ma anche quello potenziale, come riconosciuto da dottrina e giurisprudenza, analizzato in riferimento al profilo territoriale, merceologico e temporale dell'attività174. La norma articola le fattispecie di concorrenza sleale in tre gruppi: i primi due prevedono ipotesi specifiche di concorrenza sleale, il terzo raggruppa una pluralità di comportamenti non specifici costituendo una categoria aperta e residuale. La prima parte della norma in esame definisce, al n. 1, i cc.dd. atti di concorrenza sleale per confondibilità in riferimento a quegli atti attraverso cui un’impresa sfrutta l’affermazione sul mercato e la reputazione di un'altra usando illegittimamente i suoi segni distintivi o imitando i suoi prodotti. Tali atti saranno analizzati nello specifico al paragrafo successivo. Per le ipotesi, di cui al n. 2 dell’articolo in esame, si parla di atti di concorrenza sleale per appropriazione di pregi e denigrazione. 170 MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 37-39; in merito anche App. Genova, 20 marzo 2002, in Dir. ind. 2002, 395; App. Napoli, 4 giugno 2008, in Mass. red. 2008; Cass.civ., 21 dicembre 2007, n. 27081, in Mass. Giur. It. 2007. 171 GAMBINO, Impresa e società di persone, Giappichelli, Torino, 2013, 46-47. 172 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 18. 173 Cass. civ., 9 agosto 2007, n. 17459, in CED cassazione, 2007; BIGLIA, Uso atipico del marchio altrui e rapporto di concorrenza, in Riv. dir. ind., 2006, 200. 174 GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 82 ss.; GRAUSO, La concorrenza sleale: profili di tutela giurisdizionale e presso le autority, Giuffrè, Milano, 2007, 23; Trib. Torino, 22 maggio 2007, in Giur. It. 2008, 132, nota BOTTERO; Cass. civ., 14 febbraio 2000, n. 1617, in Riv. dir. ind. 2001, 96, nota CEVOLINI. 49 In particolare l’articolo dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque “diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente”. La denigrazione consiste nella diffusione di notizie riguardanti attività o prodotti dei concorrenti idonea a determinare la perdita di fiducia, della buona reputazione di cui l’impresa gode sul mercato e volta a procurare, così, un “danno concorrenziale” con eventuale perdita della clientela, dei fornitori, dei finanziatori o dei dipendenti. I casi più frequenti di denigrazione riguardano l’ambito pubblicitario, in particolare la pubblicità comparativa che si verifica con il raffronto del proprio prodotto valutato positivamente con quello del concorrente valutato negativamente (anche implicitamente) 175. Anche con la magnificazione del proprio prodotto può verificarsi, in modo implicito, la denigrazione di quello altrui; la giurisprudenza, in tale caso, tende tuttavia ad essere indulgente considerandola lecita se si presenta come generica o palesemente iperbolica176. Sono, invece, considerati pregi suscettibili di indebita appropriazione tutti i fatti riguardanti i caratteri dell’impresa, i risultati da essa conseguiti o le qualità dei prodotti o dei servizi che per il pubblico rappresentino o possano rappresentare motivi di apprezzamento positivo e quindi di preferenza dell’impresa e delle sue prestazioni rispetto ad altre imprese177. Infine, l’art. 2598, n. 3 comprende tutti quei comportamenti illeciti contrari ai principi di correttezza professionale e volti a danneggiare l’impresa altrui. Risulta impossibile abbozzare una completa elencazione di tutti i comportamenti vietati da tale clausola, in quanto generale e residuale. L’adozione dei comportamenti illeciti sopra citati comporta, una volta che siano stati accertati, l’applicazione dei provvedimenti e delle sanzioni, di cui agli artt. 2599-2600 c.c.. Data la difficoltà di provare l’entità del danno da concorrenza, che sussiste anche per la contraffazione del marchio (v. capitolo III), in materia assume importanza rilevante l’azione inibitoria, 175 Trib. Roma, 29 settembre 1993, in Riv. dir. ind., 1993, 382. App. Firenze, 15 gennaio 2002, in Rass. dir. civ. ann., 2002, 1296, afferma che “la pubblicità iperbolica, attraverso la quale si afferma, con espressione generica la superiorità di un prodotto rispetto agli altri non costituisce atto di concorrenza sleale, salvo che vi siano riferimenti a fatti specifici tali da ingenerare nel pubblico un falso giudizio sui prodotti o sulle attività reclamizzate”; v. anche App. Milano, 25 luglio 1997, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 231. 177 FLORIDIA, La tipizzazione normativa, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino, 2012, 374. 176 50 disposta dall’art. 2599 c.c.. Quest’ultimo stabilisce che “la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione”; in altri termini, il giudice, verificata la sussistenza di comportamenti illeciti ne ordina il divieto di prosecuzione. A questo si aggiunge il rimedio restitutorio, a cui la seconda parte della norma si riferisce, teso a eliminare le conseguenze negative dell’illecito attraverso, ad esempio, la distruzione dei prodotti costituenti imitazione servile o l’eliminazione di etichette o confezioni confondibili178. In virtù del perdurare del pregiudizio arrecato al titolare dei diritti di proprietà nello svolgimento del procedimento giudiziale di accertamento dell’illecito, è disposto che tali provvedimenti possano attuarsi, dopo un esame sommario della vicenda, in via immediata e di urgenza. A differenza di tali disposizioni che mirano a ripristinare lo status quo ante, le sanzioni, di cui al 2600 c.c., tendono ad attuare una soddisfazione per equivalente volta a recuperare l’utilità pregiudicata a causa della violazione dell’interesse leso179. L’articolo dispone che per poter ottenere il risarcimento del danno gli atti illeciti devono essere compiuti con dolo o colpa; tuttavia, il comma 3 dello stesso, afferma che “accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume”, prevedendo, in merito a quest’ultimi, una tutela più intensa rispetto all’ordinario illecito aquiliano (art. 2043 c.c.). A differenza del regime che regola quest’ultimo, il giudice, infatti, può disporre le misure inibitore anche in presenza di comportamenti incolpevoli o soltanto potenzialmente produttivi di danno180. Oltre al risarcimento del danno, è disposta, ai sensi dell’art. 2600 c.c., la pubblicazione su uno o più quotidiani della sentenza il cui scopo è quello di “portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso”181 nell’intento di riparare un eventuale pregiudizio subito dal concorrente leso. 178 MARTORANO, La concorrenza, in AA.VV., Manuale di diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2011, 147; SARTI, L’impresa nel mercato, in AA.VV, Diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2014, 196. 179 MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 122. 180 MANGINI, TONI, L’azienda e le regole del mercato, in AA.VV., Diritto commerciale, Monduzzi, Bologna, 2010, 51. 181 Cass., 7 maggio 1983, n. 3109, in Foro It., 1983, 2809. 51 2. La concorrenza per confondibilità Come si è già accennato, in tema di concorrenza sleale, con particolare riferimento all’art. 2598, n. 1, c.c., si verifica una sovrapposizione con le norme del c.p.i. in materia di marchio: infatti, anche la tutela della concorrenza contro la confondibilità presuppone l’esistenza di segni distintivi e di diritti esclusivi su quest’ultimi182. Ciò nonostante, la disciplina disposta dal c.p.i. è incompleta ed è necessaria, in riferimento ai segni distintivi diversi dal marchio registrato, un’integrazione con quella concorrenziale, di seguito analizzata. Le fattispecie previste dall’art. 2598, n. 1, fanno riferimento all’uso di “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri”, all’imitazione dei prodotti di un concorrente e, in generale, a comportamenti illeciti idonei a determinare confusione sul mercato, in riferimento a prodotti e attività dell’imprenditore concorrente. Con atti idonei a creare confusione si indicano, tradizionalmente, tutti quegli atti che ingenerano nei consumatori una falsa convinzione circa la provenienza dei prodotti da un determinato imprenditore quando invece essi devono ricondursi ad un imprenditore diverso 183 (si parla della cc.dd. confusione sull’origine a cui si è già fatto accenno nel capitolo I). In particolare, si ritiene che la confondibilità sussista laddove il comportamento sia idoneo a determinare una possibilità di confusione dei consumatori sulla base di un giudizio di probabilità ancorato alle circostanze del caso; dunque, affinché siano integrati gli estremi dell’illecito, non è rilevante che si siano verificati in concreto episodi di confusione184. La confondibilità va accertata in relazione alle conseguenze che la somiglianza dei segni o dell’aspetto esteriore del prodotto possa avere sul c.d. consumatore medio dotato di ordinaria diligenza ed attenzione, tenendo 182 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 35. DI TULLIO, Art. 2598, in UBERTAZZI, MARCHETTI (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Cedam, Milano, 2012, 2070; GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 110 ss.; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 38. 184 DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2070; GRAUSO, La concorrenza sleale: profili di tutela giurisdizionale e presso le autority, Giuffè, Milano, 2007, 37; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 48; MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 49; Trib. Milano, 28 novembre 1994, in Aida, 1995, 598; Cass., 15 dicembre 1994, n. 10728, in Giur. ann. dir. ind., 1994, 153. 183 52 conto che questi non effettua le proprie scelte di acquisto in base a mirate e documentate valutazioni comparative fra i marchi, bensì sulla base di un esame rapido e sintetico, confrontando la realtà con il ricordo di precedenti esperienze d’acquisto attraverso una stima complessiva del segno distintivo che prescinde da elementi marginali di differenziazione, rilevabili solo ad un esame attento185. Inoltre, nell’individuazione del consumatore al quale fare riferimento nella valutazione della confondibilità occorre tener conto della destinazione abituale dei prodotti. In particolare, una determinata qualificazione professionale e una maggiore avvedutezza e competenza del consumatore nelle scelte d’acquisto possono escludere la potenzialità confusoria dell’atto concorrenziale. In genere, si ipotizza tale competenza del consumatore in relazione a prodotti di prezzo elevato186. Presupposto comune alle ipotesi di confusione, in particolare a quelle riconducibili all’utilizzo di segni distintivi di un concorrente, è la riproduzione di segni distintivi legittimamente usati da altri, ossia tutelati in quanto dotati dei relativi requisiti di validità (di cui al capitolo I per quel che riguarda i marchi). 2.1 Uso di nomi o segni distintivi confusori La prima delle ipotesi delineate dall’art. 2598, n. 1, c.c., come già accennato, tutela i nomi e segni distintivi del titolare da eventuali usi da parte di terzi che possano generare confusione. Il legislatore intende riferirsi ai segni distintivi in un’accezione ampia (qualificando come “nomi” i segni denominativi, e, come “segni distintivi”, i segni emblematici o figurativi, sigle e cifre) che comprende sia i segni distintivi tipici (da sottolineare in tal caso il problema di compatibilità con la tutela già prevista per questi di cui si darà conto nel prossimo paragrafo) 185 CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 111; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2070-2071; GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 146. 186 DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2070-2071; MUSSO, Della disciplina della concorrenza, in DE NOVA (a cura di), Commentario del codice civile e codici collegati, Zanichelli, Bologna, 2012, 1119; Trib. Roma, 10 febbraio 2006, in Riv. dir. ind., 2006, 148. 53 che quelli atipici (quali, ad esempio, gli slogan inseriti in spot pubblicitari, l’emblema dell’impresa, i domain name e le etichette) con la sola eccezione dei segni costituiti dalla forma del prodotto, di cui si parla nell’ipotesi di imitazione servile. Nonostante dalla norma in esame non emerga chiaramente, si ritiene che per essere tutelati i segni distintivi, nella specie i marchi, debbano essere dotati di capacità distintiva, di novità e di notorietà “qualificata”187. Per quel che concerne la capacità distintiva, il segno imitato deve essere idoneo a distinguere i prodotti provenienti da una determinata impresa con quelli analoghi provenienti da un imprenditore diverso. Tuttavia, il segno può perdere la sua capacità distintiva nel tempo (venendo meno in tal caso anche la sua tutela; si parla in tale ipotesi di volgarizzazione), ovvero un segno originariamente privo di tale carattere può acquisirlo (e con esso la tutela) a fronte dell’uso o della notorietà (si parla in tal caso si secondary meaning). Quanto alla novità, anche in tal caso la legge nulla dice a riguardo, ma si presume la necessaria presenza di tale requisito: l’art. 2598, n. 1, c.c., infatti, disponendo circa l’utilizzazione di segni distintivi con quelli “legittimamente usati da altri”, riserva la tutela a chi è titolare di segni che sono legittimamente sul mercato, riferendosi a colui che si sia presentato sul mercato in assenza di diritti anteriori su segni uguali o simili188. Infine, il segno deve essere utilizzato nel mercato, il riferimento è ad un uso cui segua una certa notorietà189, il mero utilizzo non è sufficiente. Per quel che riguarda i segni atipici, non essendo previsto il procedimento amministravo della registrazione che garantisce la “validità” del segno, l’onere di provare che il segno è dotato dei requisiti di tutelabilità grava su chi ne richiede la protezione. 2.1.1 (segue) L’imitazione dell’altrui marchio registrato La tutela di cui all’ art. 2598, n.1, c.c. riguarda ogni tipo di segno (v. supra), nonostante si sia discusso se tra i segni menzionati dall’articolo debbano 187 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 39 ss.; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2074. VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 45-46. 189 Si tratta di una notorietà cui faccia seguito la percezione da parte del consumatore della capacità distintiva del segno definita come “notorietà qualificata”. 188 54 rientrare anche i segni tipici quali la ditta, l’insegna e il marchio registrato che sono già tutelati dalla legge. Nello specifico, si tratta di stabilire se una contraffazione di marchio registrato già specificatamente prevista come illecito e sanzionata dal c.p.i. costituisca, ai sensi dell’art.2598 n.1 c.c., anche atto di concorrenza sleale 190 . La norma sembra ammettere la possibilità di concorso delle due tutele con l’incipit “ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi”. Secondo l’orientamento preferibile, la contraffazione del marchio registrato non integra automaticamente ma può costituire concorrenza sleale confusoria solo quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 2598: e quindi, solo quando vi sia una reale situazione di concorrenza tra il titolare del segno imitato e l’imitatore, ovvero quando il titolare del marchio l’abbia usato in modo da comportare la notorietà del segno in un ambito territoriale coincidente con quello dell’attività del contraffattore e per prodotti identici o affini a quelli di quest’ultimo191. La dottrina prevalente ritiene, quindi, configurabile, a talune condizioni, il cumulo delle due azioni nel processo e ne sottolinea l’utilità: sotto il profilo sanzionatorio, infatti, l’azione di concorrenza sleale è più ampia di quella di contraffazione prevedendo, all’art. 2599 c.c., l’emissione di “opportuni provvedimenti” affinché vengano eliminati gli effetti negativi dell’atto confusorio nonché, all’art. 2600 c.c.192, la presunzione di colpa193. Anche la giurisprudenza, che ha inizialmente assunto una posizione negativa al riguardo ritenendo superflua una doppia qualificazione di illecità della medesima ipotesi, sostiene oggi la cumulabilità delle due azioni ove ne ricorrano i presupposti di ciascuna194. Così il titolare di un marchio registrato può agire verso l’illecita contraffazione dell’imprenditore concorrente sia con azione a tutela dell’uso esclusivo del marchio medesimo, sia con azione di concorrenza sleale, per 190 CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 112. DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2072; GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 135 ss.; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 49-50; Trib. Roma, 25 febbraio 1988, in Giur. dir. ind., 1988, 512. 192 L’articolo prevede che “se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l'autore è tenuto al risarcimento dei danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume”. 193 CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 140. 194 Trib. Milano, 10 dicembre 2007, in Giur. dir. ind., 2007, 1100; Cass., 19 giugno 2008, n. 16647, in Dir. ind., 2008, 469; Cass., 25 settembre 1998, n. 9617, in Foro it., 1998, 50; Cass. civ., 22 luglio 2009, n. 17144, in Dir. ind., 2009, 448. 191 55 ottenere il risarcimento del danno ove quel comportamento abbia creato confondibilità tra prodotti195. E’ esclusa la tutela concorrenziale in tutte le fattispecie in cui il marchio registrato sia protetto anche in assenza di possibilità di confusione, e, in particolare, nel caso in cui venga invocata la tutela extramerceologica del marchio che goda di rinomanza196. 2.2 Imitazione servile Ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c., compie altresì atto di concorrenza sleale chi “imita servilmente i prodotti di un concorrente”. La formula utilizzata dal legislatore appare ampia e volta a ricomprendere nella fattispecie in esame qualsiasi imitazione fedele, pedissequa e completa dei prodotti del concorrente. Tuttavia, tale ipotesi, è ricompresa nelle fattispecie di cui all’art. 2598, n. 1, e, dunque, si ritiene illecita solo quando suscettibile di determinare confondibilità197. Tale valutazione deve essere svolta mediante un’analisi di tipo sintetico, mettendosi nell’ottica del consumatore e tenendo in considerazione il fatto che più il prodotto è di scarsa importanza merceologica, più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e superficiale198. In particolare, integra gli estremi della concorrenza sleale per imitazione servile la condotta dell’imprenditore che imiti la forma del prodotto di un concorrente, ossia riproduca pedissequamente la mera forma esteriore del prodotto del concorrente199: le parti interne o strutturali, infatti, non essendo visibili agli occhi di chi guarda il prodotto non sono idonee a ingenerare confusione. E’ esclusa la configurabilità dell’illecito laddove l’imitazione degli elementi formali del prodotto altrui non evidenzi una somiglianza dell’aspetto 195 CASABURI, Concorrenza sleale e diritti di proprietà industriale, in Dir. ind., 2012, 411; CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 140; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2072. 196 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 50. 197 DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2074; GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 146 ss.. 198 MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 39; Cass., 21 novembre 1998, n. 11795, in Foro it., 152; Cass., 199 CASABURI, La concorrenza sleale: le nuove tendenze della giurisprudenza e i problemi del look-alike, relazione tenuta al Convegno "Il futuro della proprietà intellettuale", Parma, 2010; FLORIDIA, La tipizzazione normativa, op.cit., 367; Cass., 12 febbraio 2009, n. 3478, in Riv. dir. ind., 2009, 473. 56 complessivo dei prodotti ovvero qualora l’imitazione di taluni elementi formali si accompagni ad elementi di differenziazione non marginali percepibili dal pubblico, come nel caso di apposizione sul prodotto imitato del marchio dell’imitatore200. Si parla di imitazione servile illecita non solo nei casi di “initial confusion”, cioè di confusione in cui il consumatore incorre solo nel suo primo approccio al prodotto, ma anche, nei casi di “post-sale confusion”, cioè di confusione in cui incorre non chi effettua l’acquisto, ma chi poi vede il prodotto-copia nelle mani di chi lo ha acquistato201. Questo fenomeno che danneggia i produttori degli originali interessa per lo più i luxury goods ed è da ritenere illecito tanto quanto quegli atti idonei a produrre confusione per l’acquirente. 2.2.1 Le forme tutelabili Come già detto, l’illecito si configura con riguardo all’imitazione dell’aspetto esterno o confezione del prodotto che comporti un inganno circa l’identità del produttore. Le forme alle quali può essere riferito il divieto dell’imitazione servile devono avere capacità distintiva ed hanno tale capacità solo le forme che siano nuove rispetto a forme adottate da imprenditori concorrenti in epoca anteriore, che non siano standardizzate e perciò divenute comuni all’intera categoria dei prodotti di cui si tratta202. E’, inoltre, necessario accertare che le caratteristiche imitate non siano dettate da esigenze funzionali o strutturali e presentino al contempo i requisiti di originalità e, appunto, capacità individualizzante203. Ci si riferisce, tendenzialmente, a segni distintivi tridimensionali ma è corretto riferirsi alla fattispecie in esame anche quando il segno in questione 200 DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2075; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 58-59; sul punto v. Cass., 10 gennaio 1997, n. 1541, in Mass. giust. civ., 1997, 276. 201 GALLI, “Nuova” contraffazione di marchio: dalla confondibilità all’agganciamento parassitario, consultabile in www.indicam.it. 202 FLORIDIA, La tipizzazione normativa, op.cit., 367. 203 DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2075; sul punto Cass., 31 luglio 2008, n. 20884, in Giur. ann. dir. ind., 2008, afferma la presenza dell’illecito concorrenziale relativamente alla pedissequa imitazione di “un particolare prodotto “similpelle” costituito da un rivestimento tipo scamosciato con effetto nuvolato” ritenendo la particolare lavorazione individualizzante, propria del prodotto oggetto di imitazione e non necessitati; v. anche Cass., 26 novembre 2008, n. 28215, in Foro it., 2009, 361; App. Milano, 17 settembre 2008, in Giur. dir. ind., 2009, 493; Trib. Milano, 24 aprile 2004, in Foro it., 2006, 270. 