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I MIEI PRIMI DIECI ANNI DI VITA Prologo Quella che vi propongo

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I MIEI PRIMI DIECI ANNI DI VITA Prologo Quella che vi propongo
Milano
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I MIEI PRIMI DIECI ANNI DI VITA
Prologo
Quella che vi propongo non è la storia della mia vita di
attore, autore e capocomico, ma piuttosto un frammento
della mia infanzia. Anzi è solo l'inizio, il prologo della mia
avventura a partire dal tempo in cui mai mi sarebbe
passato per il cervello che quello del teatrante sarebbe
stato il mio mestiere definitivo.
Ricordo che Bettelheim pediatra, autore di una
rivoluzionaria teoria sulla formazione caratteriale ed
intellettiva degli individui, diceva: “Di un uomo basta che
mi diate i primi sette anni della sua vita, lì c'è tutto, il resto
tenetevelo pure”.
Io ho voluto esagerare: ve ne offro dieci più qualche
puntata verso la maturità... credetemi, è già fin troppo!
Dio: capo dei Capostazione.
Tutto dipende da dove sei nato, diceva un grande saggio.
E, per quanto mi riguarda, forse il saggio ci ha proprio
azzeccato.
Tanto per cominciare, io devo dire grazie a mia madre, che
ha scelto di partorirmi a San Giano, quasi a ridosso del
Lago Maggiore. Sotto la rocca si son scoperti reperti di un
tempio romano dedicato a Giano bifronte, dio della guerra,
ma guarda caso grande protettore dei fabulatores comicos.
In verità non è stata mia madre a scegliere, ma le Ferrovie
dello Stato che hanno deciso di spedire mio padre a
prestare servizio in quella stazione. Sì, mio padre era un
capostazione, se pure avventizio. La fermata di San Giano
era così poco importante che spesso i macchinisti la
sorpassavano senza manco accorgersene. Tanto che un
giorno un viaggiatore, stanco di ritrovarsi scaricato alla
fermata seguente, ha tirato il segnale d'allarme. Il treno si è
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ingrippato dopo una lunga frenata arrestandosi nel bel
mezzo di una galleria. Un "merci" che lo seguiva è franato
addosso al treno bloccato. Non ci sono stati morti, per
miracolo. Solo un ferito grave: il passeggero che aveva
tirato l'allarme; infatti il disgraziato è stato picchiato da
tutti gli altri viaggiatori, compresa una suora.
Ma con l'arrivo di mio padre le cose alla stazione di San
Giano sono cambiate all'istante. Felice Fo era uno che
destava rispetto e soggezione. Quando si piazzava con il
suo cappello rosso calcato fino agli occhi, ritto sulla rotaia,
brandendo la bandiera da segnale, rossa anche quella, i
treni si fermavano tutti... Tutti gli accelerati, s'intende, e
anche gli omnibus... che poi in totale erano quattro.
Io sono venuto al mondo fra un omnibus ed un "merci", in
quella fermata sussidiaria a quattro passi dal lago
(Antelacus, è scritto su un reperto romano). Erano le sette
del mattino quando mi sono deciso a far capolino fra le
gambe di mia madre. La donna che fungeva da levatrice
mi ha tirato fuori e sollevato come fossi un pollo, per i
piedi. Poi velocissima, mi ha assestato una gran pacca
sulle natiche... ho urlato come un segnale d'allarme. In
quell'istante transitava l'omnibus delle sei e mezza... che
era naturalmente in ritardo. Mia madre ha sempre giurato
che il mio vagito aveva superato di gran lunga il fischio
della locomotiva.
Dunque io ho visto la luce a San Giano per decisione
unica delle Ferrovie dello Stato, ma lì son nato solo per
l'anagrafe.
In verità, per quanto mi riguarda sono venuto al mondo e
ho preso coscienza a 30-40 chilometri un po’ più in su,
lungo la costa del Lago, a Pino Tronzano e qualche anno
dopo a Porto Valtravaglia, sulla sponda magra del lago
Maggiore. Entrambi sono stati i miei “paesi delle
meraviglie”. I luoghi che mi hanno scatenato le fantasie
più pazze e hanno determinato ogni mia scelta futura. Il
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trasloco di tutta la famiglia era stato un'altra volta deciso
dalla
direzione
delle
EFFE-EFFE-ESSE-ESSE,
compartimento di Milano.
Milano! Mi ricordo che la prima volta che ci sono andato è
stato con mio padre. Ero molto piccolo e lui doveva
andarci per sostenere un esame da movimentista, sperava
di venir promosso capostazione di seconda classe, livello
C. Ma perché farsi accompagnare in quel viaggio da me,
un bambino così piccolo? Ho sempre sospettato che mi
volesse con sé per scaramanzia. Tutti in casa, compresi i
parenti acquisiti, erano convinti che io portassi una fortuna
sfacciata. Infatti io ero nato con la camicia, come si dice,
cioè ero uscito tutto avvolto nella placenta di mia madre.
Un segnale mitico di buon auspicio.
Arrivati a Milano, poco prima di entrare nel grande hangar
della Stazione Centrale, il treno ha cominciato a rallentare
vistosamente... procedeva a passo d'uomo. Papà Felice pa’ Fo, come lo chiamava mia madre - ha abbassato il
finestrino e mi ha fatto sporgere fino a mezzo busto:
"Guarda lassù" e mi indicava un ponte altissimo issato su
centine d’acciaio, sotto il quale transitavano tutti i
convogli. Una enorme passerella zeppa di fari puntati in
ogni direzione. Una serie di cabine di vetro, illuminate da
lampade fortissime e colorate. Quella macchina fantastica
era sorretta da piloni giganteschi.
