I MIEI PRIMI DIECI ANNI DI VITA Prologo Quella che vi propongo
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I MIEI PRIMI DIECI ANNI DI VITA Prologo Quella che vi propongo
Milano 1 I MIEI PRIMI DIECI ANNI DI VITA Prologo Quella che vi propongo non è la storia della mia vita di attore, autore e capocomico, ma piuttosto un frammento della mia infanzia. Anzi è solo l'inizio, il prologo della mia avventura a partire dal tempo in cui mai mi sarebbe passato per il cervello che quello del teatrante sarebbe stato il mio mestiere definitivo. Ricordo che Bettelheim pediatra, autore di una rivoluzionaria teoria sulla formazione caratteriale ed intellettiva degli individui, diceva: “Di un uomo basta che mi diate i primi sette anni della sua vita, lì c'è tutto, il resto tenetevelo pure”. Io ho voluto esagerare: ve ne offro dieci più qualche puntata verso la maturità... credetemi, è già fin troppo! Dio: capo dei Capostazione. Tutto dipende da dove sei nato, diceva un grande saggio. E, per quanto mi riguarda, forse il saggio ci ha proprio azzeccato. Tanto per cominciare, io devo dire grazie a mia madre, che ha scelto di partorirmi a San Giano, quasi a ridosso del Lago Maggiore. Sotto la rocca si son scoperti reperti di un tempio romano dedicato a Giano bifronte, dio della guerra, ma guarda caso grande protettore dei fabulatores comicos. In verità non è stata mia madre a scegliere, ma le Ferrovie dello Stato che hanno deciso di spedire mio padre a prestare servizio in quella stazione. Sì, mio padre era un capostazione, se pure avventizio. La fermata di San Giano era così poco importante che spesso i macchinisti la sorpassavano senza manco accorgersene. Tanto che un giorno un viaggiatore, stanco di ritrovarsi scaricato alla fermata seguente, ha tirato il segnale d'allarme. Il treno si è Milano 2 ingrippato dopo una lunga frenata arrestandosi nel bel mezzo di una galleria. Un "merci" che lo seguiva è franato addosso al treno bloccato. Non ci sono stati morti, per miracolo. Solo un ferito grave: il passeggero che aveva tirato l'allarme; infatti il disgraziato è stato picchiato da tutti gli altri viaggiatori, compresa una suora. Ma con l'arrivo di mio padre le cose alla stazione di San Giano sono cambiate all'istante. Felice Fo era uno che destava rispetto e soggezione. Quando si piazzava con il suo cappello rosso calcato fino agli occhi, ritto sulla rotaia, brandendo la bandiera da segnale, rossa anche quella, i treni si fermavano tutti... Tutti gli accelerati, s'intende, e anche gli omnibus... che poi in totale erano quattro. Io sono venuto al mondo fra un omnibus ed un "merci", in quella fermata sussidiaria a quattro passi dal lago (Antelacus, è scritto su un reperto romano). Erano le sette del mattino quando mi sono deciso a far capolino fra le gambe di mia madre. La donna che fungeva da levatrice mi ha tirato fuori e sollevato come fossi un pollo, per i piedi. Poi velocissima, mi ha assestato una gran pacca sulle natiche... ho urlato come un segnale d'allarme. In quell'istante transitava l'omnibus delle sei e mezza... che era naturalmente in ritardo. Mia madre ha sempre giurato che il mio vagito aveva superato di gran lunga il fischio della locomotiva. Dunque io ho visto la luce a San Giano per decisione unica delle Ferrovie dello Stato, ma lì son nato solo per l'anagrafe. In verità, per quanto mi riguarda sono venuto al mondo e ho preso coscienza a 30-40 chilometri un po’ più in su, lungo la costa del Lago, a Pino Tronzano e qualche anno dopo a Porto Valtravaglia, sulla sponda magra del lago Maggiore. Entrambi sono stati i miei “paesi delle meraviglie”. I luoghi che mi hanno scatenato le fantasie più pazze e hanno determinato ogni mia scelta futura. Il Milano 3 trasloco di tutta la famiglia era stato un'altra volta deciso dalla direzione delle EFFE-EFFE-ESSE-ESSE, compartimento di Milano. Milano! Mi ricordo che la prima volta che ci sono andato è stato con mio padre. Ero molto piccolo e lui doveva andarci per sostenere un esame da movimentista, sperava di venir promosso capostazione di seconda classe, livello C. Ma perché farsi accompagnare in quel viaggio da me, un bambino così piccolo? Ho sempre sospettato che mi volesse con sé per scaramanzia. Tutti in casa, compresi i parenti acquisiti, erano convinti che io portassi una fortuna sfacciata. Infatti io ero nato con la camicia, come si dice, cioè ero uscito tutto avvolto nella placenta di mia madre. Un segnale mitico di buon auspicio. Arrivati a Milano, poco prima di entrare nel grande hangar della Stazione Centrale, il treno ha cominciato a rallentare vistosamente... procedeva a passo d'uomo. Papà Felice pa’ Fo, come lo chiamava mia madre - ha abbassato il finestrino e mi ha fatto sporgere fino a mezzo busto: "Guarda lassù" e mi indicava un ponte altissimo issato su centine d’acciaio, sotto il quale transitavano tutti i convogli. Una enorme passerella zeppa di fari puntati in ogni direzione. Una serie di cabine di vetro, illuminate da lampade fortissime e colorate. Quella macchina fantastica era sorretta da piloni giganteschi. "Cos'è?" "È il centro operativo da dove si comanda il movimento di tutti i treni, compresi gli scambi e i semafori." In quel momento ero convinto: dentro quelle cabine di vetro, splendenti di luci, ci doveva essere di sicuro Dio, con tutti i Santi dei capostazione. Non avevo dubbi: il Padreterno non era altro che il direttore generale delle FF.SS. Era lui che organizzava tutto il movimento dei ferrovieri, lo spostarsi dei treni, progettava macchine e la nascita dei figli dei capostazione! Milano 4 Ma torniamo al nostro trasloco da San Giano a Pino Tronzano. Nel primo trasloco dalla stazione di San Giano a quella di Pino, alla frontiera con la Svizzera, tutti i mobili della famiglia erano stati caricati su un vagone merci. Il viaggio non durava più di un’ora e mezza. Mi aveva fatto molta impressione veder smontare i letti e gli armadi. Credevo li stessero spaccando a pezzi e così sono scoppiato in un pianto disperato. Mio padre mi aveva subito tranquillizzato: “Vedrai che appena arrivati, li rimetteremo insieme!” Ahimé, nel caricare “la roba”, la stufa di ghisa si era rovesciata dal vagone e si era sfasciata… mia madre ha mandato un urlo straziante. Io l’ho presa per mano e l’ho confortata: “Tranquilla, come arriviamo, il papà ri-incolla tutto!” Oh, antica fiducia nei padri! Il vagone era stato agganciato al treno sul quale anche noi si era saliti. Quindi, come siamo arrivati a Pino Tronzano, hanno staccato il nostro vagone merci e aiutati da due facchini, mio padre e mia madre hanno cominciato a scaricare i pezzi da rimontare. Io ero letteralmente affascinato da quel posto: la stazione era più grande di quella dov’ero nato… noi si abitava sopra, al primo piano. Un centinaio di metri più sotto, a picco, c’era il lago. Alle spalle montava una parete rocciosa, dentro la quale era scavata una strada che, disegnando un gran numero di tourniché, saliva fino al paese: una cinquantina di case abbarbicate quasi una sull’altra come in un bassorilievo della Colonna Traiana. C’era una torre antica, un campanile con sotto la pieve e un gran palazzo che ospitava il Municipio, la scuola e pure il pronto soccorso. I facchini e i miei non avevano ancora terminato lo scarico ed ecco che arriva il prete: veniva a darci il benvenuto e a Milano 5 benedire la casa con le pareti intonacate di fresco. Con lui c’era un chierichetto che mi ha portato subito a vedere dove, dietro la stazione, si trovava un gran recinto con alberi da frutto e molto terreno coltivato; c’era anche un pollaio con un fracco di galline e delle gabbie basse con dentro i conigli. Il capostazione che c’era prima di noi, non potendo portarseli tutti con sé, ne aveva lasciati gran parte in regalo ai nuovi arrivati che eravamo proprio noi… oh, grazie! Il cantoniere guardia scambi, cioè l’assistente di mio padre, ci avvertiva che purtroppo galline e conigli ogni tanto riuscivano a scappare fuori dal recinto, cosicché immancabilmente qualcuno di loro finiva sulle rotaie, proprio mentre arrivavano i treni. Ad ogni modo, le povere vittime ferroviarie - o almeno le loro appetitose spoglie erano quasi sempre “recuperabili”: bastava decidere per lo spezzatino in umido, così nessuno s’accorgeva della gran tranciata. Devo dire che raramente in casa nostra si riusciva a cucinare un pollo o un coniglio intero! Avrete già indovinato che quella nostra stazione si trovava completamente isolata: ci abitavamo solo noi e il cantoniere guardia scambi con sua moglie. Sotto, al fondo della scarpata, sulla scogliera in riva al lago si ergeva la caserma della Finanza con l’attracco per una motovedetta e una piccola nave faro chiamata Torpedine. La notte c’era un gran silenzio, salvo il batti-batti della pompa che pescava l’acqua dal lago per riempire il grande serbatoio che avrebbe rifornito le locomotive in transito, da e per la Svizzera. Mi piaceva moltissimo quel pulsare… sembrava il cuore della stazione: calmo e rassicurante. Un altro suono piacevole era quello dello scampanellio che annunciava l’arrivo dei treni. Qualche volta il fischio di una locomotiva in manovra mi svegliava, ma subito tornavo ad addormentarmi beato. Posso ben dire d’esser cresciuto con lo sferragliare delle ruote dei vagoni in testa, Milano 6 con il cigolio delle frenate e nella memoria degli occhi i segnali di luce della torpedine, che sciabolavano sull’acqua, cielo e montagne, infilandosi fra le persiane. Essendo noi proprio sulla frontiera c’era sempre il problema dei contrabbandieri o dei disperati che tentavano di transitare nascosti nei vagoni merce. Ogni convoglio che facesse sosta veniva perquisito dalle guardie di Finanza e dai carabinieri. Spesso mi svegliavano i segnali dati con fischietti e le grida dei reparti di servizio. Sentivo i botti sferrati sulle fiancate dei vagoni, lo scorrere delle portiere e gli ordini di controllare meglio quel vagone o l’altro appresso. Poi un segnale gridato: “Tutto a posto!”, ero rimasto teso per tutta l’ispezione e adesso tiravo un gran fiato. Mi immaginavo sempre un uomo o un ragazzo appesi sotto un vagone che finalmente riuscivano a farla franca e passare di là. Mi riaddormentavo con un gran sospiro sorridendo. Eravamo nel 1930. I clandestini di transito erano spesso antifascisti perseguitati che cercavano di raggiungere Svizzera e Francia. Mi ricordo di una notte in cui grida, ordini e uno sparo mi hanno svegliato di soprassalto. Sono andato alla finestra e ho sbirciato di sotto: avevano catturato un clandestino e lo stavano portando giù, in caserma. L’indomani ho visto che lo caricavano su un vagone diretto a Luino dove c’erano le carceri. Più tardi mio padre mi aveva accennato a ‘sto fatto dei clandestini politici; io ci avevo capito poco, ma quella scena m’è rimasta nella memoria indelebile come un tampone scuro. Per incontrare ragazzini della mia età coi quali giocare mi toccava salire fino in paese. Era una scarpinata da gran fiatone… si montava di almeno trecento metri letteralmente in verticale. Non è stato difficile far amicizia con quei ragazzini: stavano tutti “aggrompiati” nella piazzetta della chiesa ed erano piuttosto curiosi di conoscere un “foresto” come me. Milano 7 Parlavano tutti in un dialetto duro, pieno di zeta al posto delle esse, alla maniera degli svizzeri, ma non strascicavano le vocali come nel Canton Ticino. Per saggiarmi, hanno organizzato subito un paio di scherzi piuttosto grevi: mi hanno gettato addosso uno straccio intriso di nafta a cui avevano dato fuoco, proprio nel momento in cui stavo facendo pipì giù dalla scarpata. Fu un miracolo se non mi è andato arrosto il pisello! Per seconda tastata mi hanno infilato nella saccoccia delle braghe un ramarro inviperito, facendosi un sacco di risate da soffocarsi nell’assistere al mio sgomento espresso con salti, sgambettamenti e una capovolta che fortunatamente ha liberato il verdone… detto ghez. Quei simpatici manigoldi erano quasi tutti figli di contrabbandieri e, particolare piuttosto surreale, il loro capo era il figlio del maresciallo dei carabinieri. In paese c’erano anche due ragazzine figlie di finanzieri, ma i loro genitori non gradivano quella compagnia. Gli “spalloni”, così si chiamano i contrabbandieri che trasportano merce di qua e di là del confine, non avevano come unica professione quella legata al contrabbando. Quasi tutti allevavano capre e pecore, facevano gli spaccalegna e si occupavano di tirar su i muriccioli a secco per trattenere le balze dei campi e dei boschi che altrimenti ad ogni acquazzone sarebbero franati a valle. I finanzieri erano molto tolleranti: sapevano bene che quel faticare degli spalloni non portava loro gran ricchezza… ogni tanto però arrivava l’ordine di strizzarne qualcuno, tanto per dimostrare che stavano vispi, attenti che si meritavano quella paga da fame. Così ne beccavano un paio una tantum. A me sembrava che giocassero. Vedevo scendere giù alla stazione gli spalloni catturati… non avevano ai polsi manco una catena, chiacchieravano con i finanzieri o coi carabinieri come stessero andando a bersi insieme un gotto. Milano 8 Mi piaceva tanto andare intorno per i “bricchi” (così si chiamavano i crinali scoscesi), risalire i torrenti che, precipitando verso la valle, avevano scavato canali fondi arrivando spesso a traforare la roccia nel profondo così da bucare la montagna con orridi, solchi e gallerie. Certo, non ci andavo da solo… zampettavo dietro ai ragazzini di Pino di due o tre anni più grandi di me. Il figlio del carabiniere aveva nove anni e, naturalmente, era il capo e la nostra giuda. A sentir lui conosceva ogni canalone, ogni anfratto di quel labirinto… infatti, regolarmente ci perdevamo! Una volta ci ha tirati fuori un contrabbandiere che ci aveva sentito gridare, due di noi urlavano disperati. Il contrabbandiere ci è apparso dentro la luce di taglio che filtrava fra una sferzola buia del fosso, come la visione di un santo. Era lo zio di uno dei miei amici e, incredibile coincidenza, si chiamava Salvatore. Io, come vi dicevo, ero il più piccolo della banda perciò mi ha issato sulle sue spalle: di lassù guardavo con una certa alterigia i miei amici. Nella chiesetta di Tronzano c’era un affresco che rappresentava il Santo gigante che traghetta il piccolo Gesù di là dal fiume e benedice. Di nascosto, velocissimo, ho abbozzato una piccola benedizione… ridendo. Già blasfemo a quell’età! Quando siamo arrivati in prossimità del paese, cominciava a far buio. Mia madre preoccupata era salita alla piazzetta di Pino e lì aveva incocciato nelle altre madri che a loro volta erano in attesa dei loro figli, ma non davano segni di angoscia alcuna, anzi, apparivano piuttosto tranquille avvezze com’erano a quei ritardi. Infatti, come abbiamo raggiunto lo spiazzo, si sono mosse incontro ai loro ragazzini senza neanche proferire parola. Nessun commento, nessun rimprovero. Mia madre mi ha tirato giù dalle spalle del santo Salvatore, mi ha stretto fra le braccia Milano 9 e mi ha chiesto: “Hai avuto paura?” e io, bugiardo: “No mamma, mi sono divertito un sacco!”. E lei, abbracciandomi stretto: “Oh, come dici male le bugie pover testón mio!” (Testón era l’appellativo di tenerezza che la mamma mi rivolgeva in ogni occasione). Nel gruppo delle madri c’era anche il maresciallo dei carabinieri che, a sua volta, non ha rimbrottato il figliolo… lo spingeva solo davanti a sé. Scendendo lungo i tornanti che portano alla stazione, in braccio a mia madre mi sono apparsi, laggiù dove la strada disegnava un grande cerchio, il Maresciallo e il figlio… sempre uno dietro l’altro… il padre sferrava ad ogni passo una gran pedata al ragazzino che zompava come un capretto! Dopo quell’avventura, la mamma non vedeva certo di buon occhio che io me ne andassi a “sguancia” fra i bricchi con quella banda di piccoli landrou. Ma il vietarmelo brutalmente andava contro il suo modo d’essere e quindi, sveglia com’era, ha trovato uno “scamocchio” (espediente) di sicuro effetto: quando intuiva che di lì a qualche ora avrei cominciato a scalpitare per effetto del “richiamo della foresta”, stendeva sul tavolo di cucina una mazzetta di fogli bianchi, rovesciava una quantità di pastelli, matite colorate e, invitandomi all’orgia, esclamava: “Vai bel testón, spantégami una frappata di belle figure!” E io, via che mi buttavo a spantegare colori sul foglio bianco, a rincorrere con giravolte di righe, immagini che montavano una dietro l’altra come le avessi stampate nella memoria. Man mano che entravo nel gioco degli incastri e stendevo spazi, piani di colori, mi prendeva uno sballo d’incanto. Di lì a poco capitava che arrivassero sotto il portico della stazione i miei piccoli compagni di scarpinata; mi davan la voce di sotto la finestra: “Dario - mi avvertiva mia madre Milano 10 allora - sono arrivati i tuoi barabba… vuoi andare con loro?” Doveva ripetermelo una seconda volta… manco il fischio del treno mi riusciva di ascoltare tanto ero immerso a capofitto in quel foglio. “Non ci vuoi proprio andare, me car testón? - mi ripeteva radiante mia madre - Vuoi che gli dica che non stai bene, che hai un po' di febbre?” “No, no - rispondevo io a stoppa-parola - se mi dai ammalato, dopo mi sfottono per una settimana: “Ehi marcina!”… Dì che mi hanno portato in Svizzera al matrimonio di mia cugina Tulia.” “Al matrimonio? Ma com’è possibile, Tullia ha poco più di dodici anni?!” “E va bene - rimediavo io - di che la sposa è sua sorella Noemi… lei è già grande!” “Sì, ma sta per andar suora!” “E allora dì che ha buttato il velo per sposare il Capitano delle Guardie Svizzere!” “Le guardie del Papa?!” “Eh sì, una suora mica si può buttare via col primo che capita!” La Svizzera affiorava spesso nei nostri discorsi… a parte che proprio di là del lago, sulla sponda grassa del Canton Ticino ci stavano la sorella del babbo con il marito e le figlie, Tullia e Noemi. C’era anche un altro cugino, il figlio maggiore, che rappresentava tutto quello che avrei voluto diventare da grande: Bruno si chiamava, era un campione del gioco del calcio… portiere del “Lugano”, organista alla cattedrale di Lucerna, da poco era stato pure eletto rappresentante della Repubblica Elvetica presso il nostro governo a Roma… e per finire aveva una fidanzata bellissima con la quale ogni tanto ci veniva a far visita. Il mio papà era il suo zio preferito… avevano più o meno la Milano 11 stessa età. Fra di loro parlavano di politica, ma lo facevano sottovoce e appena si scaldavano, tanto da non poter più controllare il tono, la mamma li invitava ad uscire: “Andate a passeggiare giù fino al lago. Certi discorsi sottili sull’acqua scivolano nel silenzio e i più grevi s’affogano.” Come Bruno e mio padre se ne erano usciti, io facevo di tutto per attirare l’attenzione di Bedelià (così si chiamava la morosa di Bruno). Mi piaceva da impazzire con quel collo lungo, le mani morbide e le dita da Madonna e soprattutto quelle poppe tonde! Quando mi accoccolavo sulle sue ginocchia, mi sentivo tutto slanguire, le gote mi sparavano di rosso. Sì, lo ammetto: a me le donne, fin da quando sono venuto al mondo, mi sono subito piaciute da frullar via di testa! Se poi mi ritrovavo con una donna luminosa come Bedelià, con quell’odore di fiori e frutta che spantegava dalla pelle… Dio, che sbirolate! Fra le sue braccia io la annusavo con una golosia da drogato. Anche mia madre era bella e fresca come e forse ancor di più di Bedelià… figurarsi, mi aveva partorito a soli diciannove anni! La mamma è fuori d’ogni paragone… il profumo di mia madre mi faceva venire l’acquolina, la voglia di ciucciare, di impastarmi contro e dentro ogni sua curva o piccola conca. Nelle sue braccia non c’era né vento, né calura. Il suo tepore scioglieva ogni paura: ero proprio nel ventre dell’universo! Ma tornando a Bedelià, ogni volta che lei e Bruno ripartivano, me ne stavo triste e muto per una giornata intera. Se ne andavano col battello, li accompagnavamo giù all’imbarcadero. Il loro viaggio era davvero breve: bastava attraversare il lago. Brissago era lì, di faccia. Restavo sulla passerella d’attracco e seguivo il battello che sfumazzava e lasciava indietro una scia spumosa che s’assottigliava man mano che quel barcozzo s’allontanava Milano 12 fino a rimpicciolire… Ma non spariva mai: infatti lo vedevo attraccare sull’altra sponda. Una volta il maresciallo della Finanza mi ha prestato il suo cannocchiale: come ci ho attaccato l’occhio, mi sono visto venir contro il battello e l’imbarcadero svizzero. C’era anche Bedelià nell’immagine… poi ho puntato sulle case e i tetti: “Beati loro - ho esclamato - che stanno dentro a tutta ‘sta cioccolata e marzapane!” Già… perché, fin dal giorno in cui sono arrivato a Pino Tronzano, mi hanno fatto credere che di là, in Svizzera, tutto fosse di cioccolata, canditi, pasta di mandorle e strade di torrone! A spararmi ‘sta frottola è stato per primo il radiotelegrafista della Stazione. Mi aveva offerto un quadretto di cioccolato e aveva aggiunto: “Come è ingiusta la vita! Noi qui a spiluccare miseri pezzettini di cioccolata e loro, di là, ‘sti svizzeri del cavolo ce ne hanno da buttare, perfino sui tetti!” “Sui tetti?” faccio io. “Sì, non li vedi tutti rossi scuri che sono… hanno le tegole fatte col cacao pressato!” “Tegole di cioccolato?! Che fortunati!” e ho mandato già una golata di saliva da ingolfarmi. Quel bastardo cacciaballe del telegrafo aveva passato voce al cantoniere, ai finanzieri e ai carabinieri… tutti mi davano la baia con ‘sta bufala della Svizzera cioccolatara. “Proprio per questo - aggiungevano le carogne - quella si chiama sponda grassa. Se fai il bravo, vedrai che un giorno o l’altro pa’ Fo ti ci porta. Ce l’hai il passaporto?… No? allora non ci potrai mai andare!” Visto che ci ero cascato come un allocco in ‘sta storia della sponda del Bengodi, anche mia madre per non deludermi stava al gioco: “Quando la settimana ventura verrà a trovarci Bruno, vedrai che ce ne porterà un sacco di quella fondente!” Milano 13 Mio padre aveva avvertito subito il babbo di mio cugino, così quando arrivò Bruno per poco non sono svenuto: lui e la sua ragazza sono scesi dal battello e hanno passato la dogana. Io stavo con la mamma sul molo ed ho notato subito che il finanziere aveva ordinato a mio cugino e Bedelià di aprire due pacchi piuttosto voluminosi, ma non riuscivo a capire cosa contenessero. Il finanziere levando alta la voce li ha poi fatti passare commentando: “Non sarebbe legale, ma per questa volta chiudiamo un occhio…” I due fidanzati arrivano finalmente sul molo: ero così emozionato e curioso di scoprire cosa ci fosse in quei due pacchi, che quasi non salutavo la splendida Bedelià. A casa, lassù nella stazione, finalmente si è scoperto l’arcano: tolta la carta e tutto l’imballaggio è apparsa una tegola, un coppo… tutto di cioccolata! “L’ho staccata dal mio tetto - dice sottogamba Bruno - è per te, car testón, mangiatela tutta con comodo!” Ero così stupefatto che non riuscivo manco a respirare: “Posso dargli una leccata d’assaggio?” ho azzardato e tutti in coro: “Ma certo! Lecca quanto ti pare.” “Viva la Svizzera!” ha gridato la mamma. Un anno dopo finalmente mi è capitato di poter attraversare il lago per andare a Brissago. Avevo cinque anni scarsi. Ero emozionato come un grillo in primavera. Quando a dottrina il parroco di Pino ci parlava di Adamo ed Eva... del Paradiso terrestre con tutto quel ben di dio... io pensavo alla Svizzera, anzi, al Canton Ticino: là nell’eden elvetico stavano gli eletti, qua da noi i peccatori... nel castigo eterno! Mia madre è stata molto cauta nel darmi la notizia del prossimo viaggio nella terra promessa: “Forse... fra qualche giorno - diceva buttandola là - se rimettono in Milano 14 servizio il battello... andiamo a Brissago dagli zii... forse...”. Quella notte ho sognato che avevano di nuovo sospeso la traversata col battello: mio padre s’era piazzato sull’imbarcadero, fuori dalla grazia di Dio… come gli succedeva nelle giornate grame, teneva addosso una coperta tutta ricamata (quella che stava nella nostra casa sul letto grande) e sollevate le braccia al cielo, manco fosse Mosè, sbraitava a tutta voce: “Lago bastardo... spalancati e facci passare che la terra promessa ci aspetta!” E trak, s’alza un gran vento, bolle l’acqua come in un gran paiolo e... miracolo: risucchiata dall’aria, l’acqua monta in cielo, si spacca in due, s’apre il mar Rosso... pardon... il lago Maggiore! E noi, la famiglia al completo, seguiti da tutta la gente di Pino-Tronzano, Zenna, Maccagno, via che attraversiamo cantando... mentre le guardie di Finanza, disperate, minacciano: “Fermi! Tornate indietro o spariamo! Senza passaporto e visto annesso non si attraversa!” Nessuno ci fa caso... anche i contadini dei bricchi e i pastori attraversano con le vacche, con pecore e capre. “No... le capre no... è proibito!” urlano i carabinieri. Le capre, per tutta risposta, sparacchiano a raffica quei loro stronzetti tondi come biglie di bronzo e via sculettando felici. Ma un “Sveglia! Sveglia!” mi impedisce di terminare quel sogno fantastico. È la mamma: “Siamo in ritardo, alzati che fra mezz’ora arriva il battello!” Sono così agitato che infilo le braghe al rovescio, due calze nello stesso piede, faccio cadere la tazza col caffelatte bollette sul gatto, dimentico di raccogliere i colori e i fogli da disegno nella mia sacca. “Svelto, svelto...” Milano 15 Il battello lancia il suo segnale d’attracco con la sirena. Uscendo dalla galleria la locomotiva fischia a sua volta, ansima la pompa del serbatoio d’acqua della stazione. Ecco l’attracco. “Monta sulla passerella. Ci sei?” - “Tutti imbarcati?” - “Si salpa!” Vado a prendere posto sulla prua. La mamma mi viene appresso e mi dice: “Me car testón... ti devo dare una notizia non tanto bella.” “Quale notizia?” chiedo io senza staccare gli occhi dalla costa svizzera che viene avanti a gran velocità. “I tetti di Brissago - continua mia madre - non sono più di cioccolata.” “Cosaaa?!” sbotto io disperato. “Sì caro. Il governo svizzero li ha fatti cambiare in massa: ordine immediato per via che tutti i bambini tirando via i coppi per mangiarseli, hanno scoperchiato un fracco di tetti… buchi dappertutto… così, a ogni acquazzone, ecco che le case si allagavano. Tutti si beccavano raffreddori e polmoniti e soprattutto i bambini golosi stavano tutto il giorno con un mal di pancia da torcersi le budella!” “Ma come... il cioccolato non da mal di pancia!” “Dipende... se le tegole son vecchie, marce com’erano quelle...” “Cioccolato marcio? Ma la tegola che mi ha portato Bruno non era vecchia!” “Perché era la tegola d’una casa nuova.” “Meno male, allora almeno quel tetto s’è salvato.” “No, purtroppo. Qualche notte fa i ladri l’hanno rubato tutt’intero.” Sono scoppiato in un pianto disperato. “Maledetti! - ho imprecato in silenzio - Dio maledica tutti i ladri di tetti di cioccolata fresca e gli faccia crollare addosso una montagna di cacao, marzapane e vaniglia bollente!” Milano 16 Ero proprio arrabbiato nero. All’imbarcadero di Brissago ci erano venuti incontro la zia Maria, che non avevo mai visto, lo zio Francesco Repetti, le due cugine. Ero fuori dai gangheri che non li ho manco degnati di uno sguardo, nemmeno un ciao. “Che gli è successo?” ha chiesto preoccupata la zia Maria. La mamma ha fatto un cenno di soprassedere: “Una tragedia, vi spiegherò poi.” ha soffiato sottovoce. Sulla via di casa, siamo passati di fronte a una pasticceria: in vetrina erano esposti cumuli di stecche di cioccolata. Noemi, la cugina maggiore, ci aveva preceduti e ora stava uscendo con un enorme tocco di fondente. Quando me lo ha offerto io l’ho accettato, ma l’ho guardata severo e sprezzante come dire: “Se credete di condirmi via con una beola di cacao secco, vi sbagliate di grosso!”. La casa degli zii era in riva al lago; c’era perfino una darsena con dentro una barca stretta e lunga: una “jole”. La mamma ed io eravamo stati sistemati in una stanza grande con il balcone. Accidenti che alloggio! Ho chiesto subito se si poteva andare in barca. A Pino ogni tanto mi facevano salire sulla motovedetta dei finanzieri, ma con quella jole era tutt’altra cosa; dire che offrisse un equilibrio precario è dir poco: non potevi spostarti di un centimetro, che subito sballonzolava come impazzita. Mi ci hanno calato per primo; Tullia, ‘sta scatenata pazza, è montata dentro di botto, con uno zompo che per poco non mi ritrovavo sbattuto fuori dalla barca. Salta dentro a piedi giunti anche l’altra sorella: una gran sballonzolata! Cade fuori lei, la barca si rovescia e io mi ritrovo scaraventato in acqua a mia volta: “Ma la miseria! Io ho solo cinque anni… e non so nuotare!” Per di più la jole, ribaltandosi, mi cade addosso e mi ritrovo in trappola dentro il guscio, come sotto a un coperchio. Mi sbatto, grido, bevo… non so come ma, dal Milano 17 di dentro, riesco ad attaccarmi alla traversa del sedile. Sento gridare Noemi: “Dio! Il bambino dove è finito?” E la sorella “Sott’acqua non c’è. Vuoi vedere che è rimasto sotto conca, dentro il guscio?” Salta in acqua anche lo zio… insieme ribaltano la barca e HOP!, ritorno all’aria, sempre abbrancato alla traversa del sedile. Tossisco come un motore ingolfato. Dio che vita dura in ‘sta Svizzera! Quella notte ho sobbalzato non so quante volte nel letto per gli incubi. Meno male che stavo fra le braccia di mia madre che ad ogni sobbalzo mi sbaciucchiava e mi asciugava il sudore di cui ero tutto fradicio. “Niente… non è niente - mi tranquillizzava - Basta coi brutti sogni! Esci dall’acqua, car testón, non c’è più né lago né barche. Dormi!” E invece, come mi riaddormentavo, a tormentone ecco spuntare acqua dappertutto: pioveva fitto, i torrenti erano gonfi e straripavano, l’acqua del lago cresceva, montava fino a uscire oltre la riva su fino alla stazione e i treni sparivano travolti dalle onde. Mia madre fuggiva tenendomi in braccio, s’arrampicava su per il sentiero scosceso che raggiunge Pino e poi sale verso Tronzano. Pa’ Fo ci veniva appresso reggendo sulla testa una gran tinozza in rame per il bagno che poteva servire come barca di salvataggio. Era un sogno quello che ripetevo spesso. Era una specie di diluvio universale. Il lago era ormai immenso come un mare… noi si continuava a salire verso la più alta cima della catena del Limidario: era l’ultima cima, quella della salvezza! L’indomani, come mi sono svegliato, sul grande tavolo della cucina ho trovato una enorme scatola di colori a tempera, un mazzo di pennelli e dei cartoncini su cui dipingere. Non erano giocarelli da bambino, ma roba da professionisti, da pittori veri. Milano 18 “Sono per me?” ho chiesto speranzoso. “Sì!” mi ha risposto ridendo lo zio. Quasi non lo riconoscevo: era vestito da soldato… una divisa verde, con bordature rosse, stivali e un cappello con la visiera. “Zio, vai alla guerra?” “No, è la mia divisa normale. Non lo sapevi? Io sono il maresciallo capo del Gendarmi del Comune!” Mi accorgo solo adesso che ha una gran pistola nella fondina appesa alla cintura. “E son tuoi anche quelli?” così dicendo, punto il dito verso la parete sulla quale fan bella mostra un trombone e un fucile con il porta-cartucce. “Sì, suono nella banda del corpo e questo è il mio fucile di ordinanza. Non toccarlo mai!” Quindi afferra dal tavolo la scatola dei colori e rovescia tutti i tubetti sul tavolo: “Guarda che meraviglia… sono di gran marca: “Le Frank”. Quando ero bambino ho sempre sognato di avere delle tempere come queste. Sai, io ogni tanto dipingo ancora; hai mai provato a pitturare con colori e pennelli del genere?” E così dicendo, spremendo tubetto per tubetto su un gran piatto, mi ha mostrato come si prepara la tavolozza. Ha intinto un pennello in una terra di Siena, mi ha consegnato il pennello, ha riempito una tazza d’acqua e, ponendo sul tavolo un cartone, ha ordinato perentorio: ”Forza! Fammi vedere se sei davvero quel portento che dicono.” C’era da immaginarselo: emozionato com’ero, ho spegasciato colore come capita, capita. La mia idea era di rappresentare l’incidente del giorno prima con le cugine che cadono in acqua, la barca che si ribalta, io di sotto nel guscio che mi sbatto disperato. Invece, disastro su disastro, di quella storia non ci si riusciva a capire niente… un gran papocchio senza senso. Alle mie spalle, s’era formata un’ammucchiata di spettatori: c’era tutta la Milano 19 famiglia, mamma compresa, e quattro colleghi gendarmi dello zio, anche loro in divisa con trombe e tromboni… tutti che commentavano entusiasti il dipinto e la mia bravura: “È un artista! Mai visto un mostro simile!” “Cos’è l’arca di Noè?” “No, è la battaglia navale dei Malpaga contro i Borromeo!” Io ero più che convinto che stessero sbroffando elogi a raffica solo per farmi piacere, ma una dozzina di anno dopo, quando già frequentavo l’Accademia di Brera, e sono tornato a trovare lo zio Trombone (così lo chiamavano tutti), mi è capitato di rivedere quel dipinto appeso su un muro, addirittura incorniciato. In quel momento mi sono reso conto che era davvero bellissimo: pareva un Kandinsky! Chissà che fotte mi sarei dato allora se ne fossi stato cosciente, ma - per fortuna e disgrazia insieme - il candore e la consapevolezza non abitano mai allo stesso tempo nella stessa persona. Ad ogni modo, quella prima settimana in Svizzera si è rivelata davvero indimenticabile: ero capitato proprio durante la festa dei Cantoni liberi. In piazza c’era un vero assembramento di gente in costume: c’erano quelli con gualdrappe ricamate d’oro e azzurro che recitavano la parte dei duchi tiranni, dietro loro, in corteo, i guerrieri tedeschi, quindi le signore della nobiltà e per finire i patrioti ribelli con Guglielmo Tell e il suo ragazzino. In mezzo alla piazza, contro una parete decorata a bassorilievo a indicare un portale, veniva piazzato in piedi il bambino con una mela in testa. Guglielmo imbracciava una balestra, puntava verso il bimbo… ed ecco una donna gridare: “No, mio figlio no!!” (era la madre, che naturalmente non aveva nessuna fiducia nella mira del marito Guglielmo). Quell’urlo serviva, l’ho capito anni dopo, a distrarre il pubblico per un attimo dal fissare il piccolo con la mela in capo. Approfittando di quel breve Milano 20 spostamento d’attenzione, il portale dinanzi al quale stava il bambino, girava su se stesso. Spariva quindi il bimbo vero e appariva un manichino con la stessa dimensione, costume e viso del piccolo protagonista. Solo gli scafati si accorgevano del trucco… io a cinque anni non ero ancora scafato! Immediatamente Guglielmo Tell scoccava la freccia che infilzava la poma, urlo del popolo festante, fine del dramma. “Ma cosa vuol dire?” chiedevo io alla mamma che prima della rappresentazione aveva cercato di raccontarmi la sequenza dei fatti storici. “È davvero una schifezza! - Esclamavo io indignato Sempre noi piccoli ci dobbiamo andare di mezzo! Gesù bambino che nasce in una stalla puzzolente, con il tetto sfondato. Senza stufa né scaldino… il fiato di un asino e una mucca e basta così. Erode, chissà perché, lo vuol morto e allora fa sgozzare tutti i bambini del paese manco fossero capretti. Il Padreterno, tanto per far prendere uno spavento al povero Isacco, ordina al padre di mozzargli la testa con una scure. Cosa me ne frega se poi ci ripensa: “Alt! Fermi tutti, è stato uno scherzo”… uno scherzo da Dio! E adesso pure la mela su ‘sto povero ragazzino svizzero, che se Tell sbaglia, gli sforacchia la testa. Lui, il piccolo è il vero eroe, ma nessuno si ricorda nemmeno come si chiami. Tutta la festa è solo per suo padre, ‘sto incosciente che ha accettato la scommessa!” A dir la verità, la mia indignazione è durata poco perché all’istante ecco venire avanti la banda dei gendarmi a cavallo. M’è sfuggito un grido di meraviglia. Fra i suonatori della banda c’era anche mio zio, a cavallo pure lui, che pompava in quel trombone con delle spernacchiate che rimbombavano per tutta la piazza. Ero proprio orgoglioso: ai miei occhi, la reputazione dello zio gendarme era montata a dir poco alle stelle! Milano 21 La mamma il giorno dopo ha dovuto tornare a Luino e Noemi, per consolarmi un po', mi ha portato con sé al Kinderheim dove lavorava come maestra d’asilo. Mi sono ritrovato con una turba di ragazzini, tutti più o meno della mia età. Ma provenivano in massa dai Cantoni del Lemano, quindi svizzeri tedeschi… non una parola d’italiano. Ho cercato di comunicare in dialetto, ma mi guardavano come un deficiente! Ad un certo punto ci hanno portati tutti quanti in un salone dove faceva gran pompa di sé un organo. Alle tastiere stava seduto un donnone che pareva burro e panna. Ha cominciato a suonare. Appresso c’era un’altra donNa che spingeva con i piedi sul mantice: un suono da cattedrale è uscito dalle canne. I bambini in coro hanno intonato un inno maestoso, la cui aria si ripeteva a crescere con piccole varianti. Intuito l’andamento, mi sono inserito nel coro a mia volta… dapprima sottovoce, poi, preso coraggio, a piena voce. Scimmiottavo anche le parole, fingendo di conoscerle a menadito: “Antzen üt Schivvel mit nem lauben troi wirt… ” chissà che bella storia stavo raccontando. Qualche giorno dopo, lo zio Trombone s’è presentato nello spiazzo della casa a cavallo. Noemi con forza mi ha sollevato ponendomi in groppa all’animale, anzi, quasi sul collo. Ero fuori di me dalla gioia! “Vieni andiamo a Lugano da Bruno… ci sta aspettando!” Un’ora di strada a cavallo, con lo zio gendarme… che stralusso di meraviglia! Non si andava per strade normali, ma si tagliava per sentieri, lungo i campi, attraverso i boschi. Ad un certo punto, siamo stati quasi aggrediti da un nugolo di api: lo zio mi ha calzato in testa il suo cappello da gendarme, s’è tolto la giacca e mi ha coperto le gambe: “Infilaci sotto Milano 22 anche le mani. Purtroppo hai una pelle così dolce che le api ci vanno a nozze!” “Ma ‘sta Svizzera è tutto uno spavento, altro che paradiso terrestre!” Per di più, il cavallo punzecchiato da quelle api fameliche s’era imbizzarrito, ha sparato un nitrito da carica a lancia in resta, due scalciate e via al gran galoppo! Lo zio cercava di trattenerlo, ma chi tratteneva le api? Ci son venute appresso fin che hanno avuto fiato. Poi evidentemente sono scoppiate e il nostro campione ha cominciato a rallentare tenendo sempre il collo arcuato e trottando proprio da gran vincitore. Non avrei mai immaginato tanta festa da parte di mio cugino che mi stava aspettando davanti alla Chiesa con i suoi amici e… Bedelià con tante altre ragazze. Quasi tutte splendide, ma - è inutile dirlo - al par di lei non c’era nessun confronto! “Perché si va in chiesa?” chiedo io. “È una chiesa molto speciale, dove si fanno concerti, ci sono anche dei musicisti italiani. Vieni te li presento, sono tutti fuoriusciti.” “Fuoriusciti? Che vuol dire?” “Significa che son scappati dall’Italia per evitare di finire in prigione.” “Ah, come quelli che si nascondono nei vagoni in transito a Pino! Dei clandestini, insomma.” “Ecco, bravo! Gli stessi… questi, in particolare, sono in gran parte anarchici.” Certo, non sapevo cosa significasse “anarchici” e non c’era manco il tempo di farmelo spiegare: eravamo in ritardo, bisognava dar inizio al concerto. Ho preso allora posto sul più bel seggio del mondo: le ginocchia di Bedelià e per schienale e poggiatesta avevo le sue zinne! Intanto i musicisti stavano approntando gli strumenti: Bruno s’era seduto al pianoforte. C’erano delle chitarre Milano 23 grandi come un uomo (che si chiamavano contrabbasso) e delle grandi trombe ritorcinate, i sassofoni e poi tamburi con piatti e tamburelli di metalli, la batteria insomma e poi trombe più o meno simili a quelle della banda dei gendarmi. Fra i suonatori, c’erano anche due neri con una strana chitarra e una donna col violino. Bedelià mi ha spiegato che quel violino si chiamava hot e la chitarra tonda ukulele. “Quando mi vieni a trovare al di là del lago?” le ho chiesto. “Purtroppo sarà difficile. Il Governo fascista ha imposto al nostro di ritirare Bruno dall’ambasciata per via delle sue idee un po' sovversive.” Avrei voluto chiederle cosa significasse quel “sovversive” ,ma continuava il concerto quindi, zitti e attenti. Non avevo mai ascoltato una musica come quella. All’inizio mi è sembrata un po' fracassona, piena di strombazzate perfino stridule, come da pagliacci… ma poi mi sono sorpreso a segnare il tempo battendo le mani. Veniva fuori una sgangherata armonia, ma mi piaceva. “Come si chiama questa musica?” ho chiesto a Bedelià. “Jazz - mi ha risposto - e quest’altro che sta per iniziare è invece un blues: ascolta, fra poco cantano.” Infatti i due neri si son levati in piedi e hanno cominciato a tirar fuori una voce acuta da tromba e poi una tiritera ritmata agitando le braccia e accennando passi di danza. Anche la ragazza del violino s’è unita al canto. A sua volta, Bruno ha tirato fuori una voce incredibilmente pastosa e gutturale, proprio da nero. Dopo un po’ l’intera platea era coinvolta da quel canto, pian piano tutti quegli svizzeri così compassati sollevavano le braccia e le muovevano a imitazione di quanto stavano facendo i cantori ghospel sul transetto: battevano mani e piedi e ripetevano in coro i vari refrein. Io di certo non mi rendevo conto, ma in quel momento Milano 24 stavo assistendo a una delle prime esibizioni di musica jazz e blues in Europa. Dicono che da bambini i nostri sensi siano sensibili come lastre fotografiche: ogni colore, ogni fremito di commozione resta inciso con inaspettata profondità e precisione. Quell’evento avrebbe di fatto segnato il mio modo di ascoltar musica, non accentandola solo come sequenza di note e ritmi, ma soprattutto come gesto e azione collettiva di un rito. Quando, dopo una settimana, sono tornato alla stazione di Pino, mia madre si chiedeva cosa mi fosse successo. Continuavo a raccontare di quello che avevo visto: del mio canto in tedesco, del cavallo imbizzarrito dalle api, del concerto jazz e tentavo di rifare il verso a quei suoni muovendo braccia e gambe come un grillo. “Me car testón, - diceva preoccupata mia madre – non è che ti hanno drogato o fatto un accidente di fattura da tarantolati?! Acquietati, prendi un po’ di fiato e soprattutto non raccontare più a nessuno qui intorno dei fuoriusciti anarchici che suonavano e cantavano coi negri: è pericoloso!” Eravamo nel’32: io avevo compiuto i sei anni e dovevo andare a scuola. Mio fratello Fulvio ne aveva due meno di me; a detta di tutti, dimostrava un’intelligenza esagerata: aveva quattro anni e leggeva e scriveva come un ragazzino della seconda elementare. Per di più, se ne usciva con battute e osservazioni da lasciare interdetti. La scuola elementare di Pino non era molto prestigiosa: c’erano solo le prime tre classi e per frequentare le altre due bisognava salire fino a Tronzano che stava a 600 metri di altezza. A Pino c’era un’unica maestra che insegnava a dieci bambini e sette femminucce. Milano 25 Si chiamava Suor Maria, infatti era una suora di San Vincenzo con una cuffia bianca che si annodava sotto il mento. Per me, di sicuro, era come la Grande Madre Terra: ampia, maestosa, dolce e piena di tenerezze per ognuno. Non levava mai la voce né allungava una mano su di noi… anche quando ci meritavamo gran pedate nel sedere. Io mi ci trovavo proprio d’incanto con Madre Maria, oltretutto ero di certo il suo coccolo preferito, anche se non lo dava a vedere. Forse mi comportavo un po’ da ruffiano arrivando sempre lassù da lei con qualche fiore che coglievo strada facendo, lungo la scarpata. Un giorno sono arrivato addirittura con un coniglietto che avevo trovato fuori dal recinto, un’altra volta ho esagerato: ho trascinato su addirittura un randagio… brutto e sporco come un landrou. Suor Maria ogni volta mandava grida di gioia, festosa come una ragazzina… non parliamo poi delle espressioni di meraviglia quando le mostravo uno dei miei dipinti; spesso mi incitava a disegnare e colorare in classe, coinvolgendo tutta la scolaresca. La nostra scuola aveva trovato asilo dentro l’antico palazzo medievale del Municipio. Fuori, nei corridoi, stavano “rinfrescando” le decorazioni pittoriche. Dentro uno sgabuzzino, gli imbianchini avevano lasciato i barattoli con le vernici a tempera. Una bambina aveva portato in classe un paio di quelle tolle con relativi pennelli e s’era messa a dipingere su un muro, nel frattempo Suor Maria era uscita per un attimo… tutti noi ragazzini eravamo scandalizzati: “Imbrattare in quel modo le pareti! Vedrai Suor Maria cosa ti dice appena torna! La suora entrava proprio in quell’istante, ha osservato quella serie di sberleffi di colore e ha esclamato: “Potrebbe essere un’idea! Che ne dite di dipingere tutto lo stanzone?” Milano 26 L’abbiamo guardata ammutoliti: “Oh Dio, Suor Maria è andata fuori di testa!” La ragazzina con un grido trionfante si è rigettata a spantegare colori sulla parete. Dopo un attimo, come formiche scatenate, eravamo addosso ai muri impugnando pennelli che intingevamo nei barattoli di cui avevamo fatto rapina. Quell’inverno aveva nevicato più del solito. Per salire alla scuola si dovevano inforcare gli sci. Io e mio fratello Fulvio avevamo imparato a muoverci su quegli aggeggi abbastanza rapidamente. Non si trattava certo di sci come li intendiamo oggi: erano “tappelle”, cioè tavole di legno scolpite alla bella e meglio che si affrancavano agli scarponi con molle molto rudimentali. Non servivano a fare dello sport, ma soltanto a muoverci senza affondare nella neve. Le racchette erano bastoni di frassino con due cerchietti di vimini infilati sul fondo. Per riuscire a manovrare con quelle tappelle, bisognava possedere un bel talento: noi tutti in quella valle, dovevamo averne a dismisura giacché riuscivamo a lanciarci giù per certe scarpate da far mancare il fiato. Verso febbraio, nessuno se l’aspettava, c’è stata un’altra tremenda nevicata che aveva superato il metro. I camion non transitavano più. Pure la ferrovia era bloccata: una slavina era franata proprio fra le due gallerie di Zenna e la neve intasava anche la via per Luino. Ci si muoveva solo con gli sci e con le slitte. Noi ragazzini non ci si rendeva conto di cosa volesse dire trovarsi completamente isolati; neanche per via lago si poteva raggiungere la costa svizzera o quella di Luino: tirava un vento di maestrale che sollevava onde da marenca tanto che la notte avanti il motoscafo della Finanza aveva perso gli ormeggi e, andando a sbattere contro gli scogli, s’era inabissato. Milano 27 Per noi era la pacchia: si sciava dappertutto, battaglie con le palle di neve e poi quell’avventura di trovarci tagliati fuori ci faceva sentire come naufraghi su un’isola deserta. Anche la gente della valle non era preoccupata più di tanto, un po’ di scorta nei tre o quattro negozi d’alimentari c’era ancora. Il macellaio inoltre poteva disporre di agnelli e capretti a volontà e soprattutto i contrabbandieri adesso avevano il via libera: i finanzieri di stanza sul confine infatti non erano in grado di muoversi con sufficiente agilità su quella neve, quindi se ne stavano in caserma e gli spalloni coi loro sci fatti in casa andavano e venivano con delle bricolle sulla schiena da affondare perfino la slitta di Babbo Natale con tutte le sue renne. Proprio in quella settimana è circolata la voce che il maresciallo che comandava il presidio dei carabinieri aveva ricevuto l’ordine di lasciare il comando e di trasferirsi in “altra località”. Qualcuno gli aveva tirato il roccolo, come si dice. In poche parole, aveva mandato una lettera al comando di Luino, accusando il povero maresciallo di essere addirittura in combutta con i contrabbandieri e di chiudere un occhio davanti al continuo espatrio di sovversivi e delinquenti comuni braccati dalla giustizia. Una carognata ignobile. In paese tutti erano convinti che la frappata zozza gliel’avesse tirata il tenente dei finanzieri. Altri erano certi che la spiata fosse partita dal vice capostazione che veniva da Maccagno tutti i giorni a dare il cambio a mio padre. “Quello è un fascio fanatico. – avvertiva sempre papà – Attenti che ha le mosse di un serpente!” “Sì, ma deve stare attento anche lui! – ribatteva il cantoniere – Uno può anche scivolare sotto ad un treno, specie quando c’è tutta ‘sta neve!” Di lì a qualche giorno, i cantonieri son riusciti a liberare la ferrovia dalla neve, anche un trattore con lo spazzaneve Milano 28 era arrivato a ripulire la strada provinciale. Ci trovavamo di nuovo liberi… peccato. Così ci c’è stato il trasloco: il solito vagone coi mobili smontati, la solita stufa che scivolava giù andando a pezzi. La moglie del maresciallo era molto triste: abbracciava mia madre e tutte le donne del paese che erano scese a salutare. Anche il figlio del maresciallo, Nanni, il nostro capo di scarpignate e di giochi era triste e tratteneva a stento le lacrime. A mia volta sentivo un groppo allo stomaco da piegarmi in due. Ma io sapevo bene che di tutta quella famiglia chi mi sarebbe mancata di più sarebbe stata senz’altro la sorellina di Nanni, Beatrice, mia compagna di banco a scuola… con quegli occhi neri, grandi… che mi rubava sempre le gomme… mi pasticciava i disegni… mi tingeva il naso con l’inchiostro, ma poi, quando si tornava giù alla stazione, ci si teneva per mano e si scivolava finendo a rotolare insieme sul largo ciglio erboso della strada e ci si abbracciava ridendo. Spesso nel rotolare ci prendevamo delle botte pesanti, allora ci si aiutava l’un l’altra a tirarci in piedi. Io le cingevo la vita, per reggerla… lei mi sbaciucchiava. Forse quegli incidenti li provocavamo apposta noi o forse erano addirittura finti! “Ma adesso che Beatrice se ne va, con chi rotolerò io lungo la sgaladra a prato? Chi abbraccerò? Chi mi aiuterà a rimettermi in piedi?” Gli anarchici van via All’improvviso, con il primo viaggio del battello che riprendeva