57 consista in un prodotto bidimensionale (ne sono esempio i disegni dei tessuti). La tutela contro l’imitazione servile, in particolare per quel che riguarda le forme di utilità, deve essere coordinata con la tutela brevettuale. Caratteristica di tale sistema è l’imposizione di limiti di durata della protezione (10 anni) da parte del legislatore, con la finalità di garantire l’acquisizione al patrimonio culturale collettivo delle innovazioni tecniche. La tutela concessa dall’art. 2598, n. 1, c.c., è, invece, perpetua; dunque colui che utilizza per primo una determinata forma per il proprio prodotto potrà vietare a terzi di imitarla senza alcuna limitazione temporale. Si verrebbe così a generare una zona di conflitto normativo, con la superfluità della normativa brevettuale, allorquando una forma distintiva di un prodotto sia anche utile. Per evitare una totale disapplicazione della normativa sui modelli di utilità, la giurisprudenza afferma che il generale divieto di imitazione servile debba essere interpretato restrittivamente, nel senso di non comprendere le forme funzionali idonee a costituire oggetto di protezione brevettuale 204 . L’imitazione, in altri termini, per integrare gli estremi della concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, n. 1, “deve riguardare profili del tutto inessenziali alla funzione quali, ad esempio, le dimensioni, le proporzioni delle parti, l’adozione di un particolare colore o di altri particolari formali, sempre del tutto indifferenti rispetto alla funzione del prodotto”205. In particolare, in difetto di brevettazione sono liberamente imitabili, quanto alle forme utili, quelle necessarie, inderogabili per ottenere un risultato tecnico (e cioè non fungibili) 206; quest’ultime sono, dunque, suscettibili di un’imitazione che riproduce la forma “originaria”, ossia quella rivendicata dal suo titolare, ma che presenta talune differenze rispetto a quest’ultima tali da garantire una differenziazione sul mercato senza che venga pregiudicato l’effetto tecnico e funzionale al quale la forma “imitata” si ispira. Si tratta di varianti, appunto, “innocue” perché, evitano il rischio di 204 CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 114. Trib. Napoli, 23 dicembre 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2006, 258; CASABURI, La concorrenza sleale: le nuove tendenze della giurisprudenza e i problemi del look-alike, relazione tenuta al Convegno "Il futuro della proprietà intellettuale", Parma, 2010. 206 FRANZOSI, Imitazione servile e brevetto scaduto: scade il brevetto o il prodotto?, in Contr. e impr., 2001, 522. 205 58 confusione pur non pregiudicando l’effetto tecnico e funzionale della forma207. Né dal divieto di imitazione possono essere tutelate le forme che, benché distintive, abbiano precipua valenza estetica, nel senso di costituire un rilevante fattore di preferenza nell’acquisto per il consumatore di riferimento, dovendo siffatte forme essere tutelate esclusivamente come modelli o disegni registrati e, dunque, con eventuale esperibilità di un’ azione “dipendente” o “integrativa” di concorrenza confusoria, in concorso con l’azione di contraffazione del disegno o modello, ma, inevitabilmente, senza più alcuna surrettizia tutela concorrenziale, una volta che la tutela tipica del disegno e modello sia venuta meno, onde evitare ancora una volta l’altrimenti illogica ed incoerente perpetuazione di una protezione esclusiva per un bene già caduto in pubblico dominio dopo la scadenza della registrazione (il cui termine è fino ad un massimo di 25 anni). 208 2.3. Gli altri mezzi della concorrenza confusoria La clausola di chiusura di cui all’art. 2598, n. 1, apre a fattispecie atipiche rientranti nella categoria, comprendendo tutti quegli atti idonei a “creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”. Poiché gli atti confusori richiedono, per compiersi, l’uso di segni distintivi confondibili e sono però spesso riconducibili alla prima parte della norma, l’applicazione giurisprudenziale della categoria è meno frequente delle precedenti ipotesi e concerne di solito casi di appropriazione di segni distintivi inusuali209. Rientrano nella fattispecie in esame gli atti illeciti di imitazione di elementi distintivi secondari e i comportamenti commerciali, escluse le ipotesi di 207 FLORIDIA, La tipizzazione normativa, op.cit., 368; CASABURI, La concorrenza sleale: le nuove tendenze della giurisprudenza e i problemi del look-alike, relazione tenuta al Convegno "Il futuro della proprietà intellettuale", Parma, 2010; App. Milano, 28 ottobre 2003, in Riv. dir. ind., 2004, 14, in merito ha concluso che il produttore di mattoncini interscambiabili con quelli della società Lego, nonostante la scadenza del brevetto, era tenuto ad un “onere di differenziazione”, vale a dire ad apportare al prodotto delle “varianti innocue”, atte a differenziare la forma del proprio prodotto da quella “originale”. 208 MUSSO, Della disciplina della concorrenza, op.cit., 1126; sul punto v. Trib. Milano, 6 febbraio 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2009, 687; Trib. Napoli, 23 dicembre 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2006, 258. 209 CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 115. 59 abuso di segni distintivi e di imitazione servile, idonei a generare confusione in merito alla provenienza del prodotto e servizio offerto210. Il primo gruppo di atti illeciti comprende l’imitazione di elementi formali altrui, diversi dai segni distintivi e dai prodotti in senso tecnico, che contribuiscono a formare l’impressione d’insieme che influenza le scelte d’acquisto del consumatore, esercitando una funzione di richiamo211. In giurisprudenza, l’applicazione di tale fattispecie si è estesa, ma talvolta, appunto, si sovrappone con quella prevista nella prima parte dell’art. 2598, n. 1, c.c.. In particolare, è stato ritenuto illecito l’atto di imitazione di materiale “afferente alla presentazione tecnico-pubblicitaria del prodotto, insuscettibile di autonoma commercializzazione”212, poiché tale materiale identifica, agli occhi del consumatore, il prodotto al quale rimanda. Ancora, rientra nella fattispecie in esame, l’imitazione degli altrui stabilimenti 213 , ovvero dell’architettura o delle decorazioni, o degli altrui furgoni utilizzati per la distribuzione dei prodotti214. Un secondo gruppo di fattispecie comprende tutti i comportamenti volti a creare o rafforzare equivoci sull’impresa di provenienza. Si tratta anche in tal caso di una categoria aperta di comportamenti atipici che la giurisprudenza ha tentato di “tipizzare”. Tra gli altri, si annoverano quali appartenenti al gruppo in esame, la diffusione di un’inserzione pubblicitaria relativa ad una manifestazione sportiva omettendo il marchio del concorrente che ne fa da sponsor esclusivo215 o il parcheggio sistematico del proprio furgoncino pubblicitario davanti ai locali del concorrente216. 3. L’appropriazione di pregi 210 GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 183; TREVISAN, CUOZZO, Proprietà industriale, intellettuale e IT, Ipsoa, Milano, 2013, 78; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2079. 211 Trib. Roma, 19 dicembre 2006, in Giur. ann. dir. ind., 2007, 571. 212 Trib. Modena, 22 luglio 199, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 362. 213 App. Milano, 11 dicembre 1958, in Riv. dir. ind., 1959, 175. 214 Trib. Torino, 11 settembre 1978, in Giur. ann. dir. ind., 1978, 498. 215 Trib. Bologna, 19 marzo 1988, in Giur. ann. dir. ind., 1988, 2301. 216 App. Roma, 16 maggio 1963, in Giur. ann. dir. ind.,1963, 151. 60 Come accennato nel precedente paragrafo, commette atto di concorrenza sleale anche colui che si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente, attività che consiste nella mendace attribuzione a sé stessi di caratteristiche positive appartenenti ai prodotti o all’attività di un concorrente, “in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori”217 e da provocare, così, un potenziale danno per i concorrenti sotto il profilo di sviamento della clientela218. Sono considerati pregi suscettibili di indebita appropriazione tutti i fatti riguardanti i caratteri dell’impresa, i risultati da essi conseguiti o le qualità dei prodotti o dei servizi che per il pubblico rappresentino o possano rappresentare motivi di apprezzamento positivo e quindi di preferenza dell’impresa e delle sue prestazioni rispetto ad altre imprese219. Gli elementi cui ci si riferisce devono essere individualizzanti per l’impresa del concorrente: è, infatti, escluso l’illecito concorrenziale se l’elemento, di cui il soggetto si appropria, è già diffuso. Ad esempio, integra un’attività di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598, n. 2, l’attribuzione, in un’offerta pubblicitaria, alla propria azienda di una macchina in realtà prodotta dal concorrente sfruttando le potenzialità di accaparramento della clientela220. L’appropriazione di pregi deve essere tale da sviare la clientela sull’ipotesi che l’impresa che si è appropriata delle qualità abbia le stesse caratteristiche (o le abbiano i suoi prodotti o servizi) di quella del concorrente. Non si tratta in tale caso, di confusione, ma di erroneo convincimento; non vi sono, dunque, interferenze tra il comma 1 dell’art. 2598 e il comma 2 del medesimo articolo221. L’appropriarsi consiste nella dichiarazione, in una comunicazione rivolta al mercato, che la propria impresa o i propri prodotti detengono determinate caratteristiche proprie dell’impresa o dei prodotti di un concorrente, non tanto nella riproduzione di tali pregi 222 . Si pone qui un problema di sovrapposizione con la fattispecie del mendacio concorrenziale prevista 217 MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 75; Cass., 10 novembre 2004, n. 9387, in Mass. giust. civ., 1994, 11. Trib. Venezia, 12 dicembre 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 1115. 219 FLORIDIA, La tipizzazione normativa, op.cit., 374; Trib. Torino, 29 gennaio 2007, in Giur. It., 2007, 2505. 220 Trib. Bologna, 5 agosto 2005, in Dir. ind., 2006, 284, nota SALVETTI. 221 MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 76. 222 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 92. 218 61 all’art. 2598, n. 3. La peculiarità dell’ipotesi di cui al n. 2, che differenzia quest’ultima dal mendacio, consiste nell’appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa “di un concorrente” con il riferimento ad un pregio appartenente in via esclusiva ad un determinato imprenditore che non sia, nonché riprodotto, neppure riproducibile. Ci si riferisce al mendacio, invece, quando l’appropriazione illecita di pregi riguarda caratteristiche che potrebbero essere proprie di qualsiasi concorrente223. Permangono in ogni caso ipotesi in cui la fattispecie si sovrappone inevitabilmente con quella generale del mendacio. In linea pratica, che le fattispecie concrete siano riferibili all’art. 2598, n. 2, c.c. o all’art. 2598, n. 3, c.c. gli effetti che producono sono i medesimi e ad esse sono applicabili le medesime sanzioni. Nell’ipotesi di cui al n. 2, si è soliti far rientrare la c.d. "pubblicità parassitaria" e quella "per riferimento" (o "agganciamento"), di cui si dirà al paragrafo successivo. La prima si determina attraverso l’auto-attribuzione di qualità positive del concorrente; la seconda è volta a far ritenere i propri prodotti quali simili a quelli di un concorrente allo scopo di sfruttare la rinomanza che questi possiede tra il pubblico. 3.1 (segue) L’agganciamento Nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 2598, n. 2, c.c., si parla di agganciamento quando chi si propone presso i consumatori lo fa equiparandosi in modo esplicito ad un concorrente che gode di notorietà sul mercato e ai suoi prodotti, approfittando, così del frutto dell’altrui lavoro o investimento onde la caratteristica principale di tale fattispecie consiste proprio nella natura parassitaria della condotta224. A tal fine, il nome del concorrente o il suo marchio saranno menzionati per trarre beneficio, non solo dalla sua notorietà, ma anche dalla fiducia di cui essi godono sul mercato e dalla conoscenza tra il pubblico delle loro caratteristiche. 223 SARTI, L’impresa nel mercato, op.cit., 193. MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 118; CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 118. 224 62 Chi pone in essere la condotta di concorrenza sleale, quindi, può trarre vantaggi inerenti sia a risparmi ottenuti per l'affermazione del suo prodotto, sia all’agganciamento parassitario sfruttando la fama raggiunta dal titolare del marchio noto; d’altro canto, il concorrente potrà subire un offuscamento dell’immagine del marchio noto legato all’equiparazione a prodotti di qualità scadente o di fascia di prezzo più bassa 225 , cui si aggiunge o può aggiungersi un indebolimento del carattere distintivo del segno a causa del venir meno della sua unicità sul mercato226. L’equivalenza ai prodotti del concorrente può riguardare un pregio specifico ma può anche avere portata più generale, riguardando la generica buona qualità del bene richiamato, agganciandosi, così, alla fama raggiunta nel tempo dal concorrente227. In tale ipotesi, l’illiceità dell’atto sussiste a prescindere del mendacio: quest’ultimo, infatti, non è più necessario qualora il terzo approfitti dell’accreditamento del prodotto del concorrente con un’azione parassitaria, la quale ricorre sia qualora il prodotto “a traino” sia in realtà diverso da quello del concorrente, sia nell’ipotesi in cui il primo possieda, in effetti, caratteristiche simili a quello noto. La fattispecie ricorre in presenza di un uso dei segni distintivi del concorrente che escluda però ogni possibilità di confusione (in tal caso si ricadrebbe nel n. 1 del 2598 di cui si è già detto o nella contraffazione dell’altrui marchio)228: ci si riferisce, pertanto, ad un uso atipico, ovvero ad un uso in funzione descrittiva. Ipotesi ricorrenti di agganciamento sono la presentazione di un prodotto altrui come proprio, attraverso la pubblicazione e la distribuzione di cataloghi e dépliant che contengono immagini altrui; l’impiego, sul prodotto o nella pubblicità, oltre che del proprio marchio, anche di quello altrui preceduto dalla parola “tipo”, “modello” o simili con lo scopo di escludere così una possibile confondibilità; ancora l’immissione sul mercato di un prodotto nuovo con una forma analoga a quella di un prodotto già noto, anche se contraddistinto da un segno denominativo visibilmente diverso 229. 225 Trib. Milano, 21 luglio 2004, in Giur. ann. dir. ind.,2005, 477. Trib. Bologna, 12 febbraio 2008, in Giur. ann. dir. ind., 2009, 1671. 227 MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 79; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 95-96. 228 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 97. 229 Trib. Milano, 21 luglio 2004, in Massime, 2005. 226 63 Ci si riferisce, in quest’ultima ipotesi, ai casi c.d. di look-alike, fattispecie che prevede l’imitazione da parte di terzi della confezione del prodotto che può indurre, erroneamente, il consumatore a scegliere il prodotto “che imita quello originale”230. I look-alike, inoltre, comportano un forte rischio di annacquamento, ma anche di svilimento del marchio originario; la qualità dei prodotti look-alike può infatti essere ben inferiore rispetto a quella degli originali, sicché il consumatore, deluso, ben può trasferire la valutazione negativa del prodotto look-alike a quello imitato231. In tutte le ipotesi nelle quali si realizza la fattispecie dell’agganciamento, è messa in evidenza la sua natura parassitaria, denotata, appunto, dalla volontà del terzo di “agganciarsi” al credito che l’impresa o i prodotti del concorrente hanno sul mercato, approfittando così del lavoro e dell’investimento altrui. 4. Le fattispecie dell’art. 2598 n.3 c.c. L’art. 2598 al n. 3, come già anticipato, costituisce una clausola generale residuale (ispirata all’art. 10-bis, della menzionata Convenzione d’Unione di Parigi) che qualifica come sleali tutti quegli atti “non conformi ai principi di correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda”. Tale ipotesi dovrebbe comprendere tutte quelle fattispecie, non tipizzate, non rientranti nelle ipotesi di cui ai nn. 1, 2 del medesimo articolo. L’intento è quello di evitare una “cristallizzazione” di tutti i comportamenti contrari alla correttezza professionale, lasciando al giudice la facoltà di decidere caso per caso ponderando gli interessi lesi degli imprenditori in conflitto232. Tuttavia, si tratta anche in tale caso di ipotesi tipizzate negli anni dalla giurisprudenza, molte delle quali già individuate prima dell’entrata in vigore 230 SIRONI, Art. 20, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2013, 404; Trib. Milano, 21 luglio 2004, in Giur. dir. ind., 2005, 433. 231 CASABURI, La concorrenza sleale: le nuove tendenze della giurisprudenza, in Riv. dir. ind., 2011, 194. 232 SARTI, L’impresa nel mercato, op.cit., 193. 64 della norma, che vengono ricondotte al n. 3 per poter trovare una collocazione normativa. Si potrà guardare ai principi della correttezza professionale e all’idoneità a danneggiare l’altrui azienda del n. 3 anche qualora una fattispecie nominata al n. 1 e al n. 2 233 dia luogo ad incertezze interpretative circa il suo inquadramento. Un criterio guida per il riconoscimento degli atti di concorrenza sleale, di cui al n. 3 della norma, è la “contrarietà ai principi di correttezza professionale”, presupposto che interessa anche le ipotesi di cui al n. 1 e n. 2 dell’articolo. Tale principi non hanno un contenuto preciso e codificato ma in merito sussistono diverse interpretazioni della giurisprudenza. Secondo parte della giurisprudenza i principi di correttezza professionale sono costituiti dalle consuetudini generalmente affermate e storicamente variabili, quali quelle del buon costume commerciale234. Un altro orientamento giurisprudenziale, che sottrae l’interpretazione della norma all’arbitrio del giudice e sembra essere, dunque, maggiormente preferibile, ritiene debbano considerarsi lesivi della concorrenza i comportamenti tesi ad eliminare quest’ultima da una parte sostanziale del mercato, in virtù del già citato art. 41 Cost. 235 , impedendo uno sviluppo razionale ed efficiente del sistema (lì dove, appunto, non giustificati dal raggiungimento di un’utilità sociale)236. Di fatto però il giudice, nella valutazione di comportamenti non conformi alla correttezza professionale, si riferisce alla morale corrente, o più esattamente alla propria interpretazione di questa237; tuttavia, dovrà in ogni caso valutare, anche, l’idoneità del comportamento ad arrecare danno ai principi della libera concorrenza. Ulteriore criterio da accertare ai fini dell’applicazione del suddetto articolo subordina l’illiceità del comportamento a l’idoneità di questo a danneggiare 233 In tali ipotesi tipizzate, secondo un filone della dottrina, la violazione della correttezza professionale sarebbe implicita e sottintesa, assunta dalla normativa per mezzo di una presunzione iuris et de iure. 234 GRAUSO, La concorrenza sleale: profili di tutela giurisdizionale e presso le autority, Giuffè, Milano, 2007, 70; Cass., 15 dicembre 1983, n. 7399, in Giur. It., 1984, 1594; App. Milano, 20 ottobre 2003, in Riv. dir. ind., 2004, 14. 235 L’art. 41 Cost. cosi’ statuisce: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. 236 Cass., 11 agosto 2000, n.10684, in Dir. giust. 2000, 12. 237 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 30-31. 65 l’altrui azienda. Il danno, a cui l’articolo si riferisce, è un qualsiasi danno economico che colpisca l’impresa del concorrente, potrà quindi concernere la sua immagine, la sua clientela o qualsiasi elemento organizzativo interno. Non è necessario che il danno concorrenziale si sia realizzato ma solo che la situazione prefigurata sia idonea a provocarlo. Si richiede, dunque, l’idoneità della condotta di un concorrente ad arrecare pregiudizio all’altro, pur in assenza di un danno attuale 238 . Non è, inoltre, richiesta la dimostrazione dell’effettiva produzione del danno239. Si è soliti suddividere le fattispecie tipizzate riconducibili al n.3, in due gruppi di ipotesi, senza la presunzione che tale classificazione abbia alcun rilievo giuridico240. In particolare, un primo gruppo comprende quegli atti illeciti che alterano il mercato senza il riferimento ad uno specifico imprenditore, quali, ad esempio, il mendacio concorrenziale, le manovre sui prezzi e le violazioni di norme di diritto pubblico. In un secondo gruppo rientrano quegli atti rivolti ad un determinato concorrente distinguendo tra questi quelli che colpiscono il suo patrimonio organizzativo e tecnico 241 e quelli che ledono la situazione di mercato dell’azienda242. 4.1 La concorrenza parassitaria Il termine concorrenza parassitaria vale ad identificare un’ipotesi di condotta illecita che si sostanzia nell’attività di un’impresa che ripercorre sistematicamente le orme del concorrente di maggior successo, ponendosi, così, sulla scia delle altrui scelte imprenditoriali243. 238 SIROTTI GAUDENZI, Manuale pratico dei marchi e brevetti, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2012, 136-137; Cass. civ., 19 febbraio 1999, n. 1259, in Riv. dir. ind., 1999, 117. 239 Cass., 30 maggio 2007, n. 12681, in Foro it., 2007. 240 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 102. 241 Vanno menzionati, in questo gruppo, lo storno di dipendenti, la sottrazione di segreti aziendali, il concorso nell’altrui inadempimento di obbligazioni. 242 A tale gruppo possono ascriversi la concorrenza dell’ex dipendente, la concorrenza parassitaria, il boicottaggio, l’imitazione “a ricalco”. 243 TAVASSI, Tutela contro il parassitismo nel mondo della moda: gli sviluppi della giurisprudenza, in Dir. ind., 2013, 335. 