"Cos'è?"
"È il centro operativo da dove si comanda il movimento di
tutti i treni, compresi gli scambi e i semafori."
In quel momento ero convinto: dentro quelle cabine di
vetro, splendenti di luci, ci doveva essere di sicuro Dio,
con tutti i Santi dei capostazione. Non avevo dubbi: il
Padreterno non era altro che il direttore generale delle
FF.SS. Era lui che organizzava tutto il movimento dei
ferrovieri, lo spostarsi dei treni, progettava macchine e la
nascita dei figli dei capostazione!
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Ma torniamo al nostro trasloco da San Giano a Pino
Tronzano.
Nel primo trasloco dalla stazione di San Giano a quella di
Pino, alla frontiera con la Svizzera, tutti i mobili della
famiglia erano stati caricati su un vagone merci. Il viaggio
non durava più di un’ora e mezza. Mi aveva fatto molta
impressione veder smontare i letti e gli armadi. Credevo li
stessero spaccando a pezzi e così sono scoppiato in un
pianto disperato. Mio padre mi aveva subito
tranquillizzato: “Vedrai che appena arrivati, li rimetteremo
insieme!”
Ahimé, nel caricare “la roba”, la stufa di ghisa si era
rovesciata dal vagone e si era sfasciata… mia madre ha
mandato un urlo straziante. Io l’ho presa per mano e l’ho
confortata: “Tranquilla, come arriviamo, il papà ri-incolla
tutto!”
Oh, antica fiducia nei padri!
Il vagone era stato agganciato al treno sul quale anche noi
si era saliti. Quindi, come siamo arrivati a Pino Tronzano,
hanno staccato il nostro vagone merci e aiutati da due
facchini, mio padre e mia madre hanno cominciato a
scaricare i pezzi da rimontare.
Io ero letteralmente affascinato da quel posto: la stazione
era più grande di quella dov’ero nato… noi si abitava
sopra, al primo piano.
Un centinaio di metri più sotto, a picco, c’era il lago.
Alle spalle montava una parete rocciosa, dentro la quale
era scavata una strada che, disegnando un gran numero di
tourniché, saliva fino al paese: una cinquantina di case
abbarbicate quasi una sull’altra come in un bassorilievo
della Colonna Traiana. C’era una torre antica, un
campanile con sotto la pieve e un gran palazzo che
ospitava il Municipio, la scuola e pure il pronto soccorso.
I facchini e i miei non avevano ancora terminato lo scarico
ed ecco che arriva il prete: veniva a darci il benvenuto e a
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benedire la casa con le pareti intonacate di fresco. Con lui
c’era un chierichetto che mi ha portato subito a vedere
dove, dietro la stazione, si trovava un gran recinto con
alberi da frutto e molto terreno coltivato; c’era anche un
pollaio con un fracco di galline e delle gabbie basse con
dentro i conigli. Il capostazione che c’era prima di noi,
non potendo portarseli tutti con sé, ne aveva lasciati gran
parte in regalo ai nuovi arrivati che eravamo proprio noi…
oh, grazie!
Il cantoniere guardia scambi, cioè l’assistente di mio
padre, ci avvertiva che purtroppo galline e conigli ogni
tanto riuscivano a scappare fuori dal recinto, cosicché
immancabilmente qualcuno di loro finiva sulle rotaie,
proprio mentre arrivavano i treni. Ad ogni modo, le povere
vittime ferroviarie - o almeno le loro appetitose spoglie erano quasi sempre “recuperabili”: bastava decidere per lo
spezzatino in umido, così nessuno s’accorgeva della gran
tranciata. Devo dire che raramente in casa nostra si
riusciva a cucinare un pollo o un coniglio intero!
Avrete già indovinato che quella nostra stazione si trovava
completamente isolata: ci abitavamo solo noi e il
cantoniere guardia scambi con sua moglie. Sotto, al fondo
della scarpata, sulla scogliera in riva al lago si ergeva la
caserma della Finanza con l’attracco per una motovedetta
e una piccola nave faro chiamata Torpedine.
La notte c’era un gran silenzio, salvo il batti-batti della
pompa che pescava l’acqua dal lago per riempire il grande
serbatoio che avrebbe rifornito le locomotive in transito,
da e per la Svizzera. Mi piaceva moltissimo quel pulsare…
sembrava il cuore della stazione: calmo e rassicurante.
Un altro suono piacevole era quello dello scampanellio
che annunciava l’arrivo dei treni. Qualche volta il fischio
di una locomotiva in manovra mi svegliava, ma subito
tornavo ad addormentarmi beato. Posso ben dire d’esser
cresciuto con lo sferragliare delle ruote dei vagoni in testa,
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con il cigolio delle frenate e nella memoria degli occhi i
segnali di luce della torpedine, che sciabolavano
sull’acqua, cielo e montagne, infilandosi fra le persiane.