servizio, abbiamo visto arrivare Bruno. Era sceso senza Bedelià. Come mai? Abbracci, sbaciucchi… io mi aspettavo almeno una stecca di cioccolata e invece, niente. “Qui c’è qualcosa che non Milano 29 va!” ho pensato subito. Lui e mio padre parlavano bisbigliando fitto. Poi l’indomani mia madre mi ha preso in disparte e mi ha detto sottovoce: “Car testón, il papà ha bisogno un grande favore da te: dobbiamo far arrivare una lettera a uno di quegli amici che tu hai conosciuto a Lugano… ti ricordi in quella chiesa?” “Ah sì, dove suonavano e cantavano musiche da neri!” “Bravo! Tu devi andare con Bruno di là e io ti cucio una lettera sotto la maglia. A te i finanzieri non guardano di sicuro!” “Va bene.” “Non devi aver paura…” “No, non ne avrò.” E ho stretto le ginocchia una contro l’altra per non far vedere che mi sbattevano per il tremore. Per tutta la traversata sul battello sono rimasto seduto sottocoperta. “Vai di sopra con gli altri bambini! - Mi diceva il capo dei marinai – Cos’è, non ti senti bene?” E io: “No, è che star di sopra mi viene da vomitare. Soffro il mal di mare.” E il marinaio: “Peccato… uno che sta sul lago e non può manco andare sul battello!” Una volta di là, con una corriera, abbiamo raggiunto Brissago. Gli anarchici stavano facendo trasloco anche loro. Il governo italiano s’era lamentato con quello svizzero per il fatto che permetteva a dei sovversivi di starsene proprio lì, affacciati alla frontiera: dovevano far fagotto, andarsene fuori dal Canton Ticino e anche dalla Svizzera. Così mio cugino era molto arrabbiato e l’ho sentito dire: “Bel Paese questo! Pulito, ordinato… è proprio il cesso più pulito d’Europa! Se la fanno sotto a ogni coglione che sbraga ordini!” Dai loro discorsi sono venuto a scoprire che quella non era la prima volta in cui gli anarchici dovevano subire una Milano 30 simile violenza. Già una trentina di anni prima, al tempo cioè del famoso anarchico Pietro Gori, una gran quantità di rifugiati politici era stata costretta ad andarsene da Lugano. Il re e il governo del tempo avevano fatto pressione sul parlamento svizzero perché a quei sovversivi fosse negato il diritto di asilo. Così, ricordando quella prima diaspora, siamo arrivati al Caffè Lungolago; Bruno mi ha accompagnato nella toilette, lì mi sono tolto la maglia e ne ho indossata un’altra che tenevo nella borsa. Nel corridoio del caffè c’era uno degli anarchici che ha afferrato subito la mia maglia con cucita la lettera e se l’è ficcata in saccoccia. Poi mi ha preso in braccio, mi ha stretto forte e mi ha detto: “Ringrazia tuo padre, dagli un bacio quando lo rivedi. Digli di stare accorto, non deve esporsi!” “Sì, glielo dico.” Siamo usciti… c’erano dei camion che trasportavano la roba degli indesiderati. Prima di partire, si sono messi tutti in fila lungo l’imbarcadero, di là in fondo al Lago si vedeva l’Italia… “Adesso cantano - pensavo io – batteranno il tempo con le mani e accenneranno ad una danza come l’anno scorso in chiesa.” Con mia sorpresa hanno invece intonato una specie di valzer dalle parole molto tristi con le quali davano l’addio al lago e agli amici che erano venuti a salutarli. C’era della gente lì del Canton Ticino, ma anche qualcuno che veniva da fuori, dagli altri Cantoni. Appena si son mossi i camion e il pullman, hanno fatto segni di saluto con le braccia e qualcuno ha persino applaudito. Stavo per applaudire anch’io, ma Bruno mi ha fermato afferrandomi un braccio: “Non ti muovere. Ci sono poliziotti in borghese arrivati dall’Italia… è meglio che non ci scopriamo!” Milano 31 Dopo tanti anni, finita la guerra, ho sentito un sacco di volte intonare quella canzone degli anarchici che fa: “Addio Lugano bella Addio Lugano mia cacciati senza colpa gli anarchici van via” M’è capitato di cantarla a mia volta, ma non m’è mai riuscito di eseguirla per intero: ad un certo punto, mi si sgranava la voce e potevo solo fingere di cantare. Ogni volta mi ritrovavo lì, sull’imbarcadero, bambino che tentavo di applaudire e mio cugino che mi bloccava e mi sussurrava: “Cerchiamo di non dare nell’occhio!” L’amico francese Anni dopo, nell’estate del ’44, quando si era appena conclusa la Grande Guerra, è arrivato a trovarci, proveniente dalla Francia, un uomo che ha abbracciato mio padre con incredibile affetto… erano amici fin da ragazzi, infatti si erano conosciuti a Montpellier dove mio padre a 16 anni era emigrato per trovar lavoro in un’impresa edile. Insieme si arrampicavano ogni giorno sulle impalcature di grandi caseggiati in costruzione nel ruolo di “magüt”, cioè garzone-muratore. In quel tempo, nel 1913, si susseguivano cruenti lotte per l’emancipazione operaia, per la conquista di sacrosanti diritti, per il salario e soprattutto per la sicurezza nelle fabbriche e sui cantieri. Gli scioperi e le relative manifestazioni venivano immancabilmente troncate con ferocia inaudita: gli operai venivano caricati non solo dalla polizia, ma anche dall’esercito con l’intervento di truppe a cavallo. I sindacati alla fine erano riusciti però ad ottenere qualche vantaggio. Proprio il giorno in cui si riprendeva il lavoro al cantiere, un’intera impalcatura è crollata di schianto e tutti gli Milano 32 operai, circa una quindicina, precipitavano al suolo. Mio padre era fra loro. Nel disastro ha avuto la prontezza di afferrare una fune che pendeva da un trabattello. Purtroppo la struttura con scale è rimasta travolta da un ulteriore crollo. Dieci superstiti, in fin di vita, sono stati portati all’ospedale. Mio padre era il meno malconcio: aveva una gamba fratturata in più punti e una gran botta alla schiena così da ritrovarsi semi paralizzato. In cinque erano morti. Dimesso dall’ospedale, è stato accolto nella casa di Andres, così si chiamava il suo compagno magüt… la madre di lui lo ha curato proprio come fosse suo figlio. Mio padre ripeteva spesso che a quella donna doveva la vita. Rimessosi, da Montpellier si è trasferito in Germania ancora in compagnia di Andres: avevano trovato lavoro in un cantiere ad Hannover. Stava per esplodere la Prima Guerra Mondiale: Andres se ne è tornato allora in Francia, mio padre in Lombardia. Due anni dopo anche il nostro Paese entrava in guerra e, prima che compisse i 19 anni, mio padre si è ritrovato a combattere in prima linea sul Carso. Dai loro discorsi ho scoperto che quella lettera, che da ragazzino mi avevano cucito sotto la maglia e che io avevo trasportato a Lugano per gli anarchici, era indirizzata proprio a lui. Andres era diventato il responsabile dell’Associazione per gli aiuti ai fuoriusciti politici che la Francia aveva raccolto in gran numero. Naturalmente mio padre sollecitava Andres e la sua organizzazione perché accogliesse quei profughi, trovasse loro una sistemazione e un lavoro. Tanto mio padre che Andres avevano militato nel Partito Socialista prima e appena dopo la guerra. Nella solidarietà verso i perseguitati, non importa a che partito o gruppo Milano 33 democratico appartenessero, il movimento dei lavoratori in quel tempo aveva trovato la propria ragione d’essere. La conversa e Fulvio nel fango All’inizio del secondo anno, nella scuola elementare di Pino, era arrivata un’assistente della suora madre, il suo nome era Irene. Non era ancora suora, ma solo conversa, cioè una novizia. Infatti teneva ancora tutti i suoi capelli nascosti sotto la cuffia. Indossava una specie di camicione leggero di qualche misura in più a coprire quel suo corpo sottile e armonioso. Si muoveva con grande agilità scuotendo le vesti come avesse dentro spifferi d’aria. Mio fratello Fulvio non avrebbe dovuto ancora frequentare la scuola, ma vista la sua particolare facilità nell’apprendere, la suora madre l’aveva accolto in classe: sperduti in capo al mondo come ci trovavamo, mai nessuno avrebbe potuto farci caso. Il 21 di marzo, per il primo giorno di primavera, si andava sempre per campi lungo la collana dei boschi a far la “Narcisata”, cioè a raccogliere gran mazzi profumati di narcisi. Quel giorno tutti noi della scuola siamo saliti fino ad Arcomezzo, dove le spianate apparivano sbiancate da migliaia di quei fiori. Eravamo stati affidati ad Irene che di certo fra tutti noi appariva la più scatenata: correva, saltava sollevando con le mani la lunga sottana e la sbatteva di qua e di là come a voler scacciare nugoli di vespe. Ci incitava a raccogliere anche fiordalisi, mughetti e giacinti… dopo un paio d’ore tornavamo a valle con mazzi di fiori più grandi di noi. La giovane conversa inoltre ci provocava lanciandoci addosso tappelle di muschio e mazzi di cipolle selvatiche, poi si dava alla fuga con tutti noi appresso come tanti cuccioli di segugio. I contadini avevano issato muriccioli per contenere eventuali smottamenti del terreno e la conversa si divertiva Milano 34 a superarli con un sol balzo, invece per noi era più difficile: inciampi, gran ginocchiate e ruzzoloni! Ad un certo punto si è levato un grido: Fulvio, nello scavalcare uno di quei muriccioli non s’era reso conto che al di là di quel ruzzo di pietre c’era un fosso profondo e ripieno di una fanghiglia putrida e vi era cascato dentro. La novizia è subito accorsa gridando spaventata: Fulvio s’era letteralmente inzuccato in quella poltiglia. Rischiava di soffocare. Irene quindi non ci ha pensato un attimo e si è gettata nel pantano a sua volta, così com’era, tutta vestita. Immersa fino al collo, ha sollevato mio fratello di peso e l’ha gettato sull’argine erboso. A ‘sto punto ha tentato di aggrapparsi alla sponda del fosso, ma ad ogni tentativo gli argini le franavano nelle mani. A pochi metri, c’era un albero abbattuto con appresso qualche ramo mozzato dal tronco. Un volta sollevata la frezzula d’albero più lunga, ne abbiamo fatto scivolare la cima nel fosso, così che Irene lo potesse afferrare. Poi tutti insieme, abbrancati al ramo come i sette Nani (anche se in verità eravamo in dodici) ci siamo messi a tirare come disperati finché la nostra novizia non ha cominciato a riemergere. Era impastata di fango dai piedi alle guance… il suo camicione le si era incollato al corpo come un calco. Ancor oggi mi vergogno per il mio comportamento: c’era il mio fratellino lì lungo-disteso sul terreno, mezzo asfissiato che sanguinava dalla testa ai piedi… ed io avevo occhi solo per quell’impasto prodigioso fatto di abiti, fango e corpo di ragazza del quale si riuscivano a leggere tutte le forme tonde e piane più che se non fosse stata nuda. Dopo qualche attimo mi sono reso conto che non ero il solo ad apprezzare quella prodigiosa metamorfosi. Una delle ragazzine ha addirittura esclamato: “Irene, hai visto che bello? Ti sono spuntate le zinne con in cima i piroli!” Milano 35 La conversa non si preoccupava più di tanto: in fondo eravamo bambini, quindi nessuno scandalo. Lei era solo molto agitata per quel bozzo sulla nuca di Fulvio fessato da una ferita che buttava sangue. L’ha sollevato fra le braccia e correndo si è diretta verso un cascinale. Lì appresso c’era un abbeveratoio alimentato da una fonte: ci è saltata dentro tutta, con il ragazzino in braccio e ha cominciato a lavarlo a partire dalla nuca e poi lo sbatteva in su e in giù cercando con quel suo gioco di scioglierlo dallo shock che l’aveva ammutolito. Di lì a poco, dalla casa che stava sopra le stalle è scesa la reggiora del podere. Di lassù aveva già visto e capito il problema perciò arrivava con un paio di lenzuola e delle coperte. Era seguita da una ragazzina alla quale, appena resasi conto della ferita sanguinante di Fulvio, ha ordinato di andare a prendere in cucina delle fasce di lino e dell’alcool. Irene allora ha affidato mio fratello alle cure della reggiora e, dopo aver preso lenzuola e coperte, spallucchiando acqua dappertutto, è saltata fuori dall’abbeveratoio e se ne è andata correndo nella stalla. Mio fratello intanto, poverino, urlava come una poiana spellata mentre la donna gli disinfettava la ferita. Dopo qualche minuto, tutta avviluppata nella coperta, è uscita la conversa. Mio fratello con la testa fasciata è poi stato a sua volta infagottato in un telo. L’avventura sembrava finita lì. Invece tre giorni dopo Fulvio si sente male: è bianco smorto in faccia, vomita e ha un gran febbrone. Il medico a Pino viene per tre giorni alla settimana ed è andato via proprio questa mattina; quello di Tronzano ha dovuto correre a Luino dove sua madre ha avuto un infarto. Mio padre telegrafa alla stazione di Maccagno: “Trovatemi un medico!” “C’è, ma è in giro per visite e non riusciamo a rintracciarlo.” Milano 36 Intanto il bambino sta peggiorando: la febbre è salita a quaranta, non si capisce cosa gli sia preso, una congestione, un’infezione intestinale, una meningite: nessuno pensa alla ferita alla testa. La mamma continua a porre delle pezze gelate sul capo del suo bambino e altre calde ai piedi, poi si lascia andare distrutta su una sedia: “’Sto ragazzino mi sta morendo e nessuno ci viene in aiuto - dice fra le lacrime – bisogna portarlo subito con una macchina all’ospedale di Luino” “C’è il macellaio che sta venendo giù con il suo camioncino” la tranquillizza mio padre. Ma lei non da retta più a nessuno: è lì tutta tesa come in trans ad ascoltare qualcuno che le sta parlando. Ora sorride rasserenata. Quindi si rivolge a mio padre: “Stai tranquillo, va tutto bene… Fra un attimo arriva qualcuno che lo salva!” “Chi arriva?” “Un medico molto bravo. In moto!” “In moto?” “Sì, me lo ha detto mia madre. Era qui un attimo fa!” Mio padre l’accarezza sul viso. Di sicuro sua moglie sta andando via di testa per la disperazione. “Eccolo, sta arrivando!- la mamma salta in piedi e va di corsa alla finestra -È lui!” Nel piazzale della stazione s’è fermata una moto. Ne scendono il maresciallo di Finanza e un signore con una valigetta. A passo affrettato salgono le scale. Appare il maresciallo: “Una gran fortuna! È il dottore di Mugadino. Ero entrato in farmacia per chiedere se sapessero dove abitasse il medico condotto e incoccio proprio lui che sta uscendo in quell’istante. “Infatti lo aspettavamo - dice la mamma con molta naturalezza – ma da come me l’aveva descritto mia madre, dottore non me la immaginavo di certo così giovane. Si accomodi, ecco il bambino: ha quasi quaranta di febbre!” Milano 37 Il medico lo visita… lo osculta, lo palpa un po’ dappertutto. Quando lo tocca sulla testa, Fulvio manda un gemito e scuote il capo. Il dottore estrae dalla borsa un paio di forbici e inizia a tagliarli i capelli. Dopo poco vedo mio fratello Fulvio con la chierica, proprio come un fraticello! Il medico disinfetta con del liquido rosso, poi afferra il bisturi e incide, lui manda un urlo da locomotiva all’uscita di galleria. Dopo pochi minuti misura la febbre che fortunatamente è calata di botto. È fuori pericolo. “Un’infezione molto seria – commenta il medico – c’era il rischio di una setticemia diffusa e anche peggio. Tornerò domani per cambiare la medicazione. Gli ho lasciato della garza nella ferita che deve spurgare. Mi saluti sua madre… mi dispiace molto, ma non ricordo dove io l’abbia conosciuta.” “In nessun posto!” risponde la mamma. “Perché?” “È morta da tre mesi e prima da queste parti non c’era mai venuta.” Il medico si ammutolisce… in quel momento pensa di sicuro di avere a che fare con una pazza. Mia madre continua nelle sue spiegazioni: “Ecco, qui su questa sedia c’ero io, invece mia madre si era seduta lì, sul letto, vicino al bambino. Sorridendo mi ha detto: - Pinin (Pinin sono io) non ti preoccupare… piantala di piangere. Tra poco arriva un dottore che ha una gran testa, un professore chirurgo… arriva in moto e te lo tira fuori in quattro e quattr’otto il tuo ragazzino! -” Mio padre cerca di condir via la questione: “Poverina ha avuto un’allucinazione!” “È strano – dice il medico – quella in chirurgia è proprio la mia specializzazione. Infatti io non sono il medico condotto, mi trovavo a Mugadino per far visita a mio padre… è lui il medico condotto. Io sto facendo la specializzazione a Milano, al Fatebenefratelli e ho proprio Milano 38 l’intenzione di prendere la docenza. È curioso che sua moglie, se pure in stato di trans, abbia azzeccato questi particolari… molto strano, da studiare direi.” “Non come un fenomeno da baraccone, spero! - ride la mamma – In verità m’è successo altre volte: prima che morisse mia madre, veniva a darmi le avvisate una mia sorella morta da bambina e qualche volta anche un bisnonno che io non ho mai conosciuto.” “Lascia andare il dottore che s’è già scomodato a venire qui di corsa!” “Ha ragione mio marito, le stavo attaccando un bottone da paranoica, ma mi creda, io non sono affatto pazza.” “È appunto quello che dicono tutti i pazzi!” ha tagliato corto mio papà. I nonni Avevo due nonni. Il primo, il padre di mio padre, un vero gigante, di mestiere aveva sempre fatto il muratore, come suo padre e, prima di lui, suo nonno e il bisnonno. In paese lo chiamavano “Maìster”, cioè maestro, nel senso di capomastro. Anche mio padre, come già ho accennato, aveva cominciato come muratore. Solo dopo la guerra del ‘15-’18 s’era iscritto ad un istituto tecnico ed era approdato in Ferrovia. “Possiamo imboscarci dentro tutti i mestieri più strambi di ‘sto mondo – diceva mio padre con orgoglio - ma gira e rigira restiamo sempre una razza di muratori”… anzi, lui diceva “comacini” che non vuol dire muratori di Como, ma viene da faber cum macina, cioè operai che agiscono servendosi di macchine: trabattelli e centine mobili, gru, argani e così via. Aggiungeva anche che tutti noi della razza dei Fo l’avevamo ormai nel sangue questo mestiere. Nelle mani e nella memoria. Esiste una pratica che diventa rito e si trasmette fin dentro al cervello di generazione in generazione. Compiamo gesti, azioni che eseguiamo quasi per istinto e che nessuno Milano 39 ci ha mai insegnato: sono già impressi nel nostro codice genetico. A mia volta sono convinto di possedere il DNA del muratore. Quando ero ragazzino questa mia predisposizione l’avvertivo nel piacere che mi dava l’afferrare una pietra e cercare di modificarne la forma con colpi di scalpello e di mazza. Eguale emozione mi ha sempre procurato l’impastare terra creta. I numerosi trasferimenti a cui era costretto mio padre, ci hanno portati a Oleggio, presso Novara. Vicino alla casa dove abitavamo, c’era una fornace con relativa fabbrica di mattoni e di laterizi in genere. Io e mio fratello Fulvio ci trascorrevamo gran parte della giornata. Eravamo entrati nella manica del padrone che ci insegnava la tecnica dell’impasto e della cottura. Inoltre ci aveva messi al tornio, quello per plasmare i vasi. Era un gioco davvero magico: il tornio non serviva solo per foggiar vasi, otri e ciotole, ma, modificando sapientemente la tecnica della manipolazione, si riuscivano ad ottenere forme più complesse: una testa e perfino un busto con tanto di petto, ventre e glutei. Ma, con mio grande dolore anche da Oleggio ci è toccato traslocare. Anzi, me ne sono dovuto andare via da solo. Mia madre aspettava un altro figlio (che poi si è rivelato essere femmina) e non ce la faceva più a badare a me e a Fulvio. Perciò mi hanno spedito dall’altro mio nonno che stava in Lomellina, a Sartirana, giusto per dare il tempo a mia madre di partorire un po’ più tranquilla Il soprannome del nonno di Sartirana era Bristìn che vuol dire “seme di peperone”. Ho scoperto quasi subito la ragione di quel titolo: le battute e i commenti di mio nonno bruciavano davvero la pelle come sferzate di frusta. Milano 40 Ero proprio scocciato di dover rimanere chissà quanto tempo in quella terra piatta senza manco una collina… nugoli di insetti che ti pizzicavano e bordate di moscerini che ti toccava ingoiare perfino dal naso e un gran pantano dappertutto che chiamavano risaie. Ma quando sono arrivato alla cascina del nonno, il mio umore è cambiato all’istante. Prima di tutto, addossato al muro del casone c’era un grande portico dalle cui arcate pendevano a grappoli migliaia di frutti e ortaggi messi a seccare. Sembrava una maestosa decorazione da festa grande. In mezzo all’aia c’era un enorme cavallo da tiro, un bertocco. Non avevo mai visto un cavallo di quelle dimensioni: pareva un elefante. Vicino a lui, c’era una puledra agile e svelta che caracollava di qua e di là provocando un asino bianco che scalciava più per gioco che per risentimento. Poi, di là da un canale che attraversava il podere, si apriva un giardino con gli orti e una quantità incredibile di alberi da frutto. Nonno Bristìn mi ha preso per una mano e insieme abbiamo attraversato il canale su un ponte di legno a schiena d’asino. Siamo capitati subito sotto un gran albero… era un susino, ma la cosa incredibile è che ad ogni ramo erano appese prugne diverse di forma e colore: gialle, rosse e blu. Mio nonno mi spiegava che quello era un “innesto plurimo”. Era opera sua. Non avevo mai visto un portento simile! Sembrava come l’incantesimo di una favola. Appoggiata al tronco maggiore c’era una lunga scala; il nonno mi ci ha fatto montare e mi incitava: “Forza, vai su ad assaggiarle. Sentirai come sono diverse di sapore una dall’altra.” Ed era proprio così. Ho dato un morso ad una prugna scura, mi è schizzato sulla faccia un sugo rosso, profumatissimo; sono passato ad assaggiare le altre su diversi rami. La susina gialla era succosa e di un dolce Milano 41 delicato, quella rossa pareva immersa nel rosolio. Ce n’erano anche di grosse, gonfie, ma avevano un gusto amaro e aspro. Le più succulente erano quelle gialle a grappoli… piccole, con un nocciolo tenero che si poteva masticare. Ma sono rimasto senza fiato quando ho scoperto un gran ramo che dava “mugnaghe”… incredibile: un innesto di albicocche su un pruno! “Nonno, sei un mago! Quando lo racconterò ai miei compagni di gioco, nessuno mi crederà. Mi daranno del contaballe, un titolo che oltretutto mi hanno già appioppato in un sacco di occasioni!” Lungo i vialetti che portavano alle varie coltivazioni, si contavano un numero infinito di piccole piante da fiore. Ogni tanto spuntavano getti altissimi di iris viola e spadoni blu. Al quadrivio, nel centro del podere, troneggiava un gran bersò di rose. Sul fondo, molto lontano, passava la ferrovia: “Grazie nonno – ho detto – per quei binari. L’hai fatto per farmi sentire a casa, vero?” “Bravo! – Ha esclamato lui – Sei spiritoso! Meno male, sei proprio un Bristìn anche tu!” Il giorno dopo ho scoperto che nonno Bristìn faceva l’ortolano. Non solo coltivava legumi, verdura e frutta, ma le andava anche a vendere in paese e soprattutto nelle fattorie e nei cascinali della zona. Al mattino, che era ancora buio, la nonna mi è venuta a svegliare. Mi ha portato giù in cucina, uno stanzone con il camino grande e fondo come un armadio di sacrestia; intorno al tavolone c’erano cinque o sei ragazzi che stavano facendo colazione. Mi hanno salutato con frastuono: ognuno aveva voluto prendermi in braccio e naturalmente sbattermi in aria come un pupazzo. Erano i miei zii e avevano una forza terribile, la nonna li ha bloccati preoccupata: “Fermi lì che rischiate di fargli del male!” Milano 42 La nonna si chiamava Maria, ma tutti la chiamavano “la bella Maria”; aveva 55 anni e, pur avendo partorito 9 figli e faticato per tutta la vita nei campi e nelle filande, era ancora degna del soprannome che portava: dolce e gentile, si muoveva con una grazia inimmaginabile. Nonno Bristìn era fuori nell’aia, aiutato da Aronne, il figlio maggiore, stava attaccando il cavallo al carro delle verdure. Tutti insieme, zii e lavoranti, si sono avvicinati al carro per caricare le ultime ceste di frutta e mazzi di fiori appena colti. Il nonno mi ha afferrato e sollevato fino a piazzarmi sul dorso dell’enorme bertocco, quindi mi ha consegnato le redini da tenere fra le mani: “Guida tu!” mi ha ordinato. “Non son capace, nonno! Non l’ho mai fatto.” “È semplice: quando vuoi che il cavallo giri a destra, tu tiri questa corda… per farlo voltare a sinistra, tiri quest’altra… perché si fermi, dai uno strattone a tutte e due insieme.” “E per fare che torni a camminare?” “Devi mollare un po’ le redini e sbatterle. Con i tacchi dai due o tre botti sui suoi fianchi e soprattutto devi gridare: Vai! Iha, iha!” “Ci provo, ma tu nonno dove ti metti?” “Sul carro… a farmi una dormitina!” Ero terrorizzato: “Ma almeno dimmi che strada devo prendere!” Lo zio Aronne mi rincuorato: “Guarda, per evitare che tu ti perda, qui c’è la carta con segnata la strada… è quella in rosso. Tu la segui e fai fermare il cavallo dove ci sono questi segni gialli. Non puoi sbagliare!” “Come non posso sbagliare?!” Erano tutti matti in quella casa: accidenti, non ho nemmeno sette anni e mi fanno portare in giro per strade mai viste ‘sta bestia di cavallo col carro e mio nonno che Milano 43 ci dorme dentro! E devo pure leggere una carta geografica! “Scusa, zio Aronne: che segno è questo?” “È un ponte, un grande ponte sul Po.” Mi veniva da piangere, ma tutti in coro gli zii si son messi a cantare: “Il fantolino è un gran fantino! È un carrettiere che non può sbagliare. Il nonno dorme come un ghiro e lui, tranquillo, lo porta in giro!” Una manata sul sedere e via che il cavallo sbatte i suoi zoccoloni al suolo e parte lento e inarrestabile. Svolta a destra… dritto, su per il ponte… giù fino alla prima fattoria. Non è da crederci: ce l’ho fatta! Quel casolare era grande come un borgo: un largo spazio in mezzo, con tutt’intorno un’enorme struttura a quadriportico che ospitava dieci e più famiglie. Come se lo stessero aspettando, da ogni lato ecco che spuntano donne e bambini e vengono incontro al carro del Bristìn. Lui le saluta tutte per nome e per ognuna ha una battuta complimentosa o ironica, sempre con uno sfondo di bonario sfottò. Le provoca chiedendo dei mariti, dei morosi e subito inventa lazzi sui loro rapporti… il tutto gettando in aria e riprendendo al volo da autentico giocoliere legumi e verdure. Io allora non afferravo certo la tempesta di allusioni sessuali, spesso oscene, che il nonno scaraventava intorno con il far trombolare zucchini, enormi carote e cetrioli tempestati di bernoccoli… il tutto provocando grasse risate con esplosioni in falsetto e vere e proprie crisi di fourir. “Oh dio, basta Bristìn! - Supplicava un donnone tenendosi il ventre - Me la faccio addosso!” e così dicendo, afferrava le sottane sventolandole e scopriva sul selciato un lungo rigolo di pipì. Le donne sceglievano la merce… erano quasi tutte primizie che il nonno otteneva coltivandole dentro le serre. Milano 44 Pesava frutta e verdura con la “balanza” e ci aggiungeva sempre qualcosa in più: una manciata di carote, del rosmarino, una grande zucca o un fiore, inventando spesso dichiarazioni d’amore paradossali, ma sempre con qualche tocco poetico. Era chiaro che tutte quelle clienti venivano in così gran numero intorno al suo carro soprattutto per godersi lo spettacolo di quello spassoso ciarlatore. Ho sempre avuto il dubbio che spesso comprassero roba della quale non avevano ‘sto gran bisogno quasi per ripagare il sollazzo che il Bristìn riusciva a regalare loro. Il rito della vendita con farsa si ripeteva per tutto il “percorso mercatale”. Ogni tanto il nonno mi faceva scendere dal gran cavallo e mi caricava in alto, sul carro, in cima alle ceste di cocomeri e meloni. Le donne chiedevano chi fosse quel ragazzino e lui faceva tutta una pantomima da stupito come se mi scoprisse lassù in quell’attimo: “Non so chi sia e da dove sia spuntato ‘sto marmocchio! – esclamava – Qualche ora fa una donna me l’ha ammollato dicendo che è sangue del mio sangue! Il padre è uno dei miei cinque figli maschi, la giovinotta non si ricorda quale. “Ma dove? Come? Quando è successo?” le chiedo io. E la ragazza mi fa: “È capitato nei boschi sotto Po… stavo andando lungo l’argine a raccoglier funghi: pioppaioli e galletti. All’istante, oh tu guarda che fortuna!, scorgo un castolazzo ritto e sodo. Un porcinotto! Vado golosa per raccoglierlo, batto la fronte su un braccio di pioppo… un botto che mi fa piegare le ginocchia e cado seduta, infilzata dal fungo castolazzo. Mi becca una vampata dal basso fino al cervello. Dio che sbirola! Sono rimasta come imbesuita. Sento un gran gemito e davanti ai miei occhi, dall’erba fitta, spunta all’improvviso una faccia e poi le spalle col busto. Dietro alle mie natiche scopro due cosce con le gambe: “Santo cielo, un fungo nato da un uomo!” Il ragazzo dal fungo-infilza-femmine respira e geme ripetendo: “ Milano 45 E io: “Che ci fai qui tu, sotterrato in mezzo a ‘sta verzura?” - “Mi ero sguazzato nel fiume e mi ero coperto di foglie… stavo dormendo e quando tu di schianto ti sei infilzata nel mio frullo, mi sono sentito svenire…” - “E se mi hai messo incinta?” - “Vuol dire che lo chiameremo Porcino!” - “Io mi son disciuccata con rabbia da quel birolo, – racconta la ragazza – ho tirato fuori dalla mia sacca il falcetto e ho gridato: “Va bene! Io ti ho regalo un figlio, ma mi porto via il fungo!” e così con una ranzata secca l’ho mozzato via dal suo padrone.” “Eccolo qua! grida mio nonno Bristìn– Donne approfittate! - e mostra ‘sto porcino da sollazzo – Non lo vendo, ma ve lo posso affittare una settimana a testa. Piantatelo nel bosco e inciampateci sopra quando e come volete!” È inutile dire che le risate si sprecavano, le donne stavano al gioco e si portavan via il fungo fingendo di contenderselo a vicenda. Certo non mi rendevo conto allora, ma stavo assistendo a uno spettacolo davvero straordinario, un’ineguagliabile lezione di teatro all’improvviso. “Tutto dipende dai maestri che hai avuto.- diceva Luciano di Samosata, il grande satirico greco – Ma attento, spesso i maestri non sei tu a sceglierteli, sono loro che scelgono te!” Mio nonno Bristìn mi aveva scelto come suo allievo di clowneria tenendomi in groppa a quel gigantesco bertocco manco fossi lo gnomo Patapò! Ma il Bristìn non giocava solo alla buffoneria. All’improvviso scoprivi che il suo orto era un’Accademia della scienza agraria. A parte gli innesti d’alberi, aveva realizzato matrimoni incredibili fra razze diverse di pomodori, peperoni e cetrioli. “Vedi – mi spiegava mentre con un coltello affilato spalancava quegli ortaggi come fossero corpi d’animali da sezionare per mostrarmi la loro struttura - ci sono anche Milano 46 qui maschi, femmine e perfino i senza sesso. Anche loro son creature come noi. Sentono la paura e forse anche il dolore, provano simpatia e repulsione l’un l’altro come succede fra gli uomini e le donne. Ci sono frutti che s’innamorano regolari e altri che perdon la testa per creature di un’altra razza. Io, per quanto ce l’abbia messa tutta, non son riuscito ad accoppiare d’amore a una papaia con un caco!” Spesso veniva a trovarlo il Professor Trangipane. Insegnava alla facoltà di agraria… non ricordo se a Pavia o Voghera. Con lui c’erano sempre degli allievi che seguivano incantati le lezioni pratiche che mio nonno impartiva infarcendole di variazioni comiche. Un giorno, mentre teneva una sua dimostrazione dentro la serra, il cielo si è fatto all’istante tutto nero. Il Bristìn ha chiamato allora tutti i suoi figli che già avevano capito di cosa si dovessero occupare. Sono usciti dall’enorme deposito dei carri, tenendo distesa a cerchio una tramata, cioè una gigantesca rete a maglie strette. Mio nonno ha coinvolto in quell’operazione tutti i suoi braccianti e anche gli studenti. Da lunghi pali che fiancheggiavano la serra, pendevano funi che terminavano con ganci a molla; la rete è stata distesa lungo quella fila di pali. Aggrappati alle funi a gruppi di due o tre uomini, insieme, seguendo gli ordini di mio nonno, hanno incominaciato a tirare: la rete issata in alto veloce si stendeva a coprire la vetrata della grande serra proteggendola per intero come uno chapietau da circo. Con paletti e mazze rapidissimi, mio nonno e i suoi figli, bloccavano al suolo il fondo della tramata. Non era stato ancora sistemato del tutto quel marchingegno che un vento terribile si è levato fischiando tra le maglie della rete. Poi tuoni e lampi, e giù, una cascata di grandine con ciocchi di ghiaccio grossi come uova che rimbalzavano sulla rete come palle da tennis. Tutti si erano riparati sotto le arcate del portico, ma mio nonno mi aveva afferrato per Milano 47 una mano e mi aveva trascinato dentro la serra: “Vieni, ti faccio assistere a uno spettacolo che non dimenticherai mai, vivessi cent’anni!” Là, sotto quelle vetrate, era il finimondo. I ciocchi di grandine, battendo sulla tramata e rimbalzando generavano suoni indescrivibili, le lastre di vetro vibravano producendo ululati a volte terrificanti e all’istante dolcissimi. I lampi, riflettendosi sulla vetrata della serra, moltiplicavano i loro “stralusc” come nell’orrido alla fiera degli specchi. Quando, più tardi al liceo, sono incappato per la prima volta nell’avventura di Ulisse legato all’albero della sua nave, stordito e ammaliato da effetti speciali – di suoni e di luci - organizzati delle sirene, non ho potuto fare a meno di collegare quella situazione magica con lo spettacolo vissuto da ragazzino dall’interno di quel vivaio di cristallo… dove la tempesta eseguiva per noi un concerto da fine del mondo. “Sei un incosciente da legare – gridava mia nonna con quella sua voce sottile – ma ti rendi conto, cosa sarebbe successo a te e a quel povero fiulìn se il vento avesse strappato via la rete?! Tutta la vetrata vi sarebbe cascata addosso, frantumata in migliaia di pezzi!” Mio nonno, sempre forte e sicuro, davanti a quel donnino così fragile e delicato, aveva piegato la testa in giù e farfugliava: “Sì hai ragione, Maria. Sono stato un po’ incosciente… anzi del tutto. Ma per vivere certi momenti bisogna pure rischiare!” Ritorno a Oleggio Dopo un paio di mesi, zio Beniamino, l’ultimo dei fratelli di mia madre, s’incarica di riaccompagnarmi a casa. Alla partenza, il nonno mi fa salire in groppa a quel cavallo grande lo stallone di Gargantua: “Sarà lui ad accompagnarti alla stazione!” Milano 48 Afferro le briglie, ma mi guardo bene dal manovrarle: ormai da tempo ho scoperto che non serve tirate in su e in giù le redini, tanto quel cavallone decide da sé dove voltare giacché da anni percorre almeno tre volte alla settimana la stessa strada che porta alle fattorie e ai villaggi dove il nonno offre ciarlando i suoi ortaggi. Mi avevano bellamente gabbato!, ma non ho dato loro soddisfazione, continuavo imperterrito a mimare i gesti della guida. Per di più, il bertocco rispondeva solo alle varianti imposte a voce o strattonando le briglia da parte del padrone. Ecco perché in quell’occasione il nonno era montato con me in groppa: stavolta si andava alla stazione, un percorso inconsueto per il cavallo. Baci, abbracci, un gran magone e qualche lacrima… mani che salutano… il treno si muove. Sono rimasto col viso incollato ai vetri dello scompartimento per tutto il tempo in cui si attraversava la Lomellina. E pensavo al giorno in cui ero arrivato a Sartirana, a quanto fossi ostile, quasi disgustato alla vista di quel paesaggio trapuntato da miriadi di zanzare e moscerini. All’ostilità che provano verso quel territorio piatto, segnato da immensi filari di pioppi che delimitavano le risaie, solcate da ragnatele verticali e orizzontali di canali e di rogge a disegnare labirinti infiniti. Ora quelle complesse geometrie mi erano entrate nel cervello come espressione di una calma metafisica, surreale. Il capotreno si era meravigliato nel vedermi da solo in quel vagone: non era normale che un bambino, specie di quei tempi, viaggiasse senza un accompagnatore, ma io mi ci ero abituato. I treni, i binari, le stazioni mi erano del tutto naturali come il respirare, bere e fare pipì. Al mio arrivo, alla stazione, non ho fatto altro che guardarmi intorno: vicino alla locomotiva, col cappello rosso in testa c’era mio padre che mi è venuto incontro e Milano 49 mi ha abbracciato sollevandomi con un solo braccio fino al suo viso. Ha fischiato verso il macchinista, gli ha fatto cenno che poteva ripartire e quindi mi ha annunciato con un gran sorriso: “A casa c’è una sorpresa stupenda per te! Ci è nata una sorellina… Bianca! Vedrai come è carina, sembra un bambolotto di porcellana!” Ed era proprio un bambolotto quella mia sorella… Così delicata di lineamenti, con quegli occhi enormi e lustri! Me la lasciarono prendere in braccio per un po’, ma ho dovuto mollarla quasi subito perché scalciava come un grillo ed era scoppiata in un pianto disperato. Tutti le erano intorno: parenti, conoscenti, più tre sorelle maestre che abitavano sul pianerottolo. Per me e mio fratello Fulvio, nessuna attenzione. Ci sembrava che si accorgessero di noi solo quando ci inciampavano addosso. Perciò abbiamo deciso di starcene un po’ alla larga: giocavamo nel cortile e nella “guandra”, cioè nel parco con alberi al di là della piazza dove stavano montando il tendone di un circo. Impiccioni come eravamo, abbiamo subito cercato di far amicizia con gli inservienti che issavano lunghi pali e tendevano le funi dello chapiteau. Ci misero subito al lavoro: insieme ad un vecchio clown andavamo ad incollare i manifesti della compagnia sui muri e sui pali della luce lungo le strade principali. Dal momento poi che ci si offriva con tanto entusiasmo, ci hanno concesso il privilegio di partecipare alla cosiddetta “gran sfilata” insieme a due elefanti, una giraffa, quatto cavalli che trainavano un’elegante carrozza sulla quale clown e acrobati si esibivano suonando e battendo tamburi. Io e Fulvio stavamo fra quegli indemoniati con il viso dipinto di bianco e addosso costumi da pagliaccio, stra-eccitati mandavamo urla e battevamo gran colpi su due piccoli tamburi. Con quella nostra esibizione ci eravamo guadagnati il diritto di partecipare gratis alla rappresentazione serale. Avevamo chiesto il permesso alla Milano 50 mamma che, tutta presa, frastornata per la nuova bambina, non ha fatto la minima resistenza. Noi eravamo già lì, due ore prima dell’inizio davanti allo chapiteau. Uno degli inservienti adibito alle bestie feroci ci ha accompagnato alle gabbie. Ad una decina di metri prima del recinto degli animali, ci siamo sentiti letteralmente aggredire da una puzza da vomito: era il tanfo dei leoni. Che delusione! Un animale così maestoso, il simbolo di potenza e di coraggio, che emana un fetore tanto insopportabile! Come può un imperatore issare sul proprio labaro l’immagine di quello scagazzone orrendo?! “Per coerenza dovrebbe portarsi appresso anche la sua puzza…” ne parlavo con l’inserviente. “È questa condizione da reclusi… bestie catturate costrette in gabbia, che li fa puzzare a quel modo Normalmente la libertà non puzza. Quando stanno liberi nella savana non tanfano certo a quel modo, odorano giusto, quel poco che basta per farsi riconoscere dai loro simili e temere dalle prede.” Quel nostro primo impatto col circo è stato davvero sconvolgente: leoni che zompavano con ruggiti da strangolati le budella e da bloccarti il respiro, effetto questo, accentuato dall’inarrestabile puzza delle fiere. Esibizioni di elefanti che, a tratti, apparivano così leggeri nei loro movimenti, da sembrar pompati d’aria calda come mongolfiere. Ma lo spettacolo che ci ha tenuto con il fiato sospeso per tutto il tempo, s’è rilevato senz’altro quello degli acrobati. Due ragazze che partono dalla loro postazione lassù sul trapezio e volteggiano lasciando indietro scie evanescenti di luce. Dio, cos’è?! Una capovolta… una ragazza si rovescia a testa in giù, le mani rimangono senza presa e annaspano nel vuoto. Precipita… PAK! No, miracolo! Non so come, resta appesa per i piedi all’asta del trapezio. Milano 51 Ora oscillando, attraversa tutto l’arco dello chapiteau, inghiottita dal controluce dei riflettori… e di colpo riappare, sottile e flessibile, con un corpo da “rilibel”1, l’insetto dorato che volteggiando nell’aria si esibisce sulle cime delle canne nelle paludi. Per tutto il numero di acrobazia, sotto, nella pista, c’è un clown che manda grida acute ad ogni capriola nel vuoto; alla fine del numero, applaude e a sua volta esegue piroette dall’esito disastroso. Fra gli applausi, le due acrobate scendono scivolando lungo la fune che raggiunge il suolo. La ragazza più sottile s’arresta sospesa al centro della grande arcata e rimane in equilibrio su un cavo che attraversa orizzontalmente tutto lo spazio. Il clown, di sotto, le lancia una lunga pertica che la ragazza afferra come fosse l’esercizio più semplice al mondo. Quindi comincia a camminare sul cavo teso con leggerezza inaudita servendosi dell’asta per aumentare la propria stabilità. Il clown, come in una romanza, le dedica parole d’amore… lei lo ignora. Pur di avvicinarsi alla sua adorata libellula, il clown si procura una lunga scala che issa al centro della pista ritta in verticale, nell’aria… senza alcun appoggio. A ‘sto punto come spinto da una folle attrazione amorosa, il pagliaccio monta su per i gradini della scala e sembra dover precipitare al suolo da un momento all’altro. Ma ecco che, con scatti di reni e contorcimenti, il clown riesce a mantenerla in equilibrio e a montare su, fin all’ultimo gradino. Ma all’improvviso, la scala scivola da sotto i suoi piedi e va a pezzi precipitando; lui riesce ad afferrare il cavo sul quale cammina in equilibrio la ragazza facendolo vibrare e sballonzolare come una frusta. La leggiadra acrobata, sbilanciata, sta per perdere l’equilibrio… si riprende roteando, come una lancia, l’asta e va a colpire il clown 1 Libellula Milano 52 che proprio in quell’istante riesce a porsi in piedi sul cavo. La botta lo scaraventa fuori equilibrio… precipita! Ma ancora uno straordinario scatto di reni lo salva: testa in giù, riesce ad appendersi al cavo per i piedi. Una giravolta… e rieccolo di nuovo in equilibrio, dritto, davanti alla ragazza che per non precipitare a sua volta si trova costretta ad abbracciare il clown che la bacia. Insieme, entrambi, sempre avvinghiati l’uno all’altra si lasciano scivolare lungo il filo che cala dall’alto. Il pubblico applaude a spaccamani in un tripudio di banda. In seguito ho assistito a centinaia di esibizioni comiche di clown, ma mai, in nessuna occasione mi sono divertito e commosso a quel punto. La sera però tornando a casa ci aspettava una ramanzina coi fiocchi: il papà aveva saputo della nostra esibizione estemporanea sul carro dei clown e dei saltimbanchi. Era stato informato da un suo collega: “Ho visto i tuoi ragazzini ingaggiati come pagliacci che battevano sul tamburo e invitavano il pubblico a non mancare alla serata.” Il capostazione allora era considerato un’autorità del paese come il farmacista, il parroco eccetera. Nonostante tutta la sua spregiudicatezza e l’anticonformismo, Pa’ Fo non poteva però accettare di ingoiare critiche pelose, causa la folle passione dei suoi due ragazzi per il circo e i pagliacci. Per fortuna ad addolcire la paternale piuttosto vivace del padre capostazione, si era inserita la mamma che riusciva a smontare la severità della filippica ricordando al marito di averlo visto per la prima volta a teatro su un palcoscenico mentre, travestito con abiti femminili, recitava esibendo uno stupendo falsetto e due poppe regali nonché chiappette prosperose degne di una sciantosa napoletana. Milano 53 “Chi è senza patente da pagliaccio, getti la prima pietra, caro Pà Fo!” ha gridato con voce da soprano la mamma. A ‘sto punto, tutti, compreso il babbo, siamo scoppiati in una gran risata liberatoria. Porto Valtravaglia L’anno scolastico era appena iniziato… la mamma ci accompagna a scuola annunciando al Preside che, causa un ulteriore trasferimento ordinato al babbo dalle EFFE EFFE ESSE ESSE, i bambini avrebbero dovuto proseguire gli studi a Porto Valtravaglia. Dopo una settimana scaricavano il nostro bagaglio, mobili e suppellettili varie, alla nuova stazione a cui mio padre era stato destinato. Un paese davvero incredibile questo Porto Valtravaglia: piazzato in riva al lago segnato ai lati da due torrenti. Su un fianco, la rocca irta e maestosa come la piramide di Cheope. Una fornace di calce sotto la rocca. Il porto con le barche dei pescatori, un’antica filanda, due officine di meccanica e, per finire, la presenza di un’enorme vetreria con ben cinque forni. Gli abitanti di Porto Valtravaglia erano soprannominati: ‘Mezaràt’, mezzo topo, cioè pipistrelli. Questo per via che la maggior parte di loro viveva e lavorava di notte. Era giocoforza: i forni della vetreria dovevano rimanere in funzione 24 ore su 24 poiché, è risaputo, spegnere e accendere un forno impone uno stallo lavorativo che supera la settimana. Oltretutto, per sfruttare in pieno la fusione e quindi la soffiatura della malgama vetrosa, si è costretti a turni di lavoro continui. Lo stesso succedeva per i forni della calce, per i pescatori che, come è noto, hanno la ‘calata’ delle reti prima dell'alba e soprattutto per la piccola comunità quasi storica dei contrabbandieri che anche qui come a Pino agivano preferibilmente col buio. Milano 54 Così in quel paese dei "Mezaràt" le osterie, le trattorie, i bar e gli alberghi non chiudevano mai i battenti. Al bar Garibaldi sul porto, avevano staccato di netto le serrande, tanto non servivano. In quei locali c'era sempre un gran movimento: maestri soffiatori coi loro assistenti, quelli delle fonderie della calce a cavallo dei turni. Altri clienti fissi erano poi i pescatori, seguiti dai soliti contrabbandieri. Naturalmente come ornamento indispensabile a tanta popolazione notturna, s'accalcavano: giocatori d'azzardo, sfaccendati d'ogni misura, simpatici balordi e balordi grami, imbroglioni allegri e fantasiosi bidonisti, grevi venditori di orologi e gioielleria più o meno fasulla… quindi, qua e là, collocate in bell’ordine, prostitute di vario livello, leggiadria e prezzo. Ma, fra tutta ‘sta caterva di fantasisti sbilenchi, i personaggi che raccoglievano maggior attenzione e rispetto, erano senz’altro i contastorie e i frottolanti. Quella di fabulatore però non era una professione a sé stante, infatti i ciarlatori provenivano da quasi tutte le categorie di mestiere della Valtravaglia. Senz’altro, e vedremo appresso il perché, il maggior numero di essi aveva però origine fra i soffiatori di vetro. I fabulatori erano la gloria e vanto di questo mio nuovo paese. Li ritrovavi nelle osterie, in piazza, sul sagrato della chiesa, sull'imbarcadero, sulle banchine del porto. Spesso raccontavano di fatti accaduti secoli e secoli fa… ma era una ribalteria, cioè si prendevano a prestito storie mitiche per trattare della realtà quotidiana e degli avvenimenti della cronaca più recente giocando di satira e di grottesco. Gli stranieri - I foresti È curioso che, ancor oggi, a sessant'anni di distanza, sfogliando la guida telefonica, nelle pagine che interessano Milano 55 la Valtravaglia, ci ritrovi una quantità incredibile di cognomi stranieri (i "foresti"). Eccovene qualcuno a caso: Guttierez, Vankaus, Schumhaker, Batieux, Besinski. Sono i nipoti dei maestri soffiatori che già sul finire dell'Ottocento arrivavano alla vetreria di Porto da tutta l'Europa, ognuno con la propria arte diversa dell'impastare, del fondere e del soffiare. Quei "vetradùr" si presentavano a gruppi di famiglie con livelli, valori e compiti ben diversificati. In seno ad ogni gruppo etnico, è ovvio, ci si esprimeva nella lingua d’origine, ma sul lavoro, in vetreria, nelle osterie e per strada la lingua in uso non era l’italiano, ma il lombardo. Un idioma che con tutti quegli inserti lessicali provenienti dai vari linguaggi s’era modificato e arricchito d’una caterva di nuove espressioni. Quello scombinato paese era ad un tratto diventato un crogiolo fantastico di culture, tradizioni, lingue, pregiudizi, mentalità le più strampalate e diverse, spesso inconciliabili. Eppure, pare incredibile, fra quella gente non affioravano mai moti di razzismo. Certo, ci si sfotteva l'un l'altro, anche con sarcasmo pesante: per la rispettiva pronuncia, per l'intercalare, per il gestire o il modulare dei suoni gutturali o arrotati, ma sempre senza aggressione ne cattiveria. Era davvero spassoso ascoltare tedeschi, spagnoli, francesi e polacchi che si arrabattavano in quel dialetto già di per sé abbastanza astruso e intorcinato. A Porto Valtravaglia stava nascendo un nuovo incredibile idioma: lucertola diventava ritzòpora (dal greco dell'Ellesponto); pastore diventava bergeròt; l’espressione germanica Trampmen indicava l'imbranato; stappìch il truffatore; sfulk l'impostore; tachinósa la battona e così via... Credo non esistesse al mondo lingua tanto ricca e imprevedibilmente varia. Eccovi un esempio fra i più logici: "Sbirolà compàgn d'un sìful scrìsia-pel de la ratéra" cioè: “Strampalato, contorto, Milano 56 come il fischio che accappona la pelle del serpe mangiaratti.” In quel paese mi sono reso conto che il passo bibblico della tragica confusione scoppiata sulla torre di Babele era senz’altro una subdola invenzione di un mitico bugiardo. Certo a quel tempo, ragazzino com’ero, non mi rendevo conto che in quella strana fucina di lingue e dialetto io stessi frequentando una straordinaria ed unica università della comunicazione teatrale, che proponeva una ricchezza incredibile di onomatopeica impostando nel mio cervello l’idea di poter comporre all’infinito moduli espressivi di impagabile libertà ed effetto. Ma torniamo ai fabulatori della Valtravaglia che con il loro linguaggio e le loro storie hanno inciso con segno indelebile sulle mie future scelte e sul modo di giudicare fatti e personaggi del fantastico e del reale. Determinanti sono state anche le palestre dove si svolgevano le rappresentazioni, inconsueti palcoscenici che variavano col mestiere del fabulatore e con l'utilità della “conta”. I pescatori eleggevano a loro spazio il portico della darsena. Tutti noi ragazzini eravamo il loro pubblico più appassionato. Il Fidanza, capo barca e i suoi aiuti, ci sistemavano tutti in fila, a semicerchio, a sorreggere e dipanare le reti da rammendare. Non