66 Tale fattispecie è stata oggetto di diverse interpretazioni: in particolare, il susseguirsi delle decisioni giurisprudenziali nel tempo ha confinato l’ipotesi ad uno spazio limitato subordinando il verificarsi della specie a sempre maggiori restrittive. giurisprudenziale 244 Secondo un consolidato orientamento , che fa riferimento ad alcuni studi compiuti in passato245, affinché si verifichi concorrenza parassitaria è necessario ricorra un’imitazione sistematica (ancorché non integrale) e protratta nel tempo delle iniziative di un concorrente, poste in essere sfruttando parassitariamente, appunto, il lavoro, gli studi e, genericamente, le attività effettuate dall'imprenditore imitato246. L’illecito è considerato come un mezzo idoneo a danneggiare l’impresa altrui sia sotto il profilo dello sviamento della clientela sia sotto quello dell’indebito sfruttamento da parte di terzi di costi economici e tempo 247. Secondo tale impostazione, caratteristica essenziale del comportamento illecito è la continuità e l’eterogeneità dell’azione imitativa che comprende una pluralità di atti non confusori 248 che, se considerati singolarmente potrebbero essere leciti, tuttavia nella loro globalità evidenziano un comportamento concorrenziale scorretto, in quanto finalizzato allo sfruttamento del lavoro altrui, ai sensi del n. 3 dell’articolo in esame249. Nell’ipotesi rientrano le imitazioni di prodotti, di modalità pubblicitarie, di tecniche di commercializzazione che non possono essere ricondotte alla fattispecie di cui al n.1 poiché il rischio di confusione non sussiste (in quanto gli atti imitativi risultano contraddistinti con chiarezza dal segno distintivo 244 Trib. Venezia, 13 ottobre 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2009, 1231; Trib. Torino, 26 gennaio 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2009, 667; Trib. Bologna, 11 luglio 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2009, 1089. 245 V. FRANCESCHELLI, Concorrenza parassitaria, in Dir. ind., 1956. 246 FRANCESCHELLI, Concorrenza parassitaria, in Dir. ind., 1956, 265 ss.; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2103; esempi di atti illeciti sono la ripresa di diversi elementi della linea di produzione, oppure l’imitazione del singolo “pezzo forte”, di grande successo e già affermato sul mercato, grazie agli ingenti sforzi pubblicitari e promozionali del concorrente 247 PASCHI, La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 e la sua interpretazione nella giurisprudenza più recente, in Dir. ind.,2012, 223; Cass. 17 aprile 1962, n. 752, in Giur. cost. civ., 1962, 918, in merito all’illecito parassitario afferma che “tale comportamento, oltre a costituire un esoso sfruttamento dell'altrui iniziativa e organizzazione, contrario all'ampio concetto di correttezza, esigendo gli usi onesti che nella competizione per la conquista dei mercati si prevalga sui concorrenti avvalendosi di mezzi di ricerca e finanziari propri, è idoneo a danneggiare l'altrui azienda, a causa dei minori costi di produzione ai quali deve sottostare l'imitatore, che gli consentono di praticare, a parità di prodotto, prezzi inferiori a quelli del concorrente e di avviare verso la propria impresa una quantità di affari e di clienti che avrebbero potuto invece avviarsi verso l'imprenditore imitato ». 248 V. Trib. Monza, 17 dicembre 2001, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 51. 249 MUSSO, Della disciplina della concorrenza, op.cit., 1177; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2103. 67 dell’imprenditore) ma che sono atti comunque in contrasto con i principi di correttezza professionale. Il comportamento illecito fin qui descritto denota le peculiarità della cc.dd. concorrenza sleale diacronica, ovvero, in sintesi, la condotta di chi riproduce sistematicamente nel tempo le iniziative imprenditoriali altrui per trarne indebito vantaggio. Ulteriore orientamento ritiene si verifichi un’ipotesi di concorrenza sleale c.d. sincronica in presenza di un comportamento illecito di imitazione pedissequa e sistematica del lavoro altrui con una pluralità di atti posti in essere simultaneamente o in un arco di tempo relativamente breve250. In merito, la Suprema Corte ha concluso che “non v'è ragione di ritenere indispensabile la ripetitività nel tempo di più atti imitativi, essendo perfettamente logico che, la sistematicità e continuità, da cronologicamente successive che sono nell'ipotesi di base, possano anche essere simultanee ed esprimersi nei caratteri quantitativi dell'imitazione”251. In tal senso, quel che connota l’illiceità della condotta non sembra essere l’elemento temporale (la ripetizione nel tempo), bensì, per l’appunto, quello quantitativo dell’imitazione252. Alcune interpretazioni più restrittive richiedono, invece, che l’imitazione sistematica non confusoria, per essere considerata scorretta, deve quanto meno avere ad oggetto iniziative originali o perfino “creative” dell’imprenditore concorrente253. Tuttavia, la tutela dell’originalità non è più azionabile una volta che quest’ultima, “insita in una determinata idea realizzata da un imprenditore, non potendo essere oggetto di privativa” sia divenuta di “dominio pubblico” 254 ; dunque, secondo tale impostazione, non sarebbero illeciti quegli atti imitativi che riguardano prodotti generici o standardizzati o iniziative già consolidate sul mercato255. 250 PASHI, La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 e la sua interpretazione nella giurisprudenza più recente, in Dir. ind.,2012, 223; Trib. Modena, 1 luglio 2010, in Giur. dir. ind., 2010, 275. 251 Cass., 17 novembre 1984, n. 5852, in Riv. dir. ind., 1985, 3. 252 TAVASSI, Tutela contro il parassitismo nel mondo della moda: gli sviluppi della giurisprudenza, in Dir. ind., 2013, 336; DE SANCTIS, La protezione delle forme nel codice della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2009, 300. 253 MUSSO, Della disciplina della concorrenza, op.cit., 1177; Trib. Torino, 26 gennaio 2009, in Giur. dir. ind., 2009, 667. 254 Cass. civ., 17 novembre 1984, n.5852, in Foro it., 1985, 127; Trib. Milano 5 luglio 2011, in Riv. dir. ind., 2012, 217. 255 PASCHI, La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 e la sua interpretazione nella giurisprudenza più recente, in Dir. ind.,2012, 225. 68 La giurisprudenza nella maggior parte delle pronunce, in ogni caso, qualifica la fattispecie con riferimento alla visione tradizionale dell'illecito quale imitazione sistematica di diverse iniziative commerciali del concorrente256. In particolare, più di recente, muove verso interpretazioni meno restrittive della condotta delineando ipotesi di concorrenza sleale anche in riferimento ad atti imitativi riguardanti una pluralità di prodotti o singole iniziative imprenditoriali, sia diacronici che sincronici257. In questa prospettiva, la fattispecie di cui all’art. 2598, n. 3, in generale, si delinea nella costante e sistematica attività imitativa delle iniziative imprenditoriali altrui, volta allo sfruttamento del lavoro e della creatività del concorrente col fine di conseguire in breve tempo un indebito posizionamento nel settore di riferimento ed un ritorno economico258. A titolo esemplificativo il Tribunale ha sanzionato la condotta sleale nell’imitazione sistematica di una collezione di gioielli altrui in quanto, questa “seppure non confusoria, è illecita giacché cagiona una potenziale alterazione del meccanismo concorrenziale, concretatasi nell'appropriarsi del risultato di mercato conseguito grazie all'organizzazione dell'impresa concorrente”. In particolare, si è sottolineato come le caratteristiche estetiche dei beni prodotti dall’ imitatore siano state “in grado di inflazionare quel medesimo segmento di mercato occupato dalla ricorrente sfruttando illecitamente l'accreditamento commerciale già conseguito dalle res imitate”259; condotta sanzionata ai sensi dell’art. 41 della Cost. e dell’art. 2598, n. 3, c.c.. Inoltre, gli atti di concorrenza sleale rientranti nella fattispecie, possono essere costituiti oltre cha da condotte non confusorie, anche da quelle confusorie di per sé illecite (quali sono atti di imitazione servile o contraffazione di un modello), represse sia singolarmente in relazione alle 256 Trib. Varese, 7 luglio 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2003, 4584; Trib. Bologna, 17 luglio 2009, in Giur. ann. dir. ind, 2009, 5447; Trib. Venezia, 13 ottobre 2009, in Giur. ann. dir. ind, 2009, 5460. 257 TAVASSI, Tutela contro il parassitismo nel mondo della moda: gli sviluppi della giurisprudenza, in Dir. ind., 2013, 337; BOGNI, La concorrenza parassitaria nella più recente giurisprudenza, relazione presentata al Convegno “Concorrenza parassitaria, look alike, illeciti degli ex dipendenti: strumenti per la tutela delle imprese”, Milano, 2011. 258 Cass., 10 novembre 1994, in Giust. civ., n. 9387, 1995, 105. 259 Trib. Milano, 24 gennaio 2012, in Banca dati DeJure. 69 norme che violano, sia come parte di una condotta globale che integra un’ipotesi di concorrenza sleale, di cui all’art. 2598, n. 3260. CAPITOLO III: LA CONTRAFFAZIONE DEL MARCHIO SOMMARIO: 1. La violazione del diritto di marchio - 2. L’azione di contraffazione - 2.1 (segue) La legittimazione attiva e passiva - 3. Onere della prova - 4. Le misure cautelari 4.1 L’inibitoria e il ritiro dal commercio - 5.Il risarcimento del danno - 5.1 Il danno emergente e il lucro cessante - 5.1.1 L’art. 125, co. 3, c.p.i. e la retroversione degli utili 1. La violazione del diritto di marchio Con la registrazione del marchio il titolare, come già detto, acquisisce un diritto esclusivo di suo utilizzo. La protezione, in riferimento all’altrui uso illegittimo del segno, è garantita dalle disposizioni che tutelano, non solo il titolare di un diritto sul segno anteriore, ma anche il consumatore che non potrebbe più fare affidamento sul segno distintivo nel compiere le sue scelte di acquisto, in quanto verrebbe meno la funzione distintiva del marchio nel mercato261. La violazione del diritto di esclusiva sul segno distintivo riconosciuto al titolare del marchio può assumere due forme: contraffazione ed usurpazione 262 . In merito, la Cassazione 263 si riferisce all’ipotesi di contraffazione quando vi è la “riproduzione integrale, in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa, di un marchio o di un segno distintivo”; mentre ricorre l’usurpazione “quando la riproduzione è parziale, ma tale da potersi confondere col marchio originario o con il segno distintivo”. Tale distinzione non è però stata giudicata rilevante, anche alla luce del dettato normativo dalla dottrina prevalente che si riferisce 260 PASCHI, La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 e la sua interpretazione nella giurisprudenza più recente, in Dir. ind.,2012, 227. 261 La tutela dei diritti di proprietà industriale è stata rafforzata dopo il d.lgs. del 13 agosto 2010, n.131. 262 PERON, MOLINARI, Art. 2569, in CENDON (a cura di), Commentario al codice civile, Giuffrè, Milano, 2010, 254. 263 Cass. pen., 9 marzo 2005, n. 38068, in Riv. Pen., 2006. 70 genericamente ad atti di contraffazione in entrambi i casi, facendo rientrare nella fattispecie ogni “imitazione” del marchio altrui264. Nonostante il c.p.i. non dia una definizione di contraffazione, la fattispecie si desume dall’art. 20, che dispone in merito ai diritti conferiti dalla registrazione, di cui si è detto al precedente capitolo I265. In sintesi, sono tre le ipotesi in cui un utilizzo da parte di terzi del segno altrui rappresenta un’azione di contraffazione. Nell’ipotesi di cui alla lett. a) del suddetto articolo, si parla di tutela di carattere assoluto del marchio tralasciando l’accertamento della sussistenza di un rischio di confusione; in talune ipotesi, infatti, questo potrebbe non sussistere affatto (si pensi a due prodotti contrassegnati da un segno identico venduti l’uno in una boutique, l’altro, ad un prezzo notevolmente più basso, su una bancarella)266. Una tutela così rigorosa, però, è riservata ai casi in cui l’identità dei beni e dei segni sia davvero totale (o le differenze siano limitate a dettagli irrilevanti)267. Nelle fattispecie di cui al punto b) è invece richiesto il determinarsi di un rischio di confusione per il pubblico, che può “consistere anche in un rischio di associazione”. Tale rischio si produrrà in due casi distinti: quando c’è confusione in senso stretto, che si verifica laddove un consumatore acquisti il prodotto proveniente dal contraffattore credendo di acquistare quello di un dato imprenditore per un errore derivante dalla somiglianza dei segni; o quando un segno identico o simile sia apposto su prodotti o servizi affini e la confusione si determini in quanto i consumatori ritengono che il bene provenga dalla medesima fonte produttiva: in tal caso l’errore consiste nell’attribuire quel dato prodotto all’imprenditore titolare del marchio contraffatto268. Infine, nell’ipotesi di cui alla lett. c), se il marchio gode di rinomanza il titolare ha il diritto di vietare a terzi l’utilizzo di un segno identico o simile al proprio 264 BARBUTO, Art. 2569, in RUPERTO (a cura di), La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina, Giuffrè, Milano, 2005, 3836 ss.; SARACENO, La contraffazione del marchio. Presupposti sostanziali, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009, 256; PERON, MOLINARI, Art. 2569, op.cit., 254. 265 In merito, v. supra, cap. 1, par. 6 relativo alla tutela del marchio. 266 GHIDINI, DE BENEDETTI, Codice della proprietà industriale, Il sole 24 ore, Milano, 2006, 73; PICARETTA, TERRANO, Il nuovo diritto industriale, Il sole 24 ore, Milano, 2005, 71. 267 RICOLFI, La tutela del marchio, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino, 2012, 129. 268 Trib. Milano, 3 giugno 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 933; Trib. Firenze, 15 giugno 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 974; SARACENO, La contraffazione del marchio. Presupposti sostanziali, op.cit., 260. 71 anche per prodotti non affini, qualora tale uso consenta di trarre un indebito vantaggio dalla capacità distintiva o dalla rinomanza del segno oppure rechi pregiudizio agli stessi. Per quel che riguarda il giudizio di confondibilità tra i segni occorre procedere una valutazione unitaria e sintetica di tutte le caratteristiche dei due marchi269. In merito a tale giudizio, secondo un orientamento dottrinario, di cui si è ampiamente detto nel capitolo I, è opportuno distinguere fra confondibilità in astratto, ossia sulla base delle risultanze della registrazione 270 e confondibilità in concreto, ossia avuto riguardo all’uso del segno e all’effettivo rischio di confusione per il pubblico271. Dopo varie interpretazioni a favore dell’uno o dell’altro criterio di valutazione, la dottrina sembra ormai essere giunta a ridimensionare e a superare il problema di una contrapposizione tra valutazione in astratto e in concreto. Si rileva, al riguardo, che l’inconveniente cui vuole porre rimedio la tesi della valutazione in astratto è quello dell’eventualità che le modalità concrete dell’uso fatto dal terzo possano escludere un rischio di confusione che viceversa dovrebbe affermarsi se si considerassero i segni in sé272: il che, tuttavia, non sarebbe sensato, giacché potrebbe portare ad una riduzione della tutela del marchio usato rispetto a quella che il marchio aveva al momento della registrazione, ovvero prima di essere utilizzato. Pertanto, sarebbe preferibile una valutazione in concreto, alla quale potrà eventualmente aggiungersi quella in astratto, in modo da garantire una maggiore tutela al segno cui sia seguito un uso dopo la registrazione. Inoltre, è necessario tener conto della normale diligenza e avvedutezza del consumatore destinatario nonché della sua percezione dei segni e beni in questione. Se i segni hanno un forte tasso di somiglianza, il pericolo di confusione potrà verificarsi anche in relazione a beni relativamente distanti; viceversa, nel caso di identità o di rilevante affinità fra le merci, la 269 I marchi sono comparati sotto l’aspetto visivo, fonetico e logico-concettuale. Con riferimento ai due marchi in contestazione, in sé considerati, a prescindere dall’uso che del segno venga fatto in concreto da parte del presunto contraffattore, che potrebbe non essere confusorio per l’aggiunta di elementi di differenziazione. 271 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 55; PERON, MOLINARI, Art. 2569, op.cit., 255. 272 SIRONI, Art. 20, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffè, Milano, 2013, 319. 270 72 contraffazione potrà essere ritenuta anche nel caso in cui il grado di rassomiglianza fra i segni sia abbastanza ridotto273. A titolo esemplificativo, sono stati ritenuti confondibili: “Emidio Tucci” e “Emilio Tucci” 274 , “Arkea” e “Ikea” 275 , “Gucci” e “Guccini” 276 . Non sono, invece, stati ritenuti confondibili: “Witch” e “Winx”277 e “Aliparma” e “Parma Alimentare”278. 2. L’azione di contraffazione L’azione cc.dd. di contraffazione è promossa dal titolare del diritto sul marchio ed è “un’azione di carattere reale avente ad oggetto immediato e diretto la tutela della titolarità esclusiva del bene immateriale destinato al servizio di un’impresa, nei confronti di chiunque ponga in essere un fatto oggettivamente lesivo di quella titolarità indipendentemente dalla sua buona fede”279, nella sua attività economica280. Suddetta azione è, dunque, salvo l’eventuale decadenza del marchio, imperscrittibile. L’azione di contraffazione si distingue da quella per la repressione della concorrenza sleale in quanto la prima ha, appunto, natura reale, ed è posta a presidio del diritto all’utilizzo in via esclusiva del segno distintivo; la seconda, ha carattere personale ed è volta a reprimere gli atti di scorrettezza professionale idonei a creare confusione con i prodotti e l’attività di un concorrente e a danneggiare l’impresa altrui281. Con il termine azione di contraffazione si vuole indicare l’azione con la quale sono chiesti al giudice, previo accertamento della lesione del relativo diritto, 273 RICOLFI, La tutela del marchio, op.cit., 133. Trib. Torino, 12 agosto 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 4893. 275 Trib. Napoli, 15 marzo 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 4415. 276 App. Roma, 11 maggio 1992, in Giur. ann. dir. ind., 1992, 623. 277 Trib. Bologna, 2 agosto 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 4831. 278 Trib. Piacenza, 1 maggio 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 4737. 279 Cass. civ, 13 febbraio 2009, n. 3639, in Foro it., 2009, 1037; Cass., 7 marzo 2008, n. 6193, in Mass. Giur. it., 2008. 280 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 211 ss.; RICOLFI, La tutela del marchio, op.cit., 127 ss.; FLORIDIA, Il riassetto della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2006, 490 ss.; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 264-265. 281 Cass., 22 febbraio 1986, n. 1080, in Foro It., 1986, 3064. 274 73 provvedimenti di tutela in forma specifica del diritto di proprietà industriale violato282. Nello specifico, i provvedimenti che il titolare del diritto di esclusiva sul segno può chiedere al giudice sono: l’inibitoria, il ritiro dal commercio, la distruzione o l’assegnazione in proprietà degli oggetti contraffatti, il risarcimento del danno, la restituzione dei profitti, la pubblicazione della sentenza283. E’ anche possibile che venga proposta un’azione volta a far accertare e dichiarare che un determinato comportamento non costituisce uso illecito del marchio altrui e, quindi, contraffazione 284 . Tale azione, definita di “accertamento” o di “non contraffazione”, può essere proposta solo quando vi sia stata una qualunque forma di contestazione mossa dal titolare del segno285. Quanto alla giurisdizione, l’art. 120 c.p.i. dispone che per le azioni in materia di marchi nazionali e di marchi internazionali, essa appartiene alla Autorità giudiziaria ordinaria italiana, qualunque sia la cittadinanza, il domicilio o la residenza delle parti286. 2.1 (segue) La legittimazione attiva e passiva Il titolare di un diritto di proprietà industriale è legittimato ad agire contro il terzo che stia violando il suo diritto per ottenere dal giudice la condanna del convenuto e l’irrogazione a suo carico delle sanzioni previste dalla legge 287. La legittimazione attiva alla difesa di tale diritto, per quel che concerne il marchio nazionale, è riservata al titolare del marchio registrato o in corso di registrazione e del marchio di fatto (si parla in quest’ultimo caso di violazione del diritto e non di contraffazione); nel primo caso, anche se il 282 COMASTRI, Sui rapporti tra azione di contraffazione e azione di concorrenza sleale, in Riv. dir. proc., 2005, 497. SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 211. 284 RATTI, La contraffazione del marchio. Profili processuali, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009, 312. 285 Cass. civ., 10 giugno 2013, n. 14508, in Giur. It., 2014, 587. 286 SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 213. 287 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 554-555. 283 74 diritto in esclusiva è conferito con la registrazione del segno, gli effetti dell’esclusiva decorrono dalla data di deposito della domanda288. Per quel che riguarda, invece, i marchi comunitari, il diritto di esclusiva del titolare del marchio può essere fatto valere nei confronti di terzi solo a decorrere dalla data di pubblicazione della registrazione del segno. Tuttavia, l’art. 103 RMC, prevede espressamente l’applicazione di “misure provvisorie e cautelari” sia relativamente ad un marchio comunitario che ad una domanda di marchio comunitario. La legittimazione passiva spetta ai soggetti cui si possono attribuire gli atti che costituiscono violazione del diritto titolato; si possono definire come tali non solo coloro che abbiano realizzato i prodotti o, violando un diritto altrui, abbaino apposto i segni contraffatori, ma chiunque abbia preso parte alla distribuzione dei prodotti e quindi, in generale, chiunque ne faccia uso nell’esercizio dell’attività industriale o commerciale 289 .A titolo esemplificativo, è stato affermato che “non è estraneo alla contraffazione di un marchio chi acquista gli spazi pubblicitari fruiti per l’utilizzo del segno che si assume contraffattorio, dal momento che, ai fini della violazione del marchio, ha rilievo qualsiasi contributo causale all’utilizzo vietato del segno, anche soltanto nella pubblicità”290. Nelle azioni di accertamento della “non contraffazione” la legittimazione attiva è di competenza del presunto contraffattore mentre compete al titolare del marchio la legittimazione passiva. 3. Onere della prova 288 RATTI, La contraffazione del marchio. Profili processuali, op.cit., 313. Cass., 4 dicembre 1999, n. 13592, in Mass. giust. civ., 1999, 2449. 