Essendo noi proprio sulla frontiera c’era sempre il
problema dei contrabbandieri o dei disperati che tentavano
di transitare nascosti nei vagoni merce. Ogni convoglio
che facesse sosta veniva perquisito dalle guardie di
Finanza e dai carabinieri. Spesso mi svegliavano i segnali
dati con fischietti e le grida dei reparti di servizio. Sentivo
i botti sferrati sulle fiancate dei vagoni, lo scorrere delle
portiere e gli ordini di controllare meglio quel vagone o
l’altro appresso. Poi un segnale gridato: “Tutto a posto!”,
ero rimasto teso per tutta l’ispezione e adesso tiravo un
gran fiato. Mi immaginavo sempre un uomo o un ragazzo
appesi sotto un vagone che finalmente riuscivano a farla
franca e passare di là. Mi riaddormentavo con un gran
sospiro sorridendo.
Eravamo nel 1930. I clandestini di transito erano spesso
antifascisti perseguitati che cercavano di raggiungere
Svizzera e Francia. Mi ricordo di una notte in cui grida,
ordini e uno sparo mi hanno svegliato di soprassalto. Sono
andato alla finestra e ho sbirciato di sotto: avevano
catturato un clandestino e lo stavano portando giù, in
caserma. L’indomani ho visto che lo caricavano su un
vagone diretto a Luino dove c’erano le carceri. Più tardi
mio padre mi aveva accennato a ‘sto fatto dei clandestini
politici; io ci avevo capito poco, ma quella scena m’è
rimasta nella memoria indelebile come un tampone scuro.
Per incontrare ragazzini della mia età coi quali giocare mi
toccava salire fino in paese. Era una scarpinata da gran
fiatone… si montava di almeno trecento metri
letteralmente in verticale.
Non è stato difficile far amicizia con quei ragazzini:
stavano tutti “aggrompiati” nella piazzetta della chiesa ed
erano piuttosto curiosi di conoscere un “foresto” come me.
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Parlavano tutti in un dialetto duro, pieno di zeta al posto
delle esse, alla maniera degli svizzeri, ma non
strascicavano le vocali come nel Canton Ticino.
Per saggiarmi, hanno organizzato subito un paio di scherzi
piuttosto grevi: mi hanno gettato addosso uno straccio
intriso di nafta a cui avevano dato fuoco, proprio nel
momento in cui stavo facendo pipì giù dalla scarpata. Fu
un miracolo se non mi è andato arrosto il pisello!
Per seconda tastata mi hanno infilato nella saccoccia delle
braghe un ramarro inviperito, facendosi un sacco di risate
da soffocarsi nell’assistere al mio sgomento espresso con
salti, sgambettamenti e una capovolta che fortunatamente
ha liberato il verdone… detto ghez.
Quei simpatici manigoldi erano quasi tutti figli di
contrabbandieri e, particolare piuttosto surreale, il loro
capo era il figlio del maresciallo dei carabinieri. In paese
c’erano anche due ragazzine figlie di finanzieri, ma i loro
genitori non gradivano quella compagnia. Gli “spalloni”,
così si chiamano i contrabbandieri che trasportano merce
di qua e di là del confine, non avevano come unica
professione quella legata al contrabbando. Quasi tutti
allevavano capre e pecore, facevano gli spaccalegna e si
occupavano di tirar su i muriccioli a secco per trattenere le
balze dei campi e dei boschi che altrimenti ad ogni
acquazzone sarebbero franati a valle. I finanzieri erano
molto tolleranti: sapevano bene che quel faticare degli
spalloni non portava loro gran ricchezza… ogni tanto però
arrivava l’ordine di strizzarne qualcuno, tanto per
dimostrare che stavano vispi, attenti che si meritavano
quella paga da fame. Così ne beccavano un paio una
tantum. A me sembrava che giocassero. Vedevo scendere
giù alla stazione gli spalloni catturati… non avevano ai
polsi manco una catena, chiacchieravano con i finanzieri o
coi carabinieri come stessero andando a bersi insieme un
gotto.
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Mi piaceva tanto andare intorno per i “bricchi” (così si
chiamavano i crinali scoscesi), risalire i torrenti che,
precipitando verso la valle, avevano scavato canali fondi
arrivando spesso a traforare la roccia nel profondo così da
bucare la montagna con orridi, solchi e gallerie.
Certo, non ci andavo da solo… zampettavo dietro ai
ragazzini di Pino di due o tre anni più grandi di me. Il
figlio del carabiniere aveva nove anni e, naturalmente, era
il capo e la nostra giuda. A sentir lui conosceva ogni
canalone, ogni anfratto di quel labirinto… infatti,
regolarmente ci perdevamo!
Una volta ci ha tirati fuori un contrabbandiere che ci aveva
sentito gridare, due di noi urlavano disperati. Il
contrabbandiere ci è apparso dentro la luce di taglio che
filtrava fra una sferzola buia del fosso, come la visione di
un santo. Era lo zio di uno dei miei amici e, incredibile
coincidenza, si chiamava Salvatore. Io, come vi dicevo,
ero il più piccolo della banda perciò mi ha issato sulle sue
spalle: di lassù guardavo con una certa alterigia i miei
amici.
Nella chiesetta di Tronzano c’era un affresco che
rappresentava il Santo gigante che traghetta il piccolo
Gesù di là dal fiume e benedice. Di nascosto, velocissimo,
ho abbozzato una piccola benedizione… ridendo. Già
blasfemo a quell’età!