ce lo imponevano, per carità: era un invito che noi raccoglievamo sempre di buon grado, anzi con entusiastica passione. Loro ci ripagavano raccontando favole. Di quei racconti in particolare mi affascinavano i paradossi e soprattutto la stupenda lingua col suo dialetto infarcito di termini strambi che mi provocavano immagini inconsuete, ma che faticavo ad assorbire nel mio vocabolario. La mia famiglia era lombarda da generazioni, ma quel continuo deambulare di qua e di là in diversi paesi del confine Milano 57 svizzero giù fino alla Liguria aveva fortemente imbastardito il nostro linguaggio. Spesso non mi riusciva di cogliere precisamente il gioco di parole così me lo facevo ripetere… e mi ritrovavo a ridere fuori tempo, zittito dai miei compagni di ascolto. Senz’altro il mio primo maestro di “conta” è stato nonno Bristìn, ma in quel momento io mi ritrovavo a frequentare addirittura una vera e propria Accademia dei Giullari dove apprendevo tecniche e forme le più diverse del ritmare vocalità e cadenze, e soprattutto mi stavo appropriando più che di un dialetto, di una lingua ricca e rigorosa quasi come il ladino. Me ne sono reso conto quando al liceo mi sono trovato a studiare la nostra poesia arcaica, specie la cosiddetta veneto-provenzale di Bonvesin de la Riva, Bescapé, Mattazzone da Calignano, eccetera. Nel leggere questi poeti mi sorprendeva lo scoprire che certe espressioni per altri incomprensibili erano per me del tutto familiari. Ecco, io ho così imparato la struttura del dialetto originale, che è cosa diversa dal parlare semplicemente il dialetto; soprattutto ho imparato la struttura di una lingua primordiale, integra: struttura e lingua, che oggi fanno perno nei miei monologhi teatrali. Lo stile di quei fabulatori si realizzava nell'improvvisazione; era evidente come abbiamo già accennato, che innanzitutto si preoccupavano di adattare i vari passaggi ad una realtà contingente. Mi è capitato di ascoltare la stessa storia proposta in tre o quattro versioni diverse. L'abilità di chi raccontava consisteva proprio nell'adattarla ogni volta a tutte le varianti di cronaca, compresi i fatti locali e i pettegolezzi del lavatoio. Ogni incidente o imprevisto esterno veniva immediatamente conglobato nella rappresentazione: un botto causato dai pescatori di frodo, un colpo di fucile da caccia, un suono di campane… nulla veniva tralasciato o ignorato. Milano 58 E soprattutto i fabulatori non perdevano mai di vista l'umore, le emozioni di chi stava ascoltando. Se c'era il tipo che rideva sguaiato o che reagiva storto alle punzecchiature ironiche prendendosela a male, ecco che quello diventava il capro espiatorio del tormentone; lo stesso trattamento veniva riservato allo spettatore lento di riflessi che non afferrava subito il gioco comico. Tutto serviva a muovere, rendere vivace, coinvolgere ognuno nella narrazione. In poche parole, riuscivano a far diventare cronaca anche il fantastico e viceversa. Certo quei fabulatori non concepivano la narrazione come teatro e nemmeno io a quel tempo abbinavo i due generi; soprattutto non ero ancora in grado di recepire la grande differenza fra il raccontare e il rappresentare, ed ero assolutamente convinto che fare teatro implicasse esclusivamente recitazione, presenza di più attori, scenografie, effetti di luce e di suoni… insomma una magia organizzata. Solo più tardi quando avevo già acquisito una notevole esperienza sul palcoscenico, ho capito che quello del “fabulare” è stata la chiave di volta che mi ha permesso di diventare un commediante epico e popolare. Ma questo è un argomento che merita uno svolgimento molto più ampio e dettagliato e di cui avremo forse occasione di trattare altrove. Però ero ben conscio che quella dei fabulatori del lago fosse una trasposizione fantastica del reale, presentata da ognuno di loro con tecniche e chiavi narrative notevolmente diversificate. Il Galli (pescatore di frodo) era uno che, per esempio, presentava storie tragiche con l’aria sprovveduta di chi analizza i particolari di un disastro senza rendersi conto che sta narrando del disastro stesso. Poi c'era un altro, invece, che recitava sommesso, quasi sottogamba, mentre pescava. Si chiamava Dighelnò (non dirglielo). Milano 59 Si sistemava lì sul molo con le sue canne a pescare e noi ragazzi tutt'intorno lo si provocava perché si decidesse a raccontarci una storia. Se non lo si sollecitava, Dighelnò rimaneva lì assente, osservando i sugheri delle lenze che galleggiavano sull’acqua, senza proferir parola. Poi all’istante, dopo che lo si era abbastanza tormentato col “Dai racconta, dai racconta!”, ecco che spillucava una frase completamente sottotono, tre o quattro parole senza senso: “Quando l’invàrna2 tira, alle piòtte3 prude il culo!” Noi ragazzi lo si guardava allocchiti e lui, sempre con lo sguardo rivolto al lago, puntava la canna verso l’isola dei Malpaga e aggiungeva: “Dategli un occhio, fate mente a quella riga blu scuro davanti al castello di Cannobbio. Quella è una corrente che porta via anche le motovedette della Finanza!” E così, senza parere, ecco che introduceva la storia di una pesca straordinaria della quale era stato l’unico protagonista e testimone. “Avete mai visto voi tirar su una lenza con appese centinaia di alborelle, cavedani e lavarelli?” “No, mai!” si rispondeva noi in coro. “Ebbene, io l’ho goduto ‘sto spettacolo! È successo all’alba qui sull’imbarcadero. Ero solo con le mie canne e le lenze. Per tutta la notte avevo lavorato a metterle insieme… erano dieci canne e ce n’erano quattro o cinque di sette braccia e più. Alla base ne avevo unite le tre più grosse, imbragate a mazzo poi ne ho infilate in cima a ‘sto primo masso amtre due e così di seguito fino a ritrovarmi con un “pilonàzzo” di almeno trenta metri. Il difficile era lanciare la lenza con ‘sto cannaccione! Una lenza lunga almeno un paio di chilometri con duemila ami e più. Ma come lanciare una simile lenza? Mi era venuta un’idea: ho disteso tutto il filo di refe lungo la strada che dalla pieve quasi precipita dritta al lago. Ho tirato fuori il camion di mio fratello e gli ho 2 3 Vento che annerisce il lago Piccolo pesce piatto e di poco valore. Milano 60 ficcato ben in centro la grande canna bloccandola con una decina di pali messi a piramide. Appena sistemato l’intraken sono salito col camion lassù, in cima alla strada che scende e… via!, a tutta birra verso la riva, trascinandomi appresso la lenza che si sollevava come la fune di un aquilone. Il camion ha raggiunto l’imbarcadero: frenata da spacca gomme e VUOMM! La gran canna fa la frustata e scaraventa tutta la lenza ben distesa verso il centro del lago, distribuendo con gran precisione gli ami innescati e i sugheri a galleggiare. Eccola lì, io l’avevo previsto: arriva la marenca da terra che spinge galleggianti ed esca al largo. Le onde strette tingono l’acqua di blu. Ci siamo - grido io - fra poco abboccheranno a rossci. Infatti ecco i galleggianti che van giù affondandosi come anatre dietro i pesci. È il momento: salgo sul camion e mi preparo a ritirare la lenza. Via! Piano, piano per non spezzare il refe di pescata. Monto su per la strada, il pilonàzzo si curva da far spavento, ma tiene. Tira, tira… pesci pesci! Neanche uno. Eppure qualcosa ho beccato! Chi può tirare con tanta forza? Eccolo, spunta… spuntano… suonano. Cristo, ho pescato le campane del campanile di Cannobbio… dall’altra parte del lago!” Ma il vero maestro dei “fabulazzanti” era senz’altro il Ravanèl. Il suo soprannome gli veniva dall’aver in capo una specie di mazzotto di capelli di un rosso acceso che lo facevano assomigliare proprio ad un rapanello. Le storie che raccontava erano quasi sempre la teatralizzazione di un fatto di cronaca veramente avvenuto, magari anche recente e che quindi stava ancora nella memoria di tutti. Lui partiva, per esempio, con la storia di uno che era andato fuori di matto; lo avevano preso al mattino, tirandolo giù dal campanile dove si era appollaiato per orinare di sotto, con bello slancio sui fedeli che sfilavano nella processione del santo. Lo avevano caricato sulla Milano 61 macchina dei matti con l’interno tutto imbottito, quella che il comune metteva a disposizione per il trasporto d'emergenza al neurodeliri di Varese. Il mestiere del soffiatore, è risaputo, causa immancabilmente la silicosi che si manifesta spesso con crisi di follia. Ecco perché la Valtravaglia poteva vantare la maggior produzione di pazzi di tutto il lago. A questo proposito ricordo la storia di un tale che s'era messo in testa di poter volare, di un altro che andava in giro nudo con l'abito dipinto sulla pelle, la storia di un altro ancora che si era gettato giù dal ponte o che aveva bruciato la casa, dopo aver impiccato tutte le galline. In verità il tema della pazzia era un pretesto per raccontare anche diquelli che stavano intorno al matto: il prete che voleva benedirlo o esorcizzarlo, il medico che diceva che era una questione di depressione sessuale e via via… fino al sindaco, la moglie, l'amante di lei, il maresciallo dei carabinieri. La figura del diverso, dell'imprevedibile, dell'illogico mi ha sempre affascinato; ma ciò che maggiormente mi coinvolgeva era il riuscire ad impossessarmi della tecnica del raccontare. Ecco, c'era ad esempio un altro narratore che giocava spesso e volentieri al biliardo. Questo biliardista si chiamava Bratèl, era un tipo alto magro, con due vistose fasce elastiche rosse che gli reggevano le braghe. Lo chiamavano anche Scusà Bretèla per il fatto che sempre prima di ogni partita indossava un grembiule per non sgualcirsi i pantaloni con lo sfregare sulla cornice del biliardo. Il biliardo era il suo spazio, la sua macchina scenica. Ad un certo punto, sul pretesto di una frase lanciata da un avversario, interrompeva per un attimo il gioco... e introduceva un fatto, una storia. Girava attorno al biliardo, osservava le biglie e raccontava nello stesso tempo, riprendendo la pantomima che prepara la steccata. Milano 62 La partita non esisteva più, esisteva la sua storia. Giocava imperterrito scrutando il tappeto verde e non lasciava mai la stecca, che mentre raccontava diventava la spada, la lancia, il bastone, era la donna, il violino: diventava tutto. Anche mio nonno Bristìn era un fabulatore eccezionale… di lui, del suo grande carro pieno di ortaggi e frutta vi ho già parlato. Simile al nonno era un altro venditore ambulante del mio paese, che si chiamava Caldera-Magnàn, un nome da zingaro, e che realizzava proprio il mestiere classico degli zingari: vendeva pentole e padelle, le zincava, le rattoppava, le ribatteva le argentava. Viaggiava su un grosso carro, enorme, con dentro appoggiato tutto, dalla scopa, all'ammoniaca, al Sidol, centinaia di caldaie, casseruole, pignatte e bacili di zinco e di rame. Quando arrivava, pareva un monumento inventato da Savinio... una costruzione gigantesca, a due piani: il bottino derivato dalla distruzione di un esercito medievale. Lui ci stava sopra e, intanto che offriva la merce, discuteva con i clienti e inventava storie, proverbi, massime e tirava fuori aneddoti straordinari. Ma non diceva mai “comprate”. Lui sul problema del comprare non metteva parola, mostrava una pentola, ne afferrava un’altra, ci batteva sopra con le sue dita di quercia facendone scaturire suoni da concerto giapponese: DIN, TON… TING TONG e accompagnandosi con quel ritmo inventava filastrocche e solfeggiava: “Quèst l’è compàgn al cü del cugidùr. Se t’el fréghi, ol devègn tüt d’or!” E poi si buttava a descrivere l’antagonista del giovane chierico, marito di una dolcissima ragazza per la quale il chierico perde la testa fino a spogliasi della tonaca, scaraventarla fra le ortiche a rotolarsi con l’innamorata. Cambiava ritmo e aggrediva il malfidente che non dava credito al valore della sua merce: “Io te l'avevo pur detto Milano 63 che dovevi prenderti ‘sta pignatta: una padella tutta schiocca che ti sbolognavo a metà prezzo… guarda che ramata lustra e bella, ma tu, da mal fidente stitico, l’hai schifata, hai detto picche e adesso ce l’hai ficcata in fra le chiappe! Giusto scorno “a chi tira in dré”4 come è capitato a quelli della rocca di Caldé!” E di qui, senza parere, introduceva una storia, naturalmente nel dialetto infarcito di espressioni foreste della Valatravaglia: “A gh’era un vèjo mult tiémpo passào chi-loga in lu Porto, ol me cuntàva me’ pèr… l’es veretàd, no’ sluz fàbule sbèrgen…” Fermi! Vedo già tutti voi che leggete con gli occhi in strambola. Di certo, se continuassi con questa parlata ancora per un po’, prendereste il libro a mozzicate. Quindi, per carità, cambiamo subito registro e linguaggio. Allora, da capo, ecco la “conta” tradotta del Caldera-Magnan: “Viveva molto tempo fa un vecchio qui a Porto… è la verità, non vi rifilo frottole da ciarlatano. ‘Sto vecchio aveva avvertito i paesani abitanti della Rocca di Caldé, che sta sopra la cava del porto, del fatto che si era aperta una crepa sul monte e il paese stava scivolando giù verso il fondo del dirupo. "Eh!... - gli gridavano anche i contadini e i pescatori di fondovalle - attenti, state franando... sloggiate di lassù!" “Ma va', ma chi ve l'ha detto? State tranquilli che qui il fondo non si muove!” E tutti i roccaioli ridevano beati e incoscienti, anzi sfottevano: "Furbi loro, ci vogliono far sloggiare di qui per prendersi i nostri terreni e le nostre case." E così continuavano a potare le viti, seminare i campi, sposarsi, fare all'amore. Sentivano slittare la roccia sotto le fondamenta delle case... ma non se ne curavano più di tanto: "Normali mosse d'assestamento..." si rassicuravano. 4 Malfidenti Milano 64 La grande scheggia di roccia continuava a scivolare, affondando nel lago: "Attenti, avete i piedi nell'acqua!" gridavano dalla costa, "Macché, è l'acqua di scolo delle fontane!" e così, piano, piano, ma inesorabilmente, il paese intero slizza, annegando nel lago. Glù... Glù... Pluf... affondano case, uomini, donne, due cavalli, tre asini... Iaaa... Glù... Il prete continua imperterrito a confessare una suora... "Te absolvi... animus... santi... Gluù... Amen... Glù!" Scompare la torre, va sotto il campanile con le campane: Don... Din... Dop... Plok! "Ancora oggi - racconta il Caldera - se ci si affaccia dallo spuntone di roccia rimasto a picco in quel punto di lago, se in quell'istante scoppia un temporale e i lampi riescono ad illuminare il fondo dell'acqua… incredibile!, là di sotto si scorge il paese affondato con le case e le strade ancora intatte e, come in un presepe vivente si scoprono loro, gli abitanti della vecchia Rocca, che si muovono ancora... e imperterriti ripetono: "Non è successo niente." I pesci passano davanti ai loro occhi di qua e di là, fin nelle orecchie: "Niente paura!... è solo un tipo di pesce che ha imparato a nuotare nell'aria." "Certo oggi c'è davvero più umido di ieri...” commentano e imperterriti tirano avanti senza ombra di dubbio del disastro. Queste chiavi, questi sviluppi di storie oggi mi capita di portarli spesso e volentieri in scena, non con gli stessi temi, ma con analoghe situazioni, e soprattutto con un analogo clima. Ad esempio, nella storia (Fablieaux, ispirato ai testi ritrovati da Rossana Brusegan) del “La Parpaia Topola”, così come nell'apologo che ho tratto da Luciano di Samosata, “Lucio e l'asino”: l'avventura del poeta, che va a ricercare l'impossibile e arriva in Tessaglia in un borgo abitato da maghi e streghe. Tutte le volte che racconto questa favola metafisica, iperclassica, qual'è l'immagine Milano 65 che io proietto? Non cerco di sicuro di immaginarmi o far immaginare l'Ellesponto, Samo o la Tessaglia, io sono ben collocato nel mio paese, in quelle sue strade, in quei fiumi lombardi, nei boschi che mi sono familiari: montagne, cielo, acqua sono sempre quelle dove ho ascoltato la mia prima storia. Forse non esce abbastanza palese, però il mio universo di immagini è lì. Io, appunto, quando racconto delle montagne del Fabulazzo provenzale, del Johan Petro, dell'Icaro che insulta il padre Dedalo, persino quando insceno la tigre cinese e il Tibet con i suoi fiumi e le sue immense caverne, della Medea urlante e del volo sul carro magico, non mi sposto dal lago, dalle valli e dai fiumi dove sono nato. Ma spesso mi ritrovo a staccarmi dalla memoria delle “conte” per sguazzare dentro i testi dei codici medievali e dei poeti, testimoni delle nostre origini più antiche ed ogni volta scopro, non senza una compiaciuta soddisfazione, che là in quegli scritti stanno le radici di ogni fabulazzo che ho appreso dai miei contastorie. Quelle mie canzonate tramandate sempre e solo oralmente per generazioni per poterle riproporre ad un livello dignitoso abbisognano spesso di ripuliture a liberarle da graffiate, ingombri e scorie, ma devo riconoscere che molte giullarate della Valtravaglia sono già serrate, essenziali, ridotte all'osso e cariche di una forza surreale incredibilmente autonoma. Un esempio lampante è quello della caccia alla lumaca veloce. Si tratta di un fabulazzo che racconta di una caccia mitica e cruenta che da anni si ripete nella valle. L’eroe di tanta epopea sta già pronto a cavallo della sua moto addobbato come un guerriero medievale. Egli saluta e avverte gli amici che quella sarà l’ultima tenzone. Uno dei due dovrà soccombere: o il cacciatore o la preda. Ma chi sarà mai ‘sta terrificante preda? Una lumaca! Milano 66 Attenti, non si tratta di uno squarocco mollaccione qualsiasi. Ci troviamo di fronte a una lumaca epica, gigantesca, delle dimensioni di un ippopotamo. Una bestia orrenda, un refuso del mesozoico che scorrazza bellamente per tutte le tre valli dai calanchi di Muceno alla forestaccia del Musadino, fino ai picchi della Sgossola. Il tempo in cui si da inizio alla battuta è quello della fioritura dei castagni e per tutta la valle si spantegano odori che esaltano il cacciatore e lo spingono alla lotta. Così il nostro eroe parte con la moto, il fucile e una fiocina per riuscire a beccare questa lumaca che gli sfugge da anni oltre che per la straordinaria velocità e l'abilità nello zigzagare, per lo sbrodolame bavoso che l’animale spande dietro di se nella fuga. “Maledetto! Proprio in curva versi il tuo viscido sozzume!” Frena, sbanda, slitta, rotola il guerriero e si schianta contro l’immancabile faggio secolare. Ma questa volta il cacciatore ecco che riesce a indurre la lumaca a spingere la propria velocità oltre misura, a farla sbandare a sua volta e ruzzolare nel burrone. Allora va giù, la squarta che respira ancora, la fa a pezzi, carica il gran bottino sulla moto che straborda di lumacame e torna a casa. Tutto il paese mangia, o meglio s’abbuffa per una settimana: quarti di lumaca da star male! Oggi mi rendo conto che potrebbe essere una storia di Rabelais. Milano 67 STAMPATO FINO A QUI. SILVIA Ero ancora ragazzo, non avevo più di quattordici anni e nella Valtravaglia ero già considerato un notevole e promettente fabulatore, ma non pensavo assolutamente che un giorno sarei montato su un palcoscenico. Allora ripetevo chiavi e situazioni che provenivano addirittura dal Medioevo, ma io non lo sapevo. Ancora non immaginavo che il modo di introdurre, di iniziare le storie, la tecnica dell'approccio, venissero da così lontano. Già vi dicevo che il venditore ambulante, il pescatore, il giocatore di biliardo, mio nonno Bristìn stesso, non iniziavano mai d'acchito una storia, ma trovavano pretesti esterni e si facevano "tirar dentro" a fabulare fingendo succedesse loro malgrado. E questa è stata la prima grande lezione, il fondamento che timbra il narratore: l'inizio della "conta" deve avvenire come per caso. È lo stesso meccanismo che spesso ancor oggi impiego nell'abbrivio degli spettacoli, cioè quell'inventare situazioni, pretesti per cominciare a conversare con il pubblico a luci accese in sala. Sono giochi di coinvolgimento addirittura elementari, tipo: “ Lei arriva in ritardo. Eravamo in pensiero - Sedetevi quella signora là... sì, lei... l'ho vista che sta fumando di Milano 68 nascosto... sì, si china fin sotto l'ascella ... e spipazza... roba da scottarsi tutta!” Invento altri pretesti, parlando a voce portata verso le quinte, con macchinisti, elettricisti, col microfonista: “Abbassate quel riflettore! - Guarda che c'è il ritorno dell'eco”... poi al pubblico: “Non sembra anche a voi che ci sia una specie di alone nella mia voce... un rimbombo?” Tutto serve per rompere la quarta parete, per annullare il cliché del "sono uno spettatore, vediamo cosa mi fai ascoltare." Parto anche dal commentare il fatto di cronaca di cui tutti sono al corrente. Inizio spesso col dire: “Avete letto il giornale oggi? La prima notizia...”. L'intento è quello di spiazzare il pubblico. Il pubblico che è arrivato fin lì per vedere, ascoltare una storia, magari tratta dagli antichi narratori Greci, e invece io lo prendo in contropiede e gli propino un fatto recente, attuale: “La televisione proprio adesso ha detto che l'acqua del mare Adriatico si può anche bere... la mucillagine non è velenosa... i giapponesi hanno sperimentato che è nutriente, la danno da mangiare ai tacchini che ne sono golosissimi... Un ricercatore tedesco ha scoperto che è un medicamento strepitoso per le malattie della pelle... Milano 69 meglio dei fanghi. A Riccione è sorta una casa di cura con piscine ripiene di mucillagine... i tedeschi ne vanno pazzi!” Poi pian piano rientro nel tema dello spettacolo vero e proprio. In un paese come quello dei Mezaràt con una vita notturna tanto intensa, non potevano mancare le visite dei teatranti. Ogni settimana arrivava una diversa compagnia di giro. C'era un teatro in Porto Valtravaglia e altri tre nei borghi limitrofi (Caldé, Muceno, Musadino), d'estate arrivavano anche saltimbanchi le marionette. Io ne ero rimasto letteralmente affascinato, così, aiutato dai miei fratelli, abbiamo fabbricato burattini in quantità. Ma lo spasso maggiore per noi ragazzi rimanevano sempre i fabulatori della nostra valle. A mia volta mi esibivo ogni tanto con i miei compagni di scuola. Ripetevo le storie del Magnan, del Bretèla e del Dighelnò, infilandoci spesso mie variazioni o adattamenti. Quasi senza rendermene conto stavo acquistando un certo mestiere e un piccolo pubblico di affezionati ascoltatori. Avere gente che ti ascolta e partecipa quando si recita è la prima ed essenziale condizione. E se a uno non piace, se non gode dell'effervescenza che gli spettatori determinano, Milano 70 quel coinvolgersi l'un l'altro che nasce col propagarsi della risata, è inutile che pensi a fare il commediante. La gente ti suggerisce i ritmi, i tempi, le assonanze; fa capire che devi tagliare una battuta o che è inutile insistere su una situazione. Il pubblico è sempre stato la mia cartina di tornasole, in ogni momento. Se la sai ascoltare, la platea ti sa dirigere come un grande maestro. Guai però a lasciarti blandire, travolgere: il pubblico può diventare anche il tuo assassino. Io non ho frequentato né scuola né accademie, salvo quella di pittura... ma ho avuto molti maestri... alcuni, loro malgrado. Credo senz'altro che il problema non sia tanto di farsi insegnare quanto di "rubare “il mestiere al maestro. È "convivendo" con il maestro che l'allievo prende, non "apprende", ma "ruba" il mestiere. Come si insegna l'arte dell'attore? Come in ogni mestiere, il maetro svela dei segreti e se riesci a farli tuoi, bene… altrimenti non c'è niente da fare. Certo io ho rubato a man bassa, a cominciare dai fabulatori del lago. Ma loro mi davano lezioni con gran leggerezza e senza parere. I contafavole di Mezaràt mi Milano 71 hanno sempre insegnato ad essere paziente e aperto con i principianti. E così io oggi insegno ai miei allievi come un prestigiatore che mostra ogni volta i suoi trucchi, compreso la differenza fra il gestire e il gesticolare, cioè l'imparare a muoversi mai a caso... magari con l'aria di autodirigersi, eseguendo movimenti essenziali che coinvolgano tutto il corpo a partire dai piedi. In molti mi riconoscono agilità e prontezza di riflessi nel gestire il mio corpo sulla scena. Queste qualità le ho acquisite grazie ai numerosi scontri a cazzotti che si svolgevano sul lungo lago fra i ragazzi del mio paese e nei quali ero spesso trascinato. I match a pugni, le spintonate, i calci e le ginocchiate, erano all'ordine del giorno in Valtravaglia. Io provenivo da un paese tranquillo dove le esibizioni di forza e di aggressività erano molto rare. Arrivando a Porto mi sono trovato subito travolto da quei rissosi screanzati. Essendo timido e completamente privo di grinta aggressiva, mi ritrovavo immancabilmente a terra e ammaccato. “Basta col farsi prendere a pugni come un materasso!” Milano 72 Scazzottato da tutti, specie dal Manassa e dal Mangina, mi ritrovavo pure sfottuto e rimbrottato da mio padre: “Impara a difenderti da solo! Pretendi che venga a proteggerti come una femminuccia moccolante dal naso? Datti da fare e cerca di imparare a scansare, a bloccare i botti e a menare a tua volta!” “E chi m'insegna ?” “A Luino c'è una scuola di box!” Mi presento. “Cosa fai qui?” - “Vorrei allenarmi!”. Quando mi tolgo il cappotto e mi presento così smilzo e dinoccolato scoppia una gran risata. Per poco il maestro non se la fa addosso: “Venite a vedere il nuovo prossimo campione dei picchiatori! Prova a presentarti al corso di scherma... lì forse ti accettano, può servirti a farti un po' più agile... e a imparare almeno a slittar via dai cazzotti” Ma aihmé il corso di fioretto e di spada sono completi. Mi accettano a sciabola. Credo, solo per far numero. Era un corso che non tirava: solo quattro iscritti. Il maestro di sciabola di origine siciliana non voleva saperne di farci allenare con "i ferri" per i primi mesi: solo a mani nude. “Si duella col taglio della mano, col braccio, con il busto, le anche e le gambe, e soprattutto col cervello. La spada sarà la propaggine della vostra mano. Dovete imparare a Milano 73 memoria tutte le posizioni... Quindi arrivare ad eseguirle ad occhi chiusi”. Dopo un paio di mesi di quella disciplina, come un pistolero uscente dal saloon, mi presento all'imbarcadero, palestra fissa degli scontri. E lì ho il primo match dal vivo con il Manassa. Lui veniva avanti con la posizione impostato classico alla "boxeur", io da schermitore: il braccio sinistro piegato dietro la schiena, petto in fuori, braccio destro teso, mano con dita strette, incollate una all'altra, rigide come una lama. Affondo... parata... finta di tronco... stoccata a dritta... pah! Una botta sulla faccia del Manassa, che snariccia allocchito: “Eh, no Cristo, non vale! Ma che box è?!” Intorno a noi due contendenti s'era radunato un gran crocchio di ragazzi e anche qualche vecchio pescatore. Il Manassa ritornava all'attacco menando colpi a pugni ben serrati...e con tanta foga da scomporsi. Io rimanevo sempre in linea, da buon schermitore: retrocedevo a scatti rapidi senza abbassare il braccio teso, mulinandolo a ogni attacco del Manassa. Scarto, finta... parata di taglio... sgancio di sortita... affondo... pah! Di nuovo una botta in piena fronte del boxeur... e altro fendente di ritorno... Manassa casca a terra. Aveva il naso, Milano 74 fronte e zigomi vivacemente arrossate. “E no, cazzo! Basta con sta box del porcogiuda!” sbuffa il Manassa. “Ne ho pieni i coglioni... non vale!” “Tutto regolare - sentenzia il Mangina, con il tono e l'autorità di un arbitro federale, -ognuno combatte con lo stile che gli pare. Basta che meni soltanto con le mani, senza bastoni o pietre. Se poi uno preferisce dar cazzotti con una mano sola, fatti suoi, non c'è niente da rognare... È uno stile anche quello. Lo stile classico del monco!” E da quel giorno mi chiamarono: "il mutilato"; però con molto rispetto. Ma non potevo tenermi addosso quel terribile soprannome dovevo fare qualcosa. Imparare a battermi con tutte e due le mani... sempre con lo stile dello spadaccino, però roteando con entrambe le braccia come tenessi sciabole dappertutto. Mi esercitavo ogni giorno, con mio fratello che mi faceva da allenatore. Senza rendercene conto avevamo reinventato una specie di box esotica, forse cinese. Per colpire meglio coi piedi si facevano di continuo giravolte in un senso e nell'altro, scalciando all'improvviso. E nello stesso tempo si scattava con le mani a pugno, caricando anche con la testa. Finalmente mi hanno cambiato Milano 75 soprannome: sono diventato il "pirla-trottola", che non è poi sto gran miglioramento! Guerra d’Africa e Guerra Mondiale Nel trentacinque era scoppiata la guerra d’Africa. Tutti allegri: l’Italia invadeva l’Abissinia! “Noi ci andavamo per colonizzare, mica per far rapine c’insegnavano - andavamo laggiù a costruire ponti, dighe e strade per dare a questi selvaggi la civiltà. Per premio l’Italia diventava un Impero.” Non capivo perché mio padre tirasse moccoli e parlasse fra i denti di “rapina”: “Anche gli straccioni vogliono il posto al sole! Per bussare e farsi aprire dall’Europa bisogna sparare in Africa, solo così ci faremo rispettare dai plutocrati padroni del mondo!” A scuola ci dicevano “Vendichiamo la strage di Maccallè e di Adua... gli abissini schiavi del Negus saranno liberati!” Pà Fo sbottava schiacciando a fatica il tono della voce: “Certo, e per liberarli più alla svelta gli butteranno il gas!” E mia madre annuiva aggiungendo: “Lo puoi giurare!” Io guardavo con stupore i miei genitori e mi dicevo: “Che orrenda famiglia di disfattisti anti-italiani!” Milano 76 Com’è possibile che un uomo onesto e coraggioso come mio padre si lasciasse andare a certe battute di disprezzo per la patria e il Duce! Non parliamo di quando tirava in ballo il Re: “Quel nano criminale!” ,lo insultava. Io avevo molta soggezione del babbo, ma un giorno l’ho quasi aggredito ripetendo le belle frasi che, a tiritera, avevo imparato a scuola: il Risorgimento... la guerra mondiale per liberare Trento e Trieste... il sacrificio eroico dei nostri valorosi soldati... il senso della Patria... “E poi proprio tu che sulla tua giacca da capostazioneaggiunto sfoggi tutte quelle medaglie, le strisce d’argento sul braccio per ricordare le ferite... e allora che ci sei andato a fare volontario negli arditi!” Mi aspettavo che Pà Fo mi mollasse un gran manrovescio... invece no, ha sorriso, e parlando tranquillo mi ha bloccato: “Ehi calma, prima di tutto in guerra non ci sono andato volontario, ma di leva. Avevo diciannove anni, sono del ‘98, e mi hanno arruolato in fanteria. Dopo un mese ero già al fronte... ti rendi conto? Ti sbattevano in quell’inferno come un allocco. Cosa potevi aver imparato delle armi, del combattimento, della strategia militare? A parte i fucili, i Drapen (bombe a mano), i mitragliatori, i Milano 77 mortai... niente! Ti sbattevano a farti ammazzare con una golata di grappa buttata giù in fretta prima di ogni attacco, allo scoperto come passeri: infilzare o farti infilzare! Nei primi sei giorni di frontiera nel Carso metà del nostro battaglione era già fottuto, fatto fuori. Al settimo giorno ci danno il cambio. Io ero letteralmente stravolto: due miei compaesani erano saltati in aria per una centrata d’obice a cinque passi da dove mi ero interrato. Di questi disgraziati che erano arrivati con me non restavano che pezzi di carne e ossa sparsi qua e là. Dappertutto si sentiva ‘sto odore amaro di polvere da sparo e quello dolciastro del sangue e delle budella. E urla dei feriti, dei moribondi, lamenti e gemiti da strapparti la pelle. Sono arrivate altre compagnie “fresche” a darci il cambio, così noi superstiti, acciaccati e rinscemiti, siamo scesi al paese di sotto dove si trovavano servizi con gli alloggi di retrovia e dal campo abbiamo scaricato i feriti in un ospedale e a mia volta mi son fatto medicare. Avevo una scheggia nella spalla, me l’hanno cavata così... in piedi, senza anestesia... di “dormia” ce n’era solo per quelli gravi... m’han messo tre punti e via. Milano 78 È lì che ho incontrato Gigi Briasco, era mio cugino, di Leggiuno. Era sotto le armi da tre anni, un veterano. Stavano medicandogli una sgnaccata alla testa, una sferzola profonda sul cranio. Ho fatto per abbracciarlo, lui si scansa: “Fermo, Felice - era il nome di mio padre - c’ho lo stomaco ricamato a punto croce... mi sono beccato una sventagliata a rosa di Drapen!” Ho aspettato che gli tappassero la sferzola sul cranio e insieme siamo scesi alla distribuzione del rancio. C’era una fila che non finiva più. “Vieni, andiamo alla mensa ufficiali!” - “Perché, non mi dirai che sei graduato?” “Certo, sergente sono... Ma non è per questo che mi fanno entrare ma per ‘sta patacca!” E mostra sulla spalla un cerchio ricamato in oro con un pugnale e una bomba che scoppia fiammeggiante. “Cos’è?” - “È l’emblema degli arditi.” - “Ti sei buttato in ‘sta banda di disperati?!” faccio io incredulo. “Sì, terza compagnia arditi di battaglione. È l’unico espediente per sperare di salvarti la pelle.” - “In che modo? Non dirmi che così t’imboschi?” - “No, tutt’altro. Rischio la “ghirba” eccome. Mi tocca strisciare fuori della trincea, allo scoperto, di notte, mozzare con gli sgarbi a forbice il filo spinato, disinnescare le bombe che i Crucchi hanno piazzato qua e là... insomma preparare il Milano 79 terreno sgombro per i nostri che l’attraverseranno l’indomani mattina buttandosi all’assalto. Ma noi, dopo aver fatto il nostro lavoro, si torna dentro le trincee e si raggiunge la nostra base, in retrovia... quelli che ce l’hanno fatta, s’intende.” - “Appunto - dico io - e quanti ce l’hanno fatta?... Quanti non son stati beccati dai cecchini, non sono saltati in aria sulle bombe trappola, non si sono beccati una mitragliata grazie al solito razzo luminoso che li ha messi allo scoperto?” - “È vero - ammette mio cugino - ma dimmi una cosa tu, Felice... sbaglio o della tua compagnia in sei giorni siete rimasti meno della metà? Nella mia banda di disperati siamo in centoventi, negli ultimi tre mesi ne sono rimasti fottuti una quindicina e abbiamo partecipato a una ventina di azioni. Quindi fai il calcolo e capirai qual’è il vantaggio: di sicuro il nostro d’arditi è un compito da strizzapalle che non c’è uguale... tutte le volte che si torna da un’azione ci abbiamo addosso una strizza di culo che non si caga per tre giorni... schegge un po’ dappertutto, le strigliate dei reticolati che ti segnano la pelle... ma il conto torna sempre a nostro vantaggio. Noi, chi più chi meno, si porta a casa la “ghirba” ma voi, fantaccini, siete peggio che dei condannati al tiro a segno della fiera... tre palle un soldo! Per ‘sta volta Felice t’è Milano 80 andata bene, ma è difficile azzeccare ogni volta il numero buono della tombola. Tu ti ritrovi come in una bisca d’azzardo... gira e rigira il banco vince sempre... i crupié sono i generali, il re e le fabbriche di camion, bombe e cannoni. Sono loro che girano la ruota e si vincono la nostra vita. Fatti furbo, rischia di più, anzi tutto, se vuoi sperare di fottere la smorta (la morte)!” Così, detto fatto, il cugino Briasco mi aveva convinto. Il giorno dopo sono andato ad arruolarmi negli arditi: strizze di terrore, strisciare da ramarro, sforacchiato dappertutto... ma la pelle l’ho portata a casa. Purtroppo invece il cugino Briasco non ha pescato il numero giusto della tombola e c’è rimasto. Alla sorella di mia madre è arrivato un encomio solenne e una medaglia d’argento. Il suo corpo non è mai arrivato a casa... l’hanno beccato in pieno con un obice. Per ammazzarlo hanno dovuto sprecare una bomba che doveva, nel programma dei mercanti, servire a far fuori almeno quaranta uomini... una perdita insopportabile!” Ero a mia volta stravolto per il racconto di mio padre. Sono rimasto in silenzio per un po’, poi ho azzardato: “Ma dimmi papà, d’accordo, hai ragione: ‘sta guerra è solo a vantaggio dei mercanti e dei generali che festeggiano Milano 81 seduti su milioni di tombe, e allora com’è che accetti di portarti sulla giacca tutte ‘ste decorazioni?” “Son le mie patacche parafulmine! È grazie a loro che mi son salvato da denunce e sospensioni, ho scampato anche qualche arresto! Col mio mestiere incontro un sacco di sparaspocchia fanatici di ‘sto regime di maimorti che sbroffano cazzate sulla ‘gloria della fede e l’ideale’... tu ormai mi conosci, io non ce la faccio a starmene schiscio a pecoroni: ogni volta li sputacchio di sfottò. E loro “Guardi come parla... io la denuncio!” - “Avanti, razza di pisciacchione con l’orbace, denuncia anche queste! E gli sbatto in faccia, petto in fuori, la mia collezione di onorificenze, compresa la patacca d’ardito e l’encomio solenne! Una volta in faccia a una signora scatenata del fascio ho calato le braghe e ho mostrato la gamba massacrata con la rotula d’argento, gridando: “Heia, heia, alalà! Beccati questa e portala a ca’!”… Chi s’arrischiava a trascinare in tribunale un simile làbaro di trofei!” A ‘sto punto sono scoppiato a ridere da ingozzarmi. Da quel giorno, tutte le volte che in classe arrivava qualcuno a recitare l’elegia del regime e a fare il panegirico dei sacri martiri della Patria, non potevo fare a meno di vedere apparire mio padre lì, in piedi sulla Milano 82 cattedra, con i pantaloni calati che zompante di qua e di là mostra le cicatrici e il ginocchio d’argento. Non porta mutande... le sue vergogne sono adornate da collane di medaglie che scampanellano gioconde. Spesso capitava che in classe il maestro e chi per lui s’interrompesse puntando il dito verso di me e con tono molto seccato mi gridasse: “Ehi tu... cosa vuoi dire con quel sorriso da schiaffi?!” “No signore - rispondevo spudorato - non è un sorriso... cercavo solo di trattenere la commozione!” Il mistero delle statue innamorate Al limitare del paese, era piazzata una stupenda villa del '700 che s'affacciava sul lago... Stava dentro un enorme parco, sfiorata da un piccolo fiume che scorreva a lato. Nel mezzo un paio d'ettari di bosco e, sparsi nell'enorme giardino una gran quantità di alberi esotici, centenari. Qua e là, sistemate con finta casualità, statue palladiane raffiguranti ninfe, satiri e dei a piacere. Nella villa abitavano i padroni della vetreria. Il parco era circondato da una lunga cancellata barocca che lo serrava lungo tutto il perimetro. Milano 83 Il responsabile della vita degli alberi era il Sereno, di cognome Tempo… suo fratello infatti si chiamava Nuvolo. Era giardiniere provetto con tanto di diploma e aveva già lavorato all'isola madre dei Borromeo. Era un uomo tranquillo, ma anche lui un giorno è andato fuori di matto... Tutta colpa di una passione amorosa esplosa tra le statue del parco. Assurdo? Un paradosso metafisico? Può darsi, ma per il Sereno, che oltretutto la metafisica non sapeva che fosse, fu egualmente un evento tragico. Io ero affezionato a quel giardiniere così, dopo qualche settimana, sono andato alla neuro di Varese a fargli visita insieme al Giuda e il Tajabis, due amici che avevano un paio d'anni più di me. Il Sereno pareva abbastanza tranquillo, come detta il suo nome, e si è dimostratp stra-contento di vederci e soprattutto ansioso di confidarci il fatto che l'aveva mandato via di testa. E lì nel parlatorio, si è dato a raccontare: “Nel parco della villa, voi lo sapete, ci sono un sacco di statue intorno alle quali edere, sgarmigli e rampa-maria s'erano intorcicate da farci giacca, cappotto e calzini. Il Milano 84 padrone mi aveva ordinato: “Bisogna mozzare quei rampicanti altrimenti mi spaccano a pezzi le statue...” Mi sono allora armato di falcetto, tronchese da ramo, segaccio e ho cominciato a sgorbiare i rampicanti... con calma, che guai grattargli la pelle. Quelle statue erano molto antiche... qualcuna addirittura di epoca romana. Si ritrovavano talmente ricoperte di rami e foglie, che manco si riconosceva se fossero maschi o femmine. Cominciavo a smozzare i tronchi dei rampigi alla base... I piedi erano i primi a venir fuori... Dai piedi degli antichi, non si riesce ad indovinare il sesso della statua. Andando in su gli ho liberato le gambe... lunghe... tornite con leggerezza... era di sicuro una donna... o forse era Apollo, che è quasi lo stesso... La differenza la fanno il birolo e la cetra. E infatti era proprio lui, il dio della musica, col suo chitarrone. Tutto nudo... uno straccetto ben panneggiato intorno ai fianchi... ma non serviva a niente, tanto mostrava tutto per intero il suo "pirolo"... piccolo e discreto. Gli dei non hanno mai bisogno di strafare. La seconda statua che ho liberato, invece era proprio una femmina... Bellissima, era fatta su nelle glicini e nei potos. Milano 85 Taglia e ritaglia sono spuntate le gambe come colonne... il pube... i fianchi... i glutei... che meraviglia! E più in su sono emersi il ventre e poi le zinne. Mi tremavano le mani, liberando quei due tondi leggeri. Sembrava respirasse. Alla fine son venute fuori il collo e la faccia, con la bocca e gli occhi... Sorrideva e mi guardava... proprio a me… dolcissima. Come a dire grazie di avermi liberata! - Ma dico sono scemo? Cosa mi sto mettendo in testa? Mi viene da farle una carezza. Mi pulisco la mano, sfregandomela con una foglia di gelso... e scorro le dita e le palme sulle guance... Una scivolata da fremito! Chissà che dea è? Magari è una ninfa... sì, è lei di sicuro: ninfa. Sono lì con ‘st'incanto addosso, mi scappa l'occhio sulla destra. C'è lì la statua di Apollo che mi guarda. O bella, non mi ero accorto che avesse la faccia voltata di qua! Vado vicino, sbircio l'attaccatura del collo... la tocco: è calda, anzi scotta come se la pietra si fosse torta. Di certo l'ho sfrisata troppo io segando via il ramo che l'attorcigliava. Ridò un'occhiata alla ninfa: ha una mano al seno. E sembra si sia girata un poco di spalle. Milano 86 E no basta. Sto andando in strambola! Stop all'incubo. Diamoci da fare a liberare l'altra statua. La terza. Mi viene tutto più facile. Ormai ci ho preso la mano. Mozzo rampicanti come un tosa montoni. Questo è un altro maschio... ma ci ha una gran coda (anzi dev'essere un mantello tutto panneggiato). È completamente nascosto dentro un garbuglio d'ederafocus... Alla fine vien fuori; è il tronco di un cavallo, con chiappe, zampe, zoccoli e tutto. Un uomo a cavallo? No, è un centauro! Muscoli tesi e nervosi, un bel pettorale, e sotto fra le cosce di dietro, un gran pindorlone... erto e spocchioso... I cavalli non hanno il senso della misura. Sono immodesti! In più impugna un arco che tiene ben teso con tanto di freccia incoccata, con le mani, s'intende. Tasto: l'arco e la freccia sono fusi in bronzo. Sta venendo scuro. Me ne vado. Ritorno la mattina dopo. Porca d'una miseria il centauro non c'è più. Per terra c'è soltanto l'arco con la freccia... nient'altro... l'hanno rubato... sul prato è rimasto tutto un solco, come l'avessero strascicato. Seguo il solco e mi ritrovo alla scuderia... c'è il portone spalancato... mancano dei cavalli... mi guardo intorno: meno male, sono tutti laggiù allo stagno che Milano 87 bevono. Li vado a riacchiappare. Cristo, ce n'è uno dentro l'acqua tutto affondato... ma cos'è tutto sto sangue? Il cavallo è senza testa... Ma è la statua del centauro! Senza il tronco, le braccia e la testa da maschio umano. L'hanno staccata... e poi, se la sono portata via... chissà dove. Guarda qua che ci sta a fare qui la mia scure? Sento gridare. È la signora Lazzarini che mi chiama... la voce viene da laggiù, da dove ci sono le statue. La raggiungo di corsa. È sconvolta... c'è l'Apollo steso a terra con una freccia di bronzo conficcata nel petto... il busto si è spezzato in due. La statua della ninfa è ancora in piedi, ma con le braccia sollevate in aria in un gesto disperato e trionfante insieme con la mano sinistra tiene alto l'arco. “Chi ha combinato sto disastro? - quasi mi aggredisce la signora - questa mazza di ferro di chi è? - la solleva da terra... togliendola dalle dita serrate di Apollo - non mi dirai che fa parte della statua? Apollo con la mazza!?” Si, la mazza è mia... anche la scure con la quale hanno scorzato in due il centauro è mia... ma io non ne so niente... e anche non capisco cosa ci faccia lei, la ninfa, con l'arco in mano... e con le braccia spalancate in aria... Milano 88 che prima le teneva abbassate, sono sicuro... con una mano sul seno... tutta un po' girata, così... A parte che vorrei sapere chi ha rovesciato tutto quel sangue nello stagno. Intanto erano arrivati anche il padrone coi figli, il guardiano della villa e l'autista. Tutti facevano domande. “Ve l'ho detto... io, ste statue, le ho spogliate dei rampicanti solo ieri e non avevano ‘ste posizioni. È successo qualcosa... si sono mosse... lei poi non aveva l'arco... l'arco ce l'aveva il centauro. Sì, la mazza e la scure è roba mia... ma io non le ho spaccate le statue... a parte che per portarla fino laggiù nel laghetto ‘sto sacripante del centauro, ci vorrebbe il trattore... no io il trattore non l'ho toccato... il tronco del centauro è sul trattore? Non ne so niente io... E no, è... voi mi volete far andar fuori di matto! Ma che è uno scherzo? Beh, io non ci sto”. E sì, può darsi che si siano mazzolati fra loro... le statue. Già io avevo notato che l'Apollo si voltava di scatto a guardare da geloso... appena accarezzavo la ninfa... E avevo anche visto il sorriso che lei faceva al centauro come l'ho spogliato dalle glicini... E poi, già che ci siamo, stanotte avevo sentito uno strano calpestare. Milano 89 Mi sono affacciato dalla mia finestra sopra il deposito... e ho visto un cavallo. Libero. Con tutto che le scuderie erano sprangate. Sarà un'impressione, ma m'è sembrato fosse il centauro... faceva un fracasso... stamattina qui ho trovato schegge dei suoi zoccoli di marmo un po' dappertutto... e poi, parliamoci chiaro: io sono sicuro che in groppa gli fosse montata la femmina... e insieme si sono acquattati nel bosco... io sono sceso, sono entrato fra le magnolie africane... ho sentito gemiti incredibili e anche un nitrito, come di un cavallo che gode come un pazzo e ansima da moribondo. Quando sono tornato indietro ho trovato il portone del deposito spalancato e mancavano degli attrezzi... la scure di sicuro... ecco chi ha spaccato in due il centauro, lui... quel assatanato geloso dell'Apollo! A sto punto di sicuro è chiaro: lei, la ninfa... per il dolore s'è imbestialita... con l'arco l'ha infrecciato da sboronarlo netto.” Tutti mi guardavano allocchiti... “Beh, sì. Dev'essere andata proprio così... - ha tagliato corto il padrone - non c'è altra spiegazione”. Milano 90 Verso sera, all'improvviso, sono arrivati i due infermieri del comune con l'auto per i matti, mi ci hanno caricato su di peso. Ed eccomi qua. Il dottore primario mi ha fatto parlare per un giorno, a raccontare quello che è successo. Poi mi ha convinto ad ammettere che ero stato io... in un momento di nervoso tremendo a combinare tutto ‘sto casino... perché ho la sindrome dello spacca-statue... È l'unica maniera per farmi uscire. Fra qualche settimana mi liberano...” Non era trascorsoun mese da quella visita al Sereno, quando ho deciso di andare a farmi quattro passi nel parco dei misteri. Ho riconosciuto lo spiazzo dove erano sistemate le tre statue. C'era solo quella della ninfa... i rampicanti se l'erano avvolta tutta di nuovo, per intero, in alto dalle glicini spuntava solo la mano che brandiva l'arco... nient'altro. La teleferica Come tutti i bambini di questo mondo che vivono in campagna, anche noi, al Porto, andavamo a rubare frutta negli orti e nei poderi. La “sgraffignata”, così come si Milano 91 chiamava in gergo, non aveva tanto lo scopo di soddisfare la nostra golosità, quanto l’esigenza di mettere alla prova il nostro coraggio di fronte al pericolo di essere sorpresi sugli alberi dai padroni e rischiare di venir sparacchiati. Infatti i contadini erano spietati: se ti facevi beccare nel loro orto a far mambassa di mele, pesche o fichi, ti sparavano una “sorrazzata” con i fucili caricati a sale... ed erano dolori! C’era poi il pericolo dei cani, allenati ad azzannarti le natiche ed i polpacci. Del resto mio fratello Fulvio ed io facevamo parte di una banda dove il “cimento” a rompicollo era un rito d’obbligo: i tuffi a testa in giù nel lago precipitando dalle rupi della cava di Caldé, le volate da suicidio sui carrelli che correvano sulle rotaie fino al caricamento dei forni abbandonati. La più folle delle nostre esibizioni era senz’altro la “slizzata” sulla teleferica per le cascine: un cavo di ferro o rame veniva steso dai taglialegna a partire dall’Alpe di Corveggio, lassù ad ottocento metri d’altezza, fino a raggiungere le rampe di Tramezzo. I tronchi e i fasci di legname scendevano appesi a rotelle che strullavano sul filo andando a sbattere contro il fermo di grosse travi… il botto era a dir poco violento. Milano 92 Il primo ad appendersi alla rotella era stato il “Manac”, figlio di spaccalegna, con una mano aveva abbrancato un gancio di ferro, con l’altra lo scorritore con rotella e via come fosse la cosa più semplice di ‘sto mondo. Noi si era tutti sotto nel vallone con la faccia per aria e gli occhi sbarrati senza fiato, in apnea... scendeva velocissimo! Arrivato a fondovalle in prossimità del fermo a travi, tenta di rallentare la corsa... Dio, se ci va a sbattere fa la marmellata! Ma il Manac sapeva il fatto suo: s’aggrappa con forza al gancio di ferro che funge da freno... adesso è appeso solo a quello. L’attrito sul cavo produce scintille come una saldatrice. Porca miseria! Non rallenta abbastanza! Si spiaccica! No, ecco, frena. Arriva sul fermo ancora veloce, ma non c’è schianto: il nostro “slizzatore” butta in aria le gambe e attutisce il botto. Mandiamo un urlo in coro. Siamo tutti smorti come stracci. Io mi lascio cadere mezzo disteso per terra. “Adesso tocca a voi”, sghignazza il Manac. Si fa la conta: tocca al Bigulot, figlio di un pescatore. Si sceglie un percorso meno ripido e rischioso. Ce la fa! Si scompone un po'... va a lambire la cima di