290 Trib. Milano, 14 febbraio 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 697. In particolare nel caso in esame un’agenzia pubblicitaria aveva acquistato degli spazi pubblicitari per un proprio cliente che vi aveva apposto un marchio simile a quello altrui. 289 75 Ai sensi dell’art. 121 c.p.i., in applicazione del principio generale di cui al 2697 c.c. 291 , l’onere di provare la contraffazione del marchio registrato incomberebbe sul suo titolare. Quest’ ultimo deve, anzitutto, dimostrare l’esistenza del titolo di proprietà industriale oggetto della contraffazione esibendo in giudizio il titolo stesso; i requisiti di validità del titolo, i quali, a meno che il titolo non sia in corso di registrazione, sono presunti per disposizione dell’articolo stesso. In ogni caso, posto che non sussiste contraffazione laddove il marchio non sia utilizzato nell’altrui attività economica imprenditoriale e commerciale, l’attore dovrà provare che il contraffattore usa un segno uguale o simile al proprio marchio e detta prova potrà essere fornita, a titolo esemplificativo, mediante la produzione in giudizio del prodotto oggetto di contraffazione, corredato da ricevuta/fattura/scontrino fiscale che attestino l’avvenuta vendita, di dépliant, bolle di accompagnamento, fotografie, cataloghi e documenti pubblicitari in genere, comprese visure dalla camera di commercio, lettere commerciali, pagine tratte da siti internet, oltre che a mezzo di prove orali292. Nel caso di utilizzo da parte di un terzo di un segno uguale o simile al marchio che gode di rinomanza il titolare dovrà dimostrare che il segno è conosciuto da una parte significativa del bacino di consumatori di riferimento allegando alcuni elementi quali la durata d’utilizzo del marchio, gli investimenti sostenuti per promuoverlo, la quota di mercato, il successo dei prodotti contrassegnati dal marchio293. La tutela allargata (“ultramerceologica”) del marchio che gode di rinomanza necessita della prova che l’utilizzo di quest’ultimo da parte del contraffattore consente di trarre indebito vantaggio dalla distintività del marchio o recare pregiudizio allo stesso carattere distintivo o alla notorietà/rinomanza. L’onere probatorio dell’utilizzo di un segno uguale o simile al marchio notorio per prodotti non affini con giusto motivo spetta al contraffattore 294. Ricorre il giusto motivo se l’utilizzo del segno è autorizzato dal titolare o 291 L’articolo sostiene che: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”. 292 RATTI, La contraffazione del marchio. Profili processuali, op.cit., 328. 293 CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, con nota di SANDRI. 294 Trib. Torino, 26 novembre 2011, in Foro it., 2011, 2047. 76 laddove l’utilizzo del segno da parte del contraffattore sia anteriore all’acquisizione della rinomanza295. 4. Le misure cautelari La protezione dei diritti di proprietà industriale deve consistere in una tutela reale rapida ed efficace, essendo quella pecuniaria, spesso, insufficiente ed essendo impossibile fornire a posteriori una prova concreta e analitica dell’esatta entità del danno296. A tal proposito, data la possibile lunghezza del giudizio di contraffazione, la gravità dei danni che nel frattempo il titolare del diritto può subire, la loro normale non risarcibilità in forma specifica, la stessa difficoltà di provarne, nel giudizio di merito, l’esatta consistenza, il legislatore ha previsto delle misure cautelari speciali, che sono consulenza tecnica preventiva, descrizione, sequestro ed inibitoria 297 . Tali misure, che possono essere richieste sia anteriormente che durante il giudizio di merito, sono disposte dal nostro ordinamento accanto alla tutela ordinaria, di cui al 125 c.p.i., che regola il risarcimento del danno. Non evitare la protrazione nel tempo della violazione di un diritto può, infatti, vanificare qualsiasi tutela giurisdizionale, in quanto la contraffazione fa venir meno l’esclusiva nell’utilizzo del segno distintivo ed è fonte perciò solo di danni che non sono facilmente risarcibili, né in forma specifica, né per equivalente, data, come già detto, l’estrema difficoltà per il danneggiato di provarne l’esistenza e l’ammontare 298. A ciò si aggiunge il rischio che il contraffattore non sia più in grado di adempiere all’obbligo di risarcimento al momento dell’accertamento della sussistenza dell’illecito e della condanna definitiva. Per tali ragioni le domande di provvedimenti cautelari 295 RATTI, La contraffazione del marchio. Profili processuali, op.cit., 330. MARINUCCI, La stabilità dei provvedimenti cautelari in materia di proprietà intellettuale ed industriale alla luce del d. lgs. n. 140/2006, in Riv. dir. proc.,2007, 102. 297 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 556; FLORIDIA, Il riassetto della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2006, 529 ss.; DONATO, Le misure cautelari, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009, 403. 298 DONATO, Le misure cautelari, op.cit., 404-405. 296 77 sono frequenti299; talvolta, a seguito di una misura cautelare idonea può accadere che le parti regolino i rispettivi interessi tantoché il giudizio di merito non trova più ragione d’essere. Le misure in esame si rivelano, pertanto, uno strumento adatto ad assicurare una tempestiva soluzione alle esigenze degli imprenditori che vedono violati i loro diritti di proprietà industriale. Suddette misure, che sono disciplinate agli artt.128 (descrizione), 129 (sequestro), 130 (disposizioni comuni a descrizione e sequestro), 131 (inibitoria e ritiro dal commercio), 133 (tutela cautelare dei nomi a dominio) c.p.i., non sono però esaustive in quanto il c.p.i. fa’ altresì riferimento alle norme processuali comuni: invero, gli articoli menzionati infatti dichiarano applicabili alla descrizione le regole del codice di procedura civile in materia di procedimenti di istruzione preventiva, al sequestro ed all’inibitoria quelle in materia di procedimenti cautelari300. Tutti i provvedimenti d’urgenza, secondo le regole generali, presuppongono il fumus boni iuris e il periculum in mora301. Il giudice deve verificare in modo sommario la sussistenza del diritto che il titolare intende far valere e il possibile danno causato da un ritardo nel giudizio e, dunque, dalla prosecuzione dell’illecito. L’ esistenza del fumus può essere dimostrata mediante la prova della registrazione del segno, anche se l’attore della violazione può contestare la validità del marchio, cui segue la prova, almeno sommaria, del perpretamento dell’illecito. Per quel che concerne il pericolo nel ritardo è solito affermarsi in giurisprudenza302 che non occorre fornirne una prova concreta in quanto, in tali ipotesi, “un pregiudizio imminente e irreparabile” sarebbe in re ipsa, anche se talune pronunce ritengono necessaria, invece, una sua dimostrazione303. Per la concessione delle misure cautelari tipiche, quali sono quelle citate, è sufficiente la dimostrazione che e’ in essere o sta per verificarsi una violazione del diritto; in tali casi il pericolo nel ritardo consiste nel rischio di 299 BARBUTO, La sezione Specializzata di Torino e l’incremento dei procedimenti cautelari, in Dir. ind., 2008, 118. VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 556. 301 CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 69. 302 Trib. Modena, 30 ottobre 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2001, 454; Trib. Napoli, 5 maggio 2001, in Dir. ind., 2002, 38. 303 Trib. Milano, 11 febbraio 2009, in Annali it. dir. aut., 2010, 824. 300 78 un pregiudizio la cui espansione non è controllabile ovvero di difficile quantificazione per il risarcimento304. Nel paragrafo a seguire saranno analizzate nello specifico le misure richieste da Gucci nel caso in analisi al capitolo IV. 4.1 L’inibitoria e il ritiro dal commercio L’inibitoria cautelare, regolata dal 131 c.p.i., è una misura cautelare volta a “congelare” una situazione dannosa per evitarne la ripetizione ovvero l’aggravamento delle conseguenze provocate dalla condotta illecita posta in atto dal contraffattore. Tale misura “provvisoria” non differisce dall’inibitoria “definitiva”, di cui all’art.124 c.p.i.. Come disposto dall’articolo in esame, la misura vieta all’attore della presunta violazione la prosecuzione o la ripresa dell’attività di “fabbricazione, del commercio e dell'uso delle cose costituenti violazione del diritto” e può consistere nell’ordine allo stesso di “ritiro dal commercio delle medesime cose nei confronti di chi ne sia proprietario o ne abbia comunque la disponibilità”. L’inibitoria, oltre che come misura per contrastare fenomeni contraffattivi, può essere disposta, anche, dinnanzi a fenomeni “interferenti” di slealtà commerciale, inquadrabili nei paradigmi dell’art. 2598 c.c.305. Inoltre, tale provvedimento, avendo un fine preventivo, non richiede che l’atto illecito sia in atto ma è sufficiente che appaia probabile una sua “reiterazione”, a prescindere dall’effettivo danno subito dal titolare del diritto. Talvolta, può accadere, che il terzo affermi di aver cessato la condotta illecita e si impegni a evitare una reiterazione della violazione: in tal caso, egli deve dimostrare quanto sostenuto. Il giudice può, inoltre, rafforzare la misura fissando una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constata o per ogni ritardo 304 DONATO, Le misure cautelari, op.cit., 409; CASABURI, Codice di proprietà industriale e Sezioni specializzate: una relazione virtuosa, in Dir. ind., 2008, 124. 305 SCUFFI, L’inibitoria, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 1424. 79 nell’esecuzione del provvedimento306, si tratta anche per tale motivo di una misura fortemente efficace. Si ritiene che la violazione dell’inibitoria sia sanzionata penalmente ai sensi dell’art. 388 c.p., che punisce la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice; si tratta peraltro, di norma raramente applicata, perché in generale il timore della sanzione penale induce quasi sempre la parte intimata all’esecuzione spontanea307. Per quel che riguarda il ritiro dal commercio, questo può essere disposto nei confronti del proprietario o di chiunque abbia la disponibilità giuridica e/o materiale dei beni costituenti violazione del diritto. La misura è, in genere, complementare e rafforzativa di quella inibitoria, ma a differenza di quest’ultima, impone dei comportamenti attivi (e non mere astensioni) 308. Come gli altri provvedimenti di diritto industriale, tranne per quel che concerne il risarcimento del danno, anche l’ordine di ritiro dal commercio presuppone l’accertamento della violazione ma prescinde dalla prova della colpa e del danno. 5. Il risarcimento del danno Oltre all’accertamento della violazione del diritto e alla pronuncia delle misure previste, nelle cause di contraffazione del segno il contraffattore è condannato al risarcimento del danno procurato al titolare. In un sistema altamente competitivo, quale il nostro, sembra necessario il risarcimento integrale del danno provocato, cui si aggiunge una valorizzazione del risarcimento nella sua funzione di deterrente, a fronte del diffondersi di pratiche contraffattorie. La liquidazione del danno da contraffazione si presenta sempre come una operazione difficile, e, nella nostra esperienza giudiziaria, sono finora 306 FLORIDIA, La tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino, 2012, 699. 307 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 560; MAGELLI, Il risarcimento del danno da contraffazione nell’esperienza giurisprudenziale italiana, in Dir. ind., 2012, 182. 308 SCUFFI, L’inibitoria, op.cit., 1426. 80 mancati seri criteri di quantificazione 309: tale mancanza ha comportato il verificarsi di una costante sottovalutazione del danno risarcibile che costituisce un incentivo alla violazione dei diritti di proprietà industriale. La regola fondamentale in materia di risarcimento del danno da contraffazione è quella enunciata dall’art. 125 c.p.i., co. 1, in base al quale “il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 del codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione”. La norma, di cui all’articolo enunciato, non solo evidenzia un elemento indennitario 310, ma assume rilievo anche in chiave riparatoria nell’intento di annullare gli effetti negativi della violazione per lo svolgimento della regolare attività di mercato311. Poiché la contraffazione di un marchio è un illecito extracontrattuale, la domanda di risarcimento del danno, soggetta in generale alla disciplina della responsabilità aquilana di cui all’art. 2043 c.c. ed al termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2947 c.c., richiederebbe l’accertamento, e quindi la prova, del dolo o della colpa del contraffattore, dell’esistenza di conseguenza negativa nel patrimonio del titolare del diritto leso e del nesso di casualità tra la condotta del contraffattore e tali conseguenze negative312. Peraltro, si ritiene presunta la colpa del contraffattore, che ha il dovere di consultare i registri per verificare la presenza di diritti esclusivi di soggetti terzi, laddove l’oggetto della violazione sia un marchio registrato, supportato da un sistema di pubblicità legale313. 309 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 562. SPOLINDORO, Il risarcimento del danno nel codice della proprietà industriale. Appunti sull’art. 125 c.p.i., in Riv.dir. ind., 2009, 152. 311 GALLI, Risarcimento del danno e retroversione degli utili: le diverse voci di danno, in Dir. ind., 2012, 110. 312 RATTI, Il risarcimento del danno, IN BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009, 359. 313 App. Milano, 24 settembre 1991, in Giur. ann. dir. ind., 1991, 2704. 310 81 Il contraffattore, dal canto suo, ha l’onere di dimostrare la sua avvenuta consultazione dei registri314 o la difficoltà nel farlo; nella pratica, tuttavia, fornire tale prova contraria non è semplice. Come già precisato, la quantificazione del danno da contraffazione non è sempre agevole. In merito, occorre precisare che prima della definizione dell’entità del risarcimento, ovvero del quantum, è necessario procedere con l’accertamento dell’an, ovvero dell’esistenza di conseguenze negative sul patrimonio del titolare del diritto di proprietà industriale causate dalla contraffazione 315 , nonché la presenza di un nesso di casualità, ai sensi dell’art. 1223 c.c., tra l’illecito di contraffazione e il danno subito. Sebbene tale nesso sia stato considerato, talvolta, in re ipsa316, per la giurisprudenza maggioritaria 317 l’attore in contraffazione deve fornire elementi indicativi della presenza di conseguenze dannose risarcibili. In generale, il nesso di causalità presuppone la dimostrazione della probabilità che il titolare del diritto, in assenza dell’illecito contraffattorio, avrebbe effettuato vendite pari a quelle del contraffattore o a parte di esse318. Ai sensi dell’art. 1226 c.c., richiamato dall’art. 125 c.p.i., se non vi è possibilità di dimostrare l’ammontare preciso del danno, il giudice dispone una liquidazione secondo equità, ovvero senza riferimento a specifici criteri e norme giuridiche. 5.1 Il danno emergente e il lucro cessante In materia di liquidazione del danno da contraffazione si è soliti riferirsi ai concetti di danno emergente e lucro cessante, richiamati dall’art. 2056 c.c., in tema di fatto illecito. 314 Trib. Milano, 22 febbraio 1993, in Giur. ann. dir. ind., 1993, 463. RATTI, Il risarcimento del danno, op.cit., 360; SIROTTI GAUDENZI, Proprietà intellettuale e diritto della concorrenza, UTET, Torino, 2008, 195; SCUFFI, Il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 1373. 316 App. Milano, 6 giugno 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 4792. 317 Cass., 28 aprile 1990, n. 3604, in Giur. ann. dir. ind., 1990, 72; Trib. Firenze, 10 luglio 2006, in Giur. ann. dir. ind.,2006, 5095; GHIDINI, Della concorrenza sleale, Giuffrè, Milano, 2001, 407. 318 FRANZOSI, Il risarcimento del danno da lesione di diritti di proprietà industriale, in Dir. ind., 2006, 205. 315 82 Il danno emergente è costituito, anzitutto, dalle spese sostenute per accertare e acquisire le prove dell’illecito (di investigazione, di consulenza, ecc.); da quelle per la costituzione in processi penali e civili, per la “pubblicità da ricostruzione”, resa necessaria a seguito della contraffazione (anche mediante comunicati o diffide) al fine di riportare il fatturato ai livelli precedenti; dalle spese rese nulle dall’illecito perpetrato (es. spese pubblicitarie); da quelle conseguenti al c.d. danno normativo319. Con “danno normativo” si indica il pregiudizio subito dalla posizione di dominio in sé goduta dal titolare dell’esclusiva quale situazione giuridicamente protetta dall’ordinamento320. Tale danno è la conseguenza della “dilution” del marchio legata alla condotta contraffattoria che si riflette, sul piano delle mancate vendite, ma anche sulle possibilità di sfruttamento economico del prodotto sul mercato. Ci si riferisce, ad esempio, ai fenomeni del c.d. annacquamento del marchio notorio per effetto del discredito derivato da offerte di prodotti simili di scadente qualità incompatibili con il prestigio e l’immagine propria del marchio imitato, il più delle volte “evocativo” di eccellenza per il consumatore321. Il pregiudizio del valore economico “di posizione” del marchio prescinde dalla riduzione del volume di vendite provocata dall’azione di contraffazione, senza per tale motivo escluderne la liquidazione322. Per quel che riguarda la quantificazione del danno d’immagine, la nostra dottrina giuridica ed economica ha messo in luce come la stessa possa essere effettuata commisurandola quanto meno al “costo per una pubblicità di ricostruzione (correttiva)” dell’immagine aziendale deteriorata, ovvero ad una frazione dei costi pubblicitari sostenuti: ed ovviamente al riguardo non si può pretendere di risarcire solo la pubblicità ricostruttiva che sia stata effettivamente realizzata, perché, nella logica differenziale, ciò che conta è che la contraffazione abbia determinato la necessità della “riparazione”, non che la riparazione sia stata già effettuata323. 319 GUERNELLI, La retroversione degli utili fra rischio di overcompensation ed esigenza di colmare il lucro cessante, in Dir. ind., 2011, 213. 320 BUSNELLI, PATTI, Danno e responsabilità civile, Giappicchelli, Torino, 2013, 12. 321 SCUFFI, Il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza, op.cit., 1378. 322 In particolare, sulla tutela del marchio Gucci si veda Trib. Firenze, 2 giugno 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 4816. 323 GALLI, Risarcimento del danno e retroversione degli utili: le diverse voci di danno, in Dir. ind., 2012, 115. 83 La prova a sostegno del danno emergente è ovviamente molto spesso documentale. La liquidazione può avvenire anche in via equitativa 324 , qualora appaia difficile provare il danno nel suo preciso ammontare. Molto più difficoltosa risulta essere la quantificazione del lucro cessante, volendosi con tal termine indicare il mancato guadagno del titolare del diritto leso (lucro cessante in senso stretto), ovvero, in senso lato, i vantaggi patrimoniali che la vittima avrebbe potuto conseguire in assenza della condotta lesiva325. Le difficoltà di quantificazione del danno, anche nella componente del lucro cessante possono essere in parte superate grazie alla valutazione equitativa del danno stesso326, inoltre, come disposto dall’art. 125, co. 2, c.p.i., il giudice può liquidare il danno “in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano”. Sono stati individuati diversi parametri (poi in parte codificati), talvolta combinati tra loro, con i quali sarebbe possibile coprire tale voce di danno: 1) il calo, perdita o decremento del fatturato del titolare della privativa, con conseguente perdita di profitto (c.d. teoria dei profitti persi, lost profits due to lost sales); 2) il giusto prezzo (royalty) del consenso, che il violatore avrebbe dovuto pagare al titolare del diritto se avesse ottenuto regolare licenza; 3) la retroversione degli utili ritratti dal contraffattore327. Il primo criterio, applicato di frequente, ricollega il danno alle perdite registrate dal soggetto leso, a loro volta legate ai minori volumi di vendita o a sconti legati alla presenza di prodotti contraffatti sul mercato e richiede una prova della diminuzione del fatturato o del suo mancato incremento secondo le aspettative. La dimostrazione del nesso di causalità tra tali avvenimenti e la violazione del diritto di proprietà, tuttavia, è difficile: sono differenti, infatti, i fattori che influiscono sulla capacità di un’impresa di 324 MAGHELLI, Il risarcimento del danno da contraffazione nell’esperienza giurisprudenziale italiana, in Dir. ind., 2012, 188-189. 325 MAGHELLI, Il risarcimento del danno da contraffazione nell’esperienza giurisprudenziale italiana, in Dir. ind., 2012, 215. 326 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 563. 327 GUARNELLI, La retroversione degli utili fra rischio di overcompensation ed esigenza di colmare il lucro cessante, in Dir. ind., 2011, 215. 84 realizzare profitti 328 . Tra questi vi sono, ad esempio, le variazioni nelle condizioni di mercato o delle preferenze dei consumatori. Il secondo criterio ricollega l’entità del danno alla royalties che il contraffattore avrebbe dovuto versare in presenza di un regolare contratto di licenza. Il terzo ed ultimo criterio sarà diffusamente trattato al paragrafo successivo. 5.1.1 L’art. 125, co. 3, c.p.i. e la retroversione degli utili Come disposto dall’art. 125, co. 3, c.p.i., “in ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”. Tale misura non è aggiuntiva al risarcimento delle perdite e mancati guadagni del soggetto leso, bensì alternativa e/o correttiva della valutazione del lucro cessante addotto da quest’ultimo, per consentire il ristoro di un pregiudizio altrimenti destinato a rimanere sostanzialmente impunito329. La logica che il legislatore persegue è quella di evitare che il contraffattore possa ottenere un guadagno dalla contraffazione: potrebbe verificarsi, infatti, una situazione in cui il titolare non subisce una contrazione delle vendite a seguito dell’altrui contraffazione. In questi casi viene in soccorso la norma in esame, in quanto se si limita il danno al mancato utile, si verrebbe a negare ogni risarcimento (danno emergente a parte), perché il titolare del diritto leso non ha subito alcuna contrazione di vendite330. L’attribuzione del decremento delle vendite subito dall’imprenditore all’illecito di contraffazione non è sempre agevole, possono, infatti, esservi delle fluttuazioni imputabili ad altri fattori, quali, ad esempio, la variazione degli investimenti pubblicitari, il ciclo di vita del prodotto, l’introduzione di nuovi competitors. 