Quando siamo arrivati in prossimità del paese, cominciava
a far buio. Mia madre preoccupata era salita alla piazzetta
di Pino e lì aveva incocciato nelle altre madri che a loro
volta erano in attesa dei loro figli, ma non davano segni di
angoscia alcuna, anzi, apparivano piuttosto tranquille
avvezze com’erano a quei ritardi. Infatti, come abbiamo
raggiunto lo spiazzo, si sono mosse incontro ai loro
ragazzini senza neanche proferire parola. Nessun
commento, nessun rimprovero. Mia madre mi ha tirato giù
dalle spalle del santo Salvatore, mi ha stretto fra le braccia
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e mi ha chiesto: “Hai avuto paura?” e io, bugiardo: “No
mamma, mi sono divertito un sacco!”. E lei,
abbracciandomi stretto: “Oh, come dici male le bugie
pover testón mio!” (Testón era l’appellativo di tenerezza
che la mamma mi rivolgeva in ogni occasione).
Nel gruppo delle madri c’era anche il maresciallo dei
carabinieri che, a sua volta, non ha rimbrottato il
figliolo… lo spingeva solo davanti a sé. Scendendo lungo i
tornanti che portano alla stazione, in braccio a mia madre
mi sono apparsi, laggiù dove la strada disegnava un grande
cerchio, il Maresciallo e il figlio… sempre uno dietro
l’altro… il padre sferrava ad ogni passo una gran pedata al
ragazzino che zompava come un capretto!
Dopo quell’avventura, la mamma non vedeva certo di
buon occhio che io me ne andassi a “sguancia” fra i
bricchi con quella banda di piccoli landrou. Ma il
vietarmelo brutalmente andava contro il suo modo
d’essere e quindi, sveglia com’era, ha trovato uno
“scamocchio” (espediente) di sicuro effetto: quando
intuiva che di lì a qualche ora avrei cominciato a scalpitare
per effetto del “richiamo della foresta”, stendeva sul
tavolo di cucina una mazzetta di fogli bianchi, rovesciava
una quantità di pastelli, matite colorate e, invitandomi
all’orgia, esclamava: “Vai bel testón, spantégami una
frappata di belle figure!”
E io, via che mi buttavo a spantegare colori sul foglio
bianco, a rincorrere con giravolte di righe, immagini che
montavano una dietro l’altra come le avessi stampate nella
memoria. Man mano che entravo nel gioco degli incastri e
stendevo spazi, piani di colori, mi prendeva uno sballo
d’incanto.
Di lì a poco capitava che arrivassero sotto il portico della
stazione i miei piccoli compagni di scarpinata; mi davan la
voce di sotto la finestra: “Dario - mi avvertiva mia madre
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allora - sono arrivati i tuoi barabba… vuoi andare con
loro?”
Doveva ripetermelo una seconda volta… manco il fischio
del treno mi riusciva di ascoltare tanto ero immerso a
capofitto in quel foglio.
“Non ci vuoi proprio andare, me car testón? - mi ripeteva
radiante mia madre - Vuoi che gli dica che non stai bene,
che hai un po' di febbre?”
“No, no - rispondevo io a stoppa-parola - se mi dai
ammalato, dopo mi sfottono per una settimana: “Ehi
marcina!”… Dì che mi hanno portato in Svizzera al
matrimonio di mia cugina Tulia.”
“Al matrimonio? Ma com’è possibile, Tullia ha poco più
di dodici anni?!”
“E va bene - rimediavo io - di che la sposa è sua sorella
Noemi… lei è già grande!”
“Sì, ma sta per andar suora!”
“E allora dì che ha buttato il velo per sposare il Capitano
delle Guardie Svizzere!”
“Le guardie del Papa?!”
“Eh sì, una suora mica si può buttare via col primo che
capita!”
La Svizzera affiorava spesso nei nostri discorsi… a parte
che proprio di là del lago, sulla sponda grassa del Canton
Ticino ci stavano la sorella del babbo con il marito e le
figlie, Tullia e Noemi. C’era anche un altro cugino, il
figlio maggiore, che rappresentava tutto quello che avrei
voluto diventare da grande: Bruno si chiamava, era un
campione del gioco del calcio… portiere del “Lugano”,
organista alla cattedrale di Lucerna, da poco era stato pure
eletto rappresentante della Repubblica Elvetica presso il
nostro governo a Roma… e per finire aveva una fidanzata
bellissima con la quale ogni tanto ci veniva a far visita. Il
mio papà era il suo zio preferito… avevano più o meno la
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stessa età. Fra di loro parlavano di politica, ma lo facevano
sottovoce e appena si scaldavano, tanto da non poter più
controllare il tono, la mamma li invitava ad uscire:
“Andate a passeggiare giù fino al lago. Certi discorsi
sottili sull’acqua scivolano nel silenzio e i più grevi
s’affogano.”
Come Bruno e mio padre se ne erano usciti, io facevo di
tutto per attirare l’attenzione di Bedelià (così si chiamava
la morosa di Bruno). Mi piaceva da impazzire con quel
collo lungo, le mani morbide e le dita da Madonna e
soprattutto quelle poppe tonde! Quando mi accoccolavo
sulle sue ginocchia, mi sentivo tutto slanguire, le gote mi
sparavano di rosso. Sì, lo ammetto: a me le donne, fin da
quando sono venuto al mondo, mi sono subito piaciute da
frullar via di testa! Se poi mi ritrovavo con una donna
luminosa come Bedelià, con quell’odore di fiori e frutta
che spantegava dalla pelle… Dio, che sbirolate! Fra le sue
braccia io la annusavo con una golosia da drogato.
Anche mia madre era bella e fresca come e forse ancor di
più di Bedelià… figurarsi, mi aveva partorito a soli
diciannove anni!