qualche Milano 93 castagno, si becca delle gran scudisciate in faccia, ma tiene... e il botto finale è sopportabile. Il ragazzino che mi precede parte bene, ma a metà percorso si trova a “sfrisare” un olmo gigantesco, altissimo. Non ha avuto la forza di sollevare le gambe e il busto ed è arrivato sparato dentro il fogliame. Ha mollato la presa, la rotella gli è sfuggita di mano e anche il gancio. Per sua fortuna riesce ad abbrancare una forcella di rami... ballonzola come sbattuto da una tempesta di qua e di là, ma è salvo. Quando tocca a me sono piuttosto stressato. Non bisogna dimenticare che, a differenza di quei miei compagni, io ero piuttosto fragile e poco dotato di muscolatura... ero proprio una mezza sega! Ma mi sono fatto coraggio, spronato anche dall’orgoglio: avevo sentito “Manac” e il “Bigulot” far commenti a sfottò sulla probabilità quasi inesistente che io ce la facessi ad uscirne intero. Avevo solo un vantaggio: aver potuto osservare con attenzione tutte le altre discese, compresi errori e scaltrezze dei miei sopravvissuti compagni. Avevo notato che quasi tutti istintivamente tenevano ad usare il piede, o meglio gli scarponi, facendoli strisciare sul cavo, nel tentativo di rallentare la velocità. Ammaestrato da quel Milano 94 particolare mi sono legato lungo le suole degli scarponi con dello spago due ganci, uno per scarpa. I miei compagni mi osservano con una certa crudele ironia. Afferro il gancio a rotella, poi l’altro... mi lascio andare a corpo morto... ma subito comincio ad oscillare come fossi appeso ad un trapezio finché non riesco ad infilare i ganci che spuntano dagli scarponi sul cavo della teleferica. La mia trovata funziona a meraviglia. Riesco a governare la velocità con discreto vantaggio. Quando voglio accelerare basta che mi sganci con i piedi; per frenare mi riappendo con tutti e quattro i ganci. I ragazzi che mi seguono da sotto il percorso non mi sfottono più. “Ehi, quel cagasotto ci ha fregati tutti quanti! Caro “strizzachiappe”! - mi gridano - Sei un’aquila!” Sceso dal cavo, ero talmente carico ed euforico che manco mi ero accorto di fumare dai piedi: per l’attrito i ganci s’erano letteralmente arroventati e stavano bruciandomi le suole degli scarponi. Tornato a casa, mi è stato molto difficile spiegare alla mamma come avessi combinato quel disastro: ogni suola appariva segata in due. Milano 95 Gog Facendo ritratti mi sono comprato un cane, ma un cane oltre che di razza, straordinario! Avevo cominciato a scuola, all’ultimo anno delle elementari, disegnando il ritratto della mia maestra. Era una signora piuttosto giovane con un viso delicato dentro il quale erano evidenti due occhi quasi a mandorla, un naso sottile e due labbra molto pronunciate. Il collo era lungo, quasi esagerato… infatti il suo nome era Berenice, ma il soprannome “Giraffa”. A me piaceva molto. Quando all’Accademia di Brera, cinque anni dopo, mi sono capitati fra le mani dei ritratti di Modigliani, ho esclamato: “Oh, ha conosciuto anche lui la maestra Giraffa!” Avevo tenuto nascosto il cartone e l’avevo completato a casa, a memoria. Per il suo compleanno gliel’ho regalato. Mi ha abbracciato e sbaciucchiato… mi sono trovato le gote tempestate di vermiglio, un po’ era per il suo rossetto, ma il rosso più intenso era senz’altro quello prodotto dalla mia emozione! Poi, mi sono buttato a far ritratti a tutti i miei compagni e anche alle ragazzine. Mi ero fatto un nome: più di un Milano 96 genitore entusiasta mi aveva ripagato con qualche regalo, anche in denaro. Così mi sono ritrovato eletto a ritrattista ufficiale del Valtravaglia… il più piccolo della storia (locale, s’intende). Per me ha posato il Dottor Ballarò e sua figlia, la tettuta morettona che si sarebbe beccata la pesciata in faccia. Poi è toccato alle ragazzine del Podestà e appresso a tutta la famiglia. Mi sembrava di essere un parrucchiere ambulante: ogni giorno, si può dire, mi toccava andare per case dai vari prenotati. Chi ha brigato di più per essere messi in lista sono stati il prevosto e il maresciallo dei Carabinieri, un napoletano rotondo e molto simpatico. Come diceva Ulisse: “Mia fama salì oltre il greto dell’isola mia”… insomma mi sono arrivate commissioni perfino da fuori valle! Un allevatore di cavalli di gran razza, campioni di trotto e galoppo di Besnate (sul lago omonimo) mi manda a chiamare, anzi mi fa venire a prendere dal suo autista con una Alfa Romeo fuori serie con parafanghi e paraurti color rame. Arrivato alla tenuta con i miei album Fabriano, i pennelli, le tempere e gli acquerelli, sono stato accolto da un gran scalpiccio di zoccoli che faceva tremare il terreno: lì, sulla Milano 97 pista di dressage, stavano passando, pancia a terra, non meno di trenta cavalli. Alcuni erano montati da fantini, altri galoppavano liberi in branco. L’allevatore era molto occupato e manco mi ha salutato. Mi viene incontro una ragazzina più o meno della mia età con una gran capigliatura, tutta boccoli e riccioli: pareva Shirley Temple… si chiamava Ornella. Poi si presenta Matilde, la sorella maggiore, a sua volta biondo-capelluta… splendida! Per finire, tutte insieme appaiono altre tre sorelle; in totale cinque che, tutte in fila, sembravano il coro degli angeli di Benozzo Gozzoli. Ornella me le presenta una ad una. Chiedo preoccupato se dovrò fare il ritratto a tutte quante. “Sì”, mi rispondono all’unisono. “In ordine di età” aggiunge Ornella. “La più piccola sono io, quindi tocca a me per prima!” “Non ti preoccupare, non pretendiamo che tu ci ritragga tutte in un solo giorno, - aggiunge Matilde - puoi lavorare anche fino a domani!” e scoppiano a ridere tutte insieme. Per farla breve, ho cominciato a disegnare con discreta agilità. Qualche mese prima mi ero esercitato copiando figure e volti di pittori del Quattrocento. In quel momento mi sentivo proprio a casa. Milano 98 Terminato il ritratto di Ornella, tutti erano entusiasti: l’allevatore mi ha abbracciato da stritolarmi e con un tono che pareva il nitrito di uno stallone in fregola aveva esclamato: “Ma tu guarda, un ragazzino che dipinge a ‘sto modo! Hai un bel talento figliolo! Se tu fossi un cavallo, ti farei subito correre al gran premio di Parigi!” La signora Francis, madre di tutta quella covata, aveva telefonato alla stazione perché avvertissero subito mio padre che suo figlio non sarebbe tornato a casa quella sera e forse neanche l’indomani. Fra tutte quelle ragazze e ragazzine che mi coccolavano, mi riempivano di affettuosità e complimenti, io mi sentivo un pò in cimbali… frastornato. Non tutti i cinque ritratti mi sono riusciti come avrei voluto, ma il coro degli angeli del Gozzoli era egualmente soddisfatto. L’allevatore, tanto per farmi sgranchire gambe e cervello, mi ha portato a visitare le scuderie. Passando dinnanzi ai vari box, mi indicava i suoi campioni, famosi vincitori di corse internazionali. In particolare si soffermava a tessere elogi davanti agli stalloni che scalpitavano o se ne stavano imbesuiti per l’eccessivo tour de force. Milano 99 Prosegunedo siamo transitati davanti a un recinto dove facevano una gran caciara una mezza dozzina di cuccioli giganteschi: erano tutti alani di gran razza. Io non ero un fanatico di cani, ma quelle specie di belve burlone mi affascinavano; il maschio padre, poi, si muoveva con un eleganza da circo equestre. Il giorno appresso, prima di tornarmene a casa, il gran cavallaro mi saluta e mi dice imbarazzato: “Vorrei farti un regalo, ma non so cosa scegliere. Poteri infilarti in sacoccia una manciata di quattrini, ma non mi pare una buona idea… oppure preferisci una gran scatola di colori o un cavalletto?” Io l’ho interrotto: “Quanto costa uno di quei cuccioli di alano?” Il cavallaro è rimasto bloccato come in una foto di gruppo insieme a tutta la sua collezione d’angeli. Quel silenzio m’aveva fatto capire immediatamente che l’argomento era intoccabile. “Mi spiace, ma quegli animali sono già tutti prenotati... poi ha aggiunto velocissimo nell’evidente timore di venir contraddetto dalle sue figlie - Uno però, il meno sviluppato, forse te lo posso dare…” Milano 100 Altro silenzio e poi con un acuto da alleluia tutte insieme le ragazze hanno cantato: “Ma certo, Gog è suo!” Siamo tornati al canile, io saltellavo per la contentezza. “Ecco quello grigio con le zampe bianche e la sferzola a stella sul muso è Gog ed è tuo!” “Il papà dice che è il meno riusciuto della cucciolata, ma non è vero. È solo più timido rispetto ai suoi fratelli che sono una banda di criminali!” Quella stessa sera mi sono portato a casa la mia “belva”. Gog è il nome di uno dei due mostri dell’Apocalisse: Gog e Magog. Ma il mio cucciolo d’alano non aveva proprio nulla del feroce sbrana-uomini del mito biblico… anzi, era l’essere più dolce e timoroso che avessi mai incontrato. Sul treno s’era accucciato sotto i sedili dello scompartimento e per farlo scendere me lo sono dovuto caricare in braccio. Pesava sicuramente più di me, tanto che nel fare i gradini siamo finiti a rotoloni giù dalla scaletta come due allocchi. Arrivati a casa, Fulvio e Bianca hanno gridato di gioia; il gatto, anzi la gatta l’ha annussato e dall’odore che emanava deve aver subito capito che si trovava di fronte a un tontolone sbarloccato di spavento. La mamma se l’è subito tirato vicino facendogli carezze. Milano 101 Gog viveva di continuo con noi fratelli e con tutti gli altri compagni della masnada sia in piazza che fra i boschi. Era con noi perfino quando si andava a rubar frutta ed era il primo che se la dava a gambe… bastava sentisse abbiare un cane da pagliaio. Aveva letteralmente terrore sia dei can pastore che di ogni altro bastrado che gli ringhiasse cattivo… lo vedevi subito con la coda fra le gambe andarsene strisciando lungo i muri. Questo finché era cucciolo… ma di lì a qualche mese, ecco che comincia a crescere a vista d’occhio: gli si era sviluppato un pettorale da leopardo… zampe, natiche, collo, tutta la struttura s’era arricchita di una muscolatura armoniosa e possente. Solo il muso, occhi compresi, era rimasto quello del tontolone di sempre. Proprio per questo lo lasciavamo circolare libero dappertutto… non c’era pericolo: se ne andava in paese e fra i borghi in valle. Tutti lo conoscevano e lo sapevano mite come un agnello. Lo chiamavano, gli davano qualche boccone, lo accarezzavano… i bambini gli saltavano addirittura in groppa come ad un cavallo e Gog lasciava fare. L’unico guaio era il suo eccessivo appetito: si mangiava delle grosse gamelle di zuppa con pezzi di carne, ma al primo rutto il pasto era già digerito! Milano 102 Perciò andava a rubare galline. Nei pressi della nostra casa c’erano orti e poderi con relative gabbie di conigli e pollai recintati. Per quella specie di levriero gigante scavalcare di netto uno steccato rinforzato da reti metalilche, era un gioco da dilettanti. Saltava, si acchiappava il suo gallo o il pollo e via… quattro masticate ed erano spariti carne, piume, penne, ossa comprese! Di lì a poco, puntuali come agenti delle tasse arrivavano a casa nostra i proprietari dei pollai saccheggiati. Noi non li lasciavamo neanche terminare il discorso: “Accomodatevi nel nostro orto, in fondo c’è un pollaio. Prendetevi un animale, il più simile a quello sbranato dal nostro cane e scusateci per il disturbo!” Ormai a casa nostra era proibito mangiarci polli e galline: bisognava preservarli per rimborsare quelli del pastomerenda di Gog! Adesso oltre i polli, le oche e i tacchini, la suo passaggio si scansavano anche gli altri cani, specie quelli di temperamento particolarmente aggressivo. Ho visto un boxer tentare un assalto contro di lui e finire sanguinante giù da una scarpata. Erano trascorsi tre anni, io mi ero iscritto a Brera e ogni mattina dovevo andare a prendermi il treno per Milano. Milano 103 Gog mi accompagnava alla stazione e puntuale alla sera mi veniva a prendere. Faceva tutto da solo e se non mi vedeva scendere dal treno della prima corsa serale, tronava a quella seguente. Aveva imparato gli orari dei treni. Dopo qualche anno, tutta la famiglia ha dovuto traslocare a Milano, compresa mia madre. Il papà invece era tornato a dirigere la stazione di Pino Tronzano e quindi non si poteva più occupare del cane. Bisognava forzatamente metterlo a pensione in un canile fidato per tre o quattro mesi al massimo. Poi all’inizio dell’estate ci saremmo di nuovo trasferiti tutti quanti al lago e Gog sarebbe tornato con noi. Mio padre aveva trovato un allevatore di cani proprio alla perifieria di Luino… uno spazio in mezzo al verde, gli animali stavano quasi sempre all’aperto e chiusi in gabbia solo alla sera per la notte. Purtroppo, l’abbiamo saputo solo in seguito, l’allevatore di cani trattava gli animali come fossero gli ospiti di un lager: se non ubbidivano immediatamente ai suoi ordini, impartiti in tedesco naturalmente, li aggrediva a colpi di bastone badando bene di indossare sempre una apposita protezione, una specie di tuta imbottita con bracciale rinforzato di cuoio e metallo. Figurarsi, quando si è trovato a imporre disciplina e Milano 104 ubbiedienza a Gog, quello ha subito mostrato la sua copiosa dentatura e ha sparato una ringhiata da trasformare il sangue in latte cagliato. Il domatore gli ha sferrato un tremendo colpo di bastone sul muso e l’alano invece di indetreggiare, come di regola, gli si è lanciato addosso con un gran balzo, l’ha afferrato per il braccio e gli ha squarciato tutta l’armatura. Il domatore ce l’ha fatta appena a sgattaiolare fuori dal recinto e a darsela a gambe in un luogo più protetto, lui e i suoi inservienti terrorizzati. Nella fuga avevano lasciato aperto i cancelli e la belva se ne era uscita, senza fretta scomparendo nei boschi. Al nostro ritorno al lago, quella stessa domenica abbiamo saputo della fuga di Gog, soprattutto del particolare che s’era dato a sbranare qualche agnello qua e là per la valle. Con mio fratello ci siamo innoltrati nell’entroterra, chiedevamo notizie del cane ai contadini. Molti di loro ci conoscevano: “L’hanno visto su a Muceno. Dicono che è diventato capobranco di una muta di randagi. I contadini di Cerasa, Masnago e Tramezzo si stanno organizzando per dargli la caccia in gruppo iniseme ai Carabineieri.” Siamo saliti sino a Domo; il parroco al quale ci siamo rivolti, quando viene a scoprire che l’alano era nostro, ci ha riempito di improperi: “Disgraziati, razza di Milano 105 incoscienti! Come si può lasciare andare intorno un animale del genere… è peggio di una pantera! Adesso poi si è messo addirittura in branco con altri bastradi: scannano vitelli e se li sbranano lì sul posto!” La filippica è stata bloccata da una serie di spari. “Sono i cacciatori?” chiede Fulvio. “Certo, ma di sicuro non sparano ne a quaglie ne a passeri. Siamo furoi stagione…” Siamo corsi in direzione dei botti. Abbiamo raggiunto il vialone… laggiù sopra un rialzo c’erano dei cacciatori. Davanti a noi, sul greto del torrente un agnello sgozzato. Poco più in là presso il rivolo d’acqua due, anzi tre grossi cani. Gog si era salvato. Altri spari ci giugono dal pianoro dei gelsi. Di nuovo ci arrampichiamo correndo. ‘Sta volta l’hanno beccato… lo capisco dalle grida dei carabinieri. È stata una vera e propria fucilazionie: Gog è lì, lungo disteto a pancia in su… sanguina dappertutto. “Era vostro - chiede il maresciallo - Qui c’è un verbale. Datelo a vostro padre… Lo sapete che vi toccherà rimborsare ai contadini almeno una decina di bestie ammazzate da ‘sto vostro alano? Dovreste imparare: cani Milano 106 di questa stazza o di tengono appresso come crisitiani o è meglio ammazzarli subito!” I Burattini In primavera a Porto è sceso un aereo che ha planato sull’acqua. Un idrovolante realizzato ad Angera in una fabbrica che stava quasi sul luogo dove il lago sfocia nel Ticino. Ne vedevamo passare qualcuno ogni tanto di quegli aerei… erano voli di collaudo, ma poter osservare una macchina del genere così da vicino col motore completamente allo scoperto e le grandi eliche dava a tutti noi un’ineguagliabile emozione. La meraviglia maggiore la si aveva però quando il pilota usciva dal suo abitacolo cavandosi la cuffia di cuoio dalla testa e quegli occhialoni: “Oh tu guarda… la faccia da uomo normale!” Ma il maggior successo di quella stravolgente stagione è stato conquistato senz’altro dal debutto della compagnia dei burattini di “Spatagnak”, una specie di mangiafuoco famoso su tutta la costa del lago come il re dei pupari. Lo Spatagnak e i suoi aiutanti manovravano pupazzi detti “Guignol”, cioè burattini che si muovono infilando una mano sotto la veste del personaggio fino a raggiungere il collo cavo del pupazzo e infilare il dito indice nel cranio Milano 107 della maschera. La posizione del puparo è del tutto particolare: egli è costretto a tenere le braccia tese in verticale, fianco al viso; su ogni braccio è infilato un giugnol. L’abilità quindi sta nello sdoppiare movimenti alterni e spesso ritmicamente in conflitto dei due burattini. Inoltre è lo stesso puparo che da voce diverse ai personaggi che muove. L’eroe della compagnia era senz’altro Gioppino detto anche Tri Goss (Tre Gozzi). Nato dalla stessa terra di Arlecchino, è come impiccione, truffaldino, lui spudoratamente realizzatore di bugiardo, trappole e improvvisi cambi di ruolo e situazioni, codardo e al tempo stesso dotato di un imprevedibile coraggio, quasi eroico. La sua forza è contemporaneamente il candore e la mancanza assoluta di regole e regolamenti; moralità, pudore, rispetto delle consuetudini e della buona creanza non trovano albergo alcuno in quest’ingovernabile cialtrone. Non s’inchina davanti al re, né si cava il cappello… ma si prostituisce davanti all’oste e ad un suo fiasco di vino. Va palpando indegno i glutei di una verginale nobildonna, ma sviene languido di fronte alla puttana. Milano 108 Col suo immancabile bastone, la canella, sferra terribili bigolate sulla testa e sulla schiena di briganti, capitani, gendarmi, draghi e non s’arresta né davanti a Belzebù né tanto meno incontrando la morte in persona. Con tutti s’impegna in duelli di retorica, dialettica, logica e perfino scienza e teologia… ma in uno sproloquio completamente fuori registro. Alla fine però di stufa e risolve ogni tenzone con una sequenza di legnate degne di un batterista rock. È inutile dire che tutti noi ragazzini eravamo letteralmente affascinati da quelle esibizioni. La nostra casa si trovava proprio in prossimità del lago, sul fianco più largo della piazza dell’imbarcadero. Una casa con lesene in terracotta che adornavano le tre facciate; sull’angolo destro si levava una torre ottagonale a sua volta decorata con strani archetti pensili in cotto rosso… una costruzione che non poteva certo passare inosservata. Proprio di fronte alla nostra casa il burattinaio aveva issato il suo baraccone teatrale: una specie di gazebo con il palcoscenico che s’apriva nel bel mezzo della parete maggiore. Il signor Spatagnak aveva urgente bisogno di uno spazio coperto dove sistemare per un mese circa tutto il suo bagaglio, compresi i burattini che non si fidava a lasciare Milano 109 nel baraccone al termine d’ogni rappresentazione. Aveva saputo che noi si disponeva di una specie di magazzino a piano terra così era venuto da mio padre perché glielo affittasse. Non c’era problema, il signor Spatagnak poteva tranquillamente sistemare tutta la sua truppa pupazzara nel nostro deposito. Mio fratello ed io ci siamo subito offerti come aiuti per il trasporto dei giugnol e delle varie macchine sceniche. Aiutato da suo figlio e da Adele, una sua figliola molto carina, ha cominciato ad approntare una specie di enorme appendiabiti su cui sistemare l’intera compagnia di legno. Così abbiamo scoperto che i burattini erano composti da un tronco mobile alle cui spalle s’appendevano le braccia, mani incluse. Fra le spalle si inseriva la testa che poteva essere sostituita con altre capocce di personaggi diversi. In poche parole, esisteva un’asse portante neutro buono per tutti i ruoli da rivestire con costumi maschili o femminili, a seconda delle diverse esigenze. Il figlio del burattinaio aveva approntato un marchingegno con cantinelle inchiodate a dei traversoni sulle quali venivano appesi tutti i costumi per essere rinfrescati e restaurati con rammendi e dipinture. Milano 110 Scoperto che avevo una certa predisposizione per il dipingere, il burattinaio mi ha messo subito all’opera. Dovevo ridare il colore alle facce dei personaggi, soprattutto ridisegnarne gli occhi e le labbra. Intanto il burattinaio, infilato un tocco di legno su un’asta in metallo, ne stava tirando fuori a colpi di scalpello una testa. Visto che lo guardavo incantato, ha fatto provare anche a me, incitandomi ad essere deciso nei movimenti e ad usare la sgorbia con leggerezza. Tutte le sere me ne stavo coi miei fratelli seduto in prima fila a godermi lo spettacolo… ogni volta una storia diversa: “La Principessa rapita”, “L’Indemoniata”, “Il re che ha perso la memoria”, “L’incantesimo dell’innamorata”… Anni dopo, in una ricerca condotta presso l’Università La Sapienza di Roma sui canovacci della Commedia dell’Arte e sul teatro medievale, ho scoperto che quelle storie avevano un’origine antichissima e soprattutto che, rifacendosi ai testi per burattini, si riusciva a ricostruire l’intero tessuto originale di una commedia antica anche quando ci si trovava in possesso di un canovaccio ridotto ad una sequenza di frammenti incomprensibili. Milano 111 Ogni tanto il burattinaio permetteva a me e a Fulvio di montare sul rialzo scenico dove godevamo del privilegio di manovrare qualche burattino comparsa durante la rappresentazione. Lo stare col braccio ritto, il muovere le dita infilate nella testa dei gioppini nonché nelle loro braccia non era affatto cosa facile, specie per due ragazzini minuti come eravamo noi. Ad ogni modo in quel mese di accademia dei pupazzari, abbiamo imparato artifici e trucchi del mestiere in abbondanza. Un giorno, mentre aiutavamo Adele, la bella figlia di Spatagnak, a restaurare un fondale tutto sdrucito, non so come, ho cominciato a muovermi alla maniera di un burattino sbattendo le braccia come fossero “disossate” e volgendomi di qua e di là con il busto a scatti per poi, all’istante, lasciarmi ricadere piegato in due con la testa che sballonzolava sulle ginocchia… Adele rideva a crepapelle. All’improvviso alle mie spalle è scoppiato un applauso: era il padre burattinaio che aveva assistito alla mia esibizione di nascosto. Milano 112 “Complimenti, complimenti! Non immaginavo tu fossi così disarticolato e tanto bravo a fare il verso ai miei pupazzi… fammi vedere di nuovo!” Naturalmente da quell’istante per l’imbarazzo ero bloccato proprio come un burattino ingessato. Qualche giorno dopo il capocomico dei gioppini, mentre lo aiutavo a scolpire una testa nuova, mi ha detto: “Questa mi serve per uno spettacolo che ho in mente da un sacco di tempo. Hai mai sentito parlare di Gulliver?” “Gulliver? Sì, me ne ha accennato qualcosa mio padre. Mi pare sia un gigante che si trova imprigionato, fatto su in una ragnatela di fili…” “No, non era una gigante… Gulliver era un giovanotto di dimensioni del tutto normali. Erano i suoi aggressori ad essere piccoli: il popolo dei Lillipuziani!” “A sì? E come gli è capitato di ritrovarsi in quella situazione?” “Per via del solito naufragio… come un Ulisse qualsiasi, gli succede di rotolare svenuto sulla spiaggia di un’isola sconosciuta. Ed è lì che si risveglia tutto impacchettato da migliaia di fili e, intorno, circondato da una banda di omuncoli che strepitano eccitati, pronti ad infilzarlo con le loro piccole lance!” Milano 113 Il burattinaio era davvero bravissimo a raccontare… quasi meglio di quando si esibiva coi suoi pupazzi. Man, mano che proseguiva con l’avventura, io mi ci trovavo sempre più immerso… proprio dentro, mani e piedi. “Bellissima! - Ho esclamato entusiasta – Ma come ha in mente di metterla su?” “Beh, dovrei scolpire una gran testa e cucire un enorme costume appropriato. Ma poi ci vorrebbe un braccio di un paio di metri per riuscire a spuntare dal proscenio issando il gigante!” “Certo, - faccio io deluso – e allora come si fa?” “Forse si può rimediare…” “Come?” “Facendo muovere sulla scena un attore vero!” “Chi?” Mi fissa con un gran sorriso e poi sollevandomi di peso e agitandomi come un pupazzo esclama: “Tu!, tu saresti il mio Gulliver perfetto!” “Io? Ma io sono un bambino?” “Per quello basta un piccolo trucco alla faccia e sei sputato! Un uomo normale rispetto ai burattini apparirebbe sproporzionato, senza contare che tu ti sai muovere alla maniera giusta!” Milano 114 Insomma per farla breve, mi ha convinto. Mio fratello poi era letteralmente entusiasta. Ne ho parlato anche con la mamma: “Splendida idea! Vai, me car testón, divertiti come un pazzo!”… Dio che bella mamma avevo! Per tutta la giornata si facevano le prove; io non dovevo parlare… recitava lui, il burattinaio, doppiandomi con una voce un po’ nasale. A me toccava solo mimare a tempo ogni situazione, muovendomi sempre - s’intende - da burattino. Camminavo andando quasi in equilibrio su una tavola larga mezzo metro circa, e stesa sotto il proscenio per un paio di metri. Il burattinaio e i suoi figli recitavano le loro battute e mi suggerivano l’azione in generale. Con un marchingegno meccanico sul quale erano infilati decine di burattini si riproduceva la folla di Lillipuziani. Il burattinaio dava anche la voce al re e a qualche ministro, Adele doppiava la principessa Briseide. La scena che più mi appassionava era naturalmente quella in cui la piccola Briseide si diceva innamorata pazza di me e mi chiedeva di essere rapita perché si fuggisse insieme. Al culmine della sua passione, la mia minuscola innamorata s’arrampicava su per le gambe, raggiungeva i fianchi e montava come un gattino fino sulle mie spalle. Lì Milano 115 si sedeva abbandonandosi sul mio viso e mi tempestava di piccolissimi baci. Il debutto è stato trionfale: la gente andava i visibilio… commozione e risate si sprecavano. Ma la scena di maggior successo si è rivelata senz’altro quella dove il piccolo cavallo sapiente dialogava con Gulliver. Entrambi eravamo prigionieri dei giganti tiranni, ma nessuno di loro immaginava che quel piccolo animale sapesse parlare e ragionare con tanta sottile ironia. A questo proposito il maestro pupazzaro aveva avuto un’idea a dir poco geniale: come risolvere il problema del cavallo lillipuziano? Un burattino quadrupede di certo non risolveva sufficientemente la magia scenica. Per nostra fortuna Adele teneva sempre con sé un volpino dal pelo rado, molto intelligente che aveva lavorato per qualche anno nel circo. In quattro e quattr’otto il burattinaio mette in forma il calco di una piccola maschera che riproduce il muso di un cavallino. Sistemata sulla faccia del volpino la metamorfosi è quasi completa… basta addobbarlo con finimenti dorati come da copione e il risultato è perfetto! L’ippo-volpino era a dir poco fenomenale: sentiva la scena d’attore consumato; si rizzava sulle zampe posteriori Milano 116 appoggiandosi ai miei fianchi. Io mi abbassavo appena e lui con uno zompo mi montava sulle spalle e, al culmine della tenzone dialettica, si piazzava con tutte le quattro zampe in equilibrio sulla mia testa. Non esagero:”Il viaggio di Gulliver” è stato un trionfo! Il mio capocomico si lamentava che risate e applausi si sovrapponessero cancellando il dialogo e con lui il significato satirico. Naturalmente i complimenti di mia madre sono stati i più graditi insieme a quelli del Caldera-Magnan, il contastorie che vendeva pentole. Dopo la prima, ci siamo ritrovati tutti quanti noi della combricola all’osteria. Vicino a me c’era il CalderaMagnan che entusiasta mi svelava lo straordinario significato allegorico di alcuni passaggi di Gulliver: i piccoli uomini che tengono prigioniero il gigante e senza conoscerlo subito lo battezzano “nemico”, “mostro” e il commento del buffone di corte sul bisogno per chi governa di inventarsi il “pericolo dello sconosciuto” che crei terrore allo scopo di produrre un diversivo che sposti l’attenzione dai problemi reali che affliggono la comunità. Naturalmente non capivo gran ché di quella sguazzonata di concetti di cui mi sarebbe riuscito chiaro il significato Milano 117 solo di lì a una decina d’anni, quando finalmente avrei cominciato a studiare da vicino il valore allegorico di quelle avventure paradossali che preannunciavano le basi del pensiero illuminista. Il conte-ingegnere Nella Valtravaglia non vivevano solo soffiatori di vetro, pescatori, meccanici e contrabbandieri, ma vi dimoravano anche famiglie di gente abbiente con ville, giardini e boschi a ridosso della montagna, e palazzine e castellazzi posati lungo tutta la costa da Caldé a Mogadino. Per le strade di Porto capitava sovente di incontrare un nobiluomo che alcuni chiamavano Signor Conte ed altri Ingegner Enrico. Si muoveva sempre con eleganza, il corpo retto; guardava in faccia la gente, anche se dava l'impressione di non vederla... Rispondeva con un cenno del capo a chiunque lo salutasse... ma non si fermava mai... anche se lo interpellavano o gli chiedevano della sua salute. La faccia era mal rasata. Non aveva l'aria sporca... solo che indossava una camicia dal colore indefinito. Milano 118 Era dimesso, ma dignitoso. A qualcuno accennava un sorriso appena, ma poi ricadeva nella sua normale espressione di caparbia malinconia. La tragedia che l’aveva ridotto così era esplosa all'albergo Hermitage, il più famoso e ricco di tutta la costa. La gente che contava nella valle si era riunita per una delle solite feste in onore non so di chi. C'erano belle donne, certo la più appariscente era Sveva Rosmini, moglie dell'ingegnere. Tutti nell'ambiente sapevano di una relazione fra la signora Sveva e l'avvocato Colussi, amministratore unico della F.I.V.E.C. (Fabbrica Internazionale Vetri e Cristalli). Durante la festa, al termine del pranzo, la signora Sveva si levò da tavola ondeggiando come una manequin e andò decisa verso il fondo sala dove stava il suo amante. Allo stesso tavolo era seduta la giovane figlia del Dottor Ballarò, medico condotto. Una morettona molto vistosa. Era evidente a tutti che l'avvocato le faceva una corte neanche tanto sottointesa... La Ballarò per tutta la serata aveva ostentato una festosa soddisfazione espressa con la risata classica della gallina eccitata per le ripetute tastate copiosamente elargite alle sue natiche dall’avvocato. La signora Sveva aveva abbozzato per tutta la serata, ma a Milano 119 sto' punto: basta! Raggiuge il tavolo dei due flirtatori, acchiappa da un piatto di portata una grossa trota bollita, guarnita di maionese. La solleva roteandola e finisce per schiaffeggiare con la medesima il viso della esterrefatta gallina starnazzante. La trota si spezza in due. La signora Sveva sempre brandendo il tronco di pesce per la coda, lo va quindi a conficcare con un affondo magistrale nella bocca spalancata dell'avvocato fedifrago. Succede il finimondo: la giovane è riversa sul tavolo imbandito. Un cameriere, urtato dalla signora, è finito a sua volta lungo disteso al suolo dopo aver proiettato in aria una dozzina di coppe di gelato alla vaniglia che, ricadendo, vanno ad annaffiare facce e teste di clienti in attesa di dessert. L'avvocato dopo un primo attimo di sgomento prende a schiaffi la signora, che reagisce insultando e sputandogli in viso. Poi scoppia in lacrime e si getta fra le braccia dell'avvocato che, la scaccia… nella foga del gesto si ritrova però a strapparle l'abito di dosso. Lei rimane quindi in mutande e a torso nudo, mostrando bellissimi seni palpitanti. È chiaro che entrambi gli amanti sono ormai ubriachi fradici. Gli invitati rimangono senza fiato. Qualcuno applaude l’esibizione da spogliarellista della signora e l’azione Milano 120 dell'avvocato che, come in una danza, salta a cavaceci sul dorso di lei, serrando le cosce e cavalcandola. Lei traballa... ma resiste in equilibrio e lo trasporta intorno. “Guardate che puledra mi sono acchiappato!” In quell'istante in molti si rendono conto che da qualche minuto è entrato in scena il marito della signora Sveva, l'ingegnere appunto. Qualcuno, un po' su di giri non lo riconosce subito e gli ammolla qualche pacca d'allegro coinvolgimento. All'istante si bloccano tutti quanti. La signora Sveva è forse l'ultima a rendersi conto dell'avvenuto cambio di scena. S'arresta un attimo poi riprende a caracollare montata dall'impavido avvocato. “Che fai lì, così imbesuito, caro? Scegliti una cavalla anche tu e fatti un bel giro. Mi dispiace, io sono già impegnata a torneare su questa giostra per tutta la sera!” È presente anche la figlia che impallidisce e scoppia in lacrime fra le braccia del padre ingegnere che però rimane come assente. Si fa notare anche il solito ubriaco gaffeur che non avendo ben afferrato la situazione se ne esce con battute proprio fuori luogo: Milano 121 “Le corna son tutta salute. Importante che la giovenca rimanga nella stessa premiata scuderia.” “Non fateci caso, mio marito è un vero signore!” L'ingegnere a questo punto se ne va senza fare una piega. E per due giorni sparisce senza dar alcun segno di sé. “Sarà andato a Milano, o in Svizzera da suo fratello”. Ma nessuno l'ha visto salire sul treno ne comprare biglietti. “L'auto non l'ha toccata - osserva la figlia - è lì nel garage” Ognuno fa congetture: “Si sarà mica buttato nel lago, magari dall'alto della rocca ?!” “Impossibile. Soffre di vertigini!” In verità qualcuno che è al corrente d’ogni particolare c’è, ma non parla. Del resto nessuno ha pensato ad interrogarlo: è il Menghissu, un barbone dall'espressione sempre ridente. Una specie di maschera di Gianduia. Aveva fatto la guerra d'Africa ed era rimasto per più di un anno prigioniero degli abissini. Lui conosce bene il luogo dove s'è ritirato l'ingegnere, perché quello è un suo feudo. Sotto le fornaci, scavata per metà nella roccia, c’è una piccola costruzione con una porta ed un'unica finestra. Milano 122 Di certo l'ingegnere, così educato aveva chiesto il permesso di alloggio a Menghissu... che possedeva quel tugurio da anni senza averlo mai abitato. Quella domenica la gente della Valtravaglia, gli abbienti, i benestanti, seduti sulle loro panche di famiglia, gli altri accomodati come capita, stanno riuniti in chiesa per assistere alla messa. È quasi mezzogiorno quando si spalanca il portale del coro e con molta discrezione entra l'ingegnere. È addobbato in modo piuttosto inconsueto: in capo ha un fez rosso dal quale cade un pendaglio dorato; indossa una specie di gilet ricamato, dalle spalle in giù è avvolto da un grande mantello di lana bianca con spenzoli colorati in modo vario e acceso. Da sotto il mantello s’intravede un paio di braghe alla turca molto basse di cavallo… le scarpe sono l’unico capo di sua proprietà. Evidentemente ha indossato un costume della collezione africana di Menghissu. Si cava il fez dal capo e s'inchina appena. Rimane in piedi in disparte, davanti alla sacrestia. Di botto si crea un gran silenzio, poi un chiacchierio sommesso. Tutti osservano quel viso dall’espressione solenne e assente posato sopra un abito a dir poco paggliaccesco. E allo stesso tempo sbirciano le reazioni della signora Sveva, di sua figlia e Milano 123 dell'avvocato. La signora cerca atteggiando un sorriso piuttosto affettato di raggiungere l'abside. Avvicinandosi al marito, si genuflette alla volta del Santissimo e bisbiglia: “Ma come ti sei conciato? Dove ti eri cacciato?” Lui non la lascia continuare. Si gira su se stesso e scomparve rapidissimo per la porta del coro che dà in sagrestia. “Gloria Pater Imploremus”, intona il coro di cui io ero grazie alle mie naturali doti canore uno dei solisti più apprezzati. Quel giorno avevo goduto il privilegio di assistere da un seggio di prima fila all'imbarazzo della moglie e al morboso piacere in cui si crogiolava tutto il pubblico dei fedeli. Mi ero divertito più che se fossi stato al cinema. Qualche minuto più tardi il rito si conclude: “Ite, missa est!” Con gli altri ragazzi del coro rientro in sagrestia. Ognuno si preoccupa di spogliarsi della cotta bianca e della tunica rossa, ripiegarla per bene e appenderla nei vari armadi. Il mio armadio sta nell'atrio che dà al campanile. Il sacrestano si affaccia verso di me e mi chiede: “Ehi voce d’oro, ti spiacerebbe montare un attimo in cima e scoprire Milano 124 cosa è successo lassù. Credo si siano attorcigliate le corde delle campane… non suonano più!” Detto, fatto… m’arrampico su per le scale; tre rampe, tre ballatoi e sono finalmente arrivato agli arconi. Come spunto fra il marchingegno dell’orologio, mi blocco per lo spavento: lì, sdraiato sul traversone campanario, c’è il corpo dell’ingegnere avvolto nel mantello da califfo beduino. “È morto?” mi chiedo ad alta voce. “No! - mi risponde il signore sollevando il capo col fez. Poi mi riconosce e aggiunge – Tu sei il figlio del capostazione, vero? Ti ho sentito cantare, hai un bel timbro da contralto… proprio il ruolo che avevo anch’io da ragazzo nel coro.” Impacciato butto là: “Mi fa piacere… sono montato qui per via che le campane non suonano più.” “Devi scusarmi, sono io che ho imbrigliato le corde. Avevo bisogno di farmi un sonnellino e col baccano che combinano ‘sti quattro batticlavi capirai… ma stai tranquillo, adesso tolgo il disturbo: sciolgo le campane e torno giù!” Milano 125 Così dicendo mi sorride e mi accarezza sulla testa. Era la prima volta che gli scoprivo un atteggiamento tanto cordiale. Da quel giorno m'è capitato spesso di rivederlo: lo incocciavo sul lungolago, appoggiato ai piloni dell’imbarcadero, seduto sul muraglione del porto o addirittura accovacciato fra le forcelle dei tronchi di un olmo gigante o di un abete centenario. Gli piaceva stare seduto in cima a qualcosa di elevato. Spesso lo scorgevo sul campanile romanico della chiesa grande. Era passata qualche settimana dallo scandalo dell'Hermitage. La signora Sveva e sua figlia Alfa cominciavano ad essere piuttosto preoccupate. L’ingegnere che era il responsabile tecnico della vetreria aveva lasciato il lavoro senza richiedere aspettativa e tanto meno la liquidazione. La signora s'era recata allora alla sede centrale per farsi liquidare almeno lo stipendio, ma purtroppo, senza delega firmata dall'ingegnere, soldi non ne potevano uscire. Tutto congelato. Nell’apprendere la notizia alla signora non era riuscito di trattenere una sonora bestemmia… in francese s’intende, noblesse obilge! Milano 126 “Merde de Dieu!, mi ritrovo addosso l'occhio malevolo della gente e il suo disprezzo, tutto ‘sto bordello è successo perché me la faccio con l'avvocato. E quello manco mi aiuta. Ci sarà pure un modo di sbloccare almeno la liquidazione!” “Sì, c'è la soluzione - la tranquillizza l'avvocato - anzi più di una. Primo caso: l'ingegnere defunge per cause naturali. Se lo ammazzi tu... la soluzione si fa un po' più complessa. Secondo caso: si spara da se solo o si butta sotto un treno. Ritirare la liquidazione, la pensione e tutti i suoi averi diventa complesso, ma richiederà solo un po' di tempo. La soluzione migliore: visto il luogo malsano dove alloggia, gli ambienti perigliosi che frequenta, la dieta poco salutare che va seguendo… tutto ciò ci fa intendere che egli ci libererà del suo disturbo al più presto. Ma la soluzione "monstr" è quella di farlo interdire, a per riuscirci bisogna dimostrare che egli non sia più in grado di intendere e di volere, quindi sollecitare il tribunale affinché te lo affidi. Allora ti preoccuperai, per il suo bene di sistemarlo in un istituto psichiatrico senza ritorno.” La signora Sveva e sua figlia si sentono già più tranquille. Basta attendere con pazienza. Ma purtroppo l'ingegnere Milano 127 detto Signor-Conte, oltre che appollaiarsi su qualche albero, affacciarsi dal campanile e accennare saluti col capo ai cittadini che incontrava, esibire abiti esotici non da segni di altra stravaganza. Oltretutto un simile comportamento, in un luogo di pazzi come era Porto Valtravaglia, non provocava certo grande stupore. Però una tenera speranza stava affiorando. Durante il funerale del Jean Bartieux capo fonditore della cristalleria, ecco che si verifica un curioso incidente: Butrisa, il porta tamburo maggiore che da anni andava caricandosi sulle spalle la grancassa in occasione di parata o processioni, crolla di schianto e con lui il suo tamburo. Sono presenti parecchi operai fonditori e le loro famiglie che seguono il feretro. Il maestro direttore della banda chiede aiuto: “C'è qualcuno che ci dia una mano e prenda il suo posto?” Deciso si fa avanti l'ingegnere sempre in costume da califfo che, senza attendere il benestare, si carica sulla schiena la grancassa. Il batti-tamburo gli allaccia le cinghie. L'ingegnere si piazza a fianco dei due tamburini, fez in testa, e la banda riprende a suonare la marcia funebre. Stupito ognuno Milano 128 osserva il nuovo reggi-tamburo beduino mentre il battitamburo sferrava botti solenni. La domenica appresso la gente, entrando in chiesa trova l'ingegnere seduto su uno sgabello del coro. Non so dove, s’è procurato una tunica bianca di pizzo e la cotta rossa, l’ha indossata ed ora è li vicino a me… sempre con il fez in testa. Il parroco entrando lo scorge e rimane un attimo perplesso. Il Signor conte- cantore gli si rivolge con un cenno perentorio che significa: non t’impicciare e fatti i riti tuoi! Il parroco inizia la messa. Noi del coro intoniamo il "De Midia-Domine". L'ingegnere tituba un attimo, accennando sotto tono, poi, deciso si unisce al nostro canto con una bella estensione intensa da baritono. La gente solleva il collo esterrefatta per meglio inquadrare il nuovo cantore. A qualcuno viene anche da applaudire. La signora Sveva si porta la mano agli occhi e mormora: “Che vergogna!” Ad Alfa, la figlia, viene il singhiozzo. “È chiaro che fa apposta il buffone per mortificarci, per sputtanarci davanti a tutti”. “Modera il linguaggio - la redarguisce l'avvocato - specie davanti a tua madre!” Milano 129 “Scusa, dimenticavo che sputtanare viene da puttana e certe allusioni in famiglia suonano irriverenti!”… Pach!, Alfa si becca una sberla tremenda in pieno viso. Una gran pacca materna. Allo schiocco, tutti si voltano a guardare. Proprio in quel momento il coro intona l’alleluiatico: “Alleluia, alleluia!” Uno scampanellare per l’elevazione, quindi intoniamo: “Genitori genitoque… perdona Signore l’offesa che a te Padre nostro abbiam recato” DA TRADURRE IN LATINO Brandendo l'asta per la questua, il sacrestano transita tra i fedeli facendo scorrere il sacchetto appeso davanti alle loro facce. Sul lato opposto spunta l'ingegnere che, a sua volta, si è procurato un'asta da questua e va lancia in resta ad invitare i fedeli affinché siano generosi. Con un affondo proietta il cestello con sacchetto a battere sul naso dell’avvocato che spalanca la bocca per inveire. Il sacchetto gli si infila fra i denti. Vorrebbe protestare, ma capisce che l’unica soluzione è sborsare in fretta qualche moneta. La questua violenta continua… a fine messa il sacrestano conta più volte l’incasso incredulo. La sera stessa la signora Sveva si reca a far visita al dottor Ballarò, medico condotto che riveste anche l'incarico di Milano 130 psichiatra. È lui che da il benestare perché si carichino i fuori di senno sull'auto pubblica dei matti. “Sono preoccupata per mio marito - introduce fra le lacrime la signora - sono stravolta e mi sento totalmente responsabile della crisi che lo ha colpito. Ma bisogna fare qualcosa, sta peggiorando ogni giorno...” “Immagino che lei desideri che l'ingegnere venga ricoverato, vero signora?” “Certo, non si può più lasciarlo circolare liberamente. Ha saputo, ieri s'è messo a cantare in chiesa...” “Ha ragione - annuisce il medico - cantare durante la messa cantata... è un atto blasfemo e criminale. Bisognerà che lo faccia caricare immediatamente sulla macchina dei matti furiosi e con lui tutti i ragazzini del coro, il prete, il sacrestano, le tre suore e le cinque beghine... stonate per giunta!” “Ma, dottore mi sta prendendo in giro?” “Lei che ne dice, signora? Se si vuol liberare della presenza di suo marito in paese e dintorni, mia cara, mi dia retta: le consiglio un'altra soluzione.” “Sentiamo, quale?” “Personalmente mi sono incontrato con l'ingegnere. La voglio tranquillizzare. L'ho trovato sereno e disteso, non Milano 131 ha nessun risentimento verso di lei e l'avvocato, nessun desiderio di rivalsa”. “Oh, questa si che è bella - sghignazza la signora - nessuna rivalsa? Lei non lo conosce il caro Signor Conte. Tutto il suo comportamento e le stravaganze, sono messe in atto all’unico scopo di umiliarci, provocarci, farci andare fuori di testa...” “Beh, questo dimostrerebbe che è tutt'altro che pazzo, e che anzi, al contrario possiede un cervello lucido e geniale!” “No, questo dimostra soltanto che è una mente criminale!” “Beh, se ne è convinta, non le resta che denunciarlo alla polizia. A proposito… il commissario, che ho incontrato ieri, ha ricevuto una richiesta firmata da lei, signora, perché si decida ad arrestare suo marito per vagabondaggio, ma l'avverto che questo sarebbe un abuso d'ufficio gravissimo, in quanto l'ingegnere si è legalmente trasferito nella sua nuova catapecchia, con tanto di indirizzo, via e numero civico. Non si ubriaca, ne compie atti osceni in presenza di minori, non bestemmia in luogo pubblico, non sputa per terra... e ha un'occupazione seppur saltuaria...” Milano 132 “Un’occupazione? Ma se non si presenta alla palazzina della direzione da più di un mese ...” “Lo so, ma io parlo delle sue nuove occupazioni...” “E quali sarebbero? Cantare in chiesa, reggere il tamburo, raccogliere l'elemosina per la diocesi o starsene accovacciato sugli alberi...?” “No, quelli sono hobbies non remunerati. Sto parlando del suo incarico alle latrine”. “Come dire alle fogne?” La signora s'ingozza con la saliva. “Si, il comune gestisce una trentina di pozzi neri, dove si raccoglie il liquame proveniente dai vari borghi. L’amministrazione si prende l'onere di ripulirli pompando fuori il liquame appena fermentato. Suo marito si è offerto per realizzare questa ripulitura e curare la manutenzione delle pompe da sterco, il trasporto con le cisterne da e il resto.” “Ah, ecco da dove viene quell'odore fetido che ha sempre addosso!” “Intuisco signora che lei l’ha annusato. Quando è successo?” “L'ho rincorso per potergli parlare, convincerlo a desistere da questo suo folle atteggiamento e lui non s'è voltato Milano 133 nemmeno a guardarmi. Io gli andavo appresso chiedendogli perdono, mortificandomi, ma ad un certo punto ho dovuto desistere... proprio per la puzza che lasciava dietro di sé... come di pesce marcio”. “Ah, no, l'odore di pesce marcio è conseguenza dell'altro impegno.” “Quale impegno? ” “Vuole un caffè? - chiede per prender fiato il dottore - l'ho appena fatto fresco”. “No, grazie... sono già abbastanza rovesciata di stomaco... Quale sarebbe st'altro incarico allora?” “La stazzatura dei cavedani in barile.” “I cavedani ?” “Sì, il pesce grasso che si mette sotto sale, pressato”. “Lo so, alla "Spada-Fish". E lui, il Conte lavora lì ?” “Sì, ma solo per qualche mattina la settimana” “E lei, dottore insiste a volermi convincere che anche questo di imbrattarsi di sterco e di pesce marcio non sia messo in atto appositamente per mortificare, me e mia figlia, agli occhi della gente...? Lo sa che non mi riesce di circolare per strada senza sentirmi addosso il disprezzo di quelli che incontro, per non parlare degli insulti, più o meno bisbigliati. Da quasi un mese né io né mia figlia Milano 134 veniamo più invitate alle feste. E quando ci invitano è solo per metterci in bella mostra alla maniera degli animali da baraccone...” e scoppia in un pianto disperato. Il medico cercò di consolarl : “Vedrà che tutto si sistemerà. Suo marito ha solo bisogno di trovare se stesso”. La signora si rizza allora imbestialita. “Ah sì? E trova se stesso pompando merda? Appestandosi con i pesci marci, facendosi pestare mazzate sul tamburo, cantando il "Te Deum" con il coro dei ragazzini e standosene come una scimmia sugli alberi? E poi vi rifiutate di caricarlo sul taxi dei matti?! È che siete tutti d'accordo ed è me che volete far andare fuori di testa, ma non ce la farete!- Un profondo respiro e poi – massa di stronzi!!” Lanciato il suo anatema, la signora Sveva se ne va sculettando, cosa che le accade puntualmente nei momenti di grande furore. Qualche giorno dopo si viene a sapere che Alfa, la figlia, è fuggita di casa. L'avvocato su sollecitazione della madre è andato a cercarla. Intanto si arriva al venerdì santo. A quel tempo, nei sette giorni che lo precedevano tutte le campane venivano legate perché con i loro rintocchi non Milano 135 avessero ad interrompere il sacro silenzio. Veniva bloccato anche il macchinario che segnava e batteva le ore. Per tutta la valle giravano i Mascaràt-de-dolo (maschere di dolore): frotte di ragazzini col viso tinto di rosso, abbigliati di nero che roteavano le raganelle, battevano i tamburi e sparavano trik-trak a ripetizione. Ad ogni crocicchio, i Mascaràt-de-dolo si fermavano e davano l'avvisata alla memoria antica: “Sem arivà al primo quarto”. “El signor l'è bastonà” “Spudà” “E ghe fan turment” “Jesus, basa i ogi e no fa lament”. Quindi ricominciavano con i loro frastuoni: “Vergognansa e perdision, bative! Bative la faccia e ol coer con vergogna e pentiment”. Di seguito proseguivano in silenzio fino al nuovo crocicchio. Anche questa volta i penitenti se ne vanno intorno seguendo più o meno per lo stesso tragitto, ma quando arrivano davanti alla villa della Signora Sveva stanno un attimo in silenzio, quindi all’unisono cominciano a battere Milano 136 i tamburi ed a emettere un lamento simile ad un ululato di un branco di cani. Il capo "battidur" da il segnale di inizio della tiritera in litania. “Vergognanza e perdision” “Bative!” “Troiamento de putana el Signor a ve condana ” “Fornigon” “Dona bramosa scelerà, ti el to omen sarit brusadi” “Brusadi nel fogo ben rostidi col cü, la pàsera e i coion tutti schisciadi a ribaton!” “Pentive !” E giù a battere come forsennati producendo un frastuono terribile.