328 SCUFFI, Il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza, op.cit., 1380; RENOLDI, L’incidenza economica della contraffazione e la misurazione del danno, in Dir. ind., 1999, 238; CARTELLA, Il risarcimento del danno nella contraffazione di marchio, in Dir. ind., 2001, 143. 329 SCUFFI, Il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza, op.cit., 1382-1383. 330 VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 565. 85 Per tale motivo, è necessaria un’analisi approfondita del mercato e del prodotto che sappia evidenziare le variazioni causate da variabili estranee alla contraffazione. Nell’ipotesi di contraffazione di un marchio speciale da parte di terzi, l’attività illecita consiste nell’utilizzo di detto marchio per contrassegnare determinati prodotti, gli utili da restituire sono quelli realizzati con la vendita dei prodotti sui quali il marchio contraffatto è stato apposto, non tutti gli utili del contraffattore, siano essi derivanti dalla produzione e vendita di prodotti contrassegnati da un marchio differente, non contraffatto. La sanzione di retroversione degli utili da parte del contraffattore non è risarcitoria, pertanto potrebbe essere inflitta anche qualora l’autore della violazione dimostri l’assenza di dolo o colpa a suo carico. CAPITOLO IV: IL CASO GUCCI CONTRO GUESS SOMMARIO: 1. I fatti e le ipotesi di diritto richiamate - 2. Le decisioni del Tribunale di Milano - 2.1 Contraffazione di marchi - 2.2 Imitazione servile - 2.3 Concorrenza parassitaria- 3. Conclusioni del Tribunale di Milano - 4. Le decisioni della Corte d’Appello 1. I fatti e le ipotesi di diritto richiamate Nel settore della moda trova sempre maggiore diffusione il fenomeno concorrenziale che si sostanzia nella commercializzazione di prodotti che si caratterizzano per riprodurre esclusivamente o in combinazione fra loro, in modo sistematico e con modalità appariscenti ed indubbiamente accattivanti, i marchi, i loghi, i temi ricorrenti più celebri delle maison di moda331. Talvolta, questi segni distintivi sono parzialmente modificati o rivisitati ma rimangono, comunque, sempre identificabili. 331 FERRARI, Contraffazione di marchi e concorrenza sleale, in Quot. giur., 12 giugno 2013. 86 Tali rivisitazioni non sembrano minare la forza attrattiva dei segni che godono di rinomanza, oggetto di tale operazione, ma anzi la confermano, essendo i segni noti in grado di trasformare in un’operazione commerciale di successo anche scelte stilistiche di modesto rilievo e denotate da scarsa creatività. In materia di concorrenza sleale e contraffazione di marchio, è interessante riportare la battaglia legale intercorsa tra le due maison di moda Guccio Gucci spa e Guess? Inc.. Di seguito sarà analizzata la conclusione sul caso tratta dal Tribunale di Milano332, agli antipodi rispetto alle decisioni della Southern District of New York che, con sentenza del 5 maggio 2012, ha riconosciuto la violazione dei marchi di Gucci da parte di Guess e inflitto a quest’ultima un risarcimento del danno, a titolo di retroversione degli utili, di una somma superiore a 4 milioni di dollari, nonché l’inibizione dall’utilizzo dei propri marchi. Gucci spa, fondata a Firenze nel 1921, è una delle più celebri case di moda italiana nel mondo. Il 5 maggio 2009 la maison italiana conviene in giudizio l’azienda di moda statunitense Guess? Inc. e la consociata Guess Italia srl chiedendo la condanna di quest’ultima per la contraffazione di numerosi marchi nazionali (nn. 947057, 1057600, 1057601, 876580, 1040793, 876581, 971291, TO2008C000635) e comunitari (nn. 122093, 940490, 940491, 2751535, 160028, 4462735, 5172218, 6682728, 2782548), di proprietà dell’attrice; chiedendo, inoltre, l’accertamento e dichiarazione di responsabilità di Guess in merito alle condotte di concorrenza sleale da questa tenute, ai sensi dell’art. 2598, nn. 1, 2, 3 c.c.. In particolare, Gucci accusava Guess di aver tenuto comportamenti illeciti, contraffattori e sleali, a partire dagli anni 2000, con l’imitazione di propri segni distintivi, modelli e linee stilistiche in relazione a prodotti venduti a prezzi decisamente più bassi degli originali. Analizzando la storia della maison statunitense si possono, infatti, individuare due “momenti” vissuti da quest’ultima: una prima “stagione”, collocata tra gli anni ‘80 e ’90, caratterizzata dalla produzione di linee di abbigliamento giovanili e casual con richiami ai campus americani, e una seconda “stagione” caratterizzata dallo sforzo della maison americana nella 332 Dopo la prima udienza tenutasi il 16 febbraio 2010. 87 costruzione una brand image più raffinata per affacciarsi sul mercato medio di consumatori attirati dal mondo dei marchi celebri e dell’alta moda. Con tale intento, Guess avrebbe abbandonato i segni distintivi utilizzati in precedenza (tra i quali il celebre triangolo rosso con il punto interrogativo al centro) per impossessarsi di marchi e prodotti delle più celebri maison di moda, imitati e contrassegnati, poi, dal proprio segno distintivo “Guess”, che vantava ancora una certa rinomanza. Data la riconosciuta alta qualità dei suoi prodotti, la notorietà presso i consumatori e i cospicui volumi di vendite, tra i marchi noti interessati dalla condotta illecita posta in essere da Guess vi erano quelli della maison di moda italiana Gucci. In merito, Guess avrebbe adattato i propri segni distintivi a quelli di Gucci e creato, inoltre, nuovi marchi confondibili con quelli dell’azienda italiana, quali il logo Guess con le “G”; oltre a ciò, l’azienda statunitense avrebbe pedissequamente riprodotto il nastro “verde-rosso-verde” e la stampa “Flora”, segni distintivi di titolarità dell’attrice, e imitato i modelli di scarpe, borse e borselli di Gucci più conosciuti. Rispetto a quanto sostenuto dall’attrice, la strategia di Guess sarebbe stata quella di sfruttare la rinomanza di Gucci imitandone segni distintivi e prodotti con il fine di proporsi al mercato come alternativa, con prezzi più contenuti, della maison di moda italiana. L’attrice ribadiva che la condotta illecita di Guess, volta alla servile, prolungata e costante imitazione e contraffazione dei segni distintivi e dei prodotti, fosse integrazione non solo dell’illecito di cui al 2598, n. 1, c.c., ma anche di quelli previsti dai nn. 2, 3 dello stesso. L’azienda statunitense, con la condotta imitatoria di marchi e prodotti, si sarebbe, infatti, impadronita dell’immagine e della notorietà di Gucci; oltre a ciò, data la ripetitività e la permanenza dell’attività imitativa messa in atto da Guess, sarebbe stata integrata anche la fattispecie della concorrenza parassitaria. In merito a tali condotte di Guess, Gucci richiedeva l’inibitoria dei predetti comportamenti illeciti, con fissazione di idonea penale, oltre al ritiro dal commercio e alla distruzione dei prodotti, oggetto della condotta illecita, e del relativo materiale pubblicitario; nonché la condanna della controparte al 88 risarcimento del danno ed alla restituzione degli utili; infine, domandava la pubblicazione della emananda sentenza. Guess Inc., azienda americana fondata nel 1981, maison di moda tra le più apprezzate per la produzione di capi d’abbigliamento di tendenza e giovanili, oltre a rigettare le domande presentate da Gucci, chiedeva, in via riconvenzionale, che fossero dichiarati nulli tutti i marchi azionati dall’attrice per mancanza dei requisiti richiesti dalla legge e/o la decadenza per perdita di capacità distintiva dei medesimi; inoltre, richiedeva la dichiarazione di decadenza per non uso ultra-quinquennale del marchio italiano n. 331121. Gucci citava in giudizio, unitamente a Guess, richiamando l’art. 20, co. 2, c.p.i. 333 , anche la società Zappos.com, che commercializzava scarpe tramite il web, poiché responsabile della vendita in Italia di due modelli contrassegnati da marchio Guess, ritenuti pedissequa imitazione di quelli dell’attrice. La stessa Zappos aveva confermato di aver accettato ordini da clienti internazionali ponendosi in un rapporto di concorrenza con l’azienda italiana. In particolare, quest’ultima dichiarava di aver letto in un blog della presenza di un modello di scarpe, oggetto dell’illecito, in un negozio italiano; inoltre, un paio di scarpe recava sulla scatola l’indicazione delle taglie europee a dimostrazione che tali scarpe fossero state commercializzate e vendute anche presso consumatori europei. La controparte sottolineava che la vendita dei propri prodotti avvenisse solo attraverso il sito internet dedicato esclusivamente a consumatori americani e canadesi, in quanto redatto in lingua inglese, con prezzi espressi in dollari e taglie americane. In effetti, il testo menzionato da Gucci, riportava le difficoltà incontrate nella procedura d’acquisto: quest’ultima si era, infatti, bloccata una volta inseriti i recapiti di consegna presso indirizzi non americani; a questo punto si era resa necessaria la telefonata al numero indicato per concludere l’acquisto con relativa consegna, da parte di Zappos, dei prodotti ad un spedizioniere internazionale che, con costi a carico del destinatario, consegnasse il pacco ad un indirizzo ubicato in Italia. 333 L’articolo in questione include tra le attività vietate anche l’importazione di prodotti contrassegnati da un marchio contraffattorio. 89 Zappos affermava, inoltre, che le vendite attraverso siti internet non potessero essere considerate come politica attiva di vendita in tutti i Paesi in cui il sito risultasse accessibile; tali vendite sarebbero state da considerarsi effettuate nel Paese di residenza del titolare del sito stesso, considerando l'attività commerciale di tal soggetto come attività meramente passiva334. Oltre a ciò, Gucci non aveva considerato il fatto che Zappos commercializzava e vendeva solamente prodotti della collezione americana di Guess, escludendosi così qualsiasi rapporto con il territorio italiano e con i prodotti venduti dall’azienda statunitense in Italia. Si procedera’ ora con l’analisi, nello specifico, di tutti i marchi azionati da Gucci e le ragioni di parte attrice e della controparte convenuta in giudizio. Tra i marchi imitati da Guess, l’attrice indicava: il marchio comunitario n. 121947, depositato il 1 aprile 1996, ossia la scritta “Gucci” in corsivo con sottolineatura, considerato uno dei suoi marchi più famosi (fig. 1); quello italiano, n. 1330236, e comunitario, n. 6682728, raffiguranti la lettera “G” in corsivo maiuscolo (fig. 2). L’attrice riteneva che il logo “Gucci” in corsivo sottolineato fosse protetto dalla tutela prevista per i marchi celebri, in quanto utilizzava il suddetto dagli anni ’50-’60 e che Guess l’avesse imitato con il proprio marchio avente ad oggetto la scritta “Guess” in carattere corsivo e con sottolineatura, posto su diversi prodotti dell’azienda statunitense non soltanto commercializzati e venduti presso punti propri vendita, ma anche pubblicizzati su cataloghi e riviste italiane. In particolare, Gucci evidenziava come la somiglianza della tipografia dei due segni distintivi, l’identica sottolineatura utilizzata da Guess, unita all’utilizzo di tali segni su un tessuto logato o stampe simili, se non identiche a quelle dell’azienda italiana, creasse comunque un possibile effetto confusorio presso il pubblico, posto, oltretutto, che le prime due lettere (“gu”) delle espressioni considerate sono le stesse. D’altro canto, Guess ribadiva la diversità concettuale, fonetica e letterale tra “Gucci” e “Guess” escludendo, inoltre, che il carattere corsivo potesse essere oggetto d’esclusiva, in quanto carattere grafico generico utilizzato da diverse maison di moda. 334 Trib. Milano, 2 maggio 2013, in Dir. giust., n.4792, 2013. 90 La convenuta affermava, anche, di utilizzare tale carattere per il proprio segno dal 1982, dunque, precedentemente alla registrazione del marchio da parte di Gucci, avvenuta nel 1996; potendosi, in merito, oltretutto, rilevare la nullità del segno registrato da Gucci per mancanza di novità. In relazione a quanto affermato dalla convenuta, Gucci presentava una documentazione a sostegno del preuso del marchio anteriormente alla sua registrazione; Guess contestava il fatto che il marchio preusato fosse differente, per tipografia e sottolineatura, da quello successivamente registrato da Gucci e che l’utilizzo del segno, fino agli anni ’70, fosse limitato a specifici accessori e foulards, per essere riutilizzato, in forma rielaborata, solo dal 2005. Infine, la controparte affermava che Gucci non avesse adeguatamente provato né la rinomanza del marchio in questione, né tantomeno l’asserito preuso del medesimo. L’attrice, nella memoria di replica, confermava l’utilizzo del marchio dagli anni ’40, seppur in modo non continuativo (la notorietà del medesimo sarebbe quindi, secondo la medesima indiscutibile); inoltre, la tipografia del segno preusato - affermava Gucci - era la stessa del marchio che sarebbe stato successivamente registrato: le differenze grafiche erano, infatti, non percettibili, e, in ogni caso, si trattava di una “forma grafica modificata che non ne alteri il carattere distintivo”, ai sensi dell’art. 24, co. 2, c.p.i., che integrava il pieno uso del marchio stesso. L’azienda italiana, sottolineava, infine, l’utilizzo da parte di Guess di alcune espressioni in corsivo, negli anni ’80-’90, differenti da quelle di Gucci, tranne l’ultima delle stesse considerata contraffazione del marchio della maison fiorentina, e, come l’utilizzo delle medesime fosse in ogni caso successivo agli anni ’40. Inoltre, la tutela concedibile a tale segno, secondo l’attrice, si sarebbe dovuta estendere a tutti i marchi dell’azienda recanti la medesima grafia. In merito alla “G” in corsivo, anche in tal caso l’attrice affermava la contraffazione da parte di Guess: quest’ultima, infatti, avrebbe contrassegnato i propri prodotti, venduti e riprodotti rispettivamente su negozi e cataloghi italiani, con una “G” identica a quella di Gucci, che vantava, peraltro, di notorietà e celebrità internazionale. 91 Per contro, Guess ribadiva la nullità di suddetto marchio per carenza di capacità distintiva, data la debolezza dei segni costituiti da una singola lettera dell’alfabeto. Oltre a ciò, evidenziava come fosse pratica estremamente diffusa nel mondo della moda l’utilizzo della lettera “G” per contrassegnare i propri prodotti (ne sono esempi, le “G” corsive di Gant, Romeo Gigli, Guerlain, Guru). L’attrice non aveva, inoltre, dimostrato l’effettivo utilizzo del marchio, né tantomeno la sua rinomanza e la secondarizzazione. Guess utilizzava il segno costituito dalla lettere “G” in corsivo anteriormente alla registrazione del marchio da parte di Gucci (avvenuta nel 2008) per diversi prodotti, largamente diffusi e pubblicizzati: pertanto, secondo quanto affermato dall’azienda statunitense il marchio registrato da Gucci non presentava il requisito della novità richiesto. Guess rimarcava, poi, che la lettera “G” in corsivo era accompagnata da altri elementi grafici che permettevano di distinguerla dalla “G” di Gucci. Ancora, l’attrice evidenziava la contraffazione del marchio “GUCCI” in maiuscolo (fig. 3), con grafie dorate ed effetto in rilievo (tridimensionale), in quanto le prime scritte della controparte presentavano una tipografia differente ed erano prive dell’effetto tridimensionale. Guess ribadiva che le espressioni utilizzate da Gucci nel tempo erano diverse, per grafia e colori, da quella ivi contestata, oltre al fatto che mancasse, ancora una volta, una prova dell’utilizzo del suddetto marchio da parte di Gucci. La controparte affermava, per contro di utilizzare la tipografia contestata dal 2004, sia nei cataloghi che come insegna dei punti vendita. Inoltre, la scritta di Guess era, a colpo d’occhio, differente da quella di parte attrice. Le altre contestazioni sollevate da Gucci avevano ad oggetto i marchi contenenti la singola lettera “G” o due “G” contrapposte (fig. 4-7)335. In particolare, secondo parte attrice, Guess avrebbe imitato e violato i diritti relativi a detti segni distintivi producendo, commercializzando e pubblicizzando nel nostro paese molteplici capi d’abbigliamento e accessori contrassegnati dalla lettera “G” in diverse rappresentazioni, oppure realizzati con il tessuto contraddistinto dalla trama a “G” incrociate. 335 Il riferimento è ai seguenti marchi: marchio italiano n. 1057601 e comunitario n. 940491; marchio italiano n. 1057600 e comunitario n. 940490; marchio italiano n. 947057 e comunitario n. 122093; marchio italiano n. 876580 e comunitario n. 2751535. 92 Il medesimo comportamento illecito sarebbe stato commesso anche da Zappos, colpevole della vendita via internet, in Italia, di due modelli di scarpe contrassegnati dalla trama a “G” incrociate e da ulteriori elementi confondibili con i segni distintivi di Gucci. Quest’ultima riteneva Guess colpevole della pedissequa imitazione del proprio segno cc.dd. “diamond”, composto da una trama di linee tratteggiate a formare dei rombi con la lettera “G” apposta agli angoli dei medesimi - in modo da dare l’impressione di due “G” contrapposte e capovolte, come nella trama dell’attrice -. Guess avrebbe, inoltre, imitato i colori, in particolare lo sfondo beige delle trama e il marrone scuro delle lettere, utilizzati da Gucci nel pattern “Guccissima”, oltre ad aver apposto nella trama dei cuori dopo che anche l’attrice l’aveva fatto. Tale comportamento di Guess, volto all’imitazione pedissequa e costante dei segni dell’attrice, come riportato anche nella sentenza USA richiamata in apertura del capitolo336, integrerebbe, a detta di Gucci, l’ipotesi di una condotta sleale e contraffattoria. In particolar modo, si sarebbe costituito un rischio di confusione presso i consumatori sia relativamente alla “pre-sale confusion”, che si verifica quando il consumatore viene attratto da un prodotto perché il segno che lo contrassegna rimanda al marchio noto del concorrente; sia relativamente alla “post-sale confusion”, ovvero nel caso in cui i terzi, vedendo il prodotto indossato dall’acquirente, possano pensare che quest’ultimo sia stato prodotto dal titolare del marchio contraffatto. Secondo parte attrice, tale condotta integrerebbe l’ipotesi illecita di cui all’art. 20, co. 1, sia lett. b), che c), c.p.i. (in quanto si tratta di un marchio rinomato), in considerazione dell’impressione complessiva prodotta dai marchi azionati e della valutazione generale dei diversi segni distintivi e prodotti di Gucci e dalla controparte. Inoltre, si configurerebbe l’illecito sfruttamento della notorietà, delle iniziative e degli investimenti altrui: tale condotta sarebbe stata la causa della dispersione dell’identità dei marchi dell’azienda italiana con riduzione della loro presa nella mente dei consumatori; parimenti, si sarebbe verificato l’indebolimento della capacità 336 Southern District Court of New York, “Gucci America Inc. v. Guess? Inc.”, 21 maggio 2012, n. 09 Civ. 4373, reperibile in www.abovethelaw.com, 2012. 