La mamma è fuori d’ogni paragone… il profumo di mia
madre mi faceva venire l’acquolina, la voglia di ciucciare,
di impastarmi contro e dentro ogni sua curva o piccola
conca. Nelle sue braccia non c’era né vento, né calura. Il
suo tepore scioglieva ogni paura: ero proprio nel ventre
dell’universo!
Ma tornando a Bedelià, ogni volta che lei e Bruno
ripartivano, me ne stavo triste e muto per una giornata
intera. Se ne andavano col battello, li accompagnavamo
giù all’imbarcadero. Il loro viaggio era davvero breve:
bastava attraversare il lago. Brissago era lì, di faccia.
Restavo sulla passerella d’attracco e seguivo il battello che
sfumazzava e lasciava indietro una scia spumosa che
s’assottigliava man mano che quel barcozzo s’allontanava
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fino a rimpicciolire… Ma non spariva mai: infatti lo
vedevo attraccare sull’altra sponda.
Una volta il maresciallo della Finanza mi ha prestato il suo
cannocchiale: come ci ho attaccato l’occhio, mi sono visto
venir contro il battello e l’imbarcadero svizzero. C’era
anche Bedelià nell’immagine… poi ho puntato sulle case e
i tetti: “Beati loro - ho esclamato - che stanno dentro a
tutta ‘sta cioccolata e marzapane!” Già… perché, fin dal
giorno in cui sono arrivato a Pino Tronzano, mi hanno
fatto credere che di là, in Svizzera, tutto fosse di
cioccolata, canditi, pasta di mandorle e strade di torrone!
A spararmi ‘sta frottola è stato per primo il
radiotelegrafista della Stazione. Mi aveva offerto un
quadretto di cioccolato e aveva aggiunto: “Come è
ingiusta la vita! Noi qui a spiluccare miseri pezzettini di
cioccolata e loro, di là, ‘sti svizzeri del cavolo ce ne hanno
da buttare, perfino sui tetti!”
“Sui tetti?” faccio io.
“Sì, non li vedi tutti rossi scuri che sono… hanno le tegole
fatte col cacao pressato!”
“Tegole di cioccolato?! Che fortunati!” e ho mandato già
una golata di saliva da ingolfarmi.
Quel bastardo cacciaballe del telegrafo aveva passato voce
al cantoniere, ai finanzieri e ai carabinieri… tutti mi
davano la baia con ‘sta bufala della Svizzera cioccolatara.
“Proprio per questo - aggiungevano le carogne - quella si
chiama sponda grassa. Se fai il bravo, vedrai che un giorno
o l’altro pa’ Fo ti ci porta. Ce l’hai il passaporto?… No?
allora non ci potrai mai andare!”
Visto che ci ero cascato come un allocco in ‘sta storia
della sponda del Bengodi, anche mia madre per non
deludermi stava al gioco: “Quando la settimana ventura
verrà a trovarci Bruno, vedrai che ce ne porterà un sacco
di quella fondente!”
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Mio padre aveva avvertito subito il babbo di mio cugino,
così quando arrivò Bruno per poco non sono svenuto: lui e
la sua ragazza sono scesi dal battello e hanno passato la
dogana. Io stavo con la mamma sul molo ed ho notato
subito che il finanziere aveva ordinato a mio cugino e
Bedelià di aprire due pacchi piuttosto voluminosi, ma non
riuscivo a capire cosa contenessero. Il finanziere levando
alta la voce li ha poi fatti passare commentando: “Non
sarebbe legale, ma per questa volta chiudiamo un
occhio…”
I due fidanzati arrivano finalmente sul molo: ero così
emozionato e curioso di scoprire cosa ci fosse in quei due
pacchi, che quasi non salutavo la splendida Bedelià. A
casa, lassù nella stazione, finalmente si è scoperto
l’arcano: tolta la carta e tutto l’imballaggio è apparsa una
tegola, un coppo… tutto di cioccolata!
“L’ho staccata dal mio tetto - dice sottogamba Bruno - è
per te, car testón, mangiatela tutta con comodo!”
Ero così stupefatto che non riuscivo manco a respirare:
“Posso dargli una leccata d’assaggio?” ho azzardato e tutti
in coro: “Ma certo! Lecca quanto ti pare.”
“Viva la Svizzera!” ha gridato la mamma.
Un anno dopo finalmente mi è capitato di poter
attraversare il lago per andare a Brissago. Avevo cinque
anni scarsi. Ero emozionato come un grillo in primavera.
Quando a dottrina il parroco di Pino ci parlava di Adamo
ed Eva... del Paradiso terrestre con tutto quel ben di dio...
io pensavo alla Svizzera, anzi, al Canton Ticino: là
nell’eden elvetico stavano gli eletti, qua da noi i
peccatori... nel castigo eterno!
Mia madre è stata molto cauta nel darmi la notizia del
prossimo viaggio nella terra promessa: “Forse... fra
qualche giorno - diceva buttandola là - se rimettono in
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servizio il battello... andiamo a Brissago dagli zii...
forse...”.
Quella notte ho sognato che avevano di nuovo sospeso la
traversata col battello: mio padre s’era piazzato
sull’imbarcadero, fuori dalla grazia di Dio… come gli
succedeva nelle giornate grame, teneva addosso una
coperta tutta ricamata (quella che stava nella nostra casa
sul letto grande) e sollevate le braccia al cielo, manco
fosse Mosè, sbraitava a tutta voce: “Lago bastardo...
spalancati e facci passare che la terra promessa ci aspetta!”