… e poi petardi e botti a volontà. In casa, la signora si tappa le orecchie, urla, poi esplode di rabbia: spalanca la finestra del terrazzo e s'affaccia brandendo un fucile da caccia a due canne. Quindi spara nel gruppo dei penitenti. Due bordate tremende. Fuggi fuggi generale, tamburi che ruzzolavano giù per la scalinata. Insieme, due o tre Mascaràt-de-dolo. Il fucile era caricato a pallini da caccia all'anatra. Fra i ragazzi, in molti sono rimasti sbucacciati per fortuna quasi esclusivamente solo sulle natiche. Milano 137 Un'ora dopo dal medico Ballarò c'è una gran folla di Mascaràt-de-dolo che si fanno cavare i pallini. E un'altra folla urlante di madri in caserma a far denuncia dai carabinieri. Nella notte del venerdì santo, in quegli anni, si approntavano, ancora, le stazioni sacre. Ogni borgo s’impegnava a mettere in scena un momento della passione di Cristo. Ai parrocchiani di Porto toccò allestire il cosiddetto prologo alla Passione, cioè la scena di Erode che sbava d'amore per Salomé, e che poi finisce col supplizio del San Giovanni decollato. Anch'io facevo parte della compagnia e mi toccò un bel ruolo: quello di schiavo sventagliante. Piazzato sul fondo, andavo muovendo in su e giù un ventaglione così da arieggiare il terribile re, la sua amante Erodiade e la splendida Salomé, danzatrice solista. Al momento in cui la processione arriva al grande porticato del Municipio che funge da palcoscenico, si accendono quattro fari da lampara... e appare Erode che abbraccia l'amante. Erodiade è interpretata da un ragazzo, il Stralusc (saetta) travestito da donna con tanto di parrucca e tette. Milano 138 I partecipanti alla processione si sono sistemati tutt'intorno al portico. Dalle case e dai palazzi che racchiudono la piazza, si è affacciata un sacco di gente. Da un terrazzo di casa Mangelli si affaccia anche la signora Sveva. Sotto il portico, il re e la sua concubina si rotolano in una strana pantomima che assomiglia più a un incontro di lotta greco-romana che ad un amplesso amoroso. Preceduto da un botto di grancassa, entra in scena San Giovanni. L'indice accusatore teso verso i fornicatori e lancia il suo anatema: “Vergogna, ludibrio carnale! Sia maledetta la meretrice!” Ma ecco sopraggiungere le guardie che afferrano il santo recalcitrante e lo trascinano via. Erodiade è presa da una crisi di nervi... strepitando butta a terra piatti e vasi di cristallo …tutta roba di scarto della premiata vetreria, naturalmente. Colpo di scena: appare Salomé, la figlia danzatrice… la madre scoppia in lacrime e va implorando Erode: “Ti prego, mozza il capo a quel bastardo di San Giovanni! M’ha offesa!” “Ma figurati - fa Erode - poi arriva Gesù e mi pianta una maledizione che mi fotte per la vita!” S'arresta un attimo, sbircia la bella Salomé e dice: Milano 139 “Sì, gli taglio la testa, se tua figlia balla per me.” Salomé è già pronta: “D'accordo ci sto, ma prima giura sul Signore che se io danzo poi gli tagli la testa!” “Sì, lo giuro, ma tu in cambio ti togli tutti i sette veli!” “Facciamo cinque...” “No, o tutti o niente.” “Tutti!” urlano applaudendo i commensali alla tavola di Erode. Applaude anche il pubblico: “Prego maestro!” Ecco l'orchestra: due fisarmoniche, un sassofono, due trombe e il contrabbasso. Via con il liscio! Intonano un tango molto languido. La bella Salomé, (stavolta si tratta di una ragazza davvero splendida) danza roteando armoniosa fianchi e natiche... inarca la schiena, ondeggiano quasi a sfiorare il suolo. Ogni tanto si sfila di dosso un velo e lo butta in faccia a San Giovanni che è lì legato, mani e piedi. Al terzo lancio di velo, Erode si leva in piedi, raggiunge la ragazza e da lussurioso arrazzato, le salta in groppa come ad una cavalla. Salomé caracolla per la scena... si scuote e palpita nel tentativo di disarcionare il cavalcante indiscreto. Milano 140 Sopraggiunge la madre furente che brandisce un pesce enorme per la coda. Tutti i fedeli hanno ormai afferrato l'allegoria e sghignazzano spudorati. Scoppia anche qualche applauso. In molti si voltano verso il terrazzo di casa Rosmini per spiare la reazione della signora Sveva. Lei è lassù annichilita. Pare una statua del parco dei Lazzarini. Intanto sulla scena Erodiade sta prendendo la figlia a pesciate in faccia. Cavalla e cavaliere rotolano a terra. L'azione viene doppiata con botti di tamburi e pernacchi di trombe come nell'avanspettacolo. Erode si rialza stordito, si becca un'altra mazzata di pesce in piena faccia e crolla al suolo Erodiade brandendo la trota sferra un altro gran botto sulla cranio di San Giovanni che si stacca rotola sul pavimento fino a colloccarsi miracolosamente nel bel mezzo del classico vassoio… il trucco c’è ma non si vede. Effetto scenico da manuale. Applausi… fine del sacro dramma. Qualche giorno dopo la signora Sveva che ormai tutti in paese chiamavano Erodiade, fa i bagagli e se ne va con l'auto caricata di valige fino all'inverosimile, seguita da un camion a rimorchio stracolmo. Milano 141 La domenica dopo la grande fuga, come sempre, i parrocchiani gremiscono la chiesa per la messa. Sull'abside maggiore sfiliamo noi ragazzini del coro con indosso le solite tuniche bianche di pizzo ricamate e le cotte rosse. Dal fondo della navata viene avanti l’Ingegnere… è abbigliato con giacca e pantaloni ben stirati, camicia bianca e il solito fuolard al collo. Al passaggio qualcuno lo annusa: nessuna puzza di pesce o di cloaca, solo eau de toilette. Si va a sedere sulla panca con inginocchiatoio di famiglia, sorride al sacerdote che ricambia e fa segno a noi del coro di intonare "Te laude Domine". A gran voce iniziamo a cantare: tonno solenne, ma piuttosto mosso, quasi festante. Il conte ingegnere si leva in piedi e si unisce al coro, tutto il pubblico dei fedeli fa altrettanto… in un tripudio proprio da gran finale. La “risciada” Agli inizi della primavera tutti i ragazzi e le ragazze del lago erano in fermento: stava per esplodere la “risciada”, in poche parole è il tempo in cui tutti i pesci vanno in fregola e letteralmente esplodono fuori dall’acqua. Per coloro che sono totalmente digiuni di pesca e di ritualità naturali della fauna ittica, dirò semplicemente che quello è Milano 142 la stagione in cui i pesci vanno in amore (appunto fregola). Lasciandosi trasportare dalle onde, le femmine arrivano nei pressi della riva per depositare le uova fino a lambire la risciada (costa sassosa). Di lì a poco sopraggiungono i pesci maschi che fecondavano le uova dopo un rituale che li vede sparati fuori dall’acqua con piroette e tuffi infiniti. Tutti noi ragazzini ci si incontrava in battera sull’imbarcadero e quindi si decideva dividendoci in gruppi dove andare: chi sceglieva di montare a nord lungo la costa, e che di scendere verso Laveno. Ognuno s’era portato uno o due secchi… i più organizzati perfino reti a quadrella e retini da pesca. Quelli del mio gruppo avevano scelto la spiaggia verso Luino. C’eravamo dati appuntamento all’alba: bisognava trovarci sul posto della fregola prima che il sole spuntasse dalle montagne. Eravamo tutti eccitati, specie le ragazzine… oltre i secchi impugnavano lunghe canne per scacciare le serpi che in quell’occasione non mancavano di ritrovarsi, come noi, in riva al lago. I vecchi fabulatori raccontavano che quello di partecipare alla sferzola dei pesci era un rito antico, che risaliva al tempo delle prime comunità matriarcali del Verbano. Milano 143 Il Civolla che era lo storico più prestigioso e riconosciuto della tradizione locale… ci assicurava che nemmeno cento anni prima solo alle donne, in particolare alle giovani che stavano emergendo dalla pubertà, era concesso il privilegio di partecipare alla grande fregola. Era la prima volta che mi capitava di assistere a quello straordinario fenomeno… non avevo ancora compiuto dieci anni; forse, a parte due compagne di classe, ero il più giovane di tutta la combriccola. Arrivati alla riva, abbiamo cominciato a saltellare sui piccoli sassi del greto… “Attenti! Lì c’è un verdone!” ed ecco che ognuno si lanciava contro quella povera serpe che se la dava a gambe, si fa per dire. “Eccone un’altra… via, scasciga!” “Ma che ci fanno tutte queste serpi? – Chiedevo io – Normalmente qui non se ne vedono mai!” “Sono venute per la nostra stessa ragione – era la risposta – per acchiapparsi qualche pesce appena comincerà la fregola.” “Perché? Cosa succede con ‘sta fregola?” “Aspetta un attimo ancora e vedrai…” Milano 144 Infatti non passa neanche un minuto che dalla conca dei Verzoni (i monti della Valtravaglia) vediamo sparare una raggiata a ventaglio di luce… si leva il sole e fa capolino dal monte alto investendo con una lunga sferzola d’oro tutta la spiaggia. “Ecco, cominciano le alborelle!” Dall’acqua appena increspata da una bava di vento… ecco saltare per aria due o tre piccoli pesci e poi, più in là, un getto sparato di trenta, quaranta in un botto. Su, su… e SPLASH!… che ricadono nell’acqua. Sono femmine e maschi che saltando si sfiorano: sembrano strusciarsi innamorati nell’aria. “Guardate adesso siamo alla gran sfregolata!” Il sole di taglio coi suoi raggi va esaltando quel luccicare di squame leggere di mille pesci impazziti. Qualche manciata d’alborelle e acquarole va ricadendo sulla ghiaia. Noi, completamente scalzi e zompettando con la maggior agilità possibile sulle pietre che ci tormentano i piedi, rincorriamo i pesci che saltellano a loro volta sul ghiaione. Ne raccoglievamo a secchiate! Ad un certo punto, uno dei ragazzi più grandi si toglie maglia e braghette e brandendo un gran retino entra in acqua dove si trova letteralmente tempestato da pesci Milano 145 acrobati che gli volano addosso e da soli si ficcano dentro la rete. “Presto, passatemi il secchio!” Il Pelata, un ragazzino dal cranio rasato, toltosi tutti gli abiti di dosso e rimasto completamente nudo si getta in acqua, accompagnato dalle grida scandalizzate delle ragazze. Di lì a poco tutti si gettano in mezzo a quella spruzzata a fontana di pesci che monta fino all’inverosimile. Ecco il culmine… anche una ragazza si toglie le vesti, rimanendo in mutandine e coprendosi con le braccia i piccoli seni, e a sua volta si butta. “I cavedani!- grida una sua compagna gettandosi seminuda – Stanno saltando anche i cavedani e i lavarelli!” Infatti ecco che adesso schizzano i pesci più grossi che montano svirgolando in aria agili come delfini. Le ragazze sono ormai entrate tutte in acqua… ci entro anch’io. Con grande imbarazzo mi trattengo le mutande con una mano poiché nel togliermi le braghe avevo strappato l’elastico… ma in verità nessuno ci faceva caso. Ora ragazzi e pesci saltano insieme nell’acqua. Milano 146 “Dio come sono in fregola!” grida un piccoletto lanciandosi nel vuoto da uno scoglio, quindi esegue una piroetta con spatasciata in acqua. “Sì, sì… siamo tutti in fregola!”… e via a zompare! Ormai i mastelli sono tutti stracolmi. “Oh Dio! Mi si è infilato un pesce nelle mutande!” “Tienilo stretto - lo sbeffeggia un amico – è di sicuro più vispo e grosso del tuo naturale!” Scoppia una gran risata. Sbottano anche le ragazze… e sembra che riescano a sghignazzare anche trote e lucci. “Dove scarichiamo i secchi?” chiede la ricciolina dai piccoli seni. Poco distante c’è una barca immersa nel fondo perché si gonfi il legname. In quattro o cinque la tirano fuori, la rivoltano con la chiglia all’aria così da svuotarla, quindi la ripongono a galleggiare spingendola verso di noi e facendola scivolare sul bagnasciuga. “Qui! Zompate qui pesci, pescetti e pesciolini!” Quasi ubbidendo all’ordine impartito, alborelle, cavedani, piotte e troterelle si gettano davvero dentro la pancia della barca. Una morettina dalla pelle di latte, l’unica che esibisca poppe regolamentari, urla disperata: Milano 147 ” Oh Dio! Mi ha spaccato le mutande!” “Chi? Dove? Come? Quando?” domandiamo tutti noi in coro. “Una trota, credo. L’avevo infilata dentro gli slip per via che il secchio era stracolmo. ‘Sta disgraziata ha cominciato a divincolarsi come una forsennata e me le ha squarciate.” “Niente paura, ti presto le mie!” La tranquillizzava il Rosso e così dicendo, si libera delle sue mutande e gliele lancia. Il sole era già alto quando esausti siamo rientrati all’imbarcadero spingendo il barcotto appesi alle sue sponde. I nostri abiti sono ammucchiati sulla prua dell’imbarcazione. Ormai s’è creata una tale euforia e complicità per cui nessuno di noi si preoccupa più di nascondere le proprie vergogne. Lì nella piccola insenatura del castellotto ci togliamo quel che rimane di mutande e slip… ma prima di rivestirci, ci rituffiamo mandando grida da selvaggi e sguazziamo lanciandoci l’un l’altro per aria. Era la prima volta che vedevo tanti ragazzi e ragazze senza niente addosso… sembravamo a nostra volta una” fregolata” di pesci in festa! Milano 148 Amenofet e Nofret Avevo compiuto da poco tredici anni. Una sera, all’imbrunire, con quelli della battera siamo andati a sgraffignare nel giardino della polacca che possedeva una villa arroccata a cento metri a picco sul “Grifone”, uno slargo di lago profondo più di 300 metri di un colore sempre blu cobalto. Sapevamo dal “Vescica”, il più anziano della banda, che la tenuta in quei giorni era disabitata. Ci siamo calati dalla murata di cinta scendendo lungo i rampicanti. L’obbiettivo della nostra scorreria erano i grappoli d’uva fragola che pendevano dal pergolato che circondava quasi tutta la villa… sembravano frutti del paradiso terrestre! Eravamo in quattro: la nostra guida era il “Bigulot” che s’era calato sul tetto del pergolato e avanzava strisciando verso i grappoli più gonfi e succulenti. Noi lo imitavamo badando di non cadere di sotto. Io ero l’ultimo della comitiva, prima di me strisciava il “German”, figlio di un soffiatore tedesco. Stavamo rasentando la vetrata che s’affaccia sul “Grifone”, quando all’istante le ante di centro si sono Milano 149 spalancate: noi quattro all’unisono ci siamo appiattiti fra le foglie della vite. Qualcuno si è affacciato dal finestrone… un uomo e una donna che, per fortuna essendo noi completamente immersi nel buio, non ci potevano scorgere. Ho sollevato appena la faccia per sbirciare e ho riconosciuto la ragazza. Elise si chiamava, era la donna di uno dei faccendieri più ricchi di tutta la valle: il Brizzi detto “Scorridor”, un balordo a capo di tutta la ligera della valle. “Tu guarda che colore ha il lago è proprio blu cobalto, è la prima volta che mi riesce di vederlo da così a picco, fa paura!” dice Elise sottovoce all’uomo che le cinge la vita. Ma l’uomo che sta con Elise non ha niente a che spartire col ligera. È molto più giovane. Lui l’abbraccia, si baciano… adesso parlano sottovoce, bisbigliandosi uno nella bocca dell’altra. Noi tratteniamo il respiro, io ho la faccia affondata fra il fogliame, mi viene da starnutire, per fortuna i due si staccano dalla finestra, rientrano appena, li sentiamo gemere e ansimare. La paura non ci permette di godere di quel clima da guardoni. Non so quanto tempo sia continuato quel loro idillio con amplessi, intorcinate, piccole grida e lamenti. Le luci, dall’interno, proiettavano Milano 150 immagini sulla vetrata, ingigantendole e raddoppiandole, cosicché si aveva l’impressione che ad abbracciarsi e a rotolarsi come in una danza, fossero addirittura tre o quattro coppie... certo quando hanno richiuso la vetrata e spente le luci, noi eravamo esausti. Non riuscivamo più a spiluccare neanche un acino di quell’uva profumata. Ci siamo calati dal pergolato e cercando di fare il minor rumore possibile abbiamo scavalcato il muraglione. Raggiunto il sentiero scavato nella roccia, uno dietro l’altro si camminava senza proferir parola, poi all’improvviso Bigulot ha esclamato: “Dio, come si “sbarlottavano” quei due! Ad un certo punto non si capiva se giocavano a gattolarsi o si stavano sgagnando la pelle!” “Di certo se li becca il Brizzi voglio ridere le sgagnate - fa il Vescica - La pelle gliela cava lui di sicuro.” “Ma voi avete riconosciuto l’uomo con cui lei faceva l’amore?” chiedo io impacciato. “Sì, era il “Monco”, figlio della polacca.” “Il monco?” “Ma sì, possibile che tu non l’abbia mai visto? Gli manca una mano, se l’è mozzata con l’elica del motoscafo.” “Oh, poveraccio!” Milano 151 “Ad ogni modo - fa il Vescica - Io mi farei mozzare anche un piede, pur di farci l’amore con quella Elise. Dio che bella che è! Per un attimo l’ho vista tutta nuda che attraversava la vetrata” La situazione di noi quattro… ladri di uva, sospesi acquattati sul pergolato nel buio, la grande vetrata illuminata sulla quale come fossimo al cinema venivano proiettati i corpi dei due innamorati le cui ombre si muovevano come danzassero in un rito di indicibile passione, mi erano rimaste stampate nel cervello in continuo movimento. Quasi per liberarmi da quella ossessione ho cominciato a disegnare, a raccontare quelle immagini accennando alle straordinarie deformazioni dei corpi che si contorcevano nello spazio di luce e s’ingigantivano riempiendo tutta la vetrata e poi si rimpicciolivano raddoppiandosi, scomparendo… per poi esplodere in sequenze assurde e piacevolissime. Stendevo macchie di colore su una superficie nera… in primo piano avevo dipinto grappoli d’uva e il profilo di un ragazzino… quindi ritagliati nel rettangolo della finestra, due innamorati che si tenevano stretti. La vetrata copriva quasi tutto lo spazio del dipinto… le ombre colorate si Milano 152 inseguivano deformandosi sull’enorme lastra quadrettata degli infissi. Ogni bozzetto mi sollecitava altre soluzioni, così ho dipinto e ridipinto decine di tavole. Mia madre mi chiedeva: “Cos’è ‘sta follia? Pare la cappella Sistina vista da uno in trans!” E io allucinato lo ero davvero. Per fortuna, dopo qualche giorno quell’ossessione mi stava del tutto uscendo di testa. Sto passeggiando lungo la riva con il mio cane (non l’avevamo ancora affidato al canile-lager). All’istante mi sento chiamare: è lui, il Monco, figlio della polacca. Sta affacciato alla balaustra dell’imbarcadero. È in controluce e i capelli riccioluti sembrano incisi nel rame. “Mi piacerebbe vedere qualcuno dei tuoi quadri che ha i dipinto con me e Nofret!” (Quello era il vero nome della donna del faccendiere). Come fa a saperlo? Da chi l’ha saputo? Qualcuno dei miei compagni di sicuro! Solo a loro e a mia madre ho mostrato i dipinti. Il ricciuto mi toglie subito dall’imbarazzo: “Stai tranquillo, Brusapé (Bruciapiedi era diventato il mio soprannome dopo la fiammante discesa appeso alla Milano 153 teleferica), non l’ho saputo per via di una spiata. Il fatto è che io vi avevo visti distesi sul pergolato dell’uva fragola. Per caso poi ieri ho beccato il Manac e il Bigulot e gli ho fatto un salta fosso. Loro, credendo che io sapessi tutto, mi hanno raccontato anche delle tue pitture. Ti spiace farmene vedere qualcuna? Mi hanno detto che sono molto belle!” “Non c’è problema!” gli ho risposto. Mi ha accompagnato a casa. Siamo saliti nello stanzone dove dipingevo e gli ho mostrato le tavole: è rimasto in silenzio per non so quanto tempo. Poi sottovoce ha mormorato: “Te li compro! Quanto vuoi?” Mi ha preso così di contropiede che ho balbettato qualcosa senza senso. Poi ho concluso: “Niente, niente… te le regalo volentieri –poi in fretta – Basta che me ne lasci uno.” Era incredibile la velocità con cui, servendosi di una mano sola, riuscisse a sollevare i dipinti uno dietro l’altro, a rivoltarli e a smazzarli come fossero un gran mazzo di carte e alla fine infilarseli tutti sotto le ascelle salvo quello che aveva deciso di lasciare a me. Milano 154 “Mi hai fatto un gran regalo! – poi ha concluso uscendo – Non so proprio come potrò ringraziarti…” e se ne è sceso velocissimo le scale. Gog gli andava appresso saltandogli intorno e cercando di addentare qualche tavola che il Monco si portava via come un bottino. La sera stessa il Manac è arrivato sotto la mia casa correndo trafelato: “Scendi – mi grida e intanto mi viene incontro sulle scale hanno massacrato il Monco!” “Massacrato? Quando? Dove? Chi è stato?” “Il Brizzi con i suoi scagnozzi. In cinque sono piombati alla villa della polacca… li hanno trovati tutti e due nel letto. Lei l’hanno sollevata di peso, nuda com’era, e se la sono portata via… con tutto che sgambettava, si divincolava e gridava come un’aquila. Lui l’hanno cazzottato e preso a calci fino a ridurlo un sanguinaccio!” Ci interrompe un urlo di sirena. “Ecco, lo stanno portando all’ospedale di Luino!” L’autoambulanza transita proprio in quel momento a gran velocità ed è seguita da una macchina nella quale scorgiamo di sfuggita la polacca, sua madre. Milano 155 In chiesa tre giorni appresso, alla messa della domenica ho intravisto Nofret: calzava occhiali neri e aveva il viso tumefatto. Stava sul fondo, vicino al confessionale. Mi ha fatto cenno di seguirla ed è uscita. L’ho raggiunta nel vicolo dietro il campanile. Mi ha preso le mani: “I tuoi lavori li ho io! Non ci capisco un gran ché di roba d’arte, ma ti giuro… quelle pitture mi hanno fatto venire i brividi. Eravamo proprio noi due impacioccati d’abbracci!” “Grazie. Come sta il Monc… voglio dire il Risul… insomma il tuo moroso?” “Si sta rimettendo pian piano. Io non l’ho ancora visto; sua madre non vuole manco che vada all’ospedale. Dice che io lo sto rovinando… il suo ragazzo. Per fortuna, lui mi ha mandato un biglietto.” “Io pensavo di andare domani a trovarlo.” “Ecco, era per questo che ti ho chiamato. Puoi fargli avere una lettera per me?” Così dicendo mi consegna una busta e mi stampa un gran bacio sulla guancia, poi mi abbraccia. Sto per andarmene un po’ sbirolato, quando lei all’istante mi richiama: Milano 156 “Oh mi dimenticavo! Ho pensato di preparare una bella sorpresa al mio rizzolo per il suo ritorno. Te la senti di farmi un ritratto?” “Subito?” “No, se è possibile verrei a casa tua oggi dopo pranzo… sempre che tua madre non abbia niente in contrario.” “Mia madre sarà felicissima. Ti aspetto… a che ora arrivi?” Erano le due del pomeriggio quando all’improvviso ho sentito bussare al mio camerone: era lei, Nofret. “Ma da dove sei arrivata? Ero qui affacciato sul piazzale e non ti ho vista attraversarlo!” “Arrivo dagli orti… da dietro la casa. Ho saltato tre siepi e due staccionate e così finalmente sono riucita a tirarmi via di dosso i suoi scagnozzi che mi stanno sempre appresso. Non vorrei che venissero a menare anche te!” “Ah bene… bella prospettiva!” S’è tolta gli occhiali scuri: “Nel ritratto, ti prego, non metterci ‘st’occhio pesto!” Ha davvero un occhio tumefatto, violaceo: “Sei bella anche così!” azzardo e poi arrossisco all’istante. La faccio accomodare a fiancio della finestra: “Se non ti spiace, proverei a ritrarti in controluce.” Milano 157 “Decidi come vuoi… un attimo, aspetta – affonda la mano nella sua sacca ed estrae un tubo portadisegni – Ho qui una riproduzione che ti voglio far vedere. È un regalo del mio Rizul.” Srotola il foglio e lo stende: si tratta dell’ingrandimento di una foto. Due innamorati egizi… forse un faraone con la sua donna, uno appresso all’atra, si abbracciano teneri e felici. “Sono Amenofet e Nofret… Nofret, proprio come me! mi avverte lei - Gurada, hai notato come mi assomoglia?” “È vero, è quasi il tuo ritratto!” “Lo sapevi - fa lei pavoneggiandosi un po' - che io sono di razza egizia?” “Ma va?” “Sicuro! Sono nata al Cairo e mia mamma è araba. Mi piacerebbe che tu ci mettessi insieme come questi due, abbracciati allo stesso modo. Tieni, ti ho portato una una foto del mio Risul… se ti può aiutare.” “Benissimo, allora bisogna cambiare posizione. Ecco, straiati su questa specie di divano.” Nofret si toglie la giacca e rimane con addosso un lungo abito leggerissimo. Milano 158 “Se vuoi, posso togliermi anche questo: non mi dispiacerebbe esser ritratta nuda!” Per poco, non svengo di botto. Lei si rende conto del mio improvviso pallore e cerca di rimediare: “Va beh, se preferisci ritrarmi a memoria… tanto mi hai già vista spogliata dalla polacca quella sera, no?” Ho chiesto di andare in bagno un attimo a fare pipì. Sono tornato quasi subito. Lei si era messa in posa, sdraiata come la Nofret egizia. Ero molto turbato. La tela era già sul cavaletto. “Senti, preferisco, per cominciare, metter giù qualche disegno.” Abbozzo su quattro fogli, poi comincio a disegnare sulla tela e a dipingere. Seguivo incantato le linee del suo corpo che correvano segnate dal controluce e l’inseguirsi dei volumi che si incastravano larghi e maestosi. Non mi rendevo nemmeno conto del tempo che passava… lei era sempre lì sdraiata come affacciata in un altro mondo. “Il sole sta calando. Dobbiamo smettere.” Nofret si scuote come risvegliandosi: “Fammi vedere cosa sei riuscito a combinare? - chiede sollevando la tela - Sì, sì!” e si è messa a saltellare per tutto lo stanzone. Milano 159 “Sono io… ah, ah, mi hai fatto le treccine come quelle della mia antenata!” e mi è venuta vicino. Mi aspettavo mi sbaciucchiasse… invece mi ha preso in braccio e girando su se stetta ripeteva quasi cantando: “Bravo! Bravo… il mio fenomeno! Vorrei restare incinta e partorire un ragazzino magico come te!” Poi mi scarica sul divano come un sacco e guardando l’orologio eslama: “Oh, mio Dio! Son già le sette. Sono in ritardo di un’ora. Quel bastardo di Brizzi mi farà nero anche l’altro occhio!” e via che se ne va sgambettando giù per le scale. Mi affaccio alla finestra e la sgorgo che attraversa l’orto correndo seguita da Gog che le scodinzola appresso. Mi accorgo che nella fretta ha lasciato qui la sua sacca. Spalanco la finestra e la chiamo, ma non mi sente… neanche Gog mi sente o forse fa finta. Afferro la sua borsa e mi precipito per le scale… taglio per i vicoli del paese; forse riesco a raggiungerla prima che arrivi al palazzotto dove abita col balordo. Monto la scalinata dei Malarbeti ed eccomi lì davanti al cancello che da nel giardino del Brizzi. C’è un furgone della Polizia e anche una camionetta dei Carabinieri. Di lì ad un attimo vedo uscire due poliziotti che spingono avanti il Brizzi ammanettato. Milano 160 Appresso, in fila come i re magi, escono anche i suoi scagnozzi tutti con le manette pesanti, da campagna. Con loro c’è anche il mio amico, il Maresciallo dei Carabinieri. “Cosa è successo?” “Beh, tu dovresti saperlo…” e prosegue fino alle macchine per controllare che i prigionieri siano sistemati a dovere. Partito il furgone, torna indietro. In quell’istante sopraggiunge Nofret con il mio Dansese che non smette mai di strusciarlesi addosso… io e il mio cane abbiamo gli stessi gusti! Ad entrambi il Maresciallo racconta che la madre del monco, la polacca lo stesso giorno in cui il figlio è finito all’ospedale, è corsa dal commissariato di Luino a sporgere denuncia contro il balordo per l’irruzione nella sua casa di quegli energumeni con relativo pestaggio ai danni del figlio, ricoverato con prognosi riservata. Inoltre, tanto per gradire, i lestofanti si son portati via suppellettili di valore e alcuni preziosi che stavano in un mobile della camera della signora. “Per loro disgrazia, siamo entrati nel momento in cui la nostra onorata gentaglia stava confezionando porzioni di coca da smerciare.” “Tombola!” dico io. Milano 161 La ragazza compie una gikravolta su se stessa lanciando un grido acuto di trionfo. Il maresciallo le sfila rapidissimo gli occhiali. “Buon per lei che questi lividi sull’occhio testimoniano il fatto che fosse costretta con la forza a rimanere col Brizzi! Per di più c’è la prova di queste foto.” Così dicendo mostra alla ragazza una sequenza di immagini scattate alla villa; nel momento in cui gli scagnozzi la sollevano nuda per portarsela via. “Chi le ha scattate?” chiede Nofret stupita. “I miei uomini erano appostati da un paio d’ore nel giardino: avevano ricevuto la soffiata che la banda del Brizzi sarebbe arrivata alla villa della polacca per regolare i conti.” “E com’è che non siete intervenuti a liberarmi e a tirar fuori il mio ragazzo dalle grinfie di quei farabutti. Avete lasciato che lo massacrassero… così, restando a guardare! “No – fa il maresciallo – non solo a guardare… dalla finestra abbiamo scattato un sacco di foto di quel pestaggio e poi se li avessimo fermati quella sera, oggi non avremmo la possibilità di incastrarli con la cocaina! Calcoli poi che per l’aggressione si sarebbero beccati al massimo un paio d’anni… invece per la droga se ne Milano 162 beccheranno altri dieci almeno. D’accordo, abbiamo lasciato che vi pestassero, ma adesso potete tirare il respiro per tutta ‘na dozzina d’anni. Siete liberi di amarvi come fringuelli a primavera!” “Grazie maresciallo… già che c’è non potrebbe incarcerare anche sua madre, la polacca?” Il maresciallo si fa una gran risata: “Lei non solo è ‘na bella guagliona, è pure vispa assai d’uocchi e di cerviello! Ma dateme retta: stanne luntano de la droga se vuoi campà cuntenta e sana!” Trascorso un mese, il Monco esce dall’ospedale. La madre, col pretesto che ancora non si è rimesso del tutto, lo porta ad Ascona, dove hanno la casa paterna. Non passano neppure tre giorni e il Monco è di nuovo a Porto. È arrivato con il suo motoscafo, lo stesso che gli aveva causato la mozzata di mano. Lei, bella come la sposa del faraone è lì sul molo che l’aspetta da non si sa quante ore. Lo scafo attracca, lui salta fuori, l’afferra per la vita e la trascina in un ballo scatenato: girano, girano… finiscono tutti e due finiscono in acqua. Tutta la gente che sta sul lungolago accorre. I due riemergono e ridono sbattendo le braccia sull’acqua e spruzzano tutt’intorno gli accorsi. Milano 163 Ma la madre del monco proprio non ne vuole sapere che suo figlio viva con quella “puttanella egizia”. Dopo aver inutilmente tentanto di convincerlo con le buone, passa alle soluzioni pesanti. Tanto per cominciare, vende la villa a dei turisti tedeschi così da costringere il figlio e l’amica a sloggiare, poi gli taglia i fondi. Il Monco ha sempre campato con i soldi della madre, adesso come se la cava? Gli è rimasto solo il motoscafo. Si mette allora a disposizione di un impresa di trasporti merci e passeggeri. Affitta una casetta proprio nei pressi della darsena, li incontro spesso. Sono proprio felici. Vorrebbero organizzare un bel matrimonio, ma non possono: il Monco è ancora sposato con una ragazza di Lugano. Non stanno più insieme da cinque anni; in Svizzera c’è il divorzio, ma lui è cittadino italiano e da noi non vale. Una domenica invitano sul piazzale della darsena tutti gli amici… ne hanno a bizzeffe. Ci siamo anche noi ragazzini. Hanno deciso di celebrare un finto matrimonio: sarà una cerimonia in rito copto. Arriva un soffiatore greco con tutta la sua comunità… c’è un uomo ausetero abbigliato con una tunica rossa e un cappello a tubo con un cerchio finale. Il gruppo dei greci comprese le donne sono in costume tipico del loro paese e hanno svariati Milano 164 strumenti: trombe, viole, fisarmoniche. Cominciano a cantare con musicalità che assomigliano al gregoriano. La sposa indossa una vesta molto accollata che scende come un colonnato con sottili plissé fino ai piedi. Lui è in tight. Durante la cerimonia in cui tutti impugnano candele e scuotono campanelle, grande è la commozione. Qualche donna non trattiene le lacrime. Hanno sistemato un gran tavolo sullo spiazzo in riva al nostro lago… stanno servendo un pantagruelico pranzo offerto dai pescatori. Sul più bello arriva anche il parroco… è venuto ad abbracciare i due sposi della concorrenza. Ho sempre pensato che quel prete fosse un uomo di grande spirito! È il momento dei regali; quando tocca a me, tiro fuori una tavola tutta impacchettata. Lascio che sia lo sposo a liberarla dai lacci e dalla carta, anche Nofret l’aiuta fremente. Alla fine si scopre il contenuto. Appaiono loro due in gran ritratto, sdraiati uno appresso all’altro, seminudi, ma adorni di collane. Gli apprezzamenti sono coperti dalla musica di una banda di ottoni che intona un gran valzer e la piazza si trasforma in una gigantesca balera. Milano 165 Come comincia a calare il sole, tutti accompagnano gli sposi all’approdo della darsena dove è preparato il motoscafo adorno di fiori. Nofret salta dentro all’unisono col suo Rizzul. La banda inizia un gran finale semi glorioso. Parte il motoscafo, tutti applaudono e salutano agitando le braccia. Qualcuno da la notizia che la madre polacca è morta una settimana prima e che ha lasciato tutto al figlio perdonandolo… una fortuna. Ci stiamo allontanando dalla darsena, quando sentiamo un gran botto, ci voltiamo a guardare verso il lago. Il motoscafo s’è impennato, sembra volare, poi di colpo scende a picco verso l’acqua e si infila dritto nel lago fino ad inabissarsi… scompare. Tutti accorrono. I pescatori salgono sulle loro barche. Qualcuno mette in moto un altro motoscafo. In pochi secondi sono laggiù sul luogo del disastro. Dal motoscafo un ragazzo si tuffa… arrivano i pescatori, altri uomini scendono in acqua. Li hanno ripescati, li caricano sulle barche, ma indugiano. Stanno cercando di far vomitar loro l’acqua. Sul molo sopraggiunge anche il medico condotto… qualcuno è andato a prenderlo, ha con se dei medicinali che riattivano la respirazione. Tornano le barche: i giovani vengono stesi Milano 166 sul prato, uno vicino all’latra. Il medico pratica le iniezioni ad entrambi. Qualcuno preme il torace al Monco e si prodigano anche con la ragazza… passano i minuti, ma non si riprendono. Siamo tutti intorno come pietrificati. Il parroco s’inginocchia, li benedice e prega. Cominciano a riaccendere le lunghe candele della festa. Le due salme non si possono rimuovere. Bisogna attendere il giudice di servizio che arriva da Luino. Il cielo si fa rosso e proietta un alone vermiglio su tutti noi. I Bindula Bindula viene da abbindolare, beffare. I bindula erano appunto, una banda di balordi sfaccendati, autentici campioni della beffa, addirittura geniali nell'architettare e mandare a segno scherzi a dir poco diabolici, quasi sempre crudeli. Organizzavano "bindolate" ai danni di tutti gli sprovveduti della valle e dintorni. Non guardavano in faccia nessuno... erano spietati. Ma il loro soggetto preferito era l'Ardito, detto "Pacioch". Un energumeno candido e credulone, pareva un tronco dal quale spuntassero margherite: il Milano 167 classico "grand-gross-e-ciula". Insomma il capro espiatorio ideale per quei ciurlatori balordi. Uno dei capi della banda, si fregiava del nome di una famosa pianta urticante: Gratacù. Il Gratacù, si ritrovava un giorno dall'amico sfasciacarrozze, sopra il paese. Nell'officina stava smontando una vecchia auto, facsimile della gloriosa Bugatti, per utilizzarne solo alcuni pezzi, gli altri erano da buttare. Avevano già staccato le fiancate, portiere comprese, il cruscotto, la voluta del bagagliaio e il motore ridotto a un catorcio. Alla vista di quel relitto d’auto al Gratacù viene un'idea sbilenca: convince l'amico sfasciacarrozze ad imprestargli il rottame, così come sta, per mezza giornata. Quindi con l'aiuto di altri due bindula come lui, si da da fare per riassemblare di nuovo la gloriosa macchina e riverniciarla con uno smalto brillante. Il motore lo tengono da parte. Quindi da perfetti carrozieri ciurlatori, servendosi di un rotolo di bava da pesca (la cosiddetta lenza), i tre assicurano ogni pezzo alla scotta del telaio e fanno scorrere i vari fili, rastremandoli e affrancandoli dietro il bagagliaio. In poche parole hanno appena imbastito l’intera carrozzeria. Milano 168 Approntata la trappola, si danno a spingere la macchina tenuta insieme dai fili giù per la discesa che porta alla darsena di fronte allo chalet del bar Mira Lago. In vista dello chalet i due bindula si acquattano dietro il bagagliaio e la fanno scivolare fino allo spiazzo. Dentro l'auto c'è il Gratacù che finge di guidarla. Giunti davanti al bar, tutti i clienti seduti ai tavoli si levano in piedi e osservano meravigliati quella vettura da museo… il finto autista scende e chiama l'Ardito Pacioch, che se ne sta seduto proprio lì fuori, come un gattone imbesuito. “Ehi, mi fai un favore? Se non ti disturbo...” Il Pacioch scatta in piedi all'istante. Poter essere utile a qualcuno dei bindula è per lui un onore ineguagliabile. “Mi si è asciugata tutta l'acqua del radiatore... per poco non vado a fondere tutto quanto. Mi fai una cortesia, Ardito, vai dentro nel bar e ti fai dare un secchio d'acqua. Guarda ti lascio aperta la portiera... mi raccomando, poi chiudila, ma senza sbattere come tuo solito. È una macchina molto preziosa e delicata!” Il tontolone si precipita nel bar, tutto eccitato. Gli capita raramente che gli concedano tanta fiducia! Torna di corsa Milano 169 con il secchio dell'acqua e trova il cofano dell'auto già spalancato. Il Gratacù afferra il secchio: “Grazie, dai a me, faccio io, tu preoccupati di chiudere la portiera... fai piano!” L'Ardito si sforza di agire più dolcemente possibile, ma come spinge la portiera, quella si richiuse di scatto con un gran botto. Dietro il portabagagli, i due compari tirano con forza il cavo della trappola: strappano le lenze fissate ai vari pezzi della macchina cosicché tutto l’assetto crolla rovinosamente… franano le portiere, il cruscotto salta per aria, si spalanca il cofano. Scatta il congegno decappottabile che scaraventa il tetto proprio addosso al Gratacù… il ciurlatore recita un rovinoso ruzzolone e resta a terra come morto. Da dietro la macchina a pezzi spuntano all'istante, come burattini dalla cesta, i due compari che recitano terrore e disperazione. “Cristo, Ardito ma cosa hai combinato?!” “Ci hai buttato una bomba?” Il povero Pacioch è annichilito, stravolto. “Cos'è ‘sto disastro?” chiedono a gran voce i clienti che escono spaventati dal bar. Milano 170 “Non so - balbetta l'Ardito - io ho chiuso solo la portiera… piano, piano!” Alcuni soccorrono il Gratacù, che recita sempre il morto fresco. Appena rinvenuto, Gratacù scatta come una catapulta e aggredisce l'Ardito: “Bestia scatenata, ti rendi conto che hai mandato in pezzi un gioiello della tecnica?! Ce l’avevano imprestata solo per un’ora. E adesso chi la ripaga?” Uno dei balordi grida indicando l’interno del cofano: “Guardate, qui non c'è più il motore, è sparito!” Tutti si guardano intorno... Un ragazzino punta il dito verso il grande platano: “È lì, sulla pianta! Si è incastrato fra la forca dei due rami!” È inutile sottolineare che gli organizzatori della beffa l'avevano sistemato lassù prima della sceneggiata. “Ditemi voi – fa osservare uno dei compari - che botta ‘sto energumeno deve aver tirato per far schizzare il motore così in alto! È una forza della natura. Ha dei muscoli da bestia, bisognerebbe imporgli di girare con due cerchi di ferro intorno nelle braccia per bloccargli la potenza propulsiva, se no è un pericolo per tutta l'umanità.” Il povero Ardito si guarda intorno come perduto, deglutisce mortificazione... d'un colpo si decide. Milano 171 “Va' bene, ditemi da che fabbro si deve andare a farsi mettere ‘sti benedetti cerchi...” “Dal maniscalco!” gli rispondono in coro. E così, come in processione lo accompagnano tutti a sistemargli davvero i ferri che, guarda caso, erano già pronti della sua misura! Dal nonno A quattordici anni sono stato ammesso al Liceo di Brera attraverso una selezione molto dura. Fra trecento concorrenti, solo quaranta avevano superato l’esame di ammissione. Quell’anno, per le vacanze di Pasqua sono andato da nonno Bristìn e dalla nonna. Appena arrivato in Lomellina, mi ha stupito che non mi venissero incontro i soliti nugoli di moscerini e zanzare. Per forza! Eravamo solo a marzo e la spollazzata degli insetti rognosi era ancora da venire. In compenso, al tramonto, man mano che il sole s’affondava dietro lo scorrere del Po, saliva il gracidare delle rane che all’istante s’ammutolivano tempestando di tonfi l’acqua dei canali e delle rogge… non per niente eravamo a Sartirana. Milano 172 Come sono arrivato al cascinale del nonno, quasi non lo riconoscevo: i rampicanti che salivano lungo i pilastri degli arconi del quadriportico erano fioriti… dalla balconata sottotetto scendevano gelsomini e cascate di rosette. Anche contro i muri delle stalle e della legnaia c’erano sviorgole di colore. Non parliamo degli orti… appena col nonno siamo montati sul ponte a schiena d’asino che attraversa il canale e ci siamo affacciati di la, davanti a noi ci sono apparsi gli orti disegnati come un’enorme tavola da gioco degli scacchi, trapuntata da infinite tessere di mosaico che proponevano una prospettiva impossibile… da bloccarci il fiato. Le pedine maggiori e minori erano gli alberi da frutto che avevano sparato fiori a pioggia, ad ombrello, a sbroffo. In mezzo il bersò vestito da strulli rossi era la regina. Il quercione affogato dalle zinale gialle aveva proprio la positura di un re furibondo. I cavalli erano veri: il bertocco e la puledra. Mio nonno godeva in silenzio del mio stupore, poi mi ha soffiato, quasi da suggeritore: “Non guardare solo con gli occhi, guarda anche con il naso!” “Guardare col naso?” Milano 173 “Sì, annusa, ascolta gi odori e i profumi!” “Eh sì, li sento… sono buonissimi!” “Attento che il profumo, l’odore è qualcosa che devi saper leggere. Per esempio, vieni qui sotto a ‘sto ciliegio: annusa lento, aspirando piano. Senti, ha un fondo appena salato… questo invece che è un altro ciliegio ha un odore più dolce, quasi rotondo e più intenso dell’altro. E sai il perché? Per il fatto che il primo albero ha buttato i fiori troppo presto e s’è beccato una gelata. Quest’altro non ha avuto fretta di fiorire e ha evitato il guaio!” “E tu lo capisci dall’odore?” “Certo, e dall’odore so già come saranno i frutti: il raggelato li farà tardi e magri, il secondo darà sgrafioni pieni e profumati. Del resto succede così anche fra gli uomini. Se un bambino si becca un malanno serio, prima che si riprenda ci vuol tempo, buone cure, cibo e calore e dal suo odore si può capire che non è in gran forma.” “E com’è che i dottori quando ti visitano non ti annusano mai?” “Perché hanno dimenticato l’antica medicina. Sui trattati salernitani che insegnavano come si conduce una visita sul paziente c’è scritto: ‘Tasta la sua pelle e i suoi muscoli dal Milano 174 collo fino ai piedi, ascolta come gli circola il sangue, assaggia con le dita la pelle fino a scoprire dove è dolce, umida o dove è asseccata e soprattutto annusa, indovina l’umore, il salato, l’amaro… là dove è piacevole e dove pute… come a dire dove puzza!” “Davvero? Ma quante cose sai tu nonno… ma hai studiato da dottore?” “No, sono solo un gran curioso che non s’accontenta facilmente delle nozioni che ti propinano sia i libri che i professori! Vedi, per le piante, per le patate, i fiori o i pomodori il discorso è lo stesso: se una mela è beccata da un insetto bastardo o infettata da un virus, subito reagisce cambiando il suo odore, prima ancora dell’aspetto. È un segnale che ti da gratis. Così come per un uomo o una donna… il suo buon odore non ti avverte soltanto che sta in salute, ma anche del suo umore. Se poi ti lancia una sberfola di profumo, significa che sta provando un’emozione, che magari tu le piaci e se tu ci stai, se senti un fremito o ti batte il cuore, stai tranquillo che allo stesso modo anche tu sprizzerai nell’aria il tuo messaggio di odore compiaciuto!” “E tutti si accorgono? Basta che sniffino?” Milano 175 “Purtroppo no. Uno che s’innamora, guarda negli occhi la sua ragazza, s’accorge che lei è impallidita o arrossita, che trema, che ha le mani madide di sudore per la commozione, ma non ascolta il suo odore, non lo sente perché abbiamo perso l’olfatto… siamo rimasti castrati di questo senso fondamentale!” Ero costernato: “Che guaio! E ormai non c’è più niente da fare?” “Beh, qualcosa, facendo degli esercizi, si può rimediare…” “Esercizi di annusata?” “Sì, proprio: allenarsi a snaricciare ogni cosa, ogni persona come fanno gli animali. Un cane, che t’incontra, ti annusa… se non gli piace il tuo odore se ne va schifato e ti va bene se non ti piscia pure addosso.” “Nonno mi stai a sfottere! Adesso per ritrovare l’olfatto devo fare il cane … mettermi a carponi e annusare le game e magari anche il sedere di tutti quelli che incontro?!” Il nonno ride proprio di gusto: “Complimenti! Ottimo sfottò. Ad ogni modo ti consiglio di provarci, magari senza dare troppo nell’occhio… pardon, nel naso, ad assaggiare le puzze e gli odori buoni. Vedrai che ti farai una bella cultura!” Milano 176 “Una cultura sulla puzza?!” “Sì, non ti sei mai chiesto perché le donne e ormai anche gli uomini si annaffiano di profumo?” “Per coprire i cattivi odori e il sudore rancido.” “Se per quello, basterebbe una bella sguazzata con sapone! No, il fatto è che la gente non si fida più del proprio odore naturale e soprattutto dal momento che, a seconda degli stati d’animo, ognuno varia intensità, sapore, asprezza, rotondità è meglio cancellare ogni traccia dell’emozione perché, se appena lo sniffatore di profumi ha il naso addomesticato, può scoprire ogni atteggiamento falso o naturale: l’imbarazzo si manifesta con un odore ben preciso, la commozione libera un piacevole sapore, l’arroganza o l’ipocrisia una puzza da volta stomaco!” “Nonno vuoi dire che, se mi esercito, una annusata… e nessuno con me può fare il furbo?” “Sicuro! Tutto in natura ha un linguaggio: il gestire, il gesticolare della gente, il modo di camminare, di sedersi, di mangiare, di dare la mano… il modo di usare la voce e di articolare le parole… tutto è un enciclopedia di segnali impagabili ed è come se tu strappassi i vestiti di dosso alla gente, come se li vedessi nudi, per quello che sono… anche il re vedresti nudo!” Milano 177 Alla fine di questa folle tirata del nonno mi veniva da battergli le mai: “Da dove ti vengono ‘ste idee? Non mi dirai che ti nascono così, per loro conto!” “No, niente nasce da niente! A cominciare da ogni idea sputata dal cranio di un uomo fino alla scoreggia sparata dal culo di una scimmia. Manco uno starnuto sbroffa così, da solo. Ogni idea nuova viene sempre dall’innesto fatto dentro un tronco senza camole, ricco di fermenti che si incanalano attraverso un gran numero di rami colmi a loro volta di idee altrettanto sconvolgenti!” “Basta nonno! Con tutte ‘ste metafore mi mandi via di testa! A che cosa alludi con quel tronco senza camole? Cosa significano i rami?” “Significano una bella base di conoscenza pratica e poi un’infilata di testi, di libri da leggere con golosia da fanatico, poi, di nuovo, la ragione e la pratica.” “Va bene, quando sarò più grande ci proverò! Ma tu nonno come hai fatto da contadino ad impararti… come dire, farti tutti ‘sti innesti di sapere. Io ti ascolto anche quando parli con i tuoi compagni di osteria… mi pare che tu faccia addirittura fatica ad esprimerti come loro.” “Dici che mi sono montato la testa?” Milano 178 “No, non dico che ti dai delle fotte… intendo per i discorsi, per i concetti.” “Ecco ti svelo subito che il mio colpo gobbo è stato l’incotro con don Gaetano, parroco di Casale Monferrato, o meglio, di una diocesi del contado. Ce l’avevano mandato per punizione a fare il prete di parrocchia. Prima ancora di prendere i voti, era professore d’Università… ci faceva scuola a noi ragazzini e riusciva a farci prendere passione. … perché era tutto come un gioco pieno di battute da ridere, e poi storie più belle delle favole. Pensa tu, ero così preso dalla voglia di imparare, che scappavo dai campi pur di non mancare a una sua lezione. Guarda personalmente io, come memoria non sono un Pico della Mirandola, ma se mi raccontano o leggo di un problema o di un fatto che mi coinvolge, te lo posso raccontare anche dopo un mese, senza sbagliare di una parola! Don Gaetano era uno con le idee un po' diverse da quelle dei terrazzari, cioè dei padroni delle terre e delle filande. Spesso sparava loro delle bordate terrificanti anche durante la predica. Finché qualcuno non gli ha combinato una trappola. Lui stava in un casone proprio attaccato al muro della chiesa; per arrivarci bastava salire per una rampa di scale direttamente dalla sacrestia. Una mattina Milano 179 scendeva per la messa e qualcuno ha ben pensato di segargli via i primi due gradini: è venuto giù come un sacco! S’è spaccato tutti i due femori ed è rimasto per non so quanto tempo immobilizzato a letto. Io andavo a tenergli compagnia quasi tutti i giorni, appena di ritorno dai campi. Lui per ringraziamento mi leggeva qualche capitolo, quando era stanco leggevo io. Quanta roba abbiamo letto: libri di storia, filosofia, perfino di meccanica razionale… E poi romanzi, addirittura testi censurati dal Vaticano. Per esempio, l’edizione di un Vangelo tradotto nel ‘500 dal greco in dialetto mantovano e stampato di nascosto a Ginevra. Il traduttore era finito sotto processo per eresia e in seguito bruciato vivo.” “A ‘sto punto com’è che non ti sei fatto prete anche tu?” “Scusa, ma non ti salta in testa che se tuo nonno fosse andato prete, la tua mamma non sarebbe nata e tu adesso non saresti qui ad ascoltarmi?!” “Ah! L’hai fatto solo per far nascere me! Grazie! Di sicuro nonno, a sentire certi tuoi discorsi da sovversivo non si direbbe che tu sia stato educato da un parroco!” “Non giudicare mai nessuno dall’abito che porta ragazzo mio! Ad ogni modo, non è il solo a cui debbo tutto il mio ammaestramento. Ti ricordi il Professore Trangipane che Milano 180 insegnava alla facoltà di agraria all’università di Alessandria e veniva qui con i suoi allievi? Lui e quei suoi ragazzi venivano qui prima ancora che tu nascessi. Arrivavano implacabili a farmi un sacco domande di agronomia