93 dei marchi di suscitare nel consumatore un’associazione tra quest’ultimi e i prodotti per i quali erano stati registrati, oltre ad una danno alla rinomanza della maison italiana in quanto la qualità dei prodotti Guess sarebbe più scadente rispetto a quelli di Gucci. Parte attrice contestava, anche, la contraffazione del marchio composto dalla trama a “G” squadrate (fig. 10), depositata nel 2002 ma utilizzata, la trama, sino dagli anni ’70, la “G” squadrata da sola, invece, dagli anni ’70’80. Secondo controparte, invece, tale marchio sarebbe da considerarsi, addirittura, nullo in quanto conferente valore sostanziale ai prodotti e percepito dai consumatori come motivo decorativo, oltre al fatto che, come già evidenziato, l’utilizzo della lettera “G” tra le maison di moda fosse generalizzato. Inoltre, il suddetto marchio sarebbe da considerarsi debole in quanto singola lettera dell'alfabeto, come si è detto per la “G” in corsivo. Guess ribadiva, anche, la diversità nella forma, nel contrasto di colori del proprio segno distintivo, oltre alla differente distanza e posizione delle lettere “G” all’interno della trama. La maison statunitense affermava, poi, di aver ideato la trama a “G” squadrate, successivamente riportata nei cataloghi di una collezione di borse dell’estate 2002, precedentemente alla registrazione del marchio da parte di Gucci; inoltre, il tessuto cc.dd. “a damier” con trama a “G” squadrata, che l’azienda italiana sosteneva di utilizzare sino dagli anni ’70, era differente da quello registrato e azionato dalla stessa. D’altro canto, Gucci replicava che la funzione “ornamentale” del marchio non incide sulla capacità distintiva e validità del suddetto e sottolineava come le differenze tra il marchio utilizzato negli anni ’70 e quelli registrato fossero, in realtà, poco percettibili. Riteneva, inoltre, posta l’oggettiva differenza tra i segni di Gucci e quelli simili già presenti sul mercato, quali Givenchy o Gherardini, che non vi fosse la generalizzazione del marchio Gucci, come, invece, asserito da Guess. Oltre a ciò, le modeste differenze tra la trama della maison statunitense e quella di Gucci, che parte attrice riteneva protetta dell’ampia tutela riservata 94 ai marchi rinomati, evidenziavano un intento contraffattorio ai danni dell’azienda italiana. A tal punto, Guess affermava la decadenza del suddetto marchio in quanto Gucci non aveva provato l’effettivo utilizzo del segno sia prima che dopo la registrazione, oltre all’asserita secondarizzazione del marchio stesso; inoltre, a causa della già citata generalizzazione dei marchi raffiguranti la lettera “G” tra le maison di moda, tale segno sarebbe da ritenersi nullo per difetto di novità, o, comunque, molto debole. Secondo parte convenuta, non sarebbe stato oggetto di contraffazione, come, invece, sostenuto da Gucci, il marchio composto da cinque gruppi di due lettere "G" contrapposte ed invertite, collegate tra loro da pallini vuoti (marchio italiano n. 876580, registrato il 3 ottobre 2002); tale segno dovrebbe, invece, essere anch’esso ritenuto nullo, in quanto, costituito da un disegno che conferisce un valore sostanziale al prodotto. Come per i precedenti marchi, anche in tal caso, Guess, posta la generalizzazione del segno sul mercato, evidenziava la mancata secondarizzazione del marchio, affermando, quindi, la debolezza di detto segno. Inoltre, nella trama Guess erano rappresentate singole lettere “G”, differenti per carattere e tipografia da quelle dell’attrice; quest’ultima, consapevole dell’inesistenza della contraffazione, avrebbe depositato nel 2007, posteriormente rispetto all’utilizzo del marchio da parte di Guess, un segno composto da singole lettere “G”, di cui si richiedeva, in tal sede, la protezione. Anche per tale segno valgono le osservazione sollevate per il precedente riguardanti la secondarizzazione e la debolezza del marchio, oltre alla mancata dimostrazione, da parte di Gucci, dell’effettivo utilizzo del medesimo. In più, tale segno rappresentava solo un motivo ornamentale e non coincideva con diritti e titoli azionati da Gucci nell’atto di citazione. Parte attrice sosteneva, ancora, l’imitazione del suo marchio costituito da due lettere “G” contrapposte ed invertite, nonché di quello composto dalla lettera “G” con dei quadratini ai quattro angoli (marchio nazionale registrato 95 nel 1982, rinnovato per la seconda volta nel 2012; marchio comunitario registrato nel 1996, rinnovato per la seconda volta nel 2006). Tale segno sarebbe, tuttavia, da ritenersi decaduto per non uso, in quanto, Gucci, anche in tal caso, non avrebbe provato l’effettivo utilizzo del marchio; oltre al fatto che anche il medesimo, secondo Guess, dovesse essere dichiarato nullo poiché privo di capacità distintiva o, comunque, molto debole; infine, doveva escludersi ogni imitazione da parte della convenuta, non essendo la trama dell’azienda statunitense, costituita da coppie di lettere “G” contrapposte o invertite, né raffigurante quadratini e mancando la prova da parte di Gucci dell’asserito illecito contraffattivo e della rinomanza dei marchi azionati. Secondo la convenuta, il proprio tessuto sarebbe differente da quello di Gucci, in quanto Guess avrebbe utilizzato la singola lettera “G” con una grafia diversa da quella di parte attrice, con delle losanghe agli angoli e collegata alle altre con cinque trattini; la trama di Gucci era, invece, costituita da due lettere “G” contrapposte e invertite, con delle losanghe vuote agli angoli e collegate tra loro da due quadratini. Inoltre, tutti i prodotti dell’azienda statunitense erano contrassegnati in modo evidente dalla denominazione “Guess”. In ultima istanza, la convenuta negava l’ipotesi di condotta illecita e parassitaria, evidenziata da Gucci, relativamente all’imitazione della collezione “Guccissima”, in particolare, dei colori beige e marrone scuro e dei cuoricini per le trame azionate. L’azienda statunitense ribadiva, inoltre, l’impossibilità di detenzione, da parte dell’attrice, del diritto in esclusiva su elementi grafici o colori apposti sui propri prodotti, in quanto, nel settore della moda, i trend seguiti dalle maison, in un dato momento, sono, in generale, gli stessi; in aggiunta, Gucci non avrebbe sollevato la questione in relazione a simili condotte intraprese da altre maison di moda, posta, appunto, la presenza di somiglianze tra i prodotti derivante dalle tendenze del momento. La casa di moda fiorentina rammentava la notorietà della lettera “G”, nelle diverse raffigurazioni, come segno distintivo della maison di moda italiana e l’utilizzo dei segni azionati anteriormente 96 rispetto all’azienda statunitense337; infatti, nonostante il tessuto di Guess fosse stato depositato dalla stessa nel 2005 e quelli di Gucci solo 2007, la maison americana avrebbe, comunque, violato dei diritti antecedenti relativi a ulteriori segni di titolarità di Gucci. Parte attrice affermava, inoltre, la rinomanza e la capacità distintiva dei propri marchi, ritenendo inutile considerare l’eventuale funzione ornamentale del segno. Per quel che riguarda, in particolare, le due lettere “G” contrapposte e invertite Gucci faceva appello alle decisioni in cui si era ribadita la notorietà del pattern nel mondo e per tale motivo, la domanda della controparte di decadenza per non uso sarebbe infondata. L’imitazione dell’ombreggiatura, dei colori, del metodo di lavorazione della pelle, in riferimento alle trame qui azionate da Gucci, rimarcano, a detta dell’attrice, la condotta illecita costantemente contraffattoria e parassitaria attuata da Guess. Parte attrice contestava, anche, la contraffazione del celebre marchio raffigurante il nastro "verde-rosso-verde"338 (fig. 8), utilizzato dalla stessa già a partire dagli anni ’50. In particolare, l’illecito sarebbe stato posto in atto in virtù della vendita nel nostro paese, mediante l’intermediario Zappos, di due modelli di sneakers caratterizzate dalle strisce "verde-rosso-verde", pedissequa imitazione di quelle di Gucci; trattandosi di marchio rinomato, la fattispecie integrata sarebbe quella prevista dall'art. 20, co. 1, lett. a), b) ed anche lett. c), c.p.i. ed all'art. 9, co. 1, RMC. Guess si giustificava affermando di non aver mai commercializzato prodotti riproducenti il marchio celebre di Gucci; chiedeva, inoltre, che tale segno fosse dichiarato nullo in quanto privo di capacità distintiva, posta l’ampia diffusione delle strisce di suddetti colori nel settore della moda, e conferente valore sostanziale al prodotto. Replicava l’attrice che il marchio azionato era costituito da una determinata sequenza di colori e non, genericamente, da righe tout court: infatti, solo in 337 In particolare Gucci utilizzava i tessuti logati con la lettera “G” singola nelle diverse stillizazioni dagli anni ’60-’70 e dagli anni ’50 relativamente alle “G” contrapposte, infine, usava il motivo geometrico cc.dd. “diamond” a lonsanghe dagli anni ’30. 338 Marchio italiano n. 414406, depositato nel 1985 e rinnovato; marchio comunitario n. 160028, depositato nel 1996. 97 quest’ultima ipotesi il marchio potrebbe essere considerato debole o privo di capacità distintiva. Ancora, posta la forza del segno e l’evocazione del suddetto della tradizione e dello stile della maison italiana, parte attrice contestava alla convenuta l’osservazione secondo cui tale disegno conferirebbe valore sostanziale al prodotto. Gucci affermava, infine, la contraffazione del suo marchio figurativo 339 costituito da una stampa floreale chiamata “Flora” (fig. 9). Tale stampa, che era stata ideata nel 1996 appositamente per la principessa Grace Kelly di Monaco, rappresentava una nota icona della maison di moda fiorentina e, in riferimento alla sua riproduzione su due modelli di scarpe commercializzate e vendute in Italia, l’attrice riteneva che la convenuta avesse integrato l’illecito di cui all’art. 20, co. 1, lett. a), b) e c) c.p.i.. Parte convenuta sosteneva di non aver mai venduto e pubblicizzato il prodotto menzionato in Italia, ma solo negli Stati Uniti. A tal punto, Gucci riteneva corretto dover valutare tale condotta in modo complessivo sotto il profilo della concorrenza sleale e, per questo motivo, produceva in giudizio degli articoli reperiti nel web che accusavano Guess di voler imitare il suddetto modello di scarpe da Gucci, dimostrando come queste fossero state pubblicizzate in Italia. L’azienda statunitense sosteneva l’impossibilità di dimostrare la vendita del medesimo prodotto in Italia, affermando, inoltre, che il marchio fosse da ritenersi nullo, in quanto privo di capacità distintiva, posto l’utilizzo diffuso di tessuti floreali nel settore della moda. Ribadiva, poi, di avvalersi di un motivo simili a quello azionato già dal 1997 e la mancanza di prove in merito ad un effettivo utilizzo del marchio da parte di Gucci nel periodo tra gli anni ’80 e il 2005 340 , sostenendo che tale segno fosse rimasto inutilizzato per vent’anni. Infine, secondo parte convenuta, Gucci non avrebbe dovuto godere del diritto di esclusiva sulla stampa floreale, se non nel suo insieme, in quanto, in caso contrario, si sarebbe accordato all’azienda italiana il diritto esclusivo di utilizzo su ogni tipologia di fiore rappresentato nella medesima. 339 Marchio italiano n. 971291, depositato il 25 maggio 2005; marchio comunitario n. 446273, depositato il 23 maggio 2005 e marchio comunitario n. 5172218 depositato nel 2006. 340 Il documento presentato, datato 1996, riportava un foulard della collezione del 1966. 98 Gucci, al riguardo, contestava il fatto che la stampa preusata da Guess fosse diversa da quella azionata e la domanda di nullità del segno, in quanto il medesimo, nonostante potesse esser utilizzato anche con funzione ornamentale, era dotato di capacità distintiva. Posta l’asserita contraffazione dei marchi di Gucci da parte di Guess, l’attrice contestava anche la costante e pedissequa imitazione dei suoi prodotti dimostrando la sistematicità della condotta illecita dell’azienda statunitense, nonché la breve distanza temporale tra la produzione e commercializzazione di un nuovo prodotto di Gucci ed uno ritenuto simile di Guess. Secondo parte attrice, tale condotta è da ritenersi illecita ai sensi dell’art. 2598, nn. 1, 2, 3 c.c., in quanto, oltre a contraffare dei segni distintivi e prodotti di Gucci, Guess si sarebbe anche appropriata di fama e notorietà della maison italiana, insinuando nei consumatori un rischio di confusione tra i marchi e prodotti delle due aziende; inoltre, data la sistematicità e la costanza dell’imitazione di iniziative, marchi e prodotti, si sarebbe verificata anche l’ipotesi di concorrenza parassitaria. Tra i prodotti imitati da Guess si annoveravano una cintura, e relativa fibbia, borse, scarpe e gioielli quali orologi, anelli e collane; oltre al fatto che diversi prodotti già simili a quelli della maison italiana erano, anche, realizzati con una trama a “G” analoga nei colori, beige per lo sfondo e marrone scuro per le lettere, a quella di Gucci (fig. 11). Parte attrice affermava, poi, la pedissequa imitazione di un morsetto, che l’azienda italiana utilizzava fin dagli anni ’50, dichiarato marchio celebre dal Tribunale di Milano, con sentenza del 2 novembre 2011, benché la violazione non fosse azionabile nel presente giudizio, in quanto, sarebbe avvenuta posteriormente. Guess, al contrario, affermava che taluni dei propri prodotti, oltre che diversi da quelli di parte attrice, erano stati realizzati antecedentemente rispetto a quelli di quest’ultima e che alcuni dei modelli che la maison italiana riteneva fossero copia dei propri erano, in realtà, ampiamente generalizzati nel settore della moda, quale ad esempio la borsa “a bauletto”, il modello “Hobo” o le ballerine. 99 Inoltre, in relazione ai due modelli di scarpe azionati, Guess sosteneva di non averli mai commercializzati e venduti in Italia, neanche per mezzo di Zappos, a differenza di quanto sostenuto da parte attrice. A dimostrazione dell’anteriorità dei prodotti Guess rispetto a quelli di Gucci, la prima confrontava la data di pubblicazione dei cataloghi della maison italiana con quella della commercializzazione dei propri prodotti, considerando che, di norma, l’ideazione del prodotto avviene circa un anno prima rispetto alla sua messa in commercio. L’azienda italiana sosteneva, al contrario, la priorità temporale dei propri prodotti, posto che il momento della commercializzazione degli stessi era successivo almeno di un anno rispetto a quello dell’ideazione e presentazione al pubblico nelle sfilate e nelle campagne pubblicitarie di Gucci; aggiungendo, inoltre, come talune delle date di immissione in commercio dei prodotti Gucci fossero state indicate tardivamente da parte di Guess. Parte attrice contestava, da ultimo, l’osservazione della convenuta relativamente al fatto per cui Gucci, essendosi accorta dell’asserita condotta illecita da parte di Guess, avrebbe, comunque, atteso alcuni anni prima di agire in giudizio; oltre alle numerose domande riconvenzionali poste, in sede processuale, dalla maison americana. Infine, con riferimento alle domande di concorrenza sleale da parte di Gucci, sia Guess che Zappos ritenevano vi fosse, in via pregiudiziale, carenza di interesse ad agire e difetto di legittimazione attiva in capo alla maison italiana, in quanto quest’ultima era titolare dei segni distintivi ma non più operativa sul mercato della distribuzione dei prodotti contrassegnate dai suddetti marchi. 2. Le decisioni del Tribunale di Milano Il Tribunale di Milano, chiamato ad esprimersi in merito alle domande di Guess e Gucci, rileva quanto segue. Anzitutto, in ordine al difetto di legittimazione attiva ed interesse ad agire sollevato da Guess, il collegio riteneva che, nonostante la maison italiana 100 non fosse più operativa nella distribuzione dei propri prodotti, affidata a Luxury Goods Italia spa, i consumatori, in ogni caso, tendessero a collegare i medesimi a Gucci e al suo “universo” in genere, e che, pertanto, una condotta sleale da parte della convenuta riversasse i suoi effetti su tutte le società del gruppo, recando pregiudizio al pregio e all’esclusiva dei segni, nonché al suo successo commerciale. Tali osservazioni valevano, nello specifico, per la società del gruppo che presentava la stessa denominazione dei marchi utilizzati sul mercato, ovvero Guccio Gucci spa. Era quest’ultima, infatti, che gestiva la creazione dei prodotti, il marketing, la pubblicità e, in generale, l’immagine della maison italiana nel mondo, oltre a tutti i marchi, le privative di proprietà industriale del gruppo e i marchi di fatto. In considerazione di suddette attività, si poteva confermare l’esistenza di un rapporto di concorrenza tra Guccio Gucci spa e le convenute, Guess e Zappos, benché le aziende operassero ad un livello diverso della catena produttiva e distributiva. A fronte di siffatte motivazioni, il Tribunale dichiarava la sussistenza, in capo a Guccio Gucci spa, della legittimazione attiva, della titolarità dell’azione e dell’interesse ad agire con il fine di promuovere l’azione di concorrenza sleale e parassitaria nei confronti delle convenute. In merito all’eccezione sollevata dall’azienda Zappos, secondo la quale il Tribunale adito sarebbe privo di giurisdizione in quanto l’attività dell’azienda non si sarebbe realizzata nel nostro paese, il Collegio rigettava l’osservazione proposta. In particolare, il Tribunale riteneva che la lingua inglese utilizzata dal sito non potesse costituire elemento di limitazione dell’attività ai soli consumatori anglofoni, non rappresentando l’inglese un ostacolo per i giovani o il pubblico in genere, sempre più abituato all’utilizzo di tale lingua, come di taglie e di prezzi americani, soprattutto per quel che riguardava gli acquisti online. Le modalità di vendita descritte nell’analisi dei fatti, secondo il Collegio, consentivano di affermare che Zappos vendesse anche in Italia, seppur in ipotesi circoscritte. La società era, infatti, consapevole dell’ubicazione 101 dell’acquirente consentendo all’immissione dei propri prodotti nel territorio italiano e, per di più, nel relativo sito internet era ben indicata la volontà di rivolgersi anche “international customers”, non limitandosi, dunque, ai clienti statunitensi o canadesi. Veniva altresì respinta l’eccezione di Zappos secondo la quale la propria condotta sarebbe stata lecita in quanto, con l’acquisto del prodotto da parte di Gucci stessa, si presupponeva che la maison italiana approvasse la commercializzazione del bene. Quindi, dato che Zappos aveva venduto dei prodotti contraffatti a clienti internazionali, nello specifico italiani, sussisteva un rapporto effettivo di concorrenza tra l’azienda e Gucci. La destinazione del bene, confermata anche dall’indicazione di taglie europee sulle scatole dei modelli di sneakers, giustificava la giurisdizione del Tribunale nazionale, non influenzata, invece, come già rilevato, dall’eccezionalità della vendita, particolare rilevante solo nel risarcimento del danno. 2.1 Contraffazione di marchi Nel corso del presente paragrafo vengono prese in considerazione le decisioni del Tribunale in merito alle domande di contraffazione di marchi sollevate da Gucci e da Luxury Goods nei confronti della convenuta, le quali decisioni consentono di valutare ogni singola responsabilità e l’asserita condotta parassitaria di Guess. Per quel che riguarda la scritta Guess in corsivo con sottolineatura, il rilievo di Gucci in merito alla contraffazione del proprio marchio da parte di Guess era stato giudicato infondato. La convenuta, infatti, aveva dimostrato l’utilizzo del marchio sin dall’anno 1982, ovvero antecedentemente rispetto al deposito di Gucci avvenuto nel 1996. Per converso, il Tribunale non aveva accolto nemmeno la domanda di nullità del marchio per mancanza dei requisiti, né quella di decadenza del segno per perdita della capacità distintiva, opposte da Guess, in quanto non 102 opportunamente supportate nei fatti alla luce delle prove offerte da parte attrice. Detto marchio, dotato di rinomanza e notorietà, era stato utilizzato ininterrottamente da Gucci sin dagli anni ’40-’50, sia all’interno di borse che al loro esterno, dunque, lo stesso risultava essere protetto dalla speciale tutela dei marchi celebri. In base alla documentazione tratta dall’archivio storico di Gucci, si poteva affermare che Gucci vantasse una priorità d'uso sul segno e che il medesimo avesse acquisito rinomanza negli anni, essendo stato utilizzato in modo continuativo nel tempo, cosicché non possa concludersi con un’opinione favorevole in merito all’asserita decadenza del marchio. In merito alla richiesta di contraffazione di Gucci, il Tribunale riteneva essere rilevante la diversità, per suono e per una visione d’insieme, a colpo d’occhio, delle denominazioni che compongono il marchio. In particolare, il Collegio sosteneva la differenza nei caratteri e nello spessore delle varie lettere, oltre alla diversità della lettera iniziale: inclinata e arrotondata quella di Guess, più rigida e dritta quella di Gucci. Inoltre, essendo l’impresa statunitense sul mercato dagli anni ’70, non era possibile evidenziare una voluta analogia nella denominazione delle due maison, posto, peraltro, che Gucci non aveva mai mosso obiezioni in merito e che la scelta del nome “Guess” faceva riferimento al verbo inglese indovinare come evidenziato dal punto interrogativo posto accanto alla denominazione: punto interrogativo facente tutt’oggi parte della regione sociale dell’azienda americana. Anche la sottolineatura escludeva ogni sospetto di contraffazione, in quanto, la linea tra i due marchi era differente: da sinistra a destra nel marchio Guess, a completamento dell’occhiello della lettera “G”; da destra a sinistra nel segno di Gucci a conclusione della lettera “i” finale. La sottolineatura era, inoltre, molto utilizzata nel settore dei segni distintivi con l’effetto di rimarcare il nome, tantoché il gesto di sottolineare significa appunto “apporre una linea sotto” con il tentativo di mettere in evidenza, valorizzare il nome. Ancora, il Tribunale ribadiva come la rinomanza dei due marchi fosse tale da escludere il rischio di confusione tra i consumatori; in particolare, la 103 rinomanza internazionale di Guess sarebbe stata documentata dal materiale pubblicitario e dalle riviste di settore, nonché affermata dalla stessa parte attrice. Il rischio di confondibilità tra i due segni era stato valutato dal Collegio in concreto, considerando le modalità e l’ambito in cui i marchi erano utilizzati, oltre all’attitudine dei segni a distinguere i prodotti contraddistinti in relazione alla fonte dalla quale provengono, nonché alla notorietà dei segni distintivi sul mercato nazionale e internazionale (notorietà che deve essere tale da escludere il collegamento con l’attività del concorrente da parte dei consumatori). Nel caso in esame, infatti, oltre alle particolarità che differenziavano i due marchi, la stessa notorietà di cui godevano i suddetti segni sul mercato contribuiva ad escludere un eventuale rischio di associazione; ancora il consumatore si dimostrava attento e avveduto non trattandosi di prodotti a “buon mercato”. La giurisprudenza ha spesso rilevato come nel settore moda l’acquirente medio presti particolare attenzione allo stile, alla qualità, al prezzo e alla rifinitura del prodotto prima di procedere con l’acquisto, in particolar modo ove “si tratti di prodotti di lusso o particolarmente costosi, il pubblico di riferimento si dimostrerà ancor più attento nei loro confronti" (Trib. CE, 29 settembre 2009, causa T-139/08). Inoltre, nell’acquisto di prodotti di abbigliamento vi è una grande attenzione all’immagine nonché una propensione all’apprezzamento delle diversità. Il consumatore, dunque, si era dimostrato in grado di rilevare le differenze tra i prodotti e segni distintivi delle due maison, propendendo per l’una o per l’altra in base al look che prediligeva: in particolare, propendeva per Guess nel caso di preferenza di un look giovanile glamour e trendy, laddove, invece, preferiva un aspetto “di classe”, elitario e signorile optava per Gucci. Tali differenze erano evocate anche dal materiale pubblicitario delle due maison di moda: Gucci infatti presentava nelle proprie pubblicazioni celebrative attrici famose e principesse, rimandando ad un’idea di élite, mentre Guess modelle con un’immagine glamour e fashion. Il Tribunale sottolineava, inoltre, che in tutti i prodotti della convenuta era ben evidente la denominazione “Guess”, altro elemento che escludeva ogni 104 possibile confusione (anche relativamente alla post-sale confusion) essendo il marchio “generale” dotato di una forza scriminate, considerata la sua notorietà nazionale e internazionale. Allo stesso modo, quanto al rischio di associazione non sembrava ipotizzabile che il consumatore si ingannasse circa la sussistenza di un legame economico tra le due aziende. Alla luce di siffatte osservazioni, il Tribunale escludeva la contraffazione in merito al marchio in corsivo in esame. Analoghe considerazioni valgono anche per il segno costituito dalla lettera “G” in corsivo. In merito alla domanda di nullità del marchio costituito da una singola lettera dell’alfabeto (la prima lettera della denominazione “Gucci”, di cui si è detto sopra) proposta dalla convenuta, il Tribunale confermava la sua valida registrazione in quanto l’oggetto del segno in questione non era tanto la singola lettera, quanto la sua particolare grafia; ribadiva, inoltre, che il segno di Gucci era dotato di distintività in ragione dell’ampia diffusione nel mercato, nonché protratta nel tempo e geograficamente vasta, tanto del marchio costituito dalla singola lettera “G”, quanto del marchio Gucci in corsivo dotato della stessa grafia. Tale marchio era, inoltre, da ritenersi valido in virtù della spontanea associazione da parte dei consumatori tra la singola lettera “G” e il brand Gucci esteso che utilizza il medesimo carattere e la stessa lettera iniziale. Le variazioni al marchio apportate nel tempo da Gucci erano da ritenersi legate allo “svecchiamento” del segno e, in ogni caso, sono state ritenute dal Collegio percepibili solo mediante un raffronto diretto, ponendosi il grafismo del segno in questione in continuità con quello antecedente. In conclusione, nonostante l’ampia diffusione dell’utilizzo di suddetta lettera tra le maison di moda e la generale debolezza dei segni costituiti da una singola lettera dell’alfabeto, la tipografia del suddetto marchio è da ritenersi sufficientemente distintiva, essendo percepibili dal consumatore le differenze con altri marchi simili. Considerando la lettera “G” utilizzata da Guess, il Tribunale evidenziava la differenza con quella di Gucci anche nel carattere tipografico: “la lettera è diversa nell’avvio del tratto superiore (più arrotondata e chiusa la “G” di 105 Gucci rispetto a quella di Guess); il tratto di Guess è meno differenziato in ordine allo spessore della linea (che varia nella G di Gucci fra sottile e spessa, rimarcando l’effetto chiaro-scuro), essendo la linea di Guess nel complesso più spessa e più uniforme; la linea di Guess infine reca in tutto il suo percorso una doppia bordatura in colore scuro, totalmente assente nella “G” di Gucci”341. Il marchio di Guess, inoltre, presentava una corona d’alloro con una nastro nella parte inferiore corredata dalla denominazione “Guess”; oltre a tali differenze grafiche, l’impresa statunitense utilizzava su molteplici prodotti il suddetto segno da prima del 2008, con ampia diffusione, sia dei prodotti sia del marchio medesimo, fin dal 2002. Per tali ragioni il Collegio escludeva la contraffazione da parte di Guess, ritenendo, tuttavia, valido il marchio in questione. Osservazioni analoghe valgono per la denominazione “Guess” in stampatello maiuscolo dorato tridimensionale ritenuta analoga a quella di Gucci. Il Tribunale aveva, in tal caso, ritenuto valida la considerazione di Guess: secondo quest’ultima, infatti, Gucci avrebbe modificato nel tempo la scritta per grafia e colori, tutte varianti differenti del segno contestato alla maison americana. Inoltre, risultava che Guess utilizzasse il logo azionato su pubblicità, cataloghi e come insegna fin dal 2004. Oltre a ciò, il Collegio sosteneva che Gucci non potesse monopolizzare il carattere stampatello maiuscolo o il colore dorato per le lettere, oltretutto differenti da quelle di Guess per carattere tipografico, dimensione e proporzioni. Anche l’effetto tridimensionale, oltre ad essere carattere abbastanza comune, è diverso tra i due segni distintivi: Gucci utilizzava, infatti, una banale ombreggiatura mentre Guess tratti più netti, chiaro-scuro e punti luce molto evidenti. Il Tribunale, dunque, concludeva escludendo un possibile rischio di confondibilità tra i due segni, anche in virtù della notorietà dei due marchi, nonché delle particolari caratteristiche del target di consumatori. 