E trak, s’alza un gran vento, bolle l’acqua come in un gran
paiolo e... miracolo: risucchiata dall’aria, l’acqua monta in
cielo, si spacca in due, s’apre il mar Rosso... pardon... il
lago Maggiore! E noi, la famiglia al completo, seguiti da
tutta la gente di Pino-Tronzano, Zenna, Maccagno, via che
attraversiamo cantando... mentre le guardie di Finanza,
disperate, minacciano: “Fermi! Tornate indietro o
spariamo! Senza passaporto e visto annesso non si
attraversa!”
Nessuno ci fa caso... anche i contadini dei bricchi e i
pastori attraversano con le vacche, con pecore e capre.
“No... le capre no... è proibito!” urlano i carabinieri.
Le capre, per tutta risposta, sparacchiano a raffica quei
loro stronzetti tondi come biglie di bronzo e via
sculettando felici.
Ma un “Sveglia! Sveglia!” mi impedisce di terminare quel
sogno fantastico. È la mamma: “Siamo in ritardo, alzati
che fra mezz’ora arriva il battello!”
Sono così agitato che infilo le braghe al rovescio, due
calze nello stesso piede, faccio cadere la tazza col
caffelatte bollette sul gatto, dimentico di raccogliere i
colori e i fogli da disegno nella mia sacca.
“Svelto, svelto...”
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Il battello lancia il suo segnale d’attracco con la sirena.
Uscendo dalla galleria la locomotiva fischia a sua volta,
ansima la pompa del serbatoio d’acqua della stazione.
Ecco l’attracco.
“Monta sulla passerella. Ci sei?” - “Tutti imbarcati?” - “Si
salpa!”
Vado a prendere posto sulla prua. La mamma mi viene
appresso e mi dice: “Me car testón... ti devo dare una
notizia non tanto bella.”
“Quale notizia?” chiedo io senza staccare gli occhi dalla
costa svizzera che viene avanti a gran velocità.
“I tetti di Brissago - continua mia madre - non sono più di
cioccolata.”
“Cosaaa?!” sbotto io disperato.
“Sì caro. Il governo svizzero li ha fatti cambiare in massa:
ordine immediato per via che tutti i bambini tirando via i
coppi per mangiarseli, hanno scoperchiato un fracco di
tetti… buchi dappertutto… così, a ogni acquazzone, ecco
che le case si allagavano. Tutti si beccavano raffreddori e
polmoniti e soprattutto i bambini golosi stavano tutto il
giorno con un mal di pancia da torcersi le budella!”
“Ma come... il cioccolato non da mal di pancia!”
“Dipende... se le tegole son vecchie, marce com’erano
quelle...”
“Cioccolato marcio? Ma la tegola che mi ha portato Bruno
non era vecchia!”
“Perché era la tegola d’una casa nuova.”
“Meno male, allora almeno quel tetto s’è salvato.”
“No, purtroppo. Qualche notte fa i ladri l’hanno rubato
tutt’intero.”
Sono scoppiato in un pianto disperato.
“Maledetti! - ho imprecato in silenzio - Dio maledica tutti
i ladri di tetti di cioccolata fresca e gli faccia crollare
addosso una montagna di cacao, marzapane e vaniglia
bollente!”
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Ero proprio arrabbiato nero.
All’imbarcadero di Brissago ci erano venuti incontro la zia
Maria, che non avevo mai visto, lo zio Francesco Repetti,
le due cugine. Ero fuori dai gangheri che non li ho manco
degnati di uno sguardo, nemmeno un ciao.
“Che gli è successo?” ha chiesto preoccupata la zia
Maria. La mamma ha fatto un cenno di soprassedere: “Una
tragedia, vi spiegherò poi.” ha soffiato sottovoce.
Sulla via di casa, siamo passati di fronte a una pasticceria:
in vetrina erano esposti cumuli di stecche di cioccolata.
Noemi, la cugina maggiore, ci aveva preceduti e ora stava
uscendo con un enorme tocco di fondente. Quando me lo
ha offerto io l’ho accettato, ma l’ho guardata severo e
sprezzante come dire: “Se credete di condirmi via con una
beola di cacao secco, vi sbagliate di grosso!”.
La casa degli zii era in riva al lago; c’era perfino una
darsena con dentro una barca stretta e lunga: una “jole”.
La mamma ed io eravamo stati sistemati in una stanza
grande con il balcone. Accidenti che alloggio!
Ho chiesto subito se si poteva andare in barca. A Pino ogni
tanto mi facevano salire sulla motovedetta dei finanzieri,
ma con quella jole era tutt’altra cosa; dire che offrisse un
equilibrio precario è dir poco: non potevi spostarti di un
centimetro, che subito sballonzolava come impazzita.
Mi ci hanno calato per primo; Tullia, ‘sta scatenata pazza,
è montata dentro di botto, con uno zompo che per poco
non mi ritrovavo sbattuto fuori dalla barca. Salta dentro a
piedi giunti anche l’altra sorella: una gran sballonzolata!
Cade fuori lei, la barca si rovescia e io mi ritrovo
scaraventato in acqua a mia volta: “Ma la miseria! Io ho
solo cinque anni… e non so nuotare!”
Per di più la jole, ribaltandosi, mi cade addosso e mi
ritrovo in trappola dentro il guscio, come sotto a un
coperchio. Mi sbatto, grido, bevo… non so come ma, dal
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di dentro, riesco ad attaccarmi alla traversa del sedile.