pratica. Per non far brutte figure, ho dovuto imparare anche la teoria: studiavo sui testi che mi procurava il Professore come fossi io a dover dare gli esami.” “Peccato che non l’hai fatto nonno! Ti saresti beccato sicuramente una laurea!” “Pensa tu, era proprio quello che diceva il Professore… e poi aggiungeva che sarebbe stato un delitto: ‘Caro Bristìn, oggi tu sei un fenomeno: sei l’unico contadino docente che si sia al mondo! Con la laurea saresti invece un professore qualsiasi.” Il viaggio degli Argonauti Frequentavo da qualche anno Brera; compivo in quei giorni sedici anni. Mi alzavo ogni mattina alle cinque e mezza, mi lanciavo di gran carriera percorrendo tutto d’un fiato il lungolago e, tenendo un orecchio sempre teso all’uscita delle gallerie dentro e fuori delle quali spariva e Milano 181 riappariva il treno proveniente da Luino, ingaggiavo perennemente la gara a chi arriva prima alla stazione. Una volta sola ho perso il match, causa una gran tombola sulla linea del traguardo… era notte fonda e non mi ero accorto di un tubo del gas posto di traverso alla strada. Salivo spesso sul treno già in corsa con i compagni di viaggio che mi incitavano e mi abbrancavano al volo per tirami dentro il vagone appena avevo appoggiato il piede sul predellino. Il treno era formato da cinque o sei vagoni: c’era quello di seconda classe, tutto a scompartimenti di otto posti, il resto dei vagoni era di terza classe, cioè composto di un solo ampio spazio che noi ragazzi preferivamo in quanto ci permetteva di stare tutti insieme. Una masnada di maschie e femmine, studenti, giovani impiegati e qualche operaio… salivano tutti alle varie stazioni a piccoli gruppi fino a stipare l’intero convoglio. Io, con qualche altro amico della Valtravaglia, coprivo il ruolo di “contastorie”, poi c’erano ragazzi e ragazze che cantavano accompagnandosi con chitarre e fisarmoniche. A Caldé saliva spesso una vera e propria banda di ottoni: i due che suonavano il flauto e il trombone a culisse erano addirittura allievi del conservatorio. Così il nostro vagone Milano 182 godeva del soprannome di “Caravàn de cioch” (Carovana degli ubriachi). Ogni tanto disertavo da quel pandemonio e mi rifugiavo in un altro vagone dove poter studiare, ma non sempre ci riuscivo: i miei compagni mi venivano a sequestrare e mi imponevano di raccontar loro almeno un paio di storie. A quel tempo possedevo un repertorio piuttosto limitato, per cui per non ripetermi ero costretto ad inventarmi sempre nuove avventure buttando in paradosso grottesco imprese storiche famose come quella di Garibaldi e la spedizione dei Mille… con la nave ferma all’attracco di Quarto che indugia poiché mancano ancora tre garibaldini. Se non fanno il pieno, mica possono chiamarla la “Spedizione dei Novecentonovantasette”! Cominciano allora ad acchiappare chi gli capita… due ubriachi fradici, il primo si chiama Nino Bixio l’altro Santarosa e per ultimo, uno che è appena evaso dalla galera di Genova. Sempre lì, nel vagone di terza classe sono nate così per caso atre storie impossibili a ribaltone dedicate a Cristoforo Colombo, ad Ulisse e altri eroi epici. In particolare l’Odissea era diventato il mio magazzino inesauribile di motivi satirici e pagliacceschi. Milano 183 Ecco il tormentone di Ulisse che cerca ogni volta di riprendere il mare per tornarsene a casa e Nettuno che lo cura, sbirciandolo da sott’acqua da dentro una balena… povero pachiderma del mare, costretto a starsene sempre con la bocca spalancata, scossa di continuo da urti di vomito! Puntuale esplode una tempesta: Ulisse si trova sbattuto su un’altra costa. Eccolo dai Feaci, e poi nelle braccia di Nausica. Nettuno sbatte manate sul mare piatto e si alzano onde più altre di montagne; la nave si sfascia e questa volta l’eroe si ritrova scaraventato sull’isola Eea, fra le braccia di Circe e si fa travolgere dalla passione: fa cose da pazzi con la maga golosa. I suoi compagni intanto trasformati in maiali zozzi si annoiano, si divertono solo un po' guardando Ulisse che fa cose da porco con la bella Circe! Ma è chiaro, Ulisse non aveva nessuna intenzione di tornarsene a casa: quel vivere in continuo sballo d’avventura gli piaceva troppo! L’idea di tornarsene ad Itaca, irta di sassi, con una moglie che fa la maglia e tesse la tele in ogni momento, un cane pulcioso che gli gira fra i piedi non gli va proprio giù! Milano 184 In verità è lui che va a cercarsi le tempeste per il pretesto di non tornare, tant’è che prima di staccarsi da una costa, bada bene che il Dio del mare sia ben sveglio e incavolato con lui. Anzi, quando si rende conto che Nettuno comincia ad averne abbastanza di perseguitarlo, lui che fa? Sbarca apposta nell’isola dei ciclopi va a tampinare Polifemo, il figlio di Poseidone, e sacrifica una mezza dozzina di suoi compagni offrendoglieli belli freschi da sgranocchiarli quindi lo ubriaca e lo acceca con un palo che, guarda caso, si era portato preventivamente appresso dentro l’antro del ciclope. Ma andiamo… è possibile che uno scaltro marinaio inarrivabile com’è Ulisse per dieci anni non riesca a staccarsi dalle coste della Sicilia? E sì, perché, fateci caso, è sempre intorno a quest’isola che continua a girare. Si fa tutti gli scogli, le insenature intorno e al massimo arriva per un attimo a toccare la Tunisia, Malta o Pantelleria… poi, subito di nuovo fa rotta verso la costa sicula si Scaramia! Quando torna a Itaca è solo per un incidente: lui cedeva di essere arrivato a Zacinto! “Maledizione Mi ritrovo a casa!” e pur di non essere riconosciuto, si trucca da barbone, ma quel bastardo del Milano 185 suo cane lo riconosce e lui gli sferra una pedata che lo ammazza. Solo Ulisse poteva far secco un cane con una scarpignata del genere. “Papà, papa!” lo riconosce subito il figlio Telemaco. “Sì sono io, ma non dire niente alla mamma!” “Perché?” “Non mi fido, ha intorno tutti quei Proci che la tampinano per portarsela a letto!” “Ma papà, lei non ci sta con nessuno di loro!” “Beh, non si sa mai… puoi giurarlo sulla Bibbia?” “Padre, non posso. Non sono cristiano!” “E allora taci!” Detto fatto: prende l’arco e infilza tutti quegli zozzoni dei porci. Solo allora si fa riconoscere dalla moglie. “Ben tornato, marito mio!” Baci e abbracci. “Domani parto di nuovo!” “Di già? Sei tornato giusto per il cambio di biancheria!” “Vengo anch’io padre!” “D’accordo, ma sbrigati che la nave è pronta e dobbiamo prendere il vento buono! Addio moglie… tranquilla che torno presto. Fra una ventina d’anni!” Fine dell’avventura. Milano 186 È ovvio, vi ho accennato solo alle trame abbozzate delle storie con le quali mi esibivo sul treno nel viaggio dal lago a Milano. A ogni replica, inserivo varianti con lazzi nuovi, improvvisazioni vocali e mimiche. Speso ero costretto a montare su una cassa posta al centro del corridoio del vagone perché tutti mi potessero seguire, specie per quanto riguardava la mimica. Insomma la carrozza dell’accellerato Luino- Gallarate- Milano Garibaldi è stato per anni il mio palcoscenico con platea sempre esaurita e festante! Fra gli spettatori non c’erano solo ragazzi e ragazze, molto di frequente capitavano anche viaggiatori occasionali di età matura… alcuni, dopo un po’, si alzavano indispettiti o contrariati da certe battute ritenute inopportune, ma il più delle volte capitavano ascoltatori casuali inaspettatamente entusiasti. Fra questi, vi era un singolare signore di mezza età che, a tratti, esplodeva in una risata grassa e coinvolgente. Quel signore era il Professore Civolla, storico e antropologo dell’Università di Milano. Una sera, tornando a casa, fuori orario e con l’ultimo treno, l’ho trovato tutto solo in uno scompartimento. Mi ha invitato a sedermi accanto a lui e ha cominciato a farmi un sacco di Milano 187 domande. Sapeva che studiavo a Brera, che avevo avuto come maestri i migliori fabulatori della Valtravaglia (fra l’altro anche lui abitava a Porto), ma si chiedeva a quali fonti avessi attinto a proposito di certe chiavi grottesche delle quali mie ero servito per ribaltare la forma originale delle situazioni narrate. “Beh – rispondevo io - non ho fatto altro che applicare le chiavi di parodia a sgambetto che ho imparato dai contastorie di Porto…” “E no – incalza lui – quelle le conosco anch’io, sono cresciuto in mezzo a loro! Ti ‘sto parlando dei paradossi basilari.” L’ho guardato piuttosto bollito e poi ho ammesso di non aver capito la domanda: “Scusi Profesore, cosa intende per paradossi basilari?” “Sono quelli della tradizione storica antica… conosci Luciano di Samosata?” “No, chi è?” “Uno straordinario poeta del secondo secolo, greco naturalmente… lui è l’autore satirico che ha portato a somma perfezione la tecnica del paradosso. Prendeva una storia aulica, quasi sacra e la buttava all’aria. Achille… un eroe generoso? Macché, era un isterico, egocentrico, pazzo Milano 188 criminale! Un bastardo che si promette sposo a Ifigenia, la dolce figliola di Agamennone e poi, quando l’oracolo di Delfi sentenzia: “Achei se volete conquistare Troia, dovete sgozzare come un capretto la vergine innamorata di Achille”, lui, il Pelide, che cosa fa? Prende sotto braccio Ifigenia e come niente fosse la conduce al tronco dell’albero sacro sul quale dovrà essere immolata! Poi continua presentando Ulisse che tradisce l’amico Filottete morso da un serpente velenoso ad una cosca. Il poveraccio con ‘sta gamba che gli va in cancrena viene convinto dall’onesto Odisseo a sbarcare a Lemmo, un’isola deserta. Poi lo molla tutto solo come un naufrago… e che si arrangi! Ma non basta: avendo bisogno dell’arco dell’incancrenito che scopre essere infallibile, Ulisse si presenta sull’isola, travestito da mercante di passaggio gli regala un po’ di vettovaglie e poi se ne va fregandogli l’arco portentoso. Così uno dietro l’altro, il Professore mi fa il ritratto di una sfilza di eroi, regine, dei e dee che a scuola ci dipingono come modelli da emulare ma che in verità sono, chi più chi meno, una congrega di lestofanti, ipocriti e figli di buona donna patentati. Milano 189 Ero letteralmente affascinato dai discorsi di quel Civolla. Siamo arrivati alla nostra stazione in un battibaleno ed eravamo talmente presi, io a far domande, lui a raccontare, che per poco non ci accorgiamo della fermata… saremmo arrivati fino a Luino senza poter tornare indietro a casa giacché quello era l’ultimo treno. Nel salutarci ci siamo ripromessi di incontrarci di lì a qualche giorno; era martedì e puntualmente il giovedì sono arrivato a casa sua, nel palazzo del Vecchio Cambio. Lui abitava al terzo piano sottotetto, in uno stanzone unico che teneva tutta l’area del palazzo. C’erano i tavoli ricolmi di carte e volumi, una libreria su tutta una parete e quattro porte finestre iscritte dentro archi che davano su un grande balcone. Subito mi ha mostrato una sua ultima scoperta: era una specie di carta geografica del V secolo dopo Cristo che riproduceva il mitico viaggio degli Argonauti. Mi sono sentito affogare in un pozzo di ignoranza: chi erano gli Argonauti? Cosa hanno combinato, da dove venivano, dove andavano? La dote maggiore di un maestro, diceva Plinio il vecchio, è quella di non far mai pesare il proprio sapere sul cranio povero di conoscenza dell’allievo e, senz’altro, questa era anche la dote del Professor Civolla. Illustrandomi la carta, Milano 190 mi faceva notare come fosse disegnata senza tener conto della reale forma di un lago o del verosimile andamento di una costa. “Vedi, questa è la rappresentazione della nostra penisola. Guarda tu… l’Italia è irriconoscibile: non si indovina ne lo stivale ne il tacco. Solo le catene dei monti sono attendibili come sono abbastanza precise le lunghezze dei fiumi e la distanza fra una costa e l’altra. “Ecco qui è segnata la posizione di Corinto, da dove pare siano partiti gli Argonauti una cosa come quattro mila e passa anni fa! Più precisamente, il porto da dove sono salpati si chiama Pagase, nel cui cantiere è stato partorito lo scafo dell’imbarcazione. Di questa epopea i cantori hanno narrato molti secoli prima che dell’Iliade e dell’Odissea. Nella spedizione, lo saprai di certo, c’erano Giasone nel ruolo di capitano… tanto per gradire, c’era Ercole che si prendeva così una vacanza di svago, i due Dioscuri, Teseo e un gran numero di eroi allo scopo di far numero e zavorra. C’era anche Orfeo, il grande musico, che avrebbe avuto il compito di neutralizzare le sirene suonando e cantando le sue melodie. Milano 191 Il loro programma era quello di raggiungere la Colchide nel Mar Nero dove, protetto da un drago, si trovava il Vello d’Oro, il tosone di un ariete d’oro dotato di poteri straordinari. La nave era stata costruita da un maestro d’ascia abilissimo, Argo, che aveva usato un tronco di quercia donato da Atena, un tronco che parlava, così parlava anche la nave: dava indicazioni di rotta e segnalava i pericoli. La sua voce usciva dalla bocca della testa del bue posta in cima alla prua della nave. L’imbarcazione era di una stazza considerevole per quei tempi: circa venti braccia di lunghezza e prevedeva che potessero remare cinquanta uomini, cioè quasi tutto l’equipaggio. La spedizione fa rotta verso i Dardanelli, attraversa lo stretto del Bosforo e finalmente raggiunge al Mar Nero… naturalmente superando infinite difficoltà: popolazioni ostili, rocce e faraglioni che si stringono l’un l’altro spinti dal vento. Sbarcati nella Colchide, il re di quel regno ordina a Giasone delle prove durissime come imporre il giogo a due tori scatenati che sputano fuoco dalle narici e sferrano zampate terribili con i loro zoccoli di bronzo. Milano 192 Per fortuna di Giasone, la giovane figlia del re, Medea che è dotata di una notevolissima intelligenza e di poteri magici, si innamora perdutamente dell’eroe e lo aiuta tradendo il padre in ogni sua tenzone, compresa quella di far fuori un esercito di guerrieri nati niente meno che dalla semina di denti di un drago. Medea con la collaborazione di Orfeo, riesce a far sì che il drago si addormenti così da permettere agli Argonauti di trafugare tranquilli il Vello d’Oro. La conquista dell’aureo pelliccione è costata il sacrificio di parecchi Achei della spedizione. Ad ogni modo, Medea si è rilevata determinante per il successo dell’impresa; la ragazza è decisa a seguire Giasone e da lui ha ottenuto la promessa che, giunti al sicuro, la prenderà in sposa. Il re, padre della giovane strega, è fuori dalla grazia di Dio non solo per via che quei bastardi degli Achei gli hanno trafugato il Vello, ma soprattutto per il fatto di avergli rapito la figlia. La nave Argo prende il largo verso la via del ritorno, ma il re la insegue con la sua biremi da battaglia ricolma di guerrieri. Medea ha portato con se il fratello minore… la splendida strega, pur di salvare il suo uomo, bloccando il padre e la Milano 193 sua nave, compie a questo punto un atto di ferocia inaudita: ammazza il fratello, lo fa a pezzi e ne va a spargere le membra divelte per i campi della costa. Il re disperato attracca sulla riva e aiutato dai suoi uomini indugia alla ricerca dei brandelli del cadavere del figlio. L’orrendo espediente permette agli Achei di guadagnare un notevole vantaggio, ma il re ha ordine ad altre navi appena sopraggiunte di inseguire l’imbarcazione dei fuggitivi. Issate vele gigantesche, gli inseguitori tagliano la strada agli Argonauti e si appostano alla bocca dello stretto del Bosforo. Gli eroi in fuga si vedono incastrati, ma ancora una volta li salva Medea: l’unica soluzione è risalire il Danubio, la cui foce si apre proprio davanti a loro. “Ma così allungheremo il viaggio di ritorno almeno dieci volte!” obbietta Ercole. “Dovete scegliere: o allungare il viaggio o accelerare la morte!” gli risponde Medea” Così dicendo il Professore mi indica la carta bizantina che disegna fiumi e coste dei Balcani. “Ed eccoli i nostri, costretti a risalire il più grande fiume d’Europa con fatica, obbligati spesso a trascinare la nave con numerose cime dalla riva. Milano 194 Durante la rimonta del fiume acquistano dagli abitanti della costa cavalli e muli o forse, più semplicemente, li trafugano dai loro allevamenti… prassi questa ormai consuetudinaria per quegli eroi, noti briganti professionisti. Dopo qualche mese razziando e uccidendo qua e là, attraverso l’attuale Ungheria, la Romania, la Serbia e l’Austria, quasi sempre navigando il Danubio, raggiungono la Germania. Ad un certo punto ecco che il Danubio curva decisamente verso Nord. I naviganti son costretti a portare a terra la loro nave, caricarsela in spalla per raggiungere un altro fiume che scenda a Sud. Dopo settimane, da una collina avvistano il Reno, quindi entrano nel lago di Costanza. Riprendono ancora il corso del Reno fino alle Alpi che separano la Svizzera dall’attuale Lombardia … a ‘sto punto si ritrovano nuovamente costretti a caricarsi la nave sulle spalle svuotata da tutto il superfluo, cioè ridotta al semplice scafo. Devono superare quello che oggi chiamiamo il passo del San Bernardino. A ‘sto punto ecco che l’ epopea giunge a interessarci molto da vicino! ” Milano 195 “E già! – Esclamo soddisfatto – Appena giù dalla catena, finalmente Ercole, Orfeo, Giasone, Medea e compagnia bella si infilano col loro barcone nel Ticino e arrivano a sfociare nel nostro lago!” “Sì, ma attenzione! – Mi avverte il Civolla – Mica si tratta di una passeggiata della domenica. Da queste parti… dei ticinesi dediti al turismo… abitavano tribù molto rognose, di razza celtica che non ci mettevano nulla a scannare ogni pellegrino di transito! Ma noi abbiamo a che fare con degli eroi invincibili, determinati e soprattutto ricchi di una buona scorta d’oro, frutto delle numerose scorrerie messe a punto durante il viaggio. Quindi pagato il dazio di transito ai focosi nativi, raggiungono il lago e, rimesso in sesto alla bella e meglio ciò che resta dell’imbarcazione, scendono alla ricerca di un porto sicuro dove restaurare la vecchia Argo che ormai sta andando a pezzi. E dove la troveranno una baia sicura gli stremati Argonauti?” “Professore, non mi vorrà far credere che hanno preso terra qui a Porto?!” “Dai un’occhiata alla carta… vedi qui: c’è segnato tutto il precorso compreso il passaggio del Gottardo e, arrivati al nostro lago, la riga rossa s’arresta a questa insenatura, Milano 196 proprio dopo la foce della Tresa. È la nostra fonda insenatura l’unico rifugio protetto e sicuro di tutta la costa.” “Già allora?” “Soprattutto a quel tempo! Inoltre qui, secondo Apollodoro e Apollonio, i due narratori antichi, questo porto era famoso per un cantiere navale che poteva vantare la presenza di carpentieri, artigiani e maestri d’ascia di grande abilità e sapienza!” “Non saranno stati per caso i trisnonni dei Fidanza… quelli che hanno il cantiere sotto la rocca?” “Può anche darsi, certe origini hanno profondità infinite! Il Civolla ride e tira fuori da un cassetto un’altra mappa Guarda qui, riconosci questa zona? Fai attenzione che il fiume segnato è l’Uralo.” “Ma certo! Questo segno ha forma di croce è il San Giorgio, la pieve romanica sotto le cascate dello Starallo.” “Sì, ci ha azzeccato: il punto è questo, però quella croce non indica il San Giorgio che è dell’XI secolo. Infatti questa è la riproduzione di una carta di qualche secolo prima e indica un luogo sacro dei Celti composto da pilastri giganteschi.” Milano 197 “Vuol dire che la pieve romanica è stata costruita sui ruderi del tempio celtico?” “No, non sui ruderi del tempio, ma incorporandolo. Infatti i quattro pilastri centrali sono di fattura senona, che sono poi i celti primordiali.” “E perché Professore mi ha sottolineato questo particolare?” “Per il fatto che quasi certamente i nostri eroi si sono serviti di quel tempio per il loro rito di purificazione! In poche parole, dopo i delitti compiuti fin dall’inizio del loro viaggio a cominciare dal massacro del fratello di Medea, spargimento di frattaglie compreso, le razzie e i rapimenti tipo quello messo in atto da Ercole ai danni di un giovinetto portato via di peso dalla famiglia per farne il proprio amante, bisognava compiere un solenne rito riparatore che purgasse le loro anime di tante nefandezze. Vestiti di lino immacolato, i superstiti del viaggio si sono immersi nella grande sorgente ai piedi della cascata dello Starallo che per gli antichi era sacra e aveva la facoltà di ridare energia e togliere i mali-umori. Ma per liberarsi dalle colpe, quegli uomini dovevano assistere ad un rito sacrificale veramente tragico. Milano 198 Medea era gravida e aspettava da un momento all’altro di partorire. Sapeva che il delitto compiuto sul corpo del fratello, seppur dettato da un gesto d’amore, le avrebbe causato un travaglio straziante. A quel suo parto doveva assistere ogni Argonauta: le sofferenze di Medea avrebbero liberato anche le loro coscienze. La figlia del re della Colchide viene distesa sul pavimento del tempio celtico: ecco che hanno inizio le doglie… Medea è presa da terribili contrazioni; gli spasmi si susseguono e il suo viso si deforma per la sofferenza. Il nascituro grida da dentro il ventre di sua madre… prima sono urla senza senso, poi man mano si trasformano in una serie di impropéri di una ferocia inaudita: è la voce di un oracolo che parla attraverso le grida del bimbo. Gli Argonauti ascoltano l’elenco di tutte le loro malefatte… il corpo di Medea è diventato quasi trasparente e dentro il suo ventre si agita il nascituro che continua a lanciare insulti e minacce. Gli eroi si chinano, appoggiando la fronte al pavimento, sono madidi di sudore e piangono. Il travaglio è interminabile… alla fine nasce il figlio di Giasone e Medea, lo stesso che per vendetta la madre fra non molto sgozzerà.” Milano 199 Alla fine del racconto mi sentivo a mia volta madido di sudore, con fatica ho chiesto: “Viene forse da questo parto doloroso il nome della nostra valle?” “Già – conclude il Professore – Valle del “travaglio”… Quello si Medea si intende!” “Incredibile! Io pensavo alludesse alla fatica del lavorare…” “Può darsi che sia l’origine giusta. Non fidarti mai soprattutto delle storie cariche di mistica tragicità!” “Ad ogni modo, che sia tutta un’autentica vicenda o invenzione è una storia bellissima da raccontare. È strano che Omero se la sia lasciata scappare…” “Allora tu approfitta e reinventala al più presto! Sbrigati perché gli antichi tornano sempre all’improvviso e ti copiano ogni idea nuova!” L’armonia fisica Quale poteva essere il gioco preferito di noi ragazzi del lago se non lo sguazzare nell’acqua, il tuffarci dalle rupi e il remare su ogni tipo di imbarcazione? Tutto questo non lo si vedeva come sport, disciplina organizzata, ma come piacevole passatempo nel quale Milano 200 sfidarci l’un l’altro a chi fosse più veloce, più agile e spassoso. Così eravamo in acqua da maggio a settembre pieno. I più fortunati imparavano anche a governare piccole barche a vela. Mio fratello ed io conoscevamo un ragazzo, maggiore di noi che possedeva una vela classe star, velocissima… roba da grandi skipper. Insomma, era una vita proprio da sguazzo. Sulla spiaggia dei bagni stavamo attenti a come nuotavano i ragazzi più grandi, quelli soprattutto che dimostravano di possedere esperienza e stile. Spesso prendevamo coraggio e chiedevamo loro che ci dessero qualche dritta… insomma ci facessero un po' da maestri. Così avevo imparato che il valore più importante nel nuoto è l’armonia, più della potenza: tutto, ogni arto, ogni parte del corpo deve scivolare rotondo, senza porre intoppi in un equilibrio estremo fra il respiro e il gesto, fra la parte del corpo che emerge e l’altra che si muove immersa nell’acqua. Una decina d’anni dopo, lavorando in teatro ho scoperto che quel produrre il massimo effetto con il minimo dello sforzo e della gestualità si rivelava la regola principale per ogni buon mimo e per ogni attore di peso e valore. In Milano 201 quella mia esperienza, studiando da vicino grandi autori, ho scoperto che perfino Shakespeare attraverso le parole di Amleto consigliava agli attori di muoversi e recitare con scioltezza ed armonia piuttosto che con inutile spreco di forza. Nell’acqua mi sentivo come nel mio elemento naturale, anche se purtroppo, come succede a tutti i ragazzi che si appassionano ad un gioco senza disciplina e misura, mi capitava di esagerare. Spesso con i miei compagni si usciva dall’acqua blu, tremanti per il freddo anche se in pieno sole. Il pericolo maggiore erano le correnti ghiacciate che sovente ci procuravano crampi dolorosi per i quali si rischiava il peggio. Andando sempre in gruppo nelle nostre nuotate ci si veniva in soccorso: se a qualcuno era colto dalla sfrezzata del “crampul”, sapevamo come massaggiare il muscolo azzannato fino a rianimarlo. La nostra seconda grande passione era il remo. Il sogno di tutti noi naturalmente era quella di farsi una barca propria, ma quelle degne di questo nome costavano parecchio e non erano certo all’altezza delle nostre misere tasche. Infatti nessuno di noi ne possedeva una, ma ogni tanto c’era qualche anima generosa che ci faceva fare un giro. D’estate poi si approfittava di qualche turista che non Milano 202 sapendo vogare, ci caricava volentieri sulla sua imbarcazione presa a nolo… e lì finalmente ci si sfogava. Avevamo così imparato a vogare su barche diverse: la spinta del remo si produceva in piedi premendo in avanti con tutto il corpo o da seduti facendo forza con le braccia e con la schiena, badando bene di far gioco col chiudere e stendere le gambe. Remare mi piaceva moltissimo soprattutto quando ho cominciato ad intendere l’equilibrio aggiunto allo stile dell’intera gestualità dell’azione: respirare, arcata, distensione, leva, buttar fuori il fiato, tendere, sciogliersi, inchinarsi e ritorno con affondo dei remi in acqua. Avevo scoperto che, come nel nuoto, un perfetto coordinamento dei movimenti permetteva di realizzare la maggior velocità col minimo sforzo. A Milano ogni anni noi dell’Accademia di Brera venivamo ingaggiati per gli allestimenti delle esposizioni della fiera. Ci pagavano bene, ma era un tour de force da massacro. Si trattava di sviluppare progetti, realizzare decorazioni dipingendo o montando sagome, volumi plastici vari, eseguire scritte gigantesche e improvvisare all’ultimo minuto soluzioni di pubblicità. Milano 203 Non avevo ancora 17 anni quando mi è capitato un ingaggio per un enorme allestimento che mi avrebbe impegnato per almeno un mese. All’inaugurazione della fiera5 ero letteralmente distrutto: le ultime due notti le avevo passate quasi completamente in bianco, me ne sono tornato a casa che era ormai l’alba. Prima uscire avevo attraversato il padiglione dove si esponevano i prototipi di canoe e barche da competizione a remi con carrello scorrevole. Ce ne era una che mi aveva affascinato, una remo-singolo con scafo in legno di frassino e voga carrellata. Una volta raggiunto il mio letto, ho dormito per 20 ore di seguito. Poco prima del risveglio, ho sognato quello skif da corsa che scivolava sull’acqua leggera ed ero io che lo facevo andare muovendo facilmente i remi che sfioravano il pelo dell’acqua con le pale; li affondavo spingendo appena la barca. Ad un certo punto si sollevava nell’aria e mi trovavo a volare. Passavo sopra l’imbarcadero, sorpassavo la grande darsena, sfioravo il campanile, planavo sulla valle e bucavo le nubi. Sono tornato in fiera alla fine della settimana. Avevo appena ritirato il saldo per l’allestimento: era una bella 5 Quella fu l’ultima fiera perché durante la guerra vennero interrotte a causa dei bombardamenti. Milano 204 cifra. Sono entrato nel padiglione dove esponevano la mia barca. Ho chiesto se potevo guardarmela da vicino, esaminarla. Il commesso mi ha squadrato appena e poi con reticenza mi ha detto: “Per favore però, non metterci addosso le mani!” L’ho guardato con un sorriso cattivo e poi gli ho chiesto: “Posso almeno leccarla un po'?” Il commesso mi ha fissato e poi è scoppiato a ridere: da quel momento si era smollato. Mi ha aiutato a sollevarla, soppesarla e a contemplarne sia al dritto che al rovescio la forma: era un capolavoro. Bella ed elegante come un delfino… di più: una sirena da competizione! L’ho comprata, ci ho messo quasi tutto il mio capitale, ma ne valeva davvero la pena. Per controllare meglio il corriere che me l’avrebbe trasportava sul lago, ho partecipato di persona all’imballaggio e al carico e per non perderla d’occhio sono montato pure sul camion insieme all’autista. Quando l’ho messa in acqua davanti alla grande darsena, c’erano tutti i miei compagni della banda: ognuno esplodeva in commenti entusiasti. Nel montare dentro lo scafo mi tremavano le gambe come se ci dovessi fare all’amore. L’equilibrio era talmente Milano 205 delicato, che ad ogni gesto rischiavo di ribaltarmi e ho imbarcato subito un po' d’acqua, ma appena ho inforcato i remi e ho iniziato a muovermi scivolando sul carrello, ecco che la barca ha preso l’abbrivio scorrendovia liscia e tagliando le piccole onde come una lama. Impressionante poi era la velocità: sembrava che lo skif fosse mosso da un motore nascosto e silenzioso. I miei amici applaudivano e mi imploravano in coro: “Faccela provare, falla provare anche a noi!” Eccitato ho affondato con più forza le pale dei remi nell’acqua, ho inarcato la schiena e spinto con le gambe al massimo del ritmo il carrello. Una pala è affondata a dismisura, bloccando la corsa e facendo leva, si è ingrippata e… VRUOM! Mi sono sentito proiettare in aria, ficcato a testa in giù, gambe in su nell’acqua. Un grido e una gran risata del mio pubblico e poi un applauso seguito da una gragnola di lazzi e sfottò. Sulla spiaggia dopo il ponte, dove andavamo noi ragazzi a fare il bagno, c’erano gruppi d’intere famiglie sfollate per via dei bombardamenti. Fra quella colonia di foresti non si poteva fare a meno di notare due ragazze stupende: avevano entrambe più o meno quattordici anni, una Milano 206 scuoteva grandi ciocche di capelli scuri e riccioluti, l’altra teneva capelli dritti e biondissimi. Le due amiche correvano e saltavano ridendo dentro e fuori dall’acqua mettendo in mostra come in un continuo defileé due corpi eleganti e svelti. Ognuno di noi le osservava alternando meraviglia a vampate di calore. Ma eravamo imbastiti dal loro comportamento: era come se non ci fossimo. Pur di farci notare, noi ci lanciavamo dai piloni d’attracco ficcati nell’acqua esibendo tuffi con piroette, ma quelle due foreste non ci degnavano di molta attenzione. Restavano spesso da sole, specie in acqua nuotando con uno stile perfetto: bracciate e movimento di gambe a rana da competizione… cioè sparivano affondando sotto il livello dell’acqua per riapparire sulla spinta a forbice della gambe. Anche noi non eravamo da meno in quanto a stile, soprattutto conoscevamo a perfezione il muoversi delle correnti e ne approfittavamo per farci trasportare più veloci. Delle due, la ragazza che mi affascinava maggiormente era Lucy, dai capelli neri e riccioluti. Mi era riuscito di parlarle per un attimo in acqua. Lei e la sua amica di origine tedesca erano andare molto al largo. Approfittando Milano 207 di una corrente parallela al loro percorso, le ho raggiunte e ho dato loro l’avvertimento: “Attente che vi trovate nel bel mezzo di una corrente fredda… potreste beccarvi un crampo. Vi consiglio di trasferirvi dieci bracciate più a destra, da dove vengo io. Lì la corrente è calda e aiuta a muoversi più rapidi!” Mi hanno ringraziato sorridendomi, specie Lucy che mi ha seguito subito e intanto mi andava chiedendo come si riuscisse a scoprire la direzione e la qualità delle correnti. Non mi pareva vero di poter esibire tutto il mio sapere da scienziato lacustre… mi sentivo un vero e proprio maestro delle acque! Mi ha fatto persino un complimento: “Hai una bella entrata in acqua. Da chi hai imparato?” “Qui sul lago, osservando quelli bravi!” Avrei voluto farle qualche complimento a mia volta, ma non ce la facevo: ero bloccato come un pesce persico in salamoia. Arrivati a riva, ci siamo salutati. Per una settimana intera l’ho persa di vista… forse aveva cambiato spiaggia, forse era partita. Poi l’ho rivista sulla spiaggia di Caldé: era insieme a sua madre e ad una sorellina. L’ho salutata e lei mi ha risposto con molto imbarazzo. Milano 208 Parecchi giorni dopo sono transitato remando sul mio skif nei pressi della rocca di Caldé… l’ho riconosciuta subito davanti a me ad una decina di metri dalla riva. Era in compagnia di un giovanotto con quale scherzava; lui si tuffava sott’acqua e la scaraventava in alto fra scoppi di risate. Sono passato al largo, lei mi ha visto e ha accennato ad un saluto. In quel momento il suo amico riaffiorava dall’immersione e lei si era girata volgendomi le spalle. Era trascorso quasi un mese da quell’accenno di incontro e ormai avevo perso ogni speranza di rivederla. Eravamo a fine estate. Andavo vogando sulla mia jole con carrello verso Cannero… avevo già sorpassato il centro-lago, quando scorgo più avanti qualcuno che nuota. Un ragazzo mi pare. Ancora tre remate e sono vicino al nuotatore: no, non è un ragazzo. È lei, Lucy! La saluto, lei si volta sorridendomi. “Scusa, ma non pensi sia un po' azzardato arrivare così al largo, da sola?” “Non ti preoccupare, fra poco ritornano Jute (l’amica bionda) e suo fratello a ricaricarmi sul loro motoscafo. Mi sono tuffata in acqua dieci minuti fa… loro arrivano all’isola e tornano fra un attimo.” “Se vuoi, mi fermo ad aspettarli con te!” Milano 209 “No - fa lei tagliando corto - grazie, ma preferisco star sola… scusami!” E riprende a nuotare affondando il viso in acqua ad ogni bracciata. Riprendo a remare a mia volta. Mi allontano mortificato e piuttosto offeso: “Ma chi si crede d’essere ‘sta naso-in-aria spocchiosa? No grazie, preferisco star sola…” Era la prima volta che una ragazza mi trattava con tanta sufficienza. Perché le altre, invece? Non avevo ragazze… io! Punto lo sguardo verso l’isola col castello per controllare se sta spuntando il motoscafo: non si scorge nessuna barca; in compenso dietro, dopo la scarpata della costa, vedo una riga nera che attraversa tutto il fondo lago. “La Madonna! – esclamo - quella è il segno dell’inverna (un terribile vento strappa ormeggi) che annuncia una tempesta, una sgurrata da marenca. Mi sarà addosso fra neanche venti minuti… e quegli imbecilli del motoscafo manco si vedono spuntare!” Punto i remi a freno e ruoto a rovescio la mia barca. Spingo a spacca-schiena verso il centro lago, raggiungo Lucy che nuota in modo sconnesso e agitata. Milano 210 “Per fortuna sei tornato, – mi grida – sta prendendomi un crampo!” “Mettiti tranquilla, ora ti faccio montare in barca.” “Grazie, ma cos’è quella striscia nera laggiù?” “È una brutta marenca.” “Come dire… una specie d’uragano?” “Sì, ma vai tranquilla: c’è tempo prima che ci arrivi addosso. Forza allora, appenditi alla sponda dello skif. Io mi sporgo dall’altro lato – così dicendo, vado a sedermi sul bordo opposto – Devi tirarti su con le braccia e scavalcare venendo dentro con le gambe a tempo con me, che vado a gettarmi in fuori più che posso. È uno scafo leggerissimo, questo. Se non ci muoviamo a sincrono, si ribalta.” “Maledizione - grida lei – il crampo! Mi ha preso il crampo! Non riesco a sollevare la gamba. Non ce la farò mai a montare!” “Calma, che adesso inventiamo un'altra soluzione! Resta appesa con le braccia come ti trovi. Ora attenta, che mi butto in acqua!”, così dicendo mi tuffo badando di non provocare lo sballozolamento dello scafo. Giro intorno alla barca e mi metto alle spalle di Lucy. Milano 211 “Stai pronta, adesso io mi butto sott’acqua e ti infilo la testa fra le tue gambe…” “Ho capito: mi fai la cavallina! Sbrigati, che non ci resisto più!” Eseguo: capriola, due bracciate a scendere, infilata di testa, forbiciata di gambe… riemergo di slancio tanto da proiettare in un sol botto la ragazza dentro lo scafo. Volgo lo sguardo dietro a me: la striscia nera avanza inesorabile. “Lucy, per favore – le ordino – adesso mettiti seduta sul bordo opposto a me. Devi farmi da contrappeso!”, gemendo per il dolore lei si arrampica sulla corona della fiancata. “Va bene, sporgiti in fuori. Uno, due…” ed eccomi a mia volta dentro lo scafo. Per il contraccolpo, ci troviamo entrambi abbracciati… situazione piacevolissima, ma che purtroppo devo interrompere. La spingo verso la prua e raggiungo il sedile del carrello. Inforco i remi e inizio a vogare. Lucy continua a lamentarsi per i crampi e si massaggia una coscia. “Strizzati i muscoli con la maggior forza che puoi… allunga le gambe e adesso pian piano piega le ginocchia finché non raggiungono la tua faccia!” Milano 212 “È incredibile! Mi sta passando. Grazie!” Una tremenda ventata scuote la barca. Lucy manda un grido: “Che succede adesso?” “Tranquilla, la prima folata è sempre la più pesante. Fra poco ci siamo!” Aumento il ritmo delle entrate in acqua al massimo delle vogate. Cominciano ad arrivare onde brevi che sbattono con rabbia contro le fiancate… si barcolla e imbarchiamo qualche spruzzata d’acqua. Dalla riva, che è ormai vicina, ci giungono grida di incoraggiamento: “Forza che ce la fate!” Entriamo nella conca del porto appena in tempo per sfuggire alla prima pesante arrotata di marenca. Raggiungiamo con gran forza la riva bassa: la barca slitta tutt’intera sul declivio di terra battuta. Siamo salvi! “Certo che se aspettavo il motoscafo dei miei amici – commenta Lucy – rischiavo di andar sotto come una pietra. Ma cosa gli sarà successo?” Fra la gente che ci incoraggiava dalla riva c’è anche qualcuno che conosco: un mio compagno di scuola… Aristide si chiama. Lucy sta tremando, non riesce a reggersi in piedi. A mia volta sono stremato. Da convinto salvatore, la sollevo di peso fra le braccia. Milano 213 “Venite, - ci sollecita Aristide – entriamo in quel bar.” Io muovo tre passi… all’istante mi cedono le braccia e le gambe all’unisono. Due ragazzi mi reggono in tempo, prima che finisca lungo e disteso con la ragazza. L’amico si incarica di sollevare di nuovo Lucy e di corsa la va trasportando al caffè. “Ehi, - grido accasciato come un sacco lì a terra – e io? Mi piantate qui come il figlio della povera schifosa?” A fatica, camminando a carponi, raggiungo tutto solo il bar. Mi sistemano subito addosso una coperta. ”Non vedo Lucy, dov’è?” “È nel bagno della signora, di sopra, a farsi una doccia.” Chiedo se sanno qualcosa di un motoscafo arrivato a terra prima che scoppiasse la marenca. “Sì,- mi rispondono - ce n’è uno che ha attraccato al molo dei Finanzieri. Aveva il motore in panne, ingrippato.” Aristide si affacciato alla porta e indica il lago dritto davanti a sé: “Guardate, c’è il motovedetta della Finanza che prende il largo. Quei due in costume da bagno che stanno a poppa sono di sicuro gli amici della ragazza. Infatti vedi che girano tutt’intorno al centro lago… Che fanno adesso? Puntano verso Porto Valtravaglia.” Milano 214 Interviene il vigile del comune: “Bisogna avvertirli che siete qui. Fra poco dovranno prender terra anche loro, se non vogliono finire a picco. Guarda che onde stanno montando!” L’amico esce deciso: “Vado al comando del porto… loro sono di sicuro in contatto radio con la motovedetta.” Nel bar ora Lucy è lì seduta su una sedia con me vicino che cerco di calmarla. Piange proprio come una bambina, è disperata al pensiero di sua madre che non la vedrà tornare a casa. Ecco che torna Aristide, porta buone notizie: “I finanzieri sono riusciti a comunicare con la motovedetta. I due amici di Lucy erano a dir poco sconvolti, convinti com’erano di averla perduta. Ci penseranno loro ad avvertire la famiglia di Lucy e anche la tua, Dario.” Finalmente tiriamo un sospiro, Lucy chiede se non ci sia la possibilità di tornare indietro la sera stessa. Il vigile del comune la invita a dare un’occhiata al lago: ormai è diventato di un blu nerastro tempestato dalle sbiancate delle onde a sgranfio. Soffia un vento che scuote gli alberi e li spoglia di tutto il fogliame. Milano 215 “Di sicuro la motovedetta a ‘sto punto s’è infilata nel porto sotto la Rocca ben al coperto e fino a domani, se tutto va bene, non la vedremo spuntare.” Entrambi avvolti nelle coperte, raggiungiamo la casa del mio compagno di scuola che sta sulla parte alta della costa: è una villa maestosa con tanto di parco sul davanti. La madre di Aristide ci accoglie con molta affettuosità. Quando poi il figlio racconta del pericolo corso, si commuove: abbraccia Lucy e l’accarezza. Si rende conto che sotto la coperta la ragazza ha solo un piccolo costume ancora umido. La prende per mano e la porta di sopra dove ci sono le camere. Aristide accompagna anche me nella sua stanza e mi offre abiti asciutti traendoli da un suo armadio. Dopo un pò ci mettiamo tutti a tavola. La signora mi accarezza una mano e poi guardando Lucy chiede: “Siete fidanzati, vero?” Un attimo di imbarazzante silenzio, poi Lucy risponde decisa: “Sì, da questa primavera!” “Ah, ah, – scoppia a ridere la signora- guarda il tuo ragazzo com’è arrossito! Non c’è niente di che Milano 216 vergognarsi, figliolo mio. Se non ci s’innamora alla vostra età, quando mai vi può succedere?” Terminato di cenare, la signora ci accompagna nelle nostre due rispettive camere. “Siete troppo giovani per dormire nello stesso letto – commenta – La tua mamma, sono sicura, non me lo perdonerebbe mai!” Ci ritiriamo. Mi sdraio sfinito sul grande letto, ma non riesco ad addormentarmi… fuori il vento, strisciando nel canalone, emette ululati tremendi contrappuntati da schianti d’alberi sradicati. Adesso si vede il cielo sbiancare per i fulmini seguiti da tuoni a che sembran botti da miniera. Una folata terribile spalanca la finestra. Vado a bloccarla prima che con lo sbattere crollino tutti i vetri. Ci riesco con fatica. Mi volto… sulla porta aperta c’è Lucy avvolta in un enorme drappo copriletto. “Ho tanta paura – dice – mi fai stare qui con te?” Balbetto qualcosa di incomprensibile e la invito ad entrare. Lei va diritto al letto e ci si siede. Dopo qualche preambolo senza senso, io le chiedo: “Ti ho vista una volta col fratello di Jute che giocavi e ridevi in acqua…” Milano 217 “No, - mi blocca lei decisa – non è il mio moroso. Mi fa la corte, ma non mi piace!” “Salvo per giocarci in acqua e farti sbattere in aria fra le sue braccia!” Faccio io. “Oh Dio ci siamo appena fidanzati e già mi fai una scena di gelosia!” Ridiamo. “Però io ho ancora qualche chiodo da togliermi dal cranio. Scusa Lucy, mi vuoi spiegare perché quando ti ho raggiunta in barca non hai voluto che stessi con te?” “È semplice: perché mi seccava che al ritorno del motoscafo, Jute e suo fratello ci vedessero insieme. Lei mi sfotte sempre dicendo che come ti vedo, vado in fregola e sbatucchio gli occhi come una suora davanti a un Sebastiano nudo trafitto da frecce! Suo fratello poi, va giù ancor più pesante. È molto geloso di te… gli stai, a dir poco, sulle scatole. Se ti avesse scoperto sulla tua jole appresso a me, c’era rischio che ti speronasse col suo motoscafo da gran bullo.” Tiravo respiri come un mantice: mi stavo scaricando di tutto il magone che da mesi mi si era accumulato nello stomaco. Fuori la tempesta andava e veniva, ogni tanto si acquietava poi riprendeva ancor più fracassosa di prima. Noi ci si Milano 218 raccontava tutto dalla prima volta che ci siamo incontrati sulla spiaggia. Lei sfotteva divertita le mie esibizioni da acrobata tuffatore che spesso concludevo con spanciate orrende. Io la stupivo ricordandole particolari dei suoi gesti e comportamenti dei quali si era completamente dimenticata. Era evidentemente lusingata per le emozioni che mi aveva provocato. Mi sono messo in piedi sul letto e ho cominciato a rifare il verso alle sue camminate davanti a noi ragazzi imbesuiti, il suo modo di correre, saltare… imitavo perfino la voce e le risate. Lucy rideva da rotolarsi infatti stava rivoltandosi di qua e di là sul letto finché è cascata di sotto con un gran tonfo. “Oh Dio, la testa! Che botta!” L’ho afferrata per aiutarla a risalire. Mi ha abbracciato, con un piccolo bacio sulla guancia. Il cuore mi sbatteva nelle tempie, in petto e giù fino al pollice dei piedi. Si chiaccherava ancora, sdraiati uno appresso all’altro, ma le parole ormai ci uscivano con fatica, smozzicate dal sonno. Ci siamo addormentati proprio come due ragazzini. Eravamo entrambi al nostro primo amore: io avevo diciassette anni, lei quattordici. Benedetta quella tempesta di marenca! Milano 219 Fuga verso la Svizzera Avevo 17 anni quando gli americani e gli inglesi sono sbarcati in Sicilia… dopo qualche mese è avvenuto il crollo del governo fascista e la resa decretata dal re. Di lì a poco, con lo sfascio del nostro esercito, si son visti tornare a casa molti compaesani che provenivano chi dalla Jugoslavia, chi dal Sud. Ho visto scendere dal treno un mio amico vestito da macchinista delle ferrovie che arrivava dalla Croazia, un altro su una bicicletta da donna travestito da panettiere, tutto in bianco, un altro ancora con un abito scompagnato con braghe da marinaio e giacca da postino. Qualche giorno dopo io mi trovavi a Milano dallo zio Nino, un fratello di mia madre, che si era salvato dal militare in quanto riformato. Mi viene a trovare a scuola: “Ho bisogno di te, forse mi puoi aiutare!” “Volentieri, che ti serve?” “Parrucche da donna?” “Parrucche? Per farne che?” “Dopo, ti spiego dopo.” All’inizio di Via Garibaldi c’è un negozio dove ne vendono di sintetiche. Ci andiamo… non costano molto, Milano 220 ce ne sono una dozzina smangiucchiate dalle tarme… vengono via a poco. Lo zio sceglie quelle. “Accompagnami alla stazione.” Quando ci arriviamo mi dice: “Forse è meglio che vieni con me… mi puoi essere utile!” “D’accordo, dove andiamo?” “A Sartirana.” “E che ci fai con delle parrucche a Sartirana?” Appena ci troviamo nello scompartimento, spalanca una sacca che aveva con se: dentro, tutti infucignati, ci sono degli abiti da donna. Poi da una borsa semi-rigida estrae una scatola con delle creme da trucco per signora. “Dovete fare una recita?” chiedo io. “Quasi. A Torreberetti c’è un campo di prigionieri inglesi, sudafricani, più qualche indiano. La guarnigione che si occupava di quel campo se l’è svignata. Ora bisogna trasportarli in Svizzera prima che si risveglino i tedeschi. Quelli che hanno affidato a me sono una cinquantina. Se li carico tutti insieme su un vagone, anche con addosso abiti civili, danno troppo nell’occhio. Mica posso farli passare per un gruppo di partecipanti ad una scampagnata del dopolavoro Pirelli! A parte che una decina di loro è scozzese… quasi tutti con i capelli rossi e la faccia bianca Milano 221 tempestata di lentiggini; un’altra mezza dozzina è sudafricana… alti un metro e novanta con il 54 di piede! Per non parlare poi dei quattro indiani che sembrano Tung della Malesia!” “E scusa zio, pensi che travestendoli da donna con belletto e parrucca possano passare per un corpo di ballo del varietà in trasferta?” “Mica ho in mente di travestirli tutti, solo una decina fra i più credibili. Poi li carico sul treno dei ‘Catariso’…” “Che è?” “I catariso, quelli che vengono dalla città in Lomellina a cercare qualche sacchetto di vialone, segale o frumento per poter mangiare almeno una volta da cristiani. Le guardie dell’annonaria lasciano correre anche perché fino ad un paio di chili a testa è permesso. Noi non facciamo altro che confondere i nostri prigionieri in mezzo ai cataris che sono in gran parte donne. Anzi, qualcuno fra i più passabili, lo affidiamo a loro!” “E sei sicuro che queste catariso ci stiano a prendersi ‘sto rischio?” “Stai tranquillo! Le donne sono sempre le più generose… le uniche disposte a rischiare!” Milano 222 Il mattino dopo, era ancora scuro, siamo alla stazione di Sartirana. Arriva il treno da Mortara che poi prosegue per Novara e arriva a Luino. È già abbastanza affollato, in gran parte di cataris coi loro pacchi e sacchetti. Il treno si ferma, carica altri viaggiatori poi, invece di ripartire, fa marcia indietro: raggiunge il deposito dove deve agganciare un vagone merci. Vengo a scoprire più tardi che tutta quella manovra è un espediente per consentire ai prigionieri liberati di salire sulle ultime vetture di coda al coperto, cioè sbucando da dietro l’arconata del deposito, non visti dalle guardie di servizio alla stazione… era evidente che macchinisti e controllori fossero tutti d’accordo. A mia volta seguivo lo zio Nino sui vagoni di coda; c’erano altri quattro compagni di Sartirana incaricati di gestire il trasporto. Come aveva previsto lo zio, almeno una decina di donne si era lasciata coinvolgere nell’avventura. Alcune di loro mostravano di non essere assolutamente preoccupate per il rischio a cui andavano incontro. “Se ci beccano, voglio che mio sbattano nella stessa cella insieme a ‘sto bello scozzese truccato da mondariso!” sghignazzava una di loro. Milano 223 Era proprio una banda in fuga ben assortita! Calzavano quasi tutti pantaloni troppo corti e stretti, quelli con le parrucche da donna sembravano baldraccone da marinai in astinenza pesante… a una di quelle battone avevano persino posto sulle ginocchia un bambino che scalciava e piangeva terrorizzato. Il maggior pericolo consisteva nel fatto che qualche viaggiatore facesse loro delle domande: non conoscevano una parola di italiano… dei quattro indiani, due parlavano un dialetto strettissimo del Bangladesh, per di più uno era talmente scuro di pelle che nemmeno con mezzo chilo di fondotinta s’era riuscito a schiarirlo. Alla fine avevamo deciso di fasciargli la faccia con delle bende, lasciando liberi gli occhi, le narici e una fessura per la bocca; per nascondere le mani gli avevamo fatto calzare dei guanti da cameriere. A chi chiedeva cosa gli fosse successo, si rispondeva che era stato investito da un ritorno di fiamma del forno dove lavorava…… ustione di terzo grado un po’ dappertutto. Per fortuna il vagone era talmente stracolmo di gente che nessuno trovava modo di salire. Anzi, ad ogni fermata noi ci si affacciava dal finestrino invitando i viaggiatori che cercavano posto di proseguire verso il centro del Milano 224 convoglio. Anche a guardie che a Novara avevano in programma di attraversare i due vagoni dove stavano acquattati i nostri prigionieri in fuga, dopo un paio di tentativi per farsi strada nella calca, hanno desistito e sono saliti più avanti. Siamo arrivati a Luino con il solito ritardo di mezz’ora: per percorrere non più di 150 chilometri ci abbiamo impiegato quasi quattro ore. A ‘sto punto la faccenda si faceva più difficile: al controllo della ferrovia c’era una guarnigione di tedeschi, per di più il numero dei viaggiatori nei nostri due vagoni si era andato dimezzando. Non potevamo più approfittare della calca per bloccare un eventuale controllo. Inoltre con il passare del tempo, per il gran caldo, la crema del trucco stava colando dalle facce dei travestiti… sembravano clown reduci da un match a torte in faccia. “Attenzione! Quattro guardie armate stanno risalendo verso i vagoni di coda!”