341 Trib. Milano, 2 maggio 2013, in Dir. giust., 2013. 106 Relativamente al marchio costituito da due lettere “G” contrapposte e invertite, corredato da quadratini ai quattro angoli, del quale Guess chiedeva la decadenza per non uso e la nullità, il Tribunale rigettava quest’ultima, in quanto non fondata: infatti, benché non vi fossero effettivamente delle prove circa l’utilizzo del marchio corredato dai quadratini da parte dell’attrice, il segno distintivo costituito esclusivamente dalle due “G” contrapposte ed invertite, cuore del suddetto segno, era stato individuato come caratterizzante la storia della maison fiorentina da diversi decenni. I quadratini posti agli angoli risultavano, infatti, solo un elemento ornamentale, di contorno rispetto alle due lettere “G” contrapposte, apparendo con ciò, dunque, marginale il fatto che Gucci non avesse utilizzato il segno corredato da quadratini ma solo quello composto dalle due “G” contrapposte e invertite. In ogni caso, la contraffazione era stata, anche in tal caso, esclusa, non potendo affermarsi alcuna imitazione da parte di Guess del segno, in quanto nessuno dei marchi contestati e utilizzati dall’azienda americana, come emblemi distintivi o riprodotti nelle proprie trame, riproduceva le caratteristiche del segno da ultimo richiamato. Il tessuto di Guess che riproduce quattro lettere “G” centrali intrecciate corredate da rombi composti da cinque piccoli segmenti era, infatti, stato considerato del tutto differente da quello composto da due “G” contrapposte e invertite di Gucci. Il Collegio, poi, avanzava forti dubbi in merito all’effettivo utilizzo da parte di Gucci della singola “G” squadrata, ritenuto marchio debole anche dalla Corte americana, e affermava che esso non potesse ricevere protezione, così come pure il segno costituito dalla singola lettera "G", anche se ripetuta in una trama che la integra all'interno di un rombo delineato da pallini. La tutela era stata esclusa trattandosi di una banale “G” squadrata di forma quadrata in carattere maiuscolo non dotata di particolare grafia e caratterizzazione, essendo, peraltro, la lettera singola (“G”) diffusa sul mercato come marchio di celebri case di moda. Nel giudizio in questione, il giudice italiano richiamava altresì la sentenza americana, la quale riconosceva lo sviluppo della “G” squadrata da parte di Guess “nella sua denominazione sin dagli anni ’80” e lo sviluppo del disegno 107 nel 1995, nonché la messa in commercio “per la prima volta nel 1996, se non prima"342. La District Court, inoltre, affermava che "Gucci non aveva dimostrato che i consumatori effettivamente riconoscessero la “G” squadrata come segno distintivo di Gucci”343, concludendo che il marchio non godesse di notorietà quando Guess aveva iniziato ad utilizzare il segno nel 1996 e ritenendolo un segno debole. Al contrario, il giudice italiano escludeva, innanzitutto, la debolezza del segno distintivo; inoltre, ai fini del giudizio di concorrenza parassitaria e imitazione servile, evidenziava piuttosto il fatto che Guess avesse provato l’utilizzo del marchio dagli anni 1996/1997 e successivamente per 3 anni a partire dal 2000 e l’uso da parte dell’azienda americana di una “G” con forma rettangolare anziché quadrata, come rivendicato, invece, da Gucci. A fronte di tali osservazioni, il Tribunale escludeva il diritto di esclusiva di Gucci su tale segno, oltre alla contraffazione e all’imitazione servile da parte di Guess. Le “G” squadrate erano, inoltre, riprodotte in serie nel marchio italiano n. 876581 del 26 luglio 2002344. In relazione alle ragioni avanzate da Guess, in merito alla nullità del marchio in questione, in quanto costituito da un disegno che attribuiva valore sostanziale al prodotto, il giudice riteneva che il "pattern" in oggetto conferisse valore sostanziale al prodotto ma che tale valenza estetica non fosse tale da qualificarsi come fattore determinante nella scelta d’acquisto dei consumatori345. Il segno sembrava, infatti, costituire elemento determinante per l’acquisto in relazione alla sua forza distintiva, di richiamo della produzione della maison di moda italiana e della rispettiva brand image. Veniva al riguardo richiamato, dal Collegio l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il c.d. valore sostanziale della forma, seppur gradevole 342 Southern District Court of New York, “Gucci America Inc. v. Guess? Inc.”, 21 maggio 2012, reperibile in www.abovethelaw.com, 2012. 343 Southern District Court of New York, “Gucci America Inc. v. Guess? Inc.”, 21 maggio 2012, reperibile in www.abovethelaw.com, 2012. 344 La corrispondente domanda di registrazione del marchio comunitario n. 2782548, depositata il 18.7.2002, è stata, invece, rigettata dall’UAMI. 345 v. Trib Milano, 24 aprile 2008, per il quale “Il grado di apprezzamento dell'estetica di una forma che impedisce la registrazione della medesima come marchio (…) richiede che la forma appaia idonea per il suo valore meramente estetico ad incidere in maniera determinante sull'apprezzamento del consumatore tanto da costituire in sé la motivazione dell'acquisto del prodotto”. 108 sotto il profilo estetico, non ostacola la registrazione di un marchio di forma nel quale prevalga la funzione di richiamo della provenienza del prodotto da una determinata impresa; funzione, come noto, prevalente del marchio. Dunque, a differenza del logo con la singola lettera “G” squadrata isolata, per tale pattern il Tribunale affermava la sussistenza della capacità distintiva e la prevalenza di quest’ultima funzione su quella estetica; pertanto, oltre ad essere esclusa la decadenza per non uso, il marchio era stato ritenuto valido nonostante le molteplici trame nel settore della moda raffiguranti le lettere “G” nelle diverse configurazioni. Per quel che riguarda l’illecito di contraffazione, imitazione servile e concorrenza parassitaria, deve concludersi, alla luce dei rilievi tribunalizi, che la trama costituita dalle “G” squadrate utilizzata da Guess sia del tutto differente da quella di Gucci, giacché il disegno dell’azienda americana riproduceva “G” squadrate ma allungate, disposte in modo casuale, con tratto non uniforme e pieno come quello di Gucci. Per tali motivazioni, nel complesso, il pattern di Guess si differenziava da quello della maison italiana e, dunque, il Collegio escludeva qualsiasi atto di contraffazione e imitazioni servile. Relativamente al logo composto dalla ripetizione seriale di cinque coppie di lettere “G” contrapposte ed invertite, collegate da puntini, il Tribunale sosteneva la validità di tale marchio, per le stesse ragioni considerate nel caso delle due “G” contrapposte ed invertite ed il pattern a “G” squadrate, di cui si è detto precedentemente. Essendo le “G” contrapposte ed invertite il cuore del segno distintivo in questione, era innegabile la sua particolare caratterizzazione e il richiamo alla maison di moda italiana. Anche in tal caso il marchio utilizzato da Guess si differenziava da quello Gucci ed il Tribunale, dunque, escludeva l’illecito contraffattivo. Quanto alla singola lettera “G” corredata da pallini e il relativo pattern, il giudice riteneva detti segni nulli in quanto la lettera “G” non era corredata da particolare grafia, né da alcun elemento decorativo, posto che l’apposizione dei pallini appariva banale e non caratterizzante. Era stata esclusa anche l’acquisizione di capacità distintiva conferita grazie all’uso del segno, in quanto tale utilizzo “non era stato dimostrato in causa 109 in termini di intensità e frequenza tali da indurre il pubblico ad identificare nell'uso di un simile segno in modo univoco la provenienza dalla società attrice”346. Lo stesso può dirsi per la trama composta dalle singole “G”: non era, infatti, stata ritenuta sufficiente la ripetizione seriale di un elemento di per sé privo di caratterizzazione per conferire validità al marchio, senza considerare il fatto che nel settore della moda l’utilizzo della losanga riportante le iniziali delle maison era ampiamente diffuso. Nonostante l’invalidità del segno da ultimi richiamato, occorreva, tuttavia, valutare la sussistenza della condotta illecita da parte della convenuta. A tal fine il Collegio rilevava, innanzitutto, il fatto che l’azienda americana riportasse la denominazione “Guess” in ogni proprio prodotto, oltre alla diversità di grafie delle singole lettere “G” riportate sulla trama: a tratto spesso, contrapposte ed invertite e poste agli angoli delle losanghe vuote collegate tra loro da due quadratini quelle di Gucci; una singola lettera “G” a tratto sottile e con carattere tipografico differente, disposta agli angoli delle losanghe, congiunte tra loro da 5 trattini e con al centro un particolare motivo grafico, quella di Guess. Per tali differenze di grafia e per il fatto che le losanghe apparissero vuote nel disegno di Gucci e riempite dall’intreccio di “G” in quello di Guess, l’impressione generale dei due disegni era differente. In particolare, confrontando a distanza le due trame ciò che rimaneva impresso erano le due lettere “G” invertite nel disegno di Gucci, mentre spiccava, quale elemento decorativo autonomo, l’intreccio centrale delle quattro “G” in quello di Guess. In linea con tali considerazioni, il Tribunale escludeva l’illecito contraffattorio e l’imitazione servile in ordine al suddetto segno distintivo, atteso che il disegno di Guess non aveva nulla a che vedere con quello di Gucci, tenendo conto anche del vasto panorama di tessuti delle maison di moda riportanti la lettera “G”. La maison italiana denunciava, inoltre, la contraffazione del nastro in tessuto costituito da tre strisce, due verdi e una rossa centrale più spessa. 346 Trib. Milano, 2 maggio 2013, in Dir. giust., 2013. 110 Secondo parte convenuta, essendo il segno costituito da colori comuni e privo di alcuna capacità distintiva, nonché conferente valore sostanziale al prodotto, doveva essere considerato nullo come marchio; motivo cui doveva aggiungersi quello secondo cui Gucci nella registrazione non aveva indicato nemmeno i codici Pantone internazionali. Il Tribunale, tuttavia, dichiarava valido il marchio, in quanto dotato di un’indiscutibile forza distintiva e idoneità ad identificare il prodotto quale proveniente da una determinata impresa. Nel merito, il giudice riteneva poi corretto escludere la contraffazione posto che Guess risultava estranea alla diffusione delle scarpe recanti il suddetto marchio nel mercato italiano: ne è prova che Gucci avesse reperito con difficoltà, tramite l’intermediario Zappos, i due modelli di scarpe in questione. Erano stati, inoltre, esclusi gli illeciti di contraffazione, imitazione servile e concorrenza sleale in riferimento a prodotti rappresentati nei cataloghi Guess recanti nastri marrone-rosso-marrone o altri colori, posto che non era proteggibile la semplice idea d’utilizzo di nastri caratterizzati da differenti alternanze di colore. Ancora, Gucci lamentava la contraffazione del tessuto florale “Flora” 347 riprodotto su alcuni prodotti Guess. A tal proposito, il giudice affermava che i prodotti riproducenti il marchio in questione sarebbero comparsi su un blog di un soggetto terzo escludendo, così, sia la possibilità di risalire alla fonte di reperimento della calzatura e della notizia, sia la presunta diffusione nel mercato italiano dei prodotti contraddistinti dal suddetto segno, come, invece, sostenuto da Gucci. Indipendente dalle osservazioni riportate da parte convenuta, il Collegio dichiarava nullo il disegno in questione, in quanto privo dei requisiti richiesti per la registrazione dei marchi di forma, ai sensi dell’art. 9 c.p.i.. In particolare, il segno distintivo costituito da un tessuto floreale ricercato ed esteticamente gradevole non poteva essere considerato valido come marchio, giacché nello stesso era ravvisabile un elemento estetico preponderante, se non esclusivo e, in ogni caso, tale da determinare la 347 Marchio italiano n. 971291, depositato il 25/05/2005; marchio comunitario n. 4462735, depositato il 23/05/2005 e marchio comunitario n. 5172218, depositato il 16/06/2006. 111 scelta d’acquisto del consumatore, in virtù della sua funzione ornamentale, non in quanto indice della provenienza da una determinata impresa. Per tali motivi, Gucci aveva, infatti, registrato il marchio anche come modello. Il Tribunale, in merito, evidenziava una carenza di capacità distintiva ed una rilevanza estetica tale da poter registrare la suddetta forma come modello, la cui tutela non era cumulabile con quella del marchio. In relazione alla convalida del marchio in forza dell’uso protratto nel tempo e diffuso che ne era stato fatto (si parla in tal caso del fenomeno della secondarizzazione o “secondary meaning”) invocata da Gucci, il Tribunale richiamava l’art. 3 della Direttiva del Consiglio del 21 dicembre 1988 (Direttiva 89/104/CEE), secondo la quale un segno escluso dalla registrazione come marchio ai sensi di detto articolo, n. 1, lett. e)348 non può mai acquisire un carattere distintivo per l’uso che ne è stato fatto in base all’art. 3, n. 3, in quanto per l’ipotesi riportata alla lett. e) è esclusa dalla possibilità di convalidazione successiva. Disposizioni analoghe sono contenute anche nell’art. 7, n. 1, del Regolamento CE n. 207/09 del 26 febbraio 2009. Quindi, secondo il Collegio, la nullità del marchio permaneva nonostante la notorietà raggiunta sul mercato dal segno distintivo in esame. Infine, in riferimento alla pelle c.d. “logata”, il Tribunale sosteneva che la tecnica di impressione della pelle indicata da Gucci come propria fosse in realtà una lavorazione e scelta decorativa diffusa da diversi anni sul mercato. La diversità dei loghi, inoltre, caratterizzava la pelle in modo difforme escludendo una possibile imitazione da parte di Guess. A fronte di tali osservazioni, il Collegio dichiarava infondato l’addebito dell’illecito concorrenziale a Guess, sostenendo che l’impresa americana si sarebbe ispirata ad una tendenza diffusa sul mercato piuttosto che a Gucci. 2.2. Imitazione servile 348 L’articolo in questione esclude la registrazione delle forme imposte dalla natura stessa del prodotto, dalle forme del prodotto necessarie per ottenere un risultato tecnico e dalle forme che danno un valore sostanziale al prodotto. 112 Oltre alla contraffazione dei propri segni distintivi, Gucci lamentava anche atti di concorrenza sleale da parte di Guess, in particolare sotto il profilo dell’imitazione servile con riferimento alla riproduzione dei prodotti contrassegnati dal pattern composto dalle due lettere “G” contrapposte, già giudicato non confondibile con quello di Gucci. Occorreva, tuttavia, valutare, per ogni prodotto su cui parte attrice contestava l’illecito, la confondibilità in concreto tra gli elementi di cui si compone il prodotto, oltre al disegno del tessuto su cui, appunto, è stata esclusa ogni confondibilità. Posto il comune utilizzo di tessuti recanti le iniziali da parte delle maison di moda, delle losanghe e dei colori marrone-beige sui tessuti “canvas”, il Tribunale escludeva l’illecito concorrenziale in merito ai canvas di suddetti colori, considerando, anche, la diversità dei marchi posti sui tessuti delle due aziende e la banalità della combinazione cromatica, tale da non renderla associabile all’impresa italiana nella mente del consumatore, tenendo presente, anche, che detta combinazione è molto diffusa nel settore moda. In merito alle cinture, Gucci contestava l’imitazione da parte di Guess dei quattro modelli di seguito elencati. In particolare, parte attrice denunciava la pedissequa imitazione della cintura con fibbia a “G” squadrate, esclusa dal Tribunale per le seguenti motivazioni. Analizzando i due prodotti, nello specifico, si rilevavano talune differenze, loro peculiarità, tali da escludere un possibile rischio di confusione. Nello specifico, la cintura di Guess era da donna, colorata e marchiata con lettere “G”; mentre quella di Gucci era una cintura in pelle nera, da uomo, elegante. Confrontando le fibbie si rilevava che quella di parte convenuta riportava la denominazione “Guess” quale elemento decorativo della medesima fibbia; inoltre, con riguardo ai rapporti dimensionali dei singoli elementi costitutivi, pur recando entrambe la “G” squadrata, la fibbia di “Gucci” appariva più regolare mentre quella di “Guess” più “fantasiosa” e caratterizzata. A tali motivazioni, si aggiungeva l’utilizzo generalizzato delle lettere “G” squadrate da parte delle maison di moda (il riferimento è alle cinture di Givenchy, Gherardini, Galitzine, Gazzarrini). 113 Con riguardo alla cintura con fibbia circolare in bamboo, veniva accolta l’eccezione di Guess in merito alla mancata commercializzazione del prodotto in Italia. Inoltre, il modello in questione era particolarmente diffuso nel settore sia per quel che concerneva la forma che per la tipologia della chiusura, nonché per i materiali: era stato dimostrato, infatti, che l’utilizzo del bamboo o di materiali con un simile aspetto era presente nel mercato fin dagli anni ’50. Ancora, Gucci contestava l’illecito con riguardo ad una cintura di Guess con fibbia a placca che ricordava lo stile “militare”. In tal caso, il Collegio evidenziava la differenza tra i tessuti delle due griffe, oltre alla diversità delle fibbie stesse: una, quella di Gucci, era “liscia” mentre l’altra, quella di Guess, presentava borchie piramidali e un fregio al centro. Infine, parte attrice contestava l’imitazione della cintura recante i marchi denominativi delle due imprese in corsivo. Anche in tal caso le differenze erano ben individuabili: la fibbia di Guess presentava una scritta in corsivo con cristalli “Swarovski”, mentre quella dell’azienda italiana era una fibbia liscia con la denominazione “Gucci” in corsivo; inoltre, posto che entrambe le fibbie riportavano le denominazioni “Guess” o “Gucci”, la tipografia, gli elementi decorativi e la sottolineatura erano differenti. In tal senso, nel complesso la fibbia della società americana aveva un aspetto più grintoso ed aggressivo, mentre quella di Gucci appariva più raffinata e semplice e tale diversità, a detta del Tribunale, escludeva ogni possibile rischio di confusione per il consumatore. Brevemente, per quel che riguarda i portafogli, il Collegio respingeva la confondibilità poste le differenze sostanziali di inserti, tagli e dimensioni, tali da non poter neppure essere raffrontati tra loro, oltre al fatto di presentare forme note sul mercato; così come parimenti nota era la pelle logata. Secondo parte attrice, l’illecito concorrenziale riguardava anche alcuni modelli di borse, tra i quali il cc.dd. modello “Hobo”, in riferimento ad un sacco detto “hobos” che i senza tetto portavano sulle spalle. Le peculiarità di tale prodotto, commercializzato da Guess sin dal 1999 e antecedentemente rispetto a Gucci, erano la forma a goccia o mezzaluna, ampia e con un manico modellato da poter portare a spalla. 