Sento gridare Noemi: “Dio! Il bambino dove è finito?”
E la sorella “Sott’acqua non c’è. Vuoi vedere che è
rimasto sotto conca, dentro il guscio?”
Salta in acqua anche lo zio… insieme ribaltano la barca e
HOP!, ritorno all’aria, sempre abbrancato alla traversa del
sedile. Tossisco come un motore ingolfato.
Dio che vita dura in ‘sta Svizzera!
Quella notte ho sobbalzato non so quante volte nel letto
per gli incubi. Meno male che stavo fra le braccia di mia
madre che ad ogni sobbalzo mi sbaciucchiava e mi
asciugava il sudore di cui ero tutto fradicio.
“Niente… non è niente - mi tranquillizzava - Basta coi
brutti sogni! Esci dall’acqua, car testón, non c’è più né
lago né barche. Dormi!”
E invece, come mi riaddormentavo, a tormentone ecco
spuntare acqua dappertutto: pioveva fitto, i torrenti erano
gonfi e straripavano, l’acqua del lago cresceva, montava
fino a uscire oltre la riva su fino alla stazione e i treni
sparivano travolti dalle onde. Mia madre fuggiva
tenendomi in braccio, s’arrampicava su per il sentiero
scosceso che raggiunge Pino e poi sale verso Tronzano.
Pa’ Fo ci veniva appresso reggendo sulla testa una gran
tinozza in rame per il bagno che poteva servire come barca
di salvataggio.
Era un sogno quello che ripetevo spesso. Era una specie di
diluvio universale. Il lago era ormai immenso come un
mare… noi si continuava a salire verso la più alta cima
della catena del Limidario: era l’ultima cima, quella della
salvezza!
L’indomani, come mi sono svegliato, sul grande tavolo
della cucina ho trovato una enorme scatola di colori a
tempera, un mazzo di pennelli e dei cartoncini su cui
dipingere. Non erano giocarelli da bambino, ma roba da
professionisti, da pittori veri.
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“Sono per me?” ho chiesto speranzoso.
“Sì!” mi ha risposto ridendo lo zio.
Quasi non lo riconoscevo: era vestito da soldato… una
divisa verde, con bordature rosse, stivali e un cappello con
la visiera.
“Zio, vai alla guerra?”
“No, è la mia divisa normale. Non lo sapevi? Io sono il
maresciallo capo del Gendarmi del Comune!”
Mi accorgo solo adesso che ha una gran pistola nella
fondina appesa alla cintura.
“E son tuoi anche quelli?” così dicendo, punto il dito verso
la parete sulla quale fan bella mostra un trombone e un
fucile con il porta-cartucce.
“Sì, suono nella banda del corpo e questo è il mio fucile di
ordinanza. Non toccarlo mai!”
Quindi afferra dal tavolo la scatola dei colori e rovescia
tutti i tubetti sul tavolo: “Guarda che meraviglia… sono di
gran marca: “Le Frank”. Quando ero bambino ho sempre
sognato di avere delle tempere come queste. Sai, io ogni
tanto dipingo ancora; hai mai provato a pitturare con
colori e pennelli del genere?”
E così dicendo, spremendo tubetto per tubetto su un gran
piatto, mi ha mostrato come si prepara la tavolozza. Ha
intinto un pennello in una terra di Siena, mi ha consegnato
il pennello, ha riempito una tazza d’acqua e, ponendo sul
tavolo un cartone, ha ordinato perentorio: ”Forza! Fammi
vedere se sei davvero quel portento che dicono.”
C’era da immaginarselo: emozionato com’ero, ho
spegasciato colore come capita, capita. La mia idea era di
rappresentare l’incidente del giorno prima con le cugine
che cadono in acqua, la barca che si ribalta, io di sotto nel
guscio che mi sbatto disperato. Invece, disastro su
disastro, di quella storia non ci si riusciva a capire
niente… un gran papocchio senza senso. Alle mie spalle,
s’era formata un’ammucchiata di spettatori: c’era tutta la
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famiglia, mamma compresa, e quattro colleghi gendarmi
dello zio, anche loro in divisa con trombe e tromboni…
tutti che commentavano entusiasti il dipinto e la mia
bravura: “È un artista! Mai visto un mostro simile!”
“Cos’è l’arca di Noè?”
“No, è la battaglia navale dei Malpaga contro i
Borromeo!”
Io ero più che convinto che stessero sbroffando elogi a
raffica solo per farmi piacere, ma una dozzina di anno
dopo, quando già frequentavo l’Accademia di Brera, e
sono tornato a trovare lo zio Trombone (così lo
chiamavano tutti), mi è capitato di rivedere quel dipinto
appeso su un muro, addirittura incorniciato. In quel
momento mi sono reso conto che era davvero bellissimo:
pareva un Kandinsky! Chissà che fotte mi sarei dato allora
se ne fossi stato cosciente, ma - per fortuna e disgrazia
insieme - il candore e la consapevolezza non abitano mai
allo stesso tempo nella stessa persona.