. All’istante il treno si mette in moto provocando un o scossone tale che uno dei militari della Wermat che stava già con un piede sul predellino è stato scaraventato a terra. Il capostazione fischia come un pazzo. Il convoglio si blocca a freni inchiodati… un altro gran scossone. I Milano 225 quattro tedeschi ritornano correndo verso la locomotiva. Scende il capotreno che urla col capostazione… il macchinista si sporge dalla postazione del locomotore e urla a sua volta. I tedeschi cercano invano di inseristi nella discussione, ma nessuno li ascolta. Come se non bastasse, ora anche i viaggiatori si affacciano dai finestrini e urlano: “Siamo già in ritardo di mezz’ora! Vogliamo darci un taglio con queste vostre beghe e deciderci a ripartire?” Alla fine, ecco che il macchinista taglia corto con un terribile fischio a pernacchio della locomotiva che riparte decisa con uno stantuffare da chi si è proprio rotto le scatole. Il capotreno continua a discutere con le guardie crucche... passando davanti al gruppo degli altercanti, li sbircio dal finestrino e ho proprio la sensazione che anche ‘sta volta i ferrovieri di Luino e quelli del nostro treno abbiano messo in piedi una bella sceneggiata allo scopo di non permettere ai gendarmi di svolgere il loro controllo. Dopo mezz’ora, superata la stazione di Maccagno, arriviamo alla galleria che si apre qualche chilometro prima di Pino, cioè a quattro passi dal confine. Il treno si ferma con la locomotiva e gran parte del convoglio infilato Milano 226 nella galleria, solo gli ultimi vagoni sono rimasti fuori. Si spalancano tutte le porte: “Via! Fuori, scendete!” Non siamo ancora con i piedi a terra ed ecco che il treno riprende la corsa. I cinquanta prigionieri e noi accompagnatori, seppur con qualche ruzzolone, ce l’abbiamo fatta! Poco più indietro c’è un sentiero che si infricca nel bosco, poi si monta per un dosso scosceso: ci arrampichiamo con ritmo da capre selvatiche. Il Tung finto ustionato s’è sfasciato la faccia; con urla di soddisfazione i travestiti da femmina si vanno spogliando di sottane e corpetti, ma non c’è tempo di fermarci per procurar loro dei pantaloni perciò sono costretti ad arrampicarsi con le gambe all’aria e nude. Per la tensione si son dimenticati di togliersi di dosso le parrucche… una visione sempre più oscena. Raggiunto il pianoro dei gelsi sopra Tronzano, incrociamo un gruppo di pastori - uomini e donne - che alla vista dei Tung, dei giganti africani, degli scozzesi bianchi e rossi e delle femmine sgambate, sgranano gli occhi attoniti e si fanno il segno della croce. Ancora due balze da superare e siamo nei pressi del confine. Ci fermiamo ad un casolare ad abbeverarci e Milano 227 prendere fiato. Ad attenderci ci sono un paio di contrabbandieri che conosco da anni e appresso un gruppo di persone, uomini e donne con qualche bambino. In mezzo a loro scorgo mio padre… è salito con quella gente da Pino. Non mi aspettavo di trovarlo lassù, ci abbracciamo. Il papà si complimenta con lo zio Nino e con i suoi compagni: “Avete avuto un bel coraggio a fargli fare un viaggio del genere!” Dal casolare escono due contadine che distribuiscono fette di polenta e formaggio. Arriva un pastore con qualche fiasco di vino e del latte per i ragazzini. Chiedo al papà: “Chi è questa gente che hai portato con te?” “Ebrei - mi risponde - È già il terzo gruppo che facciamo passare di là in questi giorni. Adesso però devo salutarvi, tra un’ora riprendo servizio alla stazione.” Prima di rimettersi incammino, va a salutare il gruppo degli Ebrei: tutti lo abbracciano… una donna non smette di sbaciucchiarlo, solleva il bambino e glielo da prendere in braccio per un attimo. Adesso scende il crinale… tutti gli gridano parole di saluto e ringraziamento. Milano 228 Gli inglesi si sono informati: hanno spiegato loro che mio padre è il responsabile dell’organizzazione che fa transitare per la Svizzera fuoriusciti, perseguitati e prigionieri in fuga. Anche loro adesso lo salutano. Mio padre laggiù accenna appena un gesto con il braccio e prosegue fino a scendere. Io sono molto orgoglioso di lui. Servizio di leva volontario La guerra era agli ultimi fuochi eppure causava ancora lutti e tragedie. Ad ogni modo pensavo di avercela fatta, d’essere riuscito a restarne fuori senza gran danno… anche se qualche rischio con scossone da infarto l’avevo scansato proprio per un pelo. A Milano mi era capitato di rimaner sotto ad un bombardamento, fra i più pesanti sopportati dalla città. Alloggiavo da una mia zia all’Isola. La zia era sfollata in Brianza, ma mi aveva lasciato le chiavi dell’appartamento. Quella sera non ho fatto in tempo a tornare a casa da Corso Buenos Aires dove mi trovavo. Stavo montando sul tram ed ecco che suona l’allarme… ho dovuto scendere nel rifugio sotto il teatro Puccini. Dopo un po' sembrava Milano 229 fosse arrivata la fine del mondo: calcinacci e polvere piovevano ad ogni botto. Ad un certo punto ho visto scendere nel sotterraneo una trentina di persone terrorizzate. Erano fuggite dal rifugio di fronte. Il palazzo che stava sopra era stato letteralmente abbattuto … con gran fatica erano riusciti a strisciare fuori da un pertugio. Il bombardamento, seppur con qualche pausa, è durato un paio d’oro. Al suono delle sirene che annunciavano il cessato pericolo, siamo usciti tutti all’esterno. Appena s’è diradato un po' il fumo, ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo orrendo: c’erano palazzi in fiamme, caseggiati interi ridotti a ruderi… cumuli di detriti che sbarravano le strade. I mezzi di soccorso non riuscivano a trovare un varco dove passare… sirene dei pompieri che urlavano in ogni direzione. Tutt’intorno vedevo facce inebetite. Credo che la mia espressione non fosse molto diversa. Non si riusciva a venir fuori da quel labirinto infernale segnato da lamiere contorte e detriti. Finalmente ho incrociato un ragazzo alla giuda di un’ambulanza della Croce Rossa che mi ha indicato un percorso d’uscita. Milano 230 Il sole era già alto quando sono arrivato all’Isola: stesso disastro, stesso fumo aspro provocato dalle bombe al fosforo che ti bruciava la gola. Ho raggiunto la strada con la casa della zia: l’appartamento si trovava lassù al quarto piano, ma del quarto piano e di tutto il palazzo non era rimasto nulla… solo il cielo grigio. Ad un certo punto, mi sento battere una mano sulla spalla: è il droghiere che ha il negozio nello stabile in faccia: “Che ci fai tu qui? Ti avevamo dato per morto! Non si è salvato nessuno del tuo stabile...” “Beh, mi scusi se mi sono permesso di non far parte della lista!” Insomma, a parte il terrore, come dicevo all’inizio di questo racconto, le cose mi stavano andando abbastanza bene: avevo 17 anni e ormai la fine della guerra era vicina. Questione di pochi mesi e poi avrei raggiunto l’età indispensabile per venir chiamato sotto le armi. E invece il governo di Salò ha pensato bene di fregare me e gran parte dei ragazzi della mia leva. Uscì un editto che ordinava ai nati nel primo semestre del 1926 di presentarsi per essere spediti in Germania a lavorare. Più sotto si spiegava che saremmo stati utilizzati soprattutto in Milano 231 fabbriche e in servizi utili. In poche parole dovevamo integrare quelle maestranze che in seguito ai disastrosi bombardamenti erano venute meno. Mio padre aveva subito commentato: “È peggio che se vi avessero chiamati al fronte!” C’era però una scappatoia: al comando della Artiglieria Contraerea di Varese accettavano volontari. Una volta arruolati in quel corpo ecco ce si evitava il trasferimento da deportati in Germania. Detto, fatto: mi sono unito a un bel gruppo di coscritti della mia leva e tutti insieme ci siamo presentati alla caserma degli artiglieri. Eravamo molto soddisfatti della nostra scelta anche perché ci avevano assicurato che non disponendo di postazioni batteria in azione, quel comando ci avrebbero rimandati momentaneamente a casa in licenza provvisoria in attesa di nuovi ordini. Ma ahimé era una trappola: la sera stessa ci hanno consegnato le divise, zaino ed equipaggiamento. L’indomani, di buon’ora ci hanno caricati tutti e trecento coglioncioni che eravamo su carri bestiame alla volta di Mestre dove ci avrebbero istruiti al servizio dei pezzo da 9E31. Milano 232 Sulla fiancata dei vagoni che ci trasportavano c’era scritto in grande stampatello: cavalli 12, uomini 40, cioè a dire che il vantaggio era dei cavalli. Con noi reclute rintontite sono stati di una certa magnanimità: in ogni vagone eravamo 35… c’era da scialacquare. Era estate e dentro quei casoni di legno si soffocava, perciò viaggiavamo con il portellone spalancato. Man mano che il convoglio prendeva velocità, il frastuono e i cigolii aumentavano fino a stordirci… ma come facevano i cavalli? Arrivati a Milano, ci hanno dirottato su un binario laterale di manovra. Siamo scesi in cerca d’acqua. Abbiamo trovato una fontana in zona dello scalo merci e abbiamo riempito le nostre borracce. Rientrando ai nostri vagoni, abbiamo tagliato trasversalmente sorpassando cinque o sei linee di binari; quindi abbiamo costeggiato una fila di vagoni dai quali ci siamo sentiti chiamare… c’erano fessure fra le tavole delle pareti da cui si indovinavano occhi e bocche che ci chiedevano da bere: “Acqua, acqua!” ripetevano donne, uomini e qualche ragazzino. Alcuni di noi ha provato a far scorrere qualche portellone… erano tutti chiusi con lucchetti. Un ragazzo di Luino ha esclamato: Milano 233 “Ma sono deportati!” Lì per terra c’erano dei cartoni, li abbiamo fatti a strisce di un paio di centimetri, poi ognuno di noi ha infilato il proprio listello fra le fessure e ha cominciato a versare l’acqua che scorrendo sul cartone scendeva al di là della parete dove bocche assetate si spalancavano trangugiando fino all’ultima goccia. Non è passato un minuto che abbiamo sentito gridare: Weg! Weg von hier! Es ist verboten!” Erano i soldati tedeschi di guardia al convoglio che ci cacciavano inferociti spintonandoci con il calcio dei fucili. Per fortuna, in nostro soccorso è spuntato un ufficiale spalleggiato da una decina di guardie ferroviarie che ha spento deciso il vociare dei crucchi e ci ha pigliato sotto il suo commando tirandoci via da quel vespaio. Ma quello che abbiamo intravisto fra le stanghe dei vagoni serrati dai lucchetti ci aveva letteralmente sconvolti. Non riuscivo a togliermi dalla mente gli occhi di un bambino che cercava di attirare la mia attenzione e la sua piccola bocca spalancata, tutta protesa ad aspirare l’acqua che ero riuscito a farmi scivolare fra le labbra. Siamo arrivati a Mestre dopo due giorni. A Verona i bombardieri americani avevano colpito in pieno i due Milano 234 ponti dell’Adige. Perciò ci è toccato attraversare il fiume su un barcone. Durante il trasbordo a pochi metri della riva è risuonato l’allarme e si è sentito il rombare dei motori. Qualcuno, preso da panico, si è buttato in acqua. Ma ‘sta volta le bombe non erano destinate a noi: i quadrimotori proseguivano per la Germania. Nella caserma di Mestre ci siamo aggiunti ad un altro migliaio di reclute provenienti da tutta Italia. La maggior parte s’era arruolata per la nostra stessa ragione: evitare il trasferimento forzato nelle fabbriche tedesche sotto i bombardamenti a tappeto. Ma anche in quella zona, fra mare, canali e paludi mica si scherzava coi bombardamenti! Qualche giorno dopo dal nostro arrivo ci fanno sgombrare dalle nostre baracche e ci portano nelle campagne. Ci alloggiano in alcuni casoni abbandonati; dormiamo sdraiati sulla terra battuta? Chiediamo ad un anziano sergente del perché di quel trasloco. “Dobbiamo lasciare il posto a un battaglione che rientra dalla Iugoslavia.” ci risponde. La notte bombardano Mestre e Marghera: scorgiamo vampate di fuoco di lampi biancastri che si levano dalla zona abitata. Sentiamo il frastuono dei motori passarci sopra le teste. Dopo qualche Milano 235 minuto, lassù alle nostre spalle si leva uno squarciazzo di lampi e schizzi di fuoco e sbarlusi. Dopo un attimo trema la terra, accompagnata da una scarica infinita di tremendi boati. “Stanno spianando Treviso!” grida il sergente. Le contraeree sparano all’ipazzata… sembra la luminaria di carnevale. E invece in quel momento muoiono più di diecimila poveri cristi, uomini, donne e bambini. Ma che c’entrano loro con ‘sta guerra? Milano 236 Il bombardamento era ad ondate successive. Noi eravamo lì, nei prati , faccia all’insù come pietrificati. Lampi e boati erano da poco cessati quando ecco che da lontano ci arriva l’ululato delle sirene: sono i mezzi dei vigili del fuoco provenienti da Padova. Vicino a noi c’era il raccordo fra le tre strade, una che proveniva dalla laguna, un’altra da Marghera e proseguiva per Treviso e l’altra ancora che saliva dalla “Pavania”. Le autobotti dei pompieri giravano tutte verso Treviso. Una camionetta si ferma davanti al casone dove siamo alloggiati; scende un ufficiale e ci ordina di tenerci pronti… dobbiamo raggiungere Mestre. C’è bisogno di manovalanza per rimuovere i detriti e dare una mano per i soccorsi. Dopo pochi minuti ci caricano su due camion e arriviamo così in città. Hanno colpito l’intero centro. Ci si presenta la stessa scena del bombardamento di Milano, con la variante dell’aprirsi di enormi crateri che sparano getti d’acqua come fontane. Gente che grida, feriti portati via a braccia mentre i morti vengono stesi sotto un porticato. Prima che ci si riesca ad organizzare passa più di un’ora. Nessuno ci dice quello che dobbiamo fare. Milano 237 Arrivano dei trattori muniti di pale meccaniche; ci consegnano dei badili: dobbiamo accatastare i detriti spinti dalle pale. Sotto un lastrone abbiamo sentito salire delle voci… si è scavato a lato come forsennati e finalmente si è aperto una specie di tunnel… poco per volta, uno ad uno, abbiamo tirato fuori una decina di persone. Avevamo le mani che sanguinavano. Solo pochi di noi potevano vantare i calli da terrazziere. Il giorno appresso grande adunata nella caserma centrale, cambio di vestiario: “Gli abiti che avete addosso sono di tipo invernale… con questo caldo crepate. Ora vi procuriamo divise più adatte, roba estiva!” Ci consegnano pantaloni e giacche di uno strano colore, giallo sabbia. Come li indossiamo ci guardiamo tutti l’un l’altro ad occhi sbarrati: “Ma sono divise tedesche, della WerMark!” “Non fatevi strane idee - ci tranquillizzano gli ufficiali sono tedesche, ma le mostrine sono quelle del nostro esercito, state tranquilli…” Nei giorni appresso cominciamo le esercitazioni: “Faremo pratica sui cannoni da 88!” Milano 238 “Ma sono quelli in dotazione alla contraerea tedesca?” “Dobbiamo adattarci a far pratica sulle loro batterie… i nostri 91 non sono disponibili per il momento.” Passa un’altra settimana… altra adunata generale: “Rifate gli zaini e raccogliete la vostra roba… si torna a casa, o meglio a Monza dove si trova la sede del comando dei quattro battaglioni. L’esercitazione riprenderà in quel campo più attrezzato.” Risaliamo sui carri merce, con noi ci sono i veterani tornati dalla Jugoslavia. Uno di loro commenta: “Non mi dice niente di buono ‘sto trasferimento… mi sa che ci fottono!” “In che senso?” chiediamo noi reclute. “Il senso non lo so, ma ‘sto fatto delle divise deutch… l’esercitazione sugli 88 dei crucchi e adesso pure il trasferimento con l’accompagnamento delle guardie tedesche… mi puzza di gran fregata!” “E dove sarebbero ‘ste guardie crucche?’ chiediamo increduli. “Calma che a momenti arrivano!” Non so da chi i “vecchi” l’avessero saputo, ma appena sistemati nei vagoni merci ecco che arrivano i nostri angeli Milano 239 custodi. Sono armati con Machin Pistol e Machin Gerver. Si piazzano nelle garrite senza degnarci di uno sguardo. “Non agitatevi - fa un sergente - vengono con noi solo per proteggerci?” “Da chi? Dal lupo cattivo?” Quando il convoglio raggiunge Verona, puntuale come la scalogna, ecco che suonano le sirene d’allarme; i genieri avevano appena sostituito il ponte abbattuto approntandone un altro appoggiato su barconi. La nostra tradotta s’è bloccata a un centinaio di metri dal nuovo ponte. Spalancati i portelloni, ci siamo precipitati tutti quanti giù dai vagoni. “Lasciate su i vostri zaini che vi impicciano e basta!” ci gridavano i sergenti. Non capivo del perché quasi tutti i “vecchi” se ne fregassero dei consigli e si tirassero appresso i propri bagagli. L’ordine era di allontanarsi dagli argini dell’Adige e dalla ferrovia. “Sparpagliatevi nei campi, in mezzo al granoturco, ma restate tutti uniti!” urlava l’interprete tedesco, sicuramente alto atesino. “Ma quello è suonato - sghignazzavamo noi in coro come si fa a sparpagliarsi e restare tutti uniti?” Milano 240 Le nostre risate non sono durate a lungo, anzi ci si sono raggelate in gola quasi subito: in picchiata stavano venendo giù una mezza dozzina di “Urricane” che lasciavano cadere bombe come manciate di riso addosso agli sposi. A ogni assalto volavano in aria getti altissimi d’acqua e di ghiaione. “‘Sta volta l’hanno beccato in pieno!” si gridava noi affacciandoci appena fra le spighe del formentone. E invece, come il nebbione prodotto dall’esplosione in acqua si diradava, ecco che appariva il ponte galleggiante sui barconi sballonzolante per li sconquasso, ma perfettamente intatto. Di sicuro quel ponte era magico! Dopo la terza picchiata andata buca, lo stormo degli Urricane desisteva rientrandose alla base dietro la linea gotica. “Cessato allarme, si torna al convoglio!” Più di un vagone appariva sforacchiato: uno dei caccia americani gli aveva tirato addosso una scarica da 20 millimetri… Ecco perché i “vecchi” della compagnia si erano portati appresso gli zaini e le varie masserizie! A questo punto i sergenti delle varie compagnie cominciano a fare l’appello, ma il nostro capo non c’è. I Milano 241 tedeschi della scorta bestemmiano: “Hurensöhne, Fanhfluchtige! Verräte!” Scopiamo quasi subito la ragione di tanto furore: tutti gli anziani del battaglione, compreso il nostro sergente, hanno tagliato la corda… spariti! Si riparte. Anche il vagone che ci hanno assegnato è rimasto sforacchiato e gli unici zaini che troviamo sono tutti squarciati. I tedeschi ci ordinano nuovamente di scendere : il convoglio si appresta ad attraversare il ponte e non c’è da fidarsi a restarci sopra. Quindi la truppa lo attraversa a piedi, zompando da una traversa all’altra. Finalmente si rimonta nei nostri vagoni e qui godiamo di una sorpresa davvero inaspettata: come riprendiamo posto sui carri, la scorta dei tedeschi fa scorrere i portelloni e ci chiude dentro, bloccati con il lucchetto. “E che è?! Siamo forse deportati? - urliamo indignati Bastardi!” L’interprete col suo bell’accento bolzanino ci grida: “E fate gli scongiuri che non ci vengano a bombardare ancora perché ‘sta volta, niente libera uscita. Restate dentro! E di questo ringraziate quei vostri soci che se la sono data a gambe!” Milano 242 Eravamo rimasti in piedi come allocchiti in quelle nostre trappole cigolanti mentre il convoglio proseguiva a velocità sostenuta. Dopo un paio d’ore senza altri intoppi, siamo arrivati allo svincolo per Sesto san Giovanni… un’altra mezz’ora e finalmente raggiungevamo la caserma di Monza. Trascorsa una settimana davvero tranquilla, eravamo più che convinti che la fuga dei vecchi commilitoni fosse stato un atto inutile e molto rischioso, quello cioè di venir catturati e finire sotto processo per diserzione davanti al nemico. Intanto ogni giorno giungevano altri contingenti di artiglieri provenienti dall’Albania e dalla Grecia; ogni gruppo era scortato da uomini della Vertmark… di tanto in tanto appariva poi fra loro anche qualche soldato delle SS Ma non c’era da temere. Fra l’altro, molti di noi iscritti all’Università ottenevano facilmente il permesso di recarsi a Milano per dare gli esami. Così ogni settimana ero all’Accademia di Brera per la tesi e al Politecnico per la cosiddetta “Sei giorni”, l’esame pratico di rilievo dei monumenti. Ad ogni rientro in caserma, mi prestavo a eseguire ritratti ai vari graduati del battaglione. Lo ammetto, il classico Milano 243 arruffianamento, ma di grande vantaggio perché mi dava la possibilità di girare per uffici e ottenere proroghe e permessi speciali. Insomma, in quel casermone di Monza stavo vivendo un’esperienza quasi idilliaca… piano piano, l’incubo della tradotta da deportati stava svanendo, anche i tedeschi erano spariti. L’avventura di Mestre, i bombardamenti a tappeto, l’incarico di dissotterrare i cadaveri ormai apparivano a tutti noi come una lontana esperienza da dimenticare. A liberarci definitivamente da quel cosmar è arrivato l’ordine di un ulteriore cambio di divisa… in verità sarei più portato a definirla l’ultima metamorfosi giacché questi rito implicava anche la trasformazione del nostro ruolo fisico in quella assurda commedia. L’ordine del cambio d’abiti e di ruolo ci è stato impartito durante l’adunata generale nella quale venivamo presentati al nuovo comandante in capo del battaglione d’artiglieria contraerea. Appena schierati nel grande spiazzo è apparso un colonnello burbero, ma molto simpatico che dopo un’occhiata sommaria, ci ha quasi aggrediti: “Cos’è ‘sta schifezza di costumi che vi hanno messo addosso… tutti gialli come merda di dromedario. È roba Milano 244 che va giusto bene per mimetizzarsi nel deserto. Mi spiace per voi, l’Africa Corps è sciolta… Kaputt! Quindi o vi trovate un cammello a testa o buttate quella divisa!” C’è stato uno sghignazzo generale e perfino un accenno di applauso. Un ufficiale così spiritoso, quell’ironia così smaccata era una bomba liberatoria! Detto, fatto: appena acquartierati, passati sotto le docce nudi come vermi in fregola, divertendoci con uno sguazzo festoso di piselli sbatacchianti di forme e misure a tutta scelta, abbiamo ricevuto le nostre nuove divise. Non esaltavano certo il nostro aspetto guerriero e virile, anzi, ci siamo ritrovati di botto con il naturale aspetto di burbe italiote… segno che eravamo veramente di nuovo a casa! Sollecitato dai miei compaesani, ho ricominciato ad esibirmi nel racconto di storie buffe. Avevo inaugurato un nuovo repertorio tratto dalla più che sgradevole esperienza di Mestre, episodi realmente vissuti in prima persona e che avevano completamente rimosso. Uno dei più applauditi era il racconto del salvataggio delle battone di Mestre. Queste povere vestali dell’amplesso a cottimo erano rimaste sotterrate sotto la franata della ‘casa rossa’ dove operavano, una villetta ai margini della città Il loro numero, data la presenza di caserme con truppe Milano 245 provenienti da lunga e sofferta astinenza, era piuttosto cospiquo: circa cinquanta procacciatrici di orgasmo pneumatico. La famosa notte in cui venne completamente distrutta, la casa del sollazzo fallico era letteralmente gremita di ospiti ansiosi di liberare i propri lombi dall’accumulo di liquido seminale in forte esubero. Al suono della sirena, nessuno che abbia accennato al prudente gesto di sgomberare. La metresse aveva solertemente dato la notizia alla stimata clientela che avrebbe potuto accomodarsi momentaneamente nelle accoglienti cantine sottostanti, ma nessuno che le abbia offerto un minimo di attenzione… come recita un antico adagio scientifico: “Fallo ritto no intende un cazzo!” Ma alle prime bombe che hanno cominciato a piovere a ridosso della premiata ciollaria con botti tanto violenti da sradicare d’acchito l’intero tetto della palazzina, ecco tutti quanti - ruzzate e ruzzanti - precipitarsi giù per le scale per raggiungere le cantine nella speranza di salvarsi dal più che imminente crollo. Infatti ad una ulteriore esplosione, ecco che i tre piani dello stabile hanno cominciato a franare inesorabilmente su se stessi come un castelletto di sabbia issato dai bambini sulla spiaggia. Milano 246 La nostra compagnia di soccorritori improvvisati giunge per prima sul posto… quei poveracci sono seppelliti da più di un’ora. Per noi questa era la seconda operazione di pronto intervento: molto pronto, ma poco efficiente a dire il vero! Arriva anche una grossa escavatrice. Ci mettiamo al lavoro immediatamente. Dopo ore di lavoro estenuante, siamo bolliti e sdegnerai quando all’improvviso sentiamo gridare là sotto… sembrano voci femminili, lamenti disperati: “Presto, forza con ‘sti badili benedetti! Vai con la ruspa. Questi stanno soffocando!” Ma incasinati e inesperti come eravamo, presi dall’impellenza tragica, ci buttavamo palate di detriti l’un l’altro. Oltretutto intorno al palazzotto franato s’era creato un assembramento di curiosi che ci incitavano a fare in fretta. Ad un certo punto mi sono trovato nella buca scavata fra i detriti davanti ad una porta bloccata. Ho gridato che mi passassero un piccone o una mazza. Avuto fra le mani l’attrezzo, l’ho sollevato caricando le mie braccia di tutta la forza possibile e… mi è volato via il ferro della mazza che è arrivato a beccare in pieno le chiappe d’un cavallo montato da un ufficiale che, non si sa come ne perché, si Milano 247 trovava in quel luogo a cavalcare come transfertato al concorso ippico del Prater. Colpito dal tocco di ferro, il povero animale sferrava una scalciata dietro l’altra e partiva come un razzo dritto, in mezzo ai ruderi, saltando ogni ostacolo con foga incredibile. Al secondo colpo di mazza, ‘sta vola ben assestato, la porta è andata giù di netto e fra la polvere è apparsa una ragazza seminuda che, come mi scorge, salta fuori ridendo, piangendo e gridando… poi mi abbraccia appassionata e mi stampa un gran bacio sulla bocca. La donna che le sta appresso la spinge via e a sua volta mi bacia a labbra spalancate ficcandomi la lingua in bocca a trillo come un frullatore lasciandomi senza fiato. Per fortuna i miei compagni del soccorso pronto, mi strappano via dall’ingresso abbracciando e del portale raccogliendo e si sostituiscono sbaciucchiamenti appassionati quale ringraziamento da parte delle liberate. Si crea un ingorgo con spinte e ricambi di soccorritori che pretendono ognuno la propria dose di riconoscenza. Un subentrato, desideroso della sua porzione sbaciucchiosa, si fa largo proprio mentre sta uscendo un tedesco nudo e gli impasta una doppia dose di labbra sulla bocca con relativa slinguata. Il violentato fa il gesto meccanico di mettere Milano 248 mano alla fondina per estrarre la pistola… per fortuna dello sbaciucchione, il germano incazzoso è completamente nudo! Il mio racconto è seguito con contrappunto di grasse risate che cadono a giusto ritmo con un crescendo che esplode alla scena della sortita delle liberate ignude che offrono zinne, baci e tondi glutei in dono ai liberatori. Al finale del tedesco trafitto dalla linguata la platea esplode con un applauso davvero caloroso. Fra gli spettatori c’è anche un maresciallo che esibisce una risata con ululato e scoppiettio finale. La prima volta che mi capita di sentirla rimango perplesso: è uno sghignazzo così assurdo che penso mi stia sfottendo tanto che mi rivolgo a lui e lo minaccio: “Attento signor Maresciallo che se continua con quel suo ululato da coite, le stoppo la bocca con un tal bacio con la lingua che l’annego!” Lui scoppia a ridere con tonalità ancor più scarcagnante. Mi rendo conto allora che quella è proprio la sua risata naturale. Alla fine della mia esibizione si alza e mi viene incontro. Dal suo impaccio e dal fatto che non riesce ad inquadrarmi con li sguardo capisco che è cieco. Milano 249 “Non so come ringraziarti per queste sane risate me mi hai fatto fare… Noi ciechi le immagini fantastiche ce le ingoiamo!” Mi ritrovo impastato, non so cosa dire, ma lui mi toglie subito dall’impaccio sghignazzando: “Accidenti, mi è venuto in mente che se sapessi raccontare storie come fai tu sarei l’Omero di questi nostri tempi di merda!” Più tardi è lui stesso a raccontarmi di come abbia perso la vista: durante un bombardamento a Torino una scarica di schegge l’ha colpito in pieno viso. “Tu pensa l’ironia, - mi dice - io mi chiamo Bellosgurado! A giorni devo subire un altro intervento con il quale spero di recuperare la vista almeno in parte. Io sono di Brindisi e non ho nessuno qui nel Nord d’Italia. Dovrei starmene all’ospedale ad attendere il mio turno, solo come un cane… e cieco per giunta. Chi me lo fa fare, i miei unici amici ce li ho qui in questo casermone perciò ci resto!” Qualche giorno dopo vado a trovare Bellosguardo nel suo ufficio (faceva il centralinista) che mi riconosce subito dalla voce e mi abbraccia. Poi mi chiede se per favore lo accompagno allo spaccio. Lo prendo sotto braccio e strada facendo mi dice: Milano 250 “Avevo bisogno di parlarti in privato e là negli uffici c’è sempre qualche orecchio di troppo ad ascoltare. Stamattina con Giovanni, la recluta che mi accompagna, sono uscito dalla caserma… io ho il permesso permanente. Mi aspettavano a Milano per una serie di esami preparatori all’intervento. Appena passata la cinta delle vecchie mura Giovanni mi avverte che, ben nascosti fra i platani e i faggi del parco, stanno tre o quattro auto blindate e un gran numero di camion. Mi sbaglierò, ma qui ‘sta succedendo qualcosa di grosso!” Bellosguardo non si sbagliava per niente. Ci avevano azzeccato anche i reduci della Jugoslavia a darsela a gambe levate subodorando che fra i tedeschi e i capoccia della Repubblica di Salò si stesse a prepararci una trappola. La prima avvisaglia l’abbiamo avuta esattamente il giorno dopo, quando abbiamo scoperto che tutti i permessi, compresi quelli già prenotati e concessi per sostenere gli esami erano stati congelati. Proibito uscire dalla caserma! Il giorno stesso suona l’adunata: tutti nel piazzale in fila per tre, ogni compagnia pronta per essere passata in rivista. Milano 251 “Guardate lassù sulle torrette, - sbotta uno di noi - i tedeschi stanno piazzando le mitragliatrici pesanti!” “Vorrei sapere per quale ragione le puntano verso la nostra parte!” domando io. Si sta schierando anche la fanfara del reggimento. Entrano di corsa un centinaio di SS armati come andassero in battaglia. La banda intona la marcia del nostro corpo. Dal fondo vengono avanti ufficiali tedeschi e italiani, poi una compagnia di brigate nere. In mezzo a loro c’è Mussolini… sì proprio lui, in divisa come nelle foto di qualche anno fa. È magro, tirato e sfila davanti a noi accennando un saluto col braccio ogni tanto. Da vicino mostra un aspetto ancor più emaciato e stanco. Come ci passa in rassegna, monta su un palco approntato in fretta con un paio di praticabili e parla servendosi di un microfono. Non c’è alcuna enfasi nel suo tono: “Le città tedesche sono aggredite ogni giorno, ogni notte dai bombardieri nemici. Le predite fra la popolazione sono molto ingenti, ma si lamentano perdite anche fra le unità che ogni giorno riescono ad abbattere centinaia di aerei aggressori. In prima fila fra questi eroici combattenti c’è la contraerei tedesca. Voi tutti avrete il grande onore di unirvi a loro per infliggere al nemico una sacrosanta Milano 252 lezione e dimostrare la più tangibile solidarietà alla nazione alleata e al popolo tedesco!” “Ce l’hanno ficcato in quel posto!” ha commentato a mezza voce il comandante di batteria mentre le SS e le brigate nere applaudivano e gridavano i soliti peana esaltanti la gloria e la morte. Qualcuno di noi aveva la faccia rigata di lacrime. Con la stessa velocità con cui Mussolini e la sua scorta erano apparsi, così sono spariti. I tedeschi intanto rimanevano sulle torrette con le loro 20 millimetri puntate verso l’interno. Non temevano un attacco, ma un ammutinamento. Grazie al mio amico Bellosguardo che mi mette a disposizione il telefono, riesco a comunicare con mio padre alla stazione di Pino: “Partiamo domani con una tradotta scortata. La città dove siamo destinati? Forse è Düsseldorf o Dresda. Se tanto mi da tanto, ci chiuderanno dentro i vagoni come l’altra volta!” Il papà sta in silenzio per qualche secondo, poi mi dice: “Qualsiasi cosa succeda, non lasciarti mai andare… il tuo buon umore e l’ironia sono la tua salvezza, non lo scordare Milano 253 mai! Domani, io sono bloccato qui, ma la mamma verrà a salutarti.” La mattina presto, fuori dalla caserma ci sono già centinaia di persone… sono i parenti dei soldati in partenza: madri, padri, mogli e sorelle. Tutti noi con i nostri bagagli siamo lì nel piazzale inquadrati, una compagnia appresso all’altra… si ripetono i soliti appelli, insopportabili come tiritere. Noi e altre due guarnigioni siamo agli ultimi posti della processione. Ad un certo punto viene da noi il colonnello. Io sto leggendo un biglietto che mia madre è riuscita a far filtrare attraverso il cappellano. Mi dice che sta fuori, sotto il grande faggio: “Quando uscirete per salire sui camion, guarda da questa parte.” Quel giorno non ho visto mia madre a causa di n inatteso evento. Lei, come diceva su quel biglietto, stava in piedi da ore sotto il grande albero che in dialetto ha il mio stesso nome (il faggio in lombardo si chiama “fo”). Davanti ai suoi occhi transitavano le compagnie di ragazzi che cercavano disperatamente i propri cari fra la quella folla vociante che spintonava e veniva tenuta in disparte dalle guardie Milano 254 tedesche alle quali si erano aggiunti un centinaio di carabinieri. Ad un certo punto, l’ho saputo poi, s’è appoggiata con le spalle al tronco del fo quando, all’improvviso, ha sentito sussurrarle: “Non parte, il tuo ragazzo non parte!” Lì vicino a lei, a sua volta appoggiata all’albero, c’era una donna piuttosto anziana e sconosciuta. “Diceva a me? Di mio figlio?” le chiede. “Sì, del to fiòl… ol resta a ca’! - ribadisce parlandole in dialetto della Lomellina - ol part mia!” “Ma come nol parte! Guardi lì, se ne stanno andando tutti, più di un migliaio!” “Ma i ultìm i resta chi!” E così dicendo se ne va appoggiandosi ad un bastone… scompare ingoiata da uno stuolo di madri che corrono verso un altro drappello in partenza. “Signora Giuseppina Fo, - si sente chiamare - per favore, tra di voi chi è la madre di Dario Fo? Risponda!” “Io! sono io! Sono qui!” e si sbraccia senza capire da dove la stiano chiamando. Ecco che spunta un soldato, anzi, due… vengono avanti a braccetto. Uno dei due è cieco. Milano 255 “Signora Giuseppina, ho un biglietto da parte di suo figlio. La sua compagnia non parte per il fatto che sono reclute, non sono ancora addestrate in batteria e i tedeschi non sanno cosa farsene.” Mia madre non riesce a parlare, abbraccia il Maresciallo Bellosguardo. Altre madri che hanno ascoltato il messaggio chiedono informazioni più precise. “Anche mio figlio è una recluta!”… “Anche il mio!” “E allora state tranquille: restano qui! - ribadisce il maresciallo cieco - Chi non è addestrato resta a casa!” Decine di braccia si protendono a stringere le mani di Bellosguardo. “Grazie! Grazie!”… “Dio ti renda merito!” gli gridano… “Che Gesù Cristo ti benedica, caro fiòl!” “Ecco, per favore, se lo vedete intorno, metteteci una buona parola per me… che domani ci esca davvero il miracolo!” Ritorno dal nonno Terminata la guerra tutti a Porto si stava vivendo una eccitata euforia. Il Civolla ripeteva ad ognuno: “Ci troviamo finalmente davanti a una enorme pagina bianca sulla quale scrivere idee nuove e sogni nuovi!” Milano 256 Con i miei fratelli si riprendeva a viaggiare avanti e indietro dal lago a Milano, ma più spesso si rimaneva in città dove la mamma aveva affittato una villetta - di quelle dei ferrovieri - nei pressi di Largo Foppa. Un sabato di maggio sono andato a trovare il nonno. Era quasi un anno che non lo vedevo. Lo zio Nino si era offerto di portarmi con la sua auto che chiamavamo il “calderone” poiché era stata messa insieme con pezzi di auto diverse e rottami salvati dalla fonderia. “Grazie, ci vengo volentieri… e speriamo di riuscire ad arrivare a Sartirana!” L’assemblaggio dei pezzi si traduceva in una visione metafisica che faceva pensare immediatamente a una composizione di Depero: ingranaggi, scatole a cupola, tubi, batterie, scappamenti, cilindri e pompe incastrati uno nell’altro in una specie di ammucchiata oscena. I primi dieci chilometri, a parte qualche sussulto di troppo sono scivolati via senza grandi intoppi. Arrivati a Pavia, l’acqua del raffreddamento però ha cominciato a bollire spruzzando una quantità di vapore che superava di sicuro quella di una locomotiva. Poi uno scoppio con lancio di bulloni e guarnizioni… Milano 257 “Ci fermiamo un attimo - lo zio Nino mi tranquillizza - È solo una sciocchezza! Un secondo e si riparte.” Con una tenaglia afferra i pezzi sparsi sull’asfalto e li va a risistemare nei loro posti… stringe con la chiave inglese vari bulloni e infine si riparte. Da quel momento mi sembra di trovarmi dentro un film di Ridolini. Una sequenza proprio da clown: all’improvviso si spalanca il cofano che si stacca e vola via… il tappo del radiatore viene sparato per aria, spruzzi e fumi a volontà… altri tubi, una pompa e le candele, uno dietro l’altro prendono il volo. Va tutto a fuoco. Si stacca pure una portiera e non so come anche il portapacchi esplode… scoppia una gomma. Lo zio rimane con il volante in mano. Saltiamo fuori quasi proiettato e ci sbraghiamo esausti sul ciglio della strada. Ci guardiamo e scoppiamo a ridere da farcela addosso. Nel pomeriggio raggiungiamo Sartirana sulla macchina trainata da un cavalo. Per nostra fortuna, il numero con le esplosioni comiche si era svolto a 500 metri dal podere dello zio Aronne, il primo dei figli del Bristìn e della Bella Maria. Giunti in prossimità del cascinale del nonno, lo zio ha posteggiato il catorcio dentro la stalla di un vicino con Milano 258 la preghiera di non far sapere niente della squarata a suo padre… l’avrebbe sfottuto da pelarlo vivo. Abbiamo trovato il nonno in mezzo all’aia che dirigeva la messa a punto di una “conserva”: si trattava di un enorme tetto a forma conica di almeno 10 metri d’altezza la cui base appoggiava direttamente sul terreno. Quel cono copriva un gran pozzo largo quanto il diametro del cono sovrastante ed era profondo altrettanti 10 metri. La cupola conica era costruita in legno e canne intrecciate come in un gran cesto rovesciato. In fondo al pozzo, dentro il quale si scendeva attraverso una scala a chiocciola scavata nel terreno e rinforzata da pale e tavoli di ontano, era stata pressata la neve e il ghiaccio delle gelate d’inverno. Sopra quella base ghiacciata si sarebbero sistemati latticini, carne, verdure e perfino i pesci… insomma quello era il frigorifero già in uso presso i romani: la “conserva”, appunto. Ma vista del nonno si era molto indebolita negli ultimi tempi e per dirigere quella specie di tempio di faceva aiutare dal primo dei suoi figli, Aronne. Ero molto commosso nell’abbacchiato e mentre mi baciava ho sentito che la sua guancia era bagnata. Milano 259 Il giorno appresso era domenica e il lavoro dei campi era fermo così gli ho proposto di posare per me per un ritratto. Aveva indossato una giacca di velluto, una camicia appena stirata e s’era seduto ritto sulla schiena come stesse a cavallo. Avevo bisogno che si sciogliesse da quella posizione da ingessato, così per farlo sentire a suo agio gli facevo un sacco di domande su problemi che sapevo stargli a cuore: “Scusa nonno, ma cosa succede adesso con i tuoi orti, le piante e la serra? Chi è rimasto ad aiutarti?” “Nessuno, chi vuoi che abbia interesse a questo lavoro! Ho messo al mondo cinque figli maschi e tre femmine e io per primo, senza volerlo, ho fatto di tutto perché si procurassero altri interessi. Li ho appassionati alla meccanica tirando in casa macchine di ogni tipo perfino una pompa a propulsione elettrica, trattori diesel, un impianto di irrigazione autonomo e una serra con piani agibili come non se ne erano mai viste! Ho insegnato loro come si smontano e rimontano i motori, a variare l’assetto, effettuare miglioramenti, ripetendo loro a tormentone: un contadino non può conoscere solo della semina e del raccolto, spargere merda, pardon… letame e verde rame sulle viti! Se si limita a questo sarà sempre un villano con Milano 260 la visuale di un cavallo con i paraocchi. Siate curiosi, spalancate tutte le finestre del cervello! E loro le hanno spalancate: Beniamino è diventato pilota collaudatore di aerei alla Macchi di Varese, Giosuè fa l’assicuratore, Mattia fa l’orafo incisore a Valenza… Nino, lo sai, è anche lui matto per i motori. So che si è arruffianato un bidello che gli permette di assistere di straforo alle lezioni del Politecnico ad ingegneria. Aronne, l’unico che mi aiutava un po' nei lavori agricoli, ora ha deciso di mettere su un auto-officina. Io li ho cacciati da ‘sta terra i miei figli! Ma stai tranquillo, non la lascio andare in malora la mia baracca. sto tirando dentro una cooperativa di ragazzi, gente che è appena tornata dalla guerra. Gli sto facendo fare il callo piano piano… erano quelli che ieri, li hai visti , montavano la conserva a cupola. Mi vengono appresso bene… gli faccio pagare un piccolo affitto, poi se funziona mollo tutto a loro.” Il nonno si era sciolto del tutto: sollevava le braccia, gesticolava… ad un certo punto, preso dal discorso, s’è alzato perfino in piedi. “Ehi Pa’, dove stai andando? Ti sto facendo il ritratto!” Milano 261 “Ah sì, scusa…” si è portato alle mie spalle per sbirciare verso il dipinto. “Accidenti! Aspetta che cambio occhiali… Eh, ma sono proprio io! Sei meglio di una macchina fotografica. Peccato che io ci veda così poco e sbiadito!” Mi ha mollato una manata sulle spalle ed è tornato a sedere. Adesso taceva seguendo i propri pensieri. Poi, quasi parlasse fra se e se, ha buttato lì: “Sai cosa mi fa piacere? Di sapere che son servito a tirar su una bella razza di gente che ragiona e cerca con entusiasmo. Se penso che ero nato Perdapé!” “Perdapé? Che significa nonno?” “È l’ultimo livello, il più basso nella categoria dei contadini: sono i fittavoli che hanno diritto di giovare del raccolto solo dopo che il padrone s’è presa la sua parte fissa… cioè se l’annata va a schifo, crepano. Il contratto dei Perdapé si chiama l’“angheria”… non ti dice niente questo termine? Ecco io ero nato perdi piedi, destinato a consumarmi i piedi immersi dentro la terra dall’alba al tramonto, ma ho fatto il mio salto mortale grazie, tanto per cominciare, a quel prete che per mia fortuna è capitato nel fondo del Monferrato, cacciato dall’univertità per via che era troppo Milano 262 vispo di cervello e voleva ragionare su ogni cosa. Io devo dire grazie alla Santa Chiesa che continua a ritenere che il peggior peccato sia quello di mettere a frutto la più alta dote che il Padreterno ci ha dato: l’arbitrio libero di fronte ad ogni regola!” Trascorso l’inverno, sono tornato a far visita al nonno. Venendo dalla stazione l’ho incontrato che veniva avanti aiutandosi con un bastone per individuare davanti a se i tronchi dei tigli della lea, cioè del viale. La gente che incrociava gli dava la voce, lo salutava, si fermava un attimo a fare due chiacchere e a provocarlo perché il Bristìn ribattesse con qualche sua battuta spiritosa e tagliente. Era ormai quasi completamente cieco, ma viveva questa sua condizione con un’autoironia impressionante… ogni tanto si metteva a camminare all’indietro: “Così - rispondeva a chi gli andava chiedendo di quella sua stranezza - riesco a prendermi il sole in faccia che mi da un gran piacere. E poi non mi serve camminare per il diritto, tanto non ci vedo!” Quando era a casa non si trovava mai solo: venivano contadini a chiedergli consiglio sulla semina del tal Milano 263 agrume o delle granaglie, se era giusta la luna o se erano buone le sementi che avevano preso al consorzio. Era vero che non ci vedeva, ma come mi aveva insegnato da bambino, il tatto e l’olfatto erano mezzi infallibili di giudizio. Lui affondava una mano nel sacchetto del grano e del vialone, faceva scorrere i semi fra le dita come fossero chicchi di un rosario, poi li annusava, li metteva in bocca e li masticava… alla fine dava il responso. Il Bristìn era il terrore dei mercanti di granaglie da semina. Molte volte insultava i suoi amici contadini che andavano da lui a mostrargli le confezioni di anticrittogamici che il consorzio aveva loro consigliato per far fuori tarme, grillotalpa e altri flagelli dei campi. “È vero, testa di rapa, con ‘sti antiparassitari tu ammazzi almeno dieci razze bastarde di ciuccia-semi, ma tu hai mai verificato quante altre larve di insetti buoni fai secche? No… vero? Guarda il DDT che sacramento di disastro ci ha combinato… l’anno scorso, ti ricordi, sono passati sui campi con un aereo che spernacchiava ‘sto sguazzo velenoso come fosse la benedizione del corpus domine. E’ un toccasana, un portento – promettevano gli agronomi… figli di puttana, ignoranti come talpe. Sì, è Milano 264 vero: hanno fatto fuori la rogna nel granturco, le erbe matte delle risaie…risparmiando sulle mondariso, i funghi rossi, la filossera. Ma insieme hanno accoppato uccelli di stanza, lucciole, api, libellule, rane, carpe a tonnellate e perfino, stormi di rondini. Bravi bastardi! Tiri giù gli uccelli, i passeri e gli stornelli, accoppi i merli…e poi resti sorpreso che le processionarie crescono decuplicandosi e ti spogliano i boschi interi di pioppi, te li sbranano… Ma chi, gli anni passati, o testa di coniglio in salmì, ti ha beccato tutte le larve di quei millepiedi vischiosi che si calavano dai rami come piccoli Tarzan appesi alla loro bava? Le rondini, i passeri, gli storni, e così via. E lo stesso per le rane…sono loro che si ingoiano le larve delle zanzare e dei tafani che galleggiano nelle rogge. Sono le libellule che fan fuori gli ziffili che sbranano la segale e i fiori teneri delle patate. Adesso ci vorranno anni perché si riformi quell’equilibrio straordinario!” “Ma allora non dobbiamo più spargere diserbanti, antiparassitari…dobbiamo lasciare che ‘sti rognosi si strippino ogni raccolto?” “No, per la miseria, la chimica, il progresso sono una cosa sacrosanta…ma non fidatevi di primo acchito come talpe Milano 265 ciecate…informatevi! Basta di stare con l’idea cogliona che sia importante acchiapparsi il proprio vantaggio e chi se ne frega di quel che succede appresso. Attenti che è come menar mazzate su una lippa. Tu batti, la lippa trilla per aria, ma c’è il rischio che ti si possa ficcare in un occhio. Certo, non tutto ciò che procura morte è forzatamente negativo. Mia nonna si curava la sciatica facendosi mozzicare le chiappe da una serpe velenosa e…incredibile, è perfettamente guarita. Sua sorella invece è stata punta da una vespa ed è morta. In natura tutto si rovescia, ogni cosa ha il suo doppio, negativo e positivo. Non bisogna mai dire l’effetto di questo medicamento non lo conosco, non ne voglio sapere…No, bisogna proprio sapere…informarsi, conoscere, se no ‘sta grande madre che è la natura diventa feroce e vendicativa come un normale Padreterno e ci strozza tutti nella culla…o ci intossica intanto che ci allatta con le sue grandi tette.” Io ascoltavo in disparte sempre affascinato per come il nonno riuscisse ad esprimere, con grande semplicità, concetti così importanti. Osservando i suoi gesti mi fissavo ben incisa nel cervello ogni sua lezione e mi veniva in mente quella stupenda massima di Montesquieu Milano 266 che dice: “Gli eruditi saccenti son quelli che con termini ed espressioni arzigogolate riescono a comunicare il nulla completo”. Il nonno era proprio il loro contrario. Venivano spesso a trovarlo anche gli allievi dell’Università di agraria che ormai si erano laureati e, da tempo, esercitavano la professione. E, puntuale, arrivava ogni venerdì il parroco di Torreberetti. Lui e il prete si sedevano sotto il bersò delle glicini e conversavano sempre piuttosto animatamente. Una volta ho sentito il nonno gridare: “Il fatto è che voi, cari cattolici apostolici romani, per sopravvivere, avete bisogno di tutti i santi riti della religione, a cominciare dalla confessione che vi libera da ogni colpa…un po’ di pentimento e via. Se siete in crisi, vi sbattete in ginocchio e pregate il Signore, i Santi e la Madonna che vi vengano a tirar fuori. Noi atei, al contrario, non ci possiamo attaccare a nessun santissimo. Per le nostre colpe dobbiamo rivolgerci solo alla nostra coscienza. Se andiamo in crisi dobbiamo rivolgerci solo alla nostra ragione!” Appresso, mentre salutava con gesti della mano il parroco che si andava allontanando, commentava: Milano 267 “Bisogna che ci vada piano con lo scozzonarlo troppo pesante…Va a finire che un giorno o l’altro mi va in crisi e butta la veste e si fa ateo a sua volta. Poi tocca a me prendere il suo posto in canonica!” Tre anni più tardi il nonno è morto. Al suo funerale c’era una gran folla e molti erano venuti dalle fattorie intorno… qualcuno arrivava dall’Oltrepò. Erano tutti in bicicletta. Giacché il cimitero di Sartirana si trovava al di la della ferrovia e del canalaccio, come era d’abitudine per ogni funerale, si seguiva il feretro pedalando ognuno sulla sua bicicletta. Seguire in moto non era dignitoso. Una processione con tante bici che sciamavano silenziose nella pianura era uno spettacolo mai visto! Io pedalavo vicino al Parroco di Torreberetti che si era messo in borghese. Il professore di Vercelli si era incaricato di dire qualche parola di commiato sulla tomba del nonno. Una frase mi è rimasta viva nella memoria: “Quando muore un contadino che sa della sua terra e della storia degli uomini che lavorano; quando muore un saggio che sa leggere la luna e il sole, i venti e il volo degli Milano 268 uccelli, come sapeva il “Bristin”, non è solo un uomo che muore… è un’intera biblioteca che brucia”. Aspettando Picasso Frequentavo il secondo anno dell’Accademia di Brera, avevo scelto il corso di affresco con Achille Funi, uno straordinario maestro. Ogni tanto teneva lezione anche Carrà, un uomo d’incredibile simpatia e talento. In quel dopoguerra tutte le regole e le convenzioni accademiche erano saltate: ogni allevo, sempre con la dovuta discrezione, poteva entrare in ogni aula e partecipare ad una intera lezione senza rischiare di venirvi cacciato. Perciò ogni tanto mi presentavo nel grande salone dove ad insegnare scultura c’era Marino Marini. Un’altra volta sono riuscito a farmi accettare nello studio del “Bergamasco” come lo chiamavamo noi, cioè Piero Manzù, anche per due o tre giorni di seguito impastando creta sul tornio. Potevo assistere alle operazioni di stampo in gesso e addirittura alla messa in fusione dei calchi. Non c’era orario: era permesso fermarsi a lavorare anche dopo le sei di sera… non in tutte le aule, s’intende, ma a prospettiva, cioè alla scuola di scenografia, ci si poteva entrare anche dopo cena fino a notte. Il direttore di questa Milano 269 vera Accademia libera era Funi, tornato da poco in cattivo stato dal lager di Mathausen. Si era sempre dimostrato un uomo di straordinaria apertura culturale e civile, un vero esempio di che significhi “libere idee”. Fra i miei compagni d’Accademia c’erano Morlotti, Peverelli, Alik Cavaliere, Bobo Piccoli, Aimone, Parzini, Chighine, Dova, Crippa, e Sangiorgio che negli successivi sarebbero diventati i più importanti artisti d’Italia. Io non me ne rendevo conto, ma stavo vivendo un momento davvero straordinario e irripetibile della nostra storia, sia dal punto di vista politico che culturale. Nei bar come il Giamaica, nelle varie latterie tipo “Le sorelle Pirovini” o nelle trattorie di Via Fiori Chiari e Scuri si incontravano in ogni momento personaggi di grande valore: registi del Neorealismo come De Sica, Rossellini, Germi, Lizzan o Gillo Pontecorvo. Con loro mi sono ritrovato più di una volta seduto allo stesso tavolo di Fiori Chiari a mangiare piatti di pasta mal cotta e pure mal condita. Ma non ci si faceva gran caso. Li ascoltavo parlare dei loro progetti, giocare con sfottò l’un l’altro a proposito di sceneggiature e relativi film andati a monte. Il giorno appresso mi capitava di starmene a piluccare da un piatto di bietole amare in compagnia di Fernanda Milano 270 Pivano e di Giuseppe Trevisani, i primi due grandi traduttori degli autori americani come Dos Passos, Hemingway e Steinbeck dei quali finalmente leggevamo le traduzioni addirittura nelle bozze di stampa. In quel tempo ero molto amico di Trevisani…con Alik Cavaliere e Parzini formavamo un quartetto fisso. È stato proprio grazie a Giuseppe che ho conosciuto Einaudi il quale aveva commissionato a un gruppo di noi giovani pittori le illustrazioni di una collana di importanti autori stranieri e nostrani censurati dal regime fascista. Avevamo pochi soldi, spesso si tirava la cinghia o si viveva di accatto, ma di certo non ho mai vissuto una situazione di festosità e spensieratezza come mi capitava in quel tempo e a quel livello Ogni pretesto era buono per far festa. Perfino quando, grazie ad una incredibile nevicata, Milano si è trovata sommersa da metro e più di neve. Spazzaneve ce ne erano pochi e mal ridotti, per cui il Comune ha dovuto ricorrere a spalatori presi a giornata. Noi tutti ci siamo offerti; pagavano abbastanza bene. Il nostro guaio era la mancanza d’abitudine al lavoro manuale: dopo una cinquantina di spalate avevamo i muscoli sballonati. Ma non potevamo far la figura degli smidollati per cui abbiamo tenuto duro. Il nostro spazio da liberare dalla Milano 271 neve era Piazza del Duomo. Abbiamo cominciato ad accumulare nel centro della piazza trasportando i mucchi su carretti che spingevamo noi stessi. Poi, osservando dei ragazzini che spingevano grosse palle di neve sulla coltre e ad ogni rotolata riuscivano a produrre un lungo solco netto, a nostra volta li abbiamo imitati riuscendo in una strana gincana a raccogliere strisce enormi di neve. Tutti gli spalatori sono accorsi divertiti ad aiutarci: sembravamo un esercito di stercorari che spingono la loro gigantesca boccia! Alla fine il cumulo centrale era davvero maestoso, ma mancava di qualcosa che lo rendesse importante. Sotto il loggiato della piazza c’erano decine di biciclette dei bancari che erano rimaste bloccate dalla nevicata. Abbiamo recuperato le bici ed una ad una le abbiamo issate sul grande cumulo. Dopo un po’, ecco apparire una incredibile scultura tutta cerchi e triangoli: una specie di macchina trionfale della meccanica. I passanti si fermavano e restavano interdetti. Alcuni ridevano divertiti e applaudivano. All’uscita degli impiegati bancari abbiamo sentito esplodere un urlo sgomento: “Le nostre biciclette!” Milano 272 “Niente paura, sono tutte lì. Ve le abbiamo tenuti in fresco!” Per poco non ci linciano. Spesso, mentre stavamo al Giamaica, magari a farci uno spuntino, gli amici mi sollecitavano a raccontar loro qualche storia . e non potevo certi sfuggire, anche quando non ne avevo voglia. Ormai mi ero fatto un repertorio considerevole e soprattutto con riferimenti continui alla attualità nonché caricature di nostri professori e grandi maestri dei quali conoscevamo manie, generosità o mitiche taccagnerie. Una delle satire più richieste era quella di Carrà che, avendo difficoltà a dipingere un cane collocato in un paesaggio, costringeva la moglie a mettersi in posa a gattoni pretendendo oltretutto che la povera signora atteggiasse un’espressione da fox-terrier festante e menasse la coda. naturalmente, in questo caso si trattava di paradossi che poco avevano a che fare con la realtà, al contrario di altri, come quello che metteva in satira il comportamento di De Chirico. Il quella giullatara, la più gettonata da Emilio Gadda e Joppolo, recitavo i dialoghi tra personaggi diversi: il mercante che sollecitava il maestro a riprodurre Milano 273 i suoi più famosi capolavori del periodo metafisico e De Chirico che si scherniva e, dopo aver concordato il prezzo si metteva all’opera assistito da un suo allievo. Ecco il maestro della Metafisica preso dalla febbre creativa che dipinge a gran velocità riproducendo lo stesso tema su quattro tavole diverse. Come in un lavoro alla catena di montaggio, travolto dal ritmo indemoniato, dipinge anche il suo assistente e il mercante che aspetta bramoso la “merce”. A questo punto valutando il risultato, il maestro decide di portare qualche variante alle quattro copie rispetto all’originale, la famosa piazza di Mantova col castello, le torri e la prospettiva esasperata che sbatte nel mare. “Ecco, qui ci faccio una torre in più e al posto del mare ci metto un campo infinito, anzi, una palude! Quest’altro lo trucco infilandoci qualche piccola piramide sul fondo e una vela nel mare. Qui, in primo piano, ci piazzo una donna nuda: Didone abbandonata. Sul mare, una nave che salpa!” Il tutto naturalmente raccontato con gesti mimici che alludevano al dipingere con foga. Milano 274 “Qui ci dipingo in primo piano una testa di Giunone e in quest’altro lo scheletro di un cavallo che caracolla come se fosse vivo!” Le tele sono troppo fresche per essere trasportate, De Chirico spruzza allora su ognuna di esse una vernice che favorisce l’essiccazione rapida e produce un effetto di invecchiamento precoce. Nell’eseguire la spruzzata, annaffia di vernice l’assistente, il mercante, il gatto e il cane. Tutto è pronto. Ma avendo più volte spostate la sequenza dei dipinti, ora il maestro non si ricorda più quale dia l’originale anche perché nel trambusto ha ridipinto pure quello e non gli riesce di rintracciarlo. Le varianti, anziché aiutarlo nell’identificazione, ora lo confondono vieppiù. Alla fine, sistema le tele una sull’alta e, come fossero un mazzo di carte, fa scegliere il quadro originale al cane che la estrae con i denti dal mazzo… bendato s’intende! Ma non mi trovavo sempre da solo ad esibirmi. C’erano ragazzi come Emilio Tadini che cantava, accompagnandosi con la chitarra, splendide canzoni del repertorio napoletano antico, Businelli… un saltimbanco Milano 275 nato, che eseguiva, lì all’istante sulla strada, salti mortali incredibili a ripetizione. Appariva poi ogni tanto Di Giacomo, un professionista del bel canto. Un grassone, quasi obeso, del quale non avresti mai sospettato fosse in grado di farti ascoltare romanze struggenti del ‘700 e ‘800 e poi, all’istante, spararti macchiette di Petrolini, De Vico e Scarpetta. Ma il massimo dello spasso si realizzava nelle grandi quermesse come quella messa in opera per festeggiare Pablo Picasso e la sua prima venuta a Milano. Un evento davvero straordinario! Un gruppo di noi, con Morlotti, Peverelli ed altri, era riuscito a farsi ricevere dal grande maestro nel suo atelier di Place Guarèr che l’aveva accolto con molta cordialità, ma riguardo all’invito di scendere da Parigi a Milano, per il momento, non se ne parlava: “Verrò, se mi riesce… am non adesso!” Qualche giornalista fanatico dello scopo, fregandosene di verificare, ha pubblicato la notizia: “Pablo Picasso prossimamente a Milano per un vernissage della mostra di sue incisioni, acqueforti e disegni alla nuova Galleria Manzoni”. La mostra si inaugurava davvero, ma la notizia della sua venuta era falsa. Milano 276 Altri giornali hanno allora ripreso il lancio dell’evento e, come se non bastasse, un mercante mai identificato, aveva confermato assicurando la visita del maestro. A nostra volta abbiamo deciso di cavalcare la tigre del immaginifico: “Lo faremo arrivare qui per davvero! Picasso sarà a Milano in carne ed ossa!” La nostra chiave di volta era Otello il bidello della Brianza, assistente al calco dell’atelier di Marini. Un uomo sui cinquant’anni, di bassa statura, ben piazzato con il cranio ornato di pochi capelli bianchi e la faccia identica a quella del maestro malaguegno. Insomma, Picasso sputato! È deciso: convinciamo il bidello a prestersi al gioco. Per colmo di fortuna, Otello aveva lavorato a Marsiglia per dieci anni e parlava un francese quasi perfetto. Diamo la conferma a radio e giornali: Picasso arriva con il treno delle 11.30 in Centrale, via Mentone. Procuriamo un trench bianco e lo facciamo indossare al nostro sosia brianzolo. Siamo alla stazione Garibaldi un’ora prima e lo facciamo salire accompagnato da Alik Cavaliere, Morlotti e Bobo Piccoli sul treno che va a Rho. I quattro scendono Milano 277 e attendono il rapido da Mentone che fermerà, come di regola, a quello svincolo di quattro linee. Alla stazione Centrale, binario dieci, c’è una gran folla di gente: giornalisti, fotografi, cineoperatori, studenti, artisti, intellettuali… c’è perfino una bandiera rossa. Ecco il treno, la folla va incontro all’artista. “Sarà sui primi vagoni o più in fondo?” Scendono i viaggiatori. “Avete visto Picasso in qualche vagone?” Sono quasi scesi tutti. Picasso non si vede. “Eccolo!” Sì, è lui. Si è sporto da un finestrino, saluta e poi scompare. È sceso sull’altro marciapiedi. “Che originale!” La gente sale sui vagoni per poi ridiscendere dall’alta parte. È sparito. “Di sicuro si è infilato in un sottopassaggio!” I fotografi e i giornalisti si danno a rincorrerlo. Una voce grida: “Calma, non è fuggito! È che la folla gli crea panico. Se lo volete incontrare, venite tutti questa sera al salone dei Filodrammatici, a fianco della Scala. Ci sarà un rinfresco e una tranquilla conferenza stampa.” Milano 278 Il salone di Filodrammatici era una specie di hangar che serviva da sala prove. Stavano restaurandolo, perciò era ingombro di tralicci e centine di sostegno per la cupola in tardo stile Liberty. Ma quelle strutture in ferro funzionavano a meraviglia per sostenere un decor scenografico davvero sconvolgente. A questo scopo avevamo coinvolto gli allievi di scenografia e decorazione i quali avevano a loro volta chiesto aiuto e materiale agli scenografi del Piccolo Teatro. Con un camion hanno portato in quel salone scene di spettacoli fuori repertorio e dal vecchio magazzino della Scala hanno recuperato enormi statue in cartapesta e perfino un drago e due cavalli rampanti. Il montaggio è stato laborioso, ma eccitante. Si è brigato tutta una notte. Con un gruppo di attori e qualche sceneggiatore di film si è poi messa giù una scaletta delle situazioni da rappresentare. La sera, i primi ad arrivare sono stati i musicisti del Santa Tecla e la Lambro Jazz band. Si sono sistemati su una specie di palco mentre ancora si stavano approntando le luci. Tutti commentavano dell’arrivo di Picasso alla stazione… erano in molti a non immaginare si trattasse di una beffa! Milano 279 Gli scenografi e i decoratori, fra di loro mi par di ricordare di fosse anche Enrico Baj, stavano intanto pitturando i calli, il drago e le statue con colori vivaci, perfino in oro e argento. c’erano inoltre delle ragazze di non so quale corpo di ballo che sgambettavano di qua e di là ed eseguivano figure classiche per il riscaldamento. Finalmente comincia ad arrivare la gente. Noi si metteva a posto le sedie in un ordine davvero caotico. La Lambro Jazz Band comincia con un pezzo famoso: “All God’s sons have shoes”, “Tutti i figli di Dio hanno le scarpe”. In ritardo stanno entrando anche i camerieri per il rinfresco. “Ma chi paga tutta ‘sta roba?” chiedo io. Mi fanno il nome di due grossi collezionisti. “Hanno coinvolto anche la Pirelli!” Non ci credo. Me lo giurano. C’è più gente del previsto… belle signore in gran pompa. In molti hanno disertato la prima del Lirico. Ecco Ghiringhelli il direttore della Scala ridotta ad un rudere e Schwarz, il principe dei mercanti d’arte con tutta la sua corte. Il pubblico non ha ancora preso posto, che hanno inizio le entrate comiche: lassù appeso ai tralicci un imbianchino in Milano 280 tuta grida, chiede aiuto. È il Businelli clown… si lascia scivolare giù per un cavo e comincia ad oscillare in modo sconnesso. Precipita! No, si è abbrancato ad una centina. Dei pompieri, fra i quali riconosco giovani attori del gruppo di Piccoli, montano su una scala. Obbligano tutto il pubblico a sgombrare verso il centro del salone: “Tutti contro le pareti. Ammassatevi intorno, c’è pericolo!” Infatti una scala precipita, ma non si schianta al suolo. Rimane appesa ad una corda. Uno dei cavalli rampanti su ruote viene avanti buttandosi contro al pubblico. Ora anche la band del Santa Tecla s’è unita alla Lambro Jazz in un sound frenetico. Perfino il Drago e l’altro cavallo rampante si muovono piazzati s ruote… qualcuno da dentro li manovra. Le giravolte, gli scontri e le sctentrate dei tre animali creano scompiglio e qualche signora manda grida acute… intonatissime con lo spernacchiare di sax e trombe. Suona una sirena e si spalanca un portale: dal fondo entra un vigile in moto che impone silenzio: Milano 281 “Cos’è ‘sto bordello? Siamo pazzi? Avete il permesso per lo spettacolo? Chi è il capocomico, l’impresario? Si può sapere cosa ci fate qui?” “Aspettiamo Pablo Picasso!” “Pablo viene qua?!” nitrisce il vigile motociclista. Emette un urlo e fa ruggire il motore, quindi si lancia in un carosello a gran velocità evitando per poco di travolgere una signora e sette ballerine che in quell’istante stanno attraversano con saltelli il centro del salone. “Pablo! Pablo!” urla il ghisa centauro. L’orchestra improvvisa un canto sostenuto da un coro possente sul mascherone di Heaven, come Jesus to me”. “Arriva Pablo cavalcando un cammello di rame per lancia impugna una poma per il verde rame tinge il cielo d’azzurro e giallo Pablo è l’angelo di questo gran bordello!” L’orchestra sta andando su di giri. Entrano in scena cinque imbianchini che pretendono di ultimare il loro lavoro. Anch’io faccio parte della squadra di quei clown. Andiamo trascinando un enorme telone sotto il quale costringiamo il pubblico ad infilarsi come si fa coi mobili in caso di sbiancamento dei locali. Milano 282 Ognuno di noi regge sballontolandolo un secchio ricolmo di vivaci colori. Montiamo con agilità inaspettata sulle scale che danzano oscillando in modo spaventoso. Ora gli imbianchini si lanciano i secchi l’un l’altro annaffiandosi con sbroffate di pittura. Spaventato dalle grida e dai tonfi, il pubblico tira di qua e di là il gran telone finché , strappo dopo strappo, non viene ridotto a brandelli. Cade un secchio in mezzo all’orchestra i cui fiati emettono gemiti strazianti. Subito, seppur imbiancati di un bell’azzurro, riprendono imperterriti intonando un forsennato charleston. Le ballerine eseguono il ballo sgambettando e dimenando fianchi e glutei. Molte ragazze e qualche signora si lasciano coinvolgere in quella frenetica danza; anche gli imbianchini lassù si agitano impugnando lunghe canne sulle quali hanno issato grandi pennelli. nessuno bada più alle spruzzate di colore. Qualche imbianchino fingendosi maldestro esegue vare e proprie volé con la sua asta impennellata colorando ad ogni passata schiene e frontali di belle signore. Esplodono petardi. Un potente tricke-e-track produce botti a non finire più qualche fiammata e un gran fumo. Grida, risate e fuggi fuggi. Milano 283 “Attenzione, arriva Picasso!” L’orchestra suona una marcia trionfale, le trombe spernacchiano uno strepitoso inizio da circo massimo. Eccolo là: in mezzo al fumo appare la sagoma di Otello, sempre con il suo trench bianco. Applausi. “Ma è proprio lui!” Otello sta per parlare: “Mes amis, je suisi ravì d’etre ici…”, ma si trova avvolto da uno sfumazzo denso e puzzolente, tossisce. Uno dei clown pompieri si è appeso ad un tubo trasversale e una grossa canna dell’acqua si stacca e si spezza. Disastro! Viene giù un getti da Apocalisse. Siamo tutti bagnati fradici. Fuggi fuggi generale… qualche imprecazione, la molte risate. Una splendida signora inzuppata, come uscisse dalle onde dopo un naufragio, commenta divertita: “Una festa così me la ricorderò finché campo! Ma Picasso poi, c’era davvero?” A Parigi Ognuno di noi a Brera sognava di poter fare il suo viaggio a Parigi, la capitale della pittura moderna. Come per i Milano 284 cristiani del Medioevo, Parigi era per tutti noi la Terra Santa, la mecca d’ogni artista -pittore, scrittore o poeta apprendista. A mia volta sognavo quel viaggio… potermi incontrare con i grandi del Cubismo, del movimento Fauves, del Surrealismo e del Dadà. Alla fine ce l’ho fatta, ma è da non crederci come sia riuscito a procurarmi il denaro per quel viaggio e per potermi mantenere per almeno un mese in quella città. De Sica stava girando “Miracolo a Milano” e aveva ingaggiato De Gregorio e Alik Cavaliere perché eseguissero un gran numero di maschere. Servivano a creare pupazzi mobili che riproducessero i vari barboni che, nel finale del film, si levavo volando sopra il duomo. Alki manda a chiamare me e Bobo Piccoli perché dessimo una mano. Andiamo sui navigli, alla I.C.E.T., dove giravano gli interni. Lo stesso studio, dove dieci anni dopo, con Franca e Lizzani avremmo effettuato le riprese de “Lo Svitato”. I nostri amici avevano letteralmente invaso un mastodontico atelier. Avevano già realizzato i calchi in una plastica gommosa molto sottile. Nello stesso materiale avevano riprodotto anche gli arti, i busti e le mani. Si Milano 285 trattava adesso di ridipingere ogni maschera cercando di farla somigliare il più possibile al suo originale. In qualche pausa di quel lavoro ho avuto l’occasione davvero unica di assistere a qualche ripresa del film. Era davvero uno spettacolo veder dirigere De Sica e soprattutto scoprire che tutta la troupe, dall’operatore ai datori di luce, collaboravano alla realizzazione del film con grandissimo impegno. Sembravano del tutto consapevoli del fatto che stessero realizzando un autentica opera d’arte. De Sica, sempre così bonario e gentile anche nei rapporti con l’ultima comparsa, in certe occasioni scattava all’improvviso con vere bordate d’improperi anche piuttosto pesanti. Ho assistito sgomento proprio ad una di queste aggressioni verbali quasi gratuite della quale la vittima era un interprete, quasi un ragazzo, accusato di non saper proiettare con sufficiente potenza l’indignazione di fronte al commendatore arrogante e arrafattutto. “Reciti senza cogliono! - Gli urlava De Sica - per la sola ragione che non credi a quello che dici. Ma la colpa è mia che mi sono illuso tu possedessi talento da vendere e invece sei ‘na fetenzia! basta, io butto tutto all’aria… non posso rischiare un fiasco! Ti cambio con un altro attore, Milano 286 rigiro tutto da capo. vattene e non capitarmi più tra i piedi!” Il ragazzo è rimasto lì per un attimo come annichilito, poi inaspettatamente e con tono molto calmo ha tirato fuori tutto quello che aveva sullo stomaco da giorni: “Dottor De Sica, lei per me è stato l’unico vero maestro che io abbia mai incontrato e mi dicevo che era straordinaria l’umanità che dimostrava in ogni momento con ognuno di noi. Ma da un po' di tempo capisco di non essere all’altezza del ruolo e del valore di questa sua opera. devo aggiungere però che il mio dolore non sta nell’essermi reso conto del mio fallimento, ma del suo, mastro De Sica, come persona civile e generosa.? lei all’istante mi è apparso come il calco in serie di altri registi sbroffatori d’insulti e cafonerie. Questa scoperta mi procura più tristezza, anzi disperazione dello scoprirmi fallito. E se lei, caro maestro, ci pensa un attimo e si spoglia dell’idea che ha di sé e della sia inarrivabile grandezza, forse tornerà ad essere uno straordinario artista, un comune cinematografaro stronzo!” Si è fatto un silenzio di ghiaccio, tutti trattenevano il respiro. Milano 287 De Sica si rivolge ai due operatori, entrambi incollati alle rispettive macchine da presa. “Stop! Bene così, avete girato tutto? Bravi, stampate!” Scoppiando in una gran risata si dirige verso il ragazzo e lo abbraccia: “Lo sapevo, lo sapevo che avresti sbottato giusto!” “Ma come - balbetta il giovane - mi avete provocato per farmi dire tutta quella sbragata?” “Sì ed ha funzionato. Mi basterà farti doppiare ogni parola col testo originale ed è fatta! Ma impara la lezione: se non vesti quel che reciti con emozione vera, strappandotela fuori con le mani dallo stomaco, non sarai mai credibile. Il cinema, come tutte le arti, è finzione… ma sublime e per ottenere una finzione degna ogni espediente , anche il più spietato, è concesso!” Quella è stata la mia prima grande lezione sulla messa in scena nel gioco della verità rifabbricata. Una filosofia, un metodo che mi ha spesso visto in opposizione, anzi in conflitto CON CHE COSA???? NON È CHIARO “Ma se non hai un contrario, come puoi scoprire il tuo punto d’equilibrio?” Diceva Socrate. Ma torniamo alla vicenda che mi avrebbe offerto la possibilità di raggiungere Parigi. Quel lavoro sul set di Milano 288 “Miracolo a Milano” ci aveva permesso di scoprire fra di noi affinità e analogie che ci legavano bene insieme. Così da quel momento ogni volta che ad uno di noi veniva proposto un lavoro, si tirava dentro tutto il gruppo. Il primo ingaggio importante l’ha trovato Alik. Si trattava di lavorare in una tomba… sì, proprio una tomba, un sepolcro al Cimitero Monumentale di Milano. Un amico architetto aveva progettato e realizzato una cappella a chiave ottagonale con cupola in rame e con pilastri in porfido rosso. Una specie di piccolo mausoleo che avrebbe ospitato i membri di una facoltosa famiglia della Brianza… Brustello o Bustelli, non ricordo bene. I committenti erano molto soddisfatti della loro ultima dimora, ma avevano trovato l’interno molto spoglio: tutto bianco… un po' troppo sepolcrale. “Vurarìa quaicòs de un po' più alègher!” aveva insistito il primo probabile ospite del mausoleo, il pater familia ultraottuagenario. E allora ecco che entriamo in scena noi della “Pitturamosaico e morte allegra”. IN un paio di settimane prepariamo i cartoni per un affresco che camperà su tutte le sette pareti (l’ottava era quello d’ingresso). Le tombe sono sistemate sotto il pavimento. Ci ispiriamo a quello Milano 289 del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna con accenni a tralci di viti stilizzati e labirinti di forme geometriche che si inseguono e all’istante scoprono un cerchio a mosaico. Segue un grande rettangolo che allude ad uno spaccato di cielo a sua volta mosaicato. Devo dire la verità: faceva un certo effetto trovarci a vivete per quasi un mese fra le tombe. Oltretutto appena ci si stava distraendo, ecco che sentivamo litanie di preti, chierici, suore e quant’altro che accompagnavano qualche defunto fresco in processione… spesso anche più di due o tre al giorno. Essendo in ritardo per la consegna, ci toccava oltretutto lavorare fino a sera tardi. Il guardiano ci veniva a prelevare che era già notte con le lampade votive accese a centinaia… quel percorso con défilé di angeli piangenti, donne addolorate, santi e sante dalle braccia spalancate non era certo un piacevole attraversamento. Diciamo pure che si risolveva in una passeggiata da incubo. Ma finalmente avevamo terminato l’opera. I committenti erano molto soddisfatti: “Varda, l’è ‘gnü fœra propri un bel postesiìn – ha esclamato la nobildonna madre – vorarìa farmen fa’ ün propri inscì al post del bersò nel parco per stag con le me’ amise a sparlascià intant che càtum el tè!” Milano 290 Adesso avevo abbastanza quattrini per la Mecca (come ormai chiamavamo Parigi). Quell’anno inoltre avevo vinto il premio “Bergamo”, un’esposizione collettiva alla quale partecipavano i giovani pittori della Lombardia a dintorni. Un premio davvero prestigioso che mi aveva procurato anche una certa quantità di denaro che mi ero tenuto in serbo sempre per finanziarmi il viaggio. Con me veniva anche Emilio Tadini che a quei tempi non si era ancora messo a dipingere, ma in compenso scriveva splendide poesie così intense e sottili che mi facevano venire in mente incisioni su rame o a punta secca. Viaggio in treno, naturalmente… una volta raggiunta la nostra meta, non avevamo ancora depositato i bagagli all’hotel che già si stava per strada alla ricerca dei musei. Dentro una settimana eravamo come due pugili suonati: fuori da una pinacoteca , dentro ad un’altra! “Une saucisse avec des frittes, s’il vous plait.” – “Una salsiccia con patatine fritte, per favore” – e presto che c’è da vedere Cézanne al “Jeu de Paume”… Madonna, che botta! Una pittura netta come un mosaico, leggibile in ogni pennellata e così vibrante, assoluta! Ma non c’è tempo per sciacquarsi il cervello e gli occhi: il museo d’Arte Moderna ci attende con i suoi saloni Milano 291 dedicati a Mantet, Monet, Renoir e gli altri mostri dell’Impressionismo. Ci si dovrebbe entrare con un letto portatile e provviste in abbondanza per starci dentro almeno una settimana! Via scattare, bisogna traslocare! Visita ai Cubisti e ai Fauves: Picasso ci lascia allocchiti… ma Braques, Leger e Matisse dove li metti? Ad un certo punto mi vengono crampi allo stomaco… probabilmente devono essere le saucisse avec des frittes, pranzo e cena. Ho urti di vomito a causa di tutte le stressate per quel bombardamento d’emozioni a raffica. Anche ad Emilio gira la testa. Usciamo, sul piazzale incocciamo nei soliti “batleur” che ti offrono depliant di locali notturni, ti sbolognano qualche foto di spettacolo osé, strip-tease e besà à gogol. Uno mi mette sotto il naso l’immagine di una donna nuda con gambe spalancate e sesso al vento. Proprio in quel momento sento una strizza allo stomaco con contrazione a getto. Volto la faccia e vomito a spruzzo… una sbroffata degna di un dannato dipinto da Bosh. Il batleur della foto porno esclama stupito: “Scusi, non immaginavo che le facessero tanto schifo le donne!” Milano 292 Avevamo qualche appoggio a Parigi. Una sera ci invitano a teatro a “La pomme rouge”, un cabaret rivoluzionario. Ci sono in scena sei ragazze splendide che si spogliano con molta eleganza fino a restare completamente nude o quasi. Stanno per togliersi il perizoma e OLPA!, sei pindorloni con tanto di conglioncelli decorativi! Alla risata un po’ sgomenta, anzi, mugugnante degli spettatori, le streepteuse si guardano con stupore quei loro orpelli spuntati all’improvviso e mandano un grido sgomento. Giuro, né io né Emilio abbiamo capito se quei falli fossero finti, se si trattasse di incantevoli travestiti o addirittura di un sestetto di ermafroditi di prima scelta! Nel numero appresso, appariva un’altra ragazza nuda, tutta presa a depilarsi con strappi di ceretta e pinzette… ad ogni sradicata si lasciava sfuggire gemiti e incomprensibili bestemmie. Quindi si dava alla strizzata di impercettibili punti neri e contemporaneamente ci confidava come stesse nel suo camerino problemi molto intimi legati alla sua professione di spogliarellista. Aveva un gran mal di testa ed era veramente scocciata di dover vivere eccitando quegli assatanati degli spettatori che oltretutto non si preoccupavano nemmeno di mascherare le loro orrende manovre manuali durante il suo numero… nel frattempo si Milano 293 spalmava una crema sul ventre e sui glutei controllando l’effetto allo specchio. Continuava sfogandosi sulla sua situazione sentimentale: aveva un amante medio-ricco, ma che disprezzava… altra spalmata di crema sui seni, poi si tingeva i capezzoli di un rosa accesso. Ogni tanto lui le faceva qualche regalo, ma non si era mai degnato di portarla in giro… lei allora gli rubava i soldi dal portafogli. Ad un certo punto ci svelava il suo grande amore: un bastardo, momentaneamente in galera, che la sfruttava, la picchiava… ecco che nel frattempo si limava i calli dei talloni. Piangeva, non ne poteva più di stare senza di lui… era un conducente di tram e ogni volta che sentiva lo sferragliare di un mezzo del Comune le veniva il magone, si sentiva morire. Canticchiava con bella voce: “Sa suffì qu’il me tousche doucemnet… il me revolte la peau et je tombe de la Tour Eifell sans parachutte” “Basta che mi tocchi dolcemente… mi rivolta la pelle e io precipito dalla Torre Eifell senza paracadute” Faceva poi scorrere una tenda dietro la quale appariva un water: ci si sedeva e faceva la pipì… sospirava, singhiozzava. Tirava lo sciacquone. Milano 294 All’istante si sentiva una voce dall’altoparlante che avvertiva: “Prepararsi per il terzo numero!” La ragazza si levava allora di scatto: “Mon Dieux, c’est pour moi!” - Mio Dio, è per me! Sono in ritardo… S’infilava una collana, calzava un paio di scarpe dal tacco spropositato e usciva di scena. Rientrava quindi velocissima: “Sono impazzita! Uscivo completamente nuda!” Da un bicchiere estraeva una piccola rosa e se la infilava sul pube… poi se ne andava! Non vi sto a raccontare di tutti gli altri spettacoli… questo era solo un assaggio, tanto per farvi immaginare quanto due provveduti provinciali come eravamo noi si sentissero ogni volta come storditi e allo stesso tempo affascinati da quel nuovo modo di esprimersi con ironia. Ma la nostra vera sbarellata dovevamo provarla in albergo. Eravamo alloggiati all’Hotel de Malte et de Colmar. Ce l’aveva consigliato un amico italiano che lavorava nel giro degli affittacamere. Infatti era riuscito ad ottenere per noi due stanze discrete a basso prezzo. C’era solo una clausola: ogni sabato sera dovevamo sloggiare e trasferirci Milano 295 in due altre camere nel sottotetto, due buchi squallidi con piccole finestre? Ma perché quel trasloco? È semplice: il Colmar dava camere ad ore e al sabato faceva il pieno: coppie di amanti, fidanzati che venivano a concludere la serata danzante, ragazze e ragazzi travolti da improvviso colpo di fulmine avvenuto sul metrò, perfino marito e moglie che volevano vivere un’avventura… c’era di tutto. Del resto è risaputo: il sabato sera Parigi impazza! L’albergo era a cinque piani, strutturato su pianta quadrata con uno stretto cortile-sfiatatoio nel mezzo. Le finestre d’ogni facciata distavano da quelle di fronte non più di tre metri. Eravamo d’estate e per non soffocare dovevamo forzatamente tenerle spalancate. Quindi, di ogni dirimpettaio si coglievano persino i respiri. se poi i dirimpettai diventavano dieci, venti per di più accoppiati che facevano l’amore, ridevano, litigavano, piangevano, si rappacificavano e riprendevano ad amarsi con maggior passione, era un vero inferno, travolti come ci sentivamo nel vortice dei dannati della copula! Per fortuna nostra, dopo un paio d’ore la sbollicata del “stra-foutre universal” scemava e finalmente regnava la pace. Una pace talvolta interrotta da qualche timido gemito e sa un paio di sciacquoni. Milano 296 Ma anche nelle serate normali non si scherzava. Ad ogni replica ecco un nuovo spettacolo d’arte varia: amanti sorpresi dal marito di lei, urla, minacce e cazzottaggi. In una delle scenegiate perfino un tentativo di buttare giù la fedifraga dalla finestra e in un’altra soirée addirittura un colpo di pistola con arrivo dell’autoambulanza. Un giovedì scoppia un gran trambusto: gente nuda che fugge nei corridoi . c’è una retata di Polizia. Entrano anche da noi, ci buttano all’aria ogni cosa e se ne vanno senza neanche dire: “Pardon!”. Un’altra notte, dopo la solita sequenza di gemiti, ululati da coyote a commento degli orgasmi multipli, sentiamo uno dei dirimpettai e la sua partner che nel silenzio riprendono ad ansimare a ritmo sostenuto con contrappunto di espressioni lussuriose da parte di lei. Lui esausto, la prega di ridargli fiato: “Charlotte, je t’emprì, arrête-toi. Couche toi, Charlotte!”, ma lei non molla la preda. Adesso stanno ululando da duetto lirico con acuti e controcanti oltretutto stanno copulando su un letto che cigola come un segnavento impazzito. Siamo al gran finale: “Mon Dieux, je meure! No… c’est trop! O quel joir… j’eclatte! Ah, eh... Ohhhh!” Milano 297 Tutto il dormitorio è ormai sveglio. Una folla s’affaccia dalle finestre e applaude: “Bravò! Formidable, Compliments!” I due campioni di affrettano a richiudere le imposte; si sente l’uomo che bofonchia: “Regarde -toi Charlotte dans quelle situation merdeuse tu m’à enfilé!” Charlotte ride divertita. Si spengono le luci delle abajours. Finalmente ritorna il silenzio… ma è per poco. Ecco di nuovo l’ansimare eccitato di lei che tampina la sua vittima sacrificale. ‘Je t’emprì Charlotte, couche-toi. Soit sage Charlotte… sa suffì!” All’unisono si riaccendono le luci di tutte le camere. Come a comando tutti si affacciano urlando in coro: “Arrête-toi Charlotte! Sa suffì Charlotte!” Non si può dire che di giorno Emilio ed io avessimo due facce riposate? Un amico incontrandoci ci aveva amorevolmente consigliato: “Capisco che a Parigi si combini facile, ma dovreste darvi una calmata. A furia di strullar femmine tutte le notte va a finire che vi ricoverano d’urgenza all’ospedale!” Milano 298 Se pur sempre un po' rintronato, mi davo a dipingere, buttar giù disegni e schizzi di continuo, come un assatanato. Sollecitato da tanta abbondanza di capolavori che mi sfilavano ogni giorno davanti agli occhi, m’era presa una vera e propria febbre del metter giù segni, colori e immagini. Stavo sempre a schizzare volti di gente che passava, paesaggi, rifacevo a memoria sintesi si opere che mi avevano turbato. Emilio diceva che era una esibizione. Secondo lui io volevo attirare l’attenzione di qualche ragazza di passaggio. Era vero. Ancor oggi, ogni tanto, mi capitano fra le mani grossi album che a quel tempo avevo riempito do ritratti appena abbozzati: figure in movimento, corpi sdraiati sui prati del lungo Senna… quasi tutte ragazze con tondi glutei, petti gonfi e sinuose forme. Sempre donne. Ogni tanto mi capitava di inquadrare un ragazzo o un uomo maturo. Mi ricordo che al Bois de Bulogne, su una panchina stava seduto un arabo, con due donne della sua stessa razza. Lui pareva un satrapo in cattività per quanto appariva imponente, quasi maestoso. Ho abbozzato subito un Milano 299 ritratto. Non avevo ancora terminato che il satrapo si è alzato, è venuto verso di me con aria incuriosita e, senza chiedermene il permesso, ha afferrato l’album su cui stavo disegnando. L’ha guardato e in un francese essenziale si è complimentato: “Molto assomigliante, grazie. Ma purtroppo la mia religione non concede che la nostra immagine sia riprodotta!” e così dicendo, ha staccato il foglio dall’album e l’ha stracciato in mille pezzi. Quindi con lo stesso incedere solenne se ne è andato con le sue donne che gli zampettavano appresso come galline faraone. Tornato a Milano, mi sono buttato a sviluppare quegli appunti. Dipingevo ad olio su grandi tele. Poi, all’istante, mi sono bloccato. Sono entrato in una sorta di crisi da rigetto verso la pittura. Al contrario continuavo a pensare agli spettacoli ai quali avevo assistito e ho cominciato a frequentare il teatro. Ogni sera andavo a vedermi uno spettacolo non solo di prosa, ma anche di rivista, avanspettacolo e balletti. Avevo cominciato anche a leggere testi di opere classiche, fra le quali delle farse divertentissime di Dostoevskij, Labische e Feydeau. Milano 300 Stavo forse cambiando pelle? Quando, venticinque anni dopo, ho debuttato alla famosa Salle Guèmier del Théâtre National du Palais de Chaillot recitando “Mistero Buffo”, mi è capitato di incontrare e conoscere un sacco di grandi personaggi dell’arte e della cultura. E una sera in platea m’è sembrato di scorgere perfino Sartre; nell’intervallo ho chiesto al direttore che a quel tempo era Vitése se avevo preso un abbaglio o meno. “Anche il caposala, come te, ha avuto la stessa impressione, - mi risponde - ma nessun altro l’ha veduto.” Ad ogni modo, incredibile, due giorni dopo viene a trovarmi in camerino un giovane scrittore algerino. Mi fa i complimenti per lo spettacolo e mi fa sapere che Jean Paul Sartre avrebbe il piacere di incontrarmi. “Non è uno scherzo?” chiedo io. “Nient’affatto, io sono un suo collaboratore. Stiamo lavorando ad un progetto nel quale Monsieur le Maître vorrebbe coinvolgerla.” L’indomani sono da Sartre. Il filosofo è nel suo studio, un camerone completamente disadorno: qualche tavolo e una macchina da scrivere. Mi saluta e mi offre da bere. Quindi espone subito il suo programma: mi chiede di collaborare Milano 301 alla realizzazione di venti puntate televisive sulla storia dei fatti più salienti del dopoguerra in Europa. A me toccherebbe sceneggiare e raccontare in forma sarcastica, ma documentata alcuni episodi fra i più straordinari che hanno segnato la storia del mio Paese Sartre mi descrive con molta precisione la progressione e l’impianto dei vari capitoli espressi in puntate. Mentre parla, io mi chiedo se sia tutto vero quello che mi sta capitando. Ho studiato per anni decine di testi di questo grande filosofo, di certo il più importante e significativo di tutto il nostro secolo. Ho assistito a spettacoli tratti da suoi scritti, tragedie e drammi storici. Ma l’ho sempre considerato, visto come qualcosa di mitico, irraggiungibile… e adesso lui è qui davanti a me che mi offre addirittura di scrivere, montare un’intera puntata da inserire in questo suo colossale documento storico. “Vuoi vedere che è tutta una messa in scena, un bidone tipo quello che noi vent’anni fa avevamo giocato ai boccaloni snob di Milano? E se quello che è davanti a me fosse un doppione come Otello, il bidello sosia di Pablo Picasso?” Milano 302 Guardo Sartre e gli sorrido quasi ironico. Lui non ci fa caso e conclude il suo discorso, chiede cosa ne penso dandomi del voi e in italiano, per giunta! Ho le mani sudate e la gola asciutta. Domando dell’acqua. Poi comincio a parlare a gran velocità: “Sono più che lusingato, disposto anche a bloccare tutti i miei impegni… fin da adesso, pur di lavorare con voi!” Il giovane scrittore algerino sorride soddisfatto, poi aggiunge: “Da questo momento non ci resta che attendere il benestare definitivo del Ministero per voce di Pompidur, ma credo che non ci saranno problemi. Si tratta solo di definire il budget.” Torno in hotel e racconto a Franca del dialogo e della proposta di Sartre. Franca mi abbraccia ridendo come una pazza e ripetendo: “È straordinario, incredibile!” e a sua volta mi blocca chiedendo “Ma sei sicuro che fosse proprio lui?” “Non ti resta altro che sincerartene di persona. Ci incontriamo con lui fra un mese a Roma: scende apposta per definire la sceneggiatura.” Milano 303 L’incontro avviene puntuale… tutto marcia che è una meraviglia. Gli ho espongo forma di canovaccio delle sequenze su certi episodi scelti nel nostro primo incontro a Parigi. Sartre è soddisfatto. Dopo dieci giorni arriva una notizia dalla Francia: Pomipidur ha bloccato il progetto. La ragione, un pretesto a dir poco ipocrita e meschino: il budget è troppo alto. In verità, il Premier ha ricevuto pressioni da ogni parte d’Europa perché soprassedesse a quel programma. È evidente che una esposizione della nostra storia più recente, raccontata nel linguaggio dissacrante, ma veritiero e spietato che Sartre avrebbe partorito e messo a disposizione di milioni di giovani e non più giovani puntualmente turlupinati da una storia arrangiata e distorta nell’interesse di quelli che da sempre stanno sul carro, non poteva essere assolutamente digerita e tanto meno accettata. “Così va il mondo…” mi ha scritto su un biglietto Sartre, ma bisogna andare avanti testardi e convinti che il mondo possa girare anche in un altro senso. Il funerale di mio padre Milano 304 Mio padre è morto alla bella età di 90 anni, nei primi mesi del 1987. Se n’è andato leggero e sereno, quasi all’improvviso, ma aveva disposto ogni cosa in anticipo per il suo funerale, a cominciare dalla banda che avrebbe dovuto accompagnare la sua salma al cimitero di Luino. Il direttore degli “ottoni comunali” era un suo amico di vecchia data… una sera, qualche mese prima, il papà era stato da lui e aveva concordato che pezzi preparare. E s’era dato da fare per procurargli i vari spartiti delle marce da eseguire. Era un elenco con tutti i canti partigiani delle valli dove s’erano svolti gli scontri più cruenti contro i tedeschi e le brigate nere riscritti a tempo di marcia. Il primo pezzo del programma doveva essere “Val Sesia”, un canto largo, possente... come il suo fiume. Poi doveva seguire la marcia dei partigiani di Val Comeggia che pareva più un valzerone da balera che un inno patriottico… appresso il famoso “Se non ci ammazza i crucchi, se non ci ammazza i bricchi…” della Val Vigezzo e così avanti fino all’immancabile “Bella ciao”, per chiudere con “Addio Lugano bella!”. Mezz’ora prima dell’orario convenuto, la piazzetta sul costone dove abitavamo noi Fo era gremita di gente. Erano arrivate delegazioni di anarchici da un po' dappertutto coi Milano 305 loro stendardi neri e rossi, c’erano quelli del sindacato, i socialisti e i comunisti con le bandiere e un gruppo di familiari di quegli ebrei che mio padre era riuscito a far fuggire in Canton Ticino. I ferrovieri erano i più numerosi, ma c’erano anche le guardie del confine e un po' più in la una rappresentanza dei vecchi contrabbandieri di Pino. Al momento in cui il feretro è sceso dalla casa, la gente si era accalcata fin nelle strade intorno alla piazza… altre bandiere rosse spuntavano da ogni dove. Ci si doveva sbrigare: il percorso per giungere al cimitero era piuttosto lungo. La banda s’era posta subito in testa e ha iniziato ad intonare il “Val Sesia”. Subito s’è mosso il feretro seguito da noi tutti figli e nipoti, zie e zii, quindi bandiere e stendardi a volontà… proprio una selva di drappi. Niente preti ne suore. La banda aveva già percorso un chilometro, ma la coda del corteo non s’era ancora mossa dal luogo del raduno. Si può ben dire che la maggior parte dei luinesi fosse tutta lì. Abbiamo costeggiato il lungo lago e raggiunto il curvone che sale verso la collina. Laggiù in fondo, arroccata su un balzone di granito, spuntava la pieve romanica con l’altissimo campanile… in quel momento la banda Milano 306 suonava la marcia a valzerone e il corteo traballava un po’. Davanti i suonatori allungavano il passo e accompagnavano col torcere fianchi e spalle l’andamento allegro con brio del pezzo che stavano eseguendo. In molti del corteo si erano quasi dimenticati di trovarsi ad un “mesto rito” e saltellavano accennando passi di danza… ma poi si ricomponevano. Io ho immaginato mio padre, affacciato da non so dove, che si divertiva sghignazzando… felice (Felice era poi il suo nome!) Stavamo attraversando la piazza del vecchio Municipio: la banda parte sparata col “Bella ciao”, eseguita con un tempo da corsa campestre. Con l’accelerare del feretro, tutto il corteo si è visto costretto ad allungare il passo. Via con la marcetta saltellata: ormai siamo alla carica dei bersaglieri! E poi sbattere di bandiere! Gruppi di curiosi che stavano ai lati della strada hanno applaudito e chiesto: “Ma cos’è ‘sto andare di corsa? Chi andate a seppellire?” “”Un ferroviere e ‘sta volta vuole arrivare in orario!” Eccoci all’altezza della pieve romanica: sulla piazzetta pensile, davanti al portico s’è riunita molta gente… ma non è lì per il funerale di mio padre. Quelle persone stanno Milano 307 aspettando il feretro di Piero Chiara, il famoso autore di romanzi satirici, tutti ambientati proprio a Luino. La salma doveva arrivare da Varese dove era deceduto ed era in ritardo. Ma ecco che quella folla, vedendo sopraggiungere un imponente corteo brulicante di bandiere rosse con contrappunto di drappi anarchici, subito ha esclamato: “E di sicuro lui! Figurati, mangia preti com’era… mica poteva tirarsi appresso una processione di chierici e monsignori. Rosso era e rosso muore!” Ed ecco che senza altro aggiungere, tutti scendono dalle due scalinate e si accodano alla folla imbandierata che marcia a ritmo di fanfara. Qualcuno ha accennato anche alle parole della prima strofa: “La mia mamma la mi diceva non andare sulle montagne mangerai sol polenta e castagne ti verrà l’acidità” Ancora trecento metri ed ecco che ‘sta valanga di gente ha cominciato a varcar l’arcone del camposanto. Laggiù, davanti alla pieve, intanto giungeva il feretro con la salma di Piero Chiara. Non c’era nessuno ad aspettare, solo il sacrestano della pieve osservava tutta la scena quasi Milano 308 ridendo: “C’era qui un sacco di gente ma sono andati tutti appresso al funerale del Capostazione, il Fo!” L’autista del carro funebre con gli inservienti ha raggiunto allora i cordoglianti del loro defunto prima che scomparissero dentro il cimitero: “Ehi! Avete sbagliato funerale… il vostro defunto è laggiù, davanti alla pieve!” “Oh che svarione! Presto, torniamo indietro!” Giravolte, qualche imprecazione, molte risate… di nuovo la gente che corre, che si sbraccia e chiama. Il tutto a ritmo di marcetta: “La mia morosa la mi diceva non andare coi ribelli Non avrai più i miei biondi capelli sul cuscino a riposar!” Se voi pensate che questo folle qui pro quo, quasi da pochade, sia frutto di una mia insana fantasticheria, non fate altro che procurarvi una copia del Corriere della Sera, di Repubblica o di altri quotidiani di quell’epoca: il 4 gennaio 1987. Lassù ritroverete la cronaca di questa impossibile avventura la cui regia è senz’altro da attribuire alla buonanima burlante di mio padre Felice. Milano 309 PARTE ELIMINATA Quando, venticinque anni dopo, sono arrivato alla famosa Salle Guèmier del Théâtre National du Palais de Chaillot per recitare “Mistero Buffo” mi è capitato di incontrare e conoscere un sacco di grandi personaggi dell’arte e della cultura francese a cominciare da Jean-Paul Sartre e Simone de Bovoir a De Maire, Vitesse e Lang, entrambi direttori della Salle Guèmier. E una sera in platea ho visto proprio Pablo Picasso. Era insieme a **** il grande scienziato francese che si era rifiutato di collaborare alla costruzione della bomba atomica francese. Ho saputo in seguito che era stato lui ad aver trascinato Pablo al mio spettacolo. Al termine entrambi sono saliti in camerino a salutarmi. Per fortuna ero già fradicio di sudore per l’esibizione, altrimenti si sarebbe notato l’ulteriore gocciolamento da emozione fulminante! Con Picasso ci siamo incontrati un’altra volta a casa di Sartre. Il filosofo mi voleva proporre una collaborazione alle venti puntate televisive sulla storia dei fatti più salienti del dopoguerra in Europa. A me sarebbe toccato raccontare i fatti d’Italia. Pablo Picaso era già nel suo studio, quasi in ombra… sembrava assopito. Ho accennato Milano 310 appena ad un saluto. Lui mi ha chiamato presso di sé. Dopo un lungo silenzio, mi ha chiesto del mio lavoro: voleva sapere dei giullari. MI parlava della tradizione dei jangleur di Malaga… ricordi legati ai contastorie del suo Paese. Ad un certo punto siamo venuti a parlare dell’Italia e della sua voglia di farci un gran viaggio. Ed ecco che a ‘sto punto mi è venuto in mente di raccontargli della sua falsa visita a Milano: la quermesse alla stazione Centrale e del bidello sosia. Picasso scoppia a ridere quasi col singhiozzo. Si avvicinano anche Sartre ed altri ospiti. Alla fine Picasso commenta: “Me ne avevano appena accennato di quella beffa con il mio doppio. Mi sarebbe piaciuto assisterci di nascosto. Ma, a pensarci bene, non avrei avuto l’occasione tanto spassosa di sentirmelo raccontare!”