114 Oltre alle osservazioni sulla distingubilità dei due tessuti, valide anche in tal caso, vi erano delle differenze, sottolineate anche dalla difesa di Guess, che consentivano di distinguere i modelli delle due griffe: forma a trapezio, squadrata con manici rigidi, profili in pelle, manico e fettucce con ganci a contrasto per il modello Gucci; forma più arrotondata, manico morbido e pendaglio con moschettone a forma di cuore per Guess. Ad una visione d’insieme, ancora una volta, la borsa di Guess appare più “giovane” e glamour, quella di Gucci più elegante e classica. Dinanzi a suddette peculiarità, il consumatore dotato di un determinato grado di attenzione non potrebbe, dunque, confonderei due modelli e nemmeno potrebbe affermarsi che Guess imitasse Gucci, in quanto entrambe le maison si ispiravano ai trend e alla scelte artistiche del settore nei diversi momenti storici, interpretando i gusti del target di clientela cui si rivolgevano. A fronte di tali considerazioni, il Tribunale escludeva l’ipotesi di concorrenza parassitaria ai danni di Gucci. Lo stesso può dirsi per il modello cc.dd. “bauletto”, molto diffuso tra le maison di moda e commercializzato da Guess sin dal 1994. Anche in tal caso, come nei precedenti, valevano le considerazione fatti relativamente alla diversità dei tessuti; a ciò si aggiungevano differenze estetiche notevoli, tali da escludere la confondibilità e la concorrenza parassitaria. In particolare, il bauletto di Guess aveva una forma schiacciata, la tracolla, manici cuciti con doppio riquadro sui lati, pendaglio a forma di cuore ed ulteriori elementi decorativi metallici, con fodera interna stampata raffigurante cuori e la denominazione “Guess”; mentre la borsa di Gucci era caratterizzata da una forma più regolare, da manici piccoli e lisci con anelli. Per tutti gli altri modelli contesti da Gucci (il borsello da uomo, la borsa in pelle e la borsa c.d. “a cartella”), il Tribunale rilevava analoghe riflessioni in merito alle soluzioni estetiche differenti adottate delle case di moda, trattandosi, oltretutto, di scelte stilistiche molto diffuse nel settore, tali da escludere un eventuale rischio di confusione tra i modelli anche ad un raffronto a distanza, nonché l’ipotesi di concorrenza parassitaria asserita da 115 parte attrice. Taluni dei prodotti citati, peraltro, non erano nemmeno commercializzati in Italia. Per quel che riguarda le scarpe, Gucci evidenziava la pedissequa imitazione delle calzature recanti il nastro verde-rosso da parte della maison statunitense. Il Collegio, tuttavia, accoglieva le contestazioni mosse da Guess affermando che il modello di scarpe in questione non era effettivamente stato commercializzato in Italia, posto che Gucci per acquistare suddette scarpe era dovuta ricorrere all’acquisto via internet senza alcuna responsabilità da parte della maison americana. Le calzature commercializzate da Guess in Italia, invece, riportavano il nastro rosso-marrone ritenuto non confondibile con quello verde-rosso di Gucci anche dal giudice americano. Ancora, per l’acquisto alle cc.dd. “sneakers” Gucci si era dovuta rivolgere allo shop online del distributore statunitense Zappos: si rilevava, in tal caso, che effettivamente l’intermediario non consentiva consegne al di fuori degli Stati Uniti, oltre al fatto che il costo delle spese di spedizione era molto elevato, equivalente a circa la metà del prezzo del prodotto. Il Tribunale ha, inoltre, giudicato differenti per tessuto, profili e accessori il modello cc.dd. “decolleté” e quello “Chanel” delle due griffe, trattandosi, peraltro, di modelli piuttosto diffusi tra le case di moda. Per quel che riguarda il mocassino si evidenziava, anzitutto, come il modello fosse distribuito da tutte le maison di moda (si menzionava, in particolare, il celebre mocassino TOD’S) sin dalla sua origine risalente agli anni ’30, quando l’azienda americana GH Bass lanciò il cc.dd. “Penny loafer”, con la caratteristica “mascherina” a forma di labbra. In particolare, i due mocassini in questione si differenziavano per cuciture, tacco, mascherina e per la striscia blu-rosso-blu presente sulla scarpa di Gucci ma non su quella di Guess. Risultavano, poi, evidenti le diversità tra le due ballerine: l’una, quella di Gucci, a punta chiusa, l’altra, quella di Guess, a punta aperta, con profili a contrasto rispetto al colore di sfondo e una placca recante il marchio denominativo “Guess”. L’unico elemento in comune tra i due prodotti era la riproduzione di alcuni cuori sul tessuto, particolare, tra l’altro, molto diffuso nel settore; tuttavia, 116 anche in tal caso, si denotavano delle differenze: i cuoricini di Guess erano posti su uno sfondo di un colore simile, avevano tratto uniforme ed erano accompagnati dal motivo grafico tipico di Guess composto dalle “G” incrociate all’interno delle losanghe; quelli di Gucci, invece, erano di colore verde-rosso-verde ed erano posti agli angoli delle losanghe alternati alle “G” contrapposte ed invertite. Il Collegio, sulla scorta dei fatti emersi e accertati da parte dal giudice americano, rilevava, inoltre, che l’utilizzo del motivo da parte di Guess era, comunque, antecedente a quello di Gucci, escludendo l’illecito asserito. Gucci contestava, ancora, l’imitazione degli stivali in montone con suola “a zeppa”. Relativamente a suddetto prodotto, nell’escludere l’imitazione da parte di Guess, il Collegio denotava talune differenze tra i due modelli e il fatto che le caratteristiche della calzatura costituissero il trend della stagione nella quale sia Gucci che Guess avevano prodotto lo stivale. A supporto della propria decisione, il giudice richiamava altresì il fatto che mancasse, agli atti, sia la prova della commercializzazione che della produzione di detto prodotto da parte di Gucci, tantoché la messa in commercio della calzatura potrebbe essere stata contestuale a quella di Guess e delle altre maison. Per quel che concerne i sandali a tessuto floreale di Guess, il giudice confermava il rilievo di quest’ultima affermando che questi non erano effettivamente mai stati commercializzati in Italia. Inoltre, raffrontando tra di loro i sandali delle due aziende si notavano delle differenze significative e sufficienti per l’esclusione dell’illecito in un settore nel quale le peculiarità dei prodotti sono marginali, posto che, come già affermato più volte, tutte le maison si ispiravano al trend del momento. Infine, quanto ai prodotti di gioielleria di Guess, ritenuti da parte attrice come pedissequa imitazione dei propri, in via sommaria, si può affermare che il giudice escludeva l’illecito per le rilevanti differenze sotto il profilo estetico dei prodotti delle due griffe. Nel dettaglio, l’anello di Guess contestato da parte attrice non era commercializzato in Italia, recava la classica “montatura a giorno” diffusa e molto utilizzata nel settore della gioielleria, nonché “griffe” di grandi dimensioni erano collocate ai quattro angoli, anche questa peculiarità molto 117 comune nel settore (si menzionavano, a titolo esemplificativo, gli anelli di Cartier e Pomellato). Considerando, inoltre, le linee dell’anello e delle “griffe” nel loro complesso, si evidenziavano delle differenze tra il modello di Guess e quello di Gucci. Le catenine, prodotte da entrambe le aziende nella stagione 2002 si differenziavano per il rispettivo marchio denominativo in corsivo apposto in maniera ben evidente, oltre che per la maglia della catena, la grafia del logo e la chiusura. Il modello in questione, peraltro, si ispirava ad un girocollo molto diffuso nel settore, ove era comune l’utilizzo della catenina con al centro il proprio nome o una diversa espressione (ispirazione tratta da un noto film americano). Anche gli orologi delle due griffe erano diversi per quadrante, cassa e cinturino; a fronte di tali considerazioni era stata esclusa ogni possibile similitudine tra i due anche quanto ai prodotti di gioielleria. 2.3 Concorrenza parassitaria Relativamente all’addebito di concorrenza parassitaria ai danni di Gucci, si richiamavano il noto caso Motta/Almegna 349 e altre massime giurisprudenziali ribadendo che la sommatoria di atti leciti potrebbe dare luogo, se valutata nel complesso, ad un illecito sotto il profilo della concorrenza parassitaria. Inoltre, pur non sussistendo l’imitazione dei singoli prodotti altrui, fattispecie verificatasi nel caso in questione, era possibile che si verificasse, da parte di un imprenditore, la conformazione alle scelte commerciali altrui con lo scopo di trarne indebito vantaggio, fattispecie illecita ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.p.i.. Il Collegio, valutata l’ipotesi discussa nel suo insieme, affermava che non può dirsi che le linee stilistiche di Guess siano ispirate e conformate a quelle di Gucci, ma bensì che le due aziende si siano allineate alle tendenze stilistiche presenti in un determinato momento storico, restando, in ogni caso, fedeli alle proprie peculiarità. 349 Ivi citato, v. pag. 78. 118 Oltre alla contraffazione e all’imitazione servile, escludeva, quindi, anche la concorrenza parassitaria asserita da Gucci. 3. Conclusioni del Tribunale di Milano In sintesi, il Tribunale rigettava tutte le domande mosse da parte attrice nei confronti di Guess e di Zappos.com. In merito alle domande formulate, in via riconvenzionale, da Guess il Collegio accoglieva la richiesta di nullità dei seguenti marchi: il marchio italiano n. 1057601, depositato il 4 luglio 2007, registrato il 27 agosto 2007 e marchio internazionale n. 940491 del 27 agosto 2007, esteso alla Comunità Europea; il marchio italiano n. 1057600, depositato il 4 luglio 2007 e registrato il 27 agosto 2007 e marchio internazionale n. 940490 del 27 agosto 2007, esteso alla Comunità Europea; infine, il marchio italiano n. 971291, depositato il 25 maggio 2005, registrato il 6 luglio 2005, marchio comunitario n. 4462735, depositato il 23 maggio 2005, registrato il 5 maggio 2006 e marchio comunitario n. 5172218, depositato il 16 giugno 2006, registrato il 4 febbraio 2008. Rigettava, infine, tutte le altre domande riconvenzionali di parte convenuta e dichiarava la compensazione delle spese processuali tra le parti in causa. Alla luce di tali decisioni, Gucci presentava appello contro la sentenza del Tribunale di Milano chiedendo la riforma della medesima e l’accoglimento delle domande poste in primo grado in forza dell’erronea esclusione dell’illecito di contraffazione, l’erronea dichiarazione di nullità di tre marchi dell’azienda italiana, l’erronea esclusione della concorrenza sleale, sotto il profilo dell’imitazione servile, dell’agganciamento e della concorrenza parassitaria e, infine, l’erroneità dell’esclusione di Zappos da ogni responsabilità. Di seguito, le decisioni della Corte d’Appello in merito. 4. Le decisioni della Corte d’Appello 119 Come richiesto dall’impresa italiana la Corte d’Appello era chiamata a formulare un proprio giudizio in merito alla nullità dei segni distintivi, alla contraffazione dei marchi, all’illecita condotta concorrenziale di Guess ed, infine, alla responsabilità di Zappos. Proseguendo con ordine, Gucci chiedeva la revoca delle decisioni prese dal Tribunale in merito alla nullità di tre dei propri segni distintivi. Relativamente ai marchi costituiti dalla lettera “G” con due pallini ai quattro angoli, singola e inserita nella trama a losanghe, e del tessuto floreale “Flora”, la Corte ne confermava la nullità per carenza di capacità distintiva, evidenziando, peraltro, la carenza della giurisdizione italiana con riguardo ai marchi internazionali nn. 940491 e 940490. Nello specifico, quanto ai segni composti dalla lettera la "G" maiuscola con due pallini ai quattro angoli, si evidenziava la particolare diffusione presso le maison di moda di marchi raffiguranti la lettera “G”, nonché la banalità degli elementi decorativi e dello stile grafico, non particolarmente caratterizzanti per il segno in questione. A differenza del marchio di Gucci composto da “G” contrapposte e invertite che rimandava immediatamente, nelle percezione del consumatore, all’azienda italiana, il segno qui in questione, essendo costituito da una singola lettera dell’alfabeto inserita all’interno di una trama a losanghe composta da pallini, non era distinguibile ed era privo di capacità distintiva. Quanto al marchio "Flora", la Corte affermava che il segno non era tutelabile quale marchio, in quanto l'elemento caratterizzante di tale trama era quello meramente ornamentale, nonché comune a qualsiasi raffigurazione floreale. Anche il tal caso, si ribadiva la nullità del marchio in questione. Quanto al diritto all’uso esclusivo del marchio, anche la Corte d’Appello provvedeva ad esaminare ciascuno dei marchi richiamati da parte attrice, escludendo tuttavia quelli dichiarati nulli, ove il problema relativo alla contraffazione non si poneva. Anzitutto, la Corte valutava l’illecito con riguardo al segno distintivo composto dalla “trama di G” 350 nelle molteplici combinazioni di colori, impressa nella pelle e in diversi tessuti. 350 Marchi nazionali nn. 1474470 - rinnovo della registrazione n. 947057 -, 1057600, 1057601, 1474814 - rinnovo della registrazione n. 876580 e marchi comunitari nn. 122093, 940490, 940491, 2751535. 120 In particolare, in merito ai segni composti dalla lettera "G" con due pallini ai quattro angoli, sia per la variante con lettera singola al centro che per quella dove le lettere “G” erano inserite in una trama a losanghe, la Corte, posto che si trattava di marchi nulli, escludeva la condotta contraffattoria da parte di Guess. La contraffazione veniva, ugualmente, esclusa in relazione ai marchi composti dalla lettere “G” invertite e contrapposte, considerando anche in tal caso sia la versione singola che quella ove le lettere erano inserite all’interno di una trama romboidale, in quanto sussistevano delle diversità dal punto di vista grafico tra i marchi delle due griffe che, ad un raffronto complessivo, ne escludevano la confondibilità. In particolare, la trama di Guess presentava quattro lettere “G” incrociate tra di loro e poste al centro della losanga, mentre il disegno di Gucci due lettere “G” riflesse e invertite collocate agli angoli del rombo. Relativamente alle calzature recanti il nastro verde-rosso-verde, la Corte d’Appello condivideva le decisioni del Tribunale ritenendo l’azienda statunitense estranea a responsabilità in merito alla commercializzazione in Italia del modello di scarpe in questione, avendo Gucci, peraltro, dimostrato solo la possibilità d’acquisto tramite uno shop online, ma non la diffusione della calzatura, in Italia presso punti vendita. La Corte, poi, escludeva la confondibilità, dunque la contraffazione, in relazione all’utilizzo da parte di Guess della striscia marrone-rosso-marrone sui propri prodotti, in quanto l’alternanza di colori è totalmente differente da quella di Gucci. Quanto alla scritta dei rispettivi marchi denominativi in corsivo con sottolineatura, posto che era necessaria una valutazione globale dei due segni distintivi che esulasse dalle rispettive peculiarità grafiche idonee a differenziare i due segni, si riteneva, anche in tal caso, di dover escludere l’illecito contraffattivo in virtù del rimando delle espressioni “Guess” e “Gucci” a due maison di moda ben distinte. Per quel che riguarda la lettera “G” in corsivo, come nel precedente caso in analisi, era necessario un giudizio di confondibilità unitario e sintetico non limitato all’analisi dei singoli dettagli idonei a differenziare i segni. 121 A fronte di tali osservazioni, la Corte riteneva dover escludere la contraffazione posto che sotto la lettera “G” in corsivo era ben evidente la denominazione “Guess” che eliminava ogni possibile rischio di confondibilità presso i consumatori in ordine alla riconduzione del segno distintivo all’impresa americana. Si respingeva, inoltre, l’addebito di contraffazione del marchio composto da una serie di “G” squadrate contrassegnanti una borsa di Gucci giacché la somiglianza tra quest’ultimo e il segno di Guess era minima: nel marchio dell’azienda statunitense le lettere erano, infatti, separate da un elemento decorativo e non poste in serie come nel marchio di Gucci. Con riguardo al tessuto Flora, ribadita la nullità di tale segno, il problema relativo alla contraffazione non sussisteva. Al contrario, in merito all’illecito di concorrenza sleale imputato a Guess, la Corte d’Appello affermava che, valutando nel complesso il comportamento imprenditoriale messo in atto da Guess, appariva con evidenza la costante volontà imitativa delle iniziative di Gucci, dispiegata in atti considerati leciti, se presi singolarmente, ma che integravano una violazione dei principi di correttezza professionale nella loro reiterazione nel tempo; pur ribadendo, ancora una volta, l’esclusione della confondibilità dei segni utilizzati da Guess nelle pratiche messe in atto. Raffrontando i prodotti delle due case di moda (borse, scarpe, cinture e gioielli), la Corte evidenziava un richiamo da parte di Guess alle forme, materiali, tonalità, elementi decorativi e delle scelte stiliste in genere di Gucci, posto che l’azienda americana lanciava prodotti simili a quelli della maison italiana a breve distanza di tempo dalla presentazione delle collezioni di quest’ultima. “Quindi, indipendentemente dal profilo della confondibilità dei prodotti tra le imprese concorrenti, restava il dato che l'iniziativa di Guess, attuata con una pluralità di atti, appariva, in molti casi, improntata al sistematico e massiccio sfruttamento dell'iniziativa e della creatività altrui. In tale senso, a giudizio di tale Corte, Guess era responsabile della condotta parassitaria prevista dall'art. 2598.n. 3, c.c.”351. 351 Corte d’Appello, 15 settembre 2014, n. 6095, reperibile in www.marchiebrevettiweb.it. 122 Nella valutazione della risarcibilità del danno da concorrenza sleale, occorreva considerare anzitutto l’elemento colposo della condotta illecita, nonché il danno recato, in concreto, dal comportamento tenuto da Guess. L’elemento soggettivo, ovvero l’intenzionalità dell’imitazione da parte di Guess, emergeva in modo chiaro dalle prove raccolte e riportate nella sentenza USA, elemento utilizzato dalla Corte nelle proprie valutazioni. Con riguardo ai danni procurati dalla condotta parassitaria tenuta da Guess, la Corte evidenziava la sussistenza di uno sviamento di clientela; nello specifico, infatti, l’impresa americana commercializzava prodotti che richiamavano quelli di parte attrice ad un prezzo inferiore rispetto, appunto, agli “originali”. A prova della dannosità procurata, si rapportavano le opinioni lasciate dai consumatori sul web. In virtù delle osservazioni ivi riportate, la Corte d’Appello, riformando la sentenza del Tribunale di Milano, affermava l’addebito dell’illecito concorrenziale, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c., in capo a Guess, nonché il diritto di Gucci ad ottenere un risarcimento in relazione al danno subito. L’importo di tale risarcimento è rimesso alla determinazione, in separata ordinanza, di apposita consulenza tecnica d’ufficio. In merito alla posizione di Zappos, la Corte rilevava l’effettiva possibilità di acquisto dall’Italia, purché con modalità non conformi all’abituale procedimento di acquisto online previsto dal sito, dei prodotti in vendita sull’e-commerce della citata azienda americana, azionati da Gucci in quanto considerati contraffazione dei propri, ai sensi dell’art. 20, co. 2, c.p.i.. Tale addebito di condotta contraffattiva in capo a Zappos era stato, invece, escluso dalla Corte, con riferimento alle motivazione riportate in ordine ai singoli segni imputati. Si escludeva anche la condanna di Zappos a titolo di concorrenza sleale, posta l’immissione nel mercato italiano di prodotti simili a quelli di Gucci in maniera isolata e quantitativamente poco significante. Concludendo, la Corte d’Appello riformava la sentenza del Tribunale dichiarando Guess responsabile di atti di concorrenza sleale ai danni di Gucci, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c. e la condannava al risarcimento del danno procurato, da quantificarsi in separata ordinanza; confermava, invece, negli altri punti, la sentenza del giudice di primo grado. 123 Appendice Fig. 1: Marchio comunitario n. 121947. Fig. 2: Marchio italiano, n. 1330236 e comunitario, n. 6682728. Fig. 3: Confronto tra il marchio di Gucci e quello di Guess. Fig. 4: Marchio italiano n. 1057601 e comunitario n. 940491. Fig. 5: Marchio italiano n. 1057600 e comunitario n. 940490. Fig. 6: Marchio italiano n. 947057 e comunitario n. 122093. Fig. 7: Marchio italiano n. 876580 e comunitario n. 2751535. Fig. 8: Marchio italiano n. 414406 e comunitario n. 160028. Fig. 9: Marchio italiano n. 971291, comunitario n. 4462735 e comunitario n. 5172218. Fig. 10: Marchio italiano n. 876581. Fig. 11: Confronto tra modelli di Gucci e Guess. 124 Bibliografia BARBUTO, Art. 2569, in RUPERTO (a cura di), La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina, Giuffrè, Milano, 2005. BARBUTO, La sezione Specializzata di Torino e l’incremento dei procedimenti cautelari, in Dir. ind., 2008. BIGLIA, Uso atipico del marchio altrui e rapporto di concorrenza, in Riv. dir. ind., 2006. BOGNI, Il design: registrazione e tutela di fatto dei diversi valori delle forme, in Dir. ind., 2011, 136. 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Le sue indicazioni e il suo supporto morale si sono rivelati determinanti durante tutto il corso di svolgimento del periodo di tesi e per la sua riuscita. Un ringraziamento particolare va, poi, ai miei genitori e a mia sorella Giulia per il supporto non solo economico, ma soprattutto morale: un enorme grazie per avermi incoraggiato di fronte alle difficoltà e per aver condiviso ogni mia scelta. Spero e credo di non aver deluso le loro aspettative e che siano fieri di questo mio percorso. Ringrazio anche i nonni Giovanni, Angelina, Pietro e Silvia perché con il loro esempio di vita mi hanno insegnato che non si ottiene nulla senza qualche sacrificio, voglio dedicare questo mio importante traguardo un po’ anche a loro. Un ringraziamento agli amici di sempre Sara, Cristina, Filippo S., Marco I., Francesca, Marco V., Filippo B., Giacomo, Leonardo che mi sono vicini ormai da 10 anni e con i quali ho condiviso i momenti più esilaranti del mio percorso di vita. Un ringraziamento va’ anche agli amici di AC che con me condividono una delle attività che più mi gratificano. Infine, voglio ringraziare tutti i professori che ho avuto modo d’incontrare nel mio percorso universitario e che mi hanno permesso di costruire il mio bagaglio di conoscenze, con l’augurio che questo traguardo sia solo un punto di partenza per un futuro ricco di aspettative. 128