Ad ogni modo, quella prima settimana in Svizzera si è
rivelata davvero indimenticabile: ero capitato proprio
durante la festa dei Cantoni liberi. In piazza c’era un vero
assembramento di gente in costume: c’erano quelli con
gualdrappe ricamate d’oro e azzurro che recitavano la
parte dei duchi tiranni, dietro loro, in corteo, i guerrieri
tedeschi, quindi le signore della nobiltà e per finire i
patrioti ribelli con Guglielmo Tell e il suo ragazzino. In
mezzo alla piazza, contro una parete decorata a
bassorilievo a indicare un portale, veniva piazzato in piedi
il bambino con una mela in testa. Guglielmo imbracciava
una balestra, puntava verso il bimbo… ed ecco una donna
gridare: “No, mio figlio no!!” (era la madre, che
naturalmente non aveva nessuna fiducia nella mira del
marito Guglielmo). Quell’urlo serviva, l’ho capito anni
dopo, a distrarre il pubblico per un attimo dal fissare il
piccolo con la mela in capo. Approfittando di quel breve
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spostamento d’attenzione, il portale dinanzi al quale stava
il bambino, girava su se stesso. Spariva quindi il bimbo
vero e appariva un manichino con la stessa dimensione,
costume e viso del piccolo protagonista. Solo gli scafati si
accorgevano del trucco… io a cinque anni non ero ancora
scafato! Immediatamente Guglielmo Tell scoccava la
freccia che infilzava la poma, urlo del popolo festante, fine
del dramma.
“Ma cosa vuol dire?” chiedevo io alla mamma che prima
della rappresentazione aveva cercato di raccontarmi la
sequenza dei fatti storici.
“È davvero una schifezza! - Esclamavo io indignato Sempre noi piccoli ci dobbiamo andare di mezzo! Gesù
bambino che nasce in una stalla puzzolente, con il tetto
sfondato. Senza stufa né scaldino… il fiato di un asino e
una mucca e basta così. Erode, chissà perché, lo vuol
morto e allora fa sgozzare tutti i bambini del paese manco
fossero capretti. Il Padreterno, tanto per far prendere uno
spavento al povero Isacco, ordina al padre di mozzargli la
testa con una scure. Cosa me ne frega se poi ci ripensa:
“Alt! Fermi tutti, è stato uno scherzo”… uno scherzo da
Dio! E adesso pure la mela su ‘sto povero ragazzino
svizzero, che se Tell sbaglia, gli sforacchia la testa. Lui, il
piccolo è il vero eroe, ma nessuno si ricorda nemmeno
come si chiami. Tutta la festa è solo per suo padre, ‘sto
incosciente che ha accettato la scommessa!”
A dir la verità, la mia indignazione è durata poco perché
all’istante ecco venire avanti la banda dei gendarmi a
cavallo.
M’è sfuggito un grido di meraviglia.
Fra i suonatori della banda c’era anche mio zio, a cavallo
pure lui, che pompava in quel trombone con delle
spernacchiate che rimbombavano per tutta la piazza. Ero
proprio orgoglioso: ai miei occhi, la reputazione dello zio
gendarme era montata a dir poco alle stelle!
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La mamma il giorno dopo ha dovuto tornare a Luino e
Noemi, per consolarmi un po', mi ha portato con sé al
Kinderheim dove lavorava come maestra d’asilo. Mi sono
ritrovato con una turba di ragazzini, tutti più o meno della
mia età. Ma provenivano in massa dai Cantoni del
Lemano, quindi svizzeri tedeschi… non una parola
d’italiano. Ho cercato di comunicare in dialetto, ma mi
guardavano come un deficiente!
Ad un certo punto ci hanno portati tutti quanti in un salone
dove faceva gran pompa di sé un organo. Alle tastiere
stava seduto un donnone che pareva burro e panna. Ha
cominciato a suonare. Appresso c’era un’altra donNa che
spingeva con i piedi sul mantice: 
un suono da cattedrale è uscito dalle canne. I bambini in
coro hanno intonato un inno maestoso, la cui aria si
ripeteva a crescere con piccole varianti. Intuito
l’andamento, mi sono inserito nel coro a mia
volta… dapprima sottovoce, poi, preso coraggio, a piena
voce. Scimmiottavo anche le parole, fingendo di
conoscerle a menadito: “Antzen üt Schivvel mit nem
lauben troi wirt… ” chissà che bella storia stavo
raccontando.
Qualche giorno dopo, lo zio Trombone s’è presentato
nello spiazzo della casa a cavallo. Noemi con forza mi ha
sollevato ponendomi in groppa all’animale, anzi, quasi sul
collo.
Ero fuori di me dalla gioia!
“Vieni andiamo a Lugano da Bruno… ci sta aspettando!”
Un’ora di strada a cavallo, con lo zio gendarme… che
stralusso di meraviglia!
Non si andava per strade normali, ma si tagliava per
sentieri, lungo i campi, attraverso i boschi. Ad un certo
punto, siamo stati quasi aggrediti da un nugolo di api: lo
zio mi ha calzato in testa il suo cappello da gendarme, s’è
tolto la giacca e mi ha coperto le gambe: “Infilaci sotto
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anche le mani. Purtroppo hai una pelle così dolce che le
api ci vanno a nozze!”
“Ma ‘sta Svizzera è tutto uno spavento, altro che paradiso
terrestre!”
Per di più, il cavallo punzecchiato da quelle api fameliche
s’era imbizzarrito, ha sparato un nitrito da carica a lancia
in resta, due scalciate e via al gran galoppo! Lo zio
cercava di trattenerlo, ma chi tratteneva le api? Ci son
venute appresso fin che hanno avuto fiato. Poi
evidentemente sono scoppiate e il nostro campione ha
cominciato a rallentare tenendo sempre il collo arcuato e
trottando proprio da gran vincitore.
Non avrei mai immaginato tanta festa da parte di mio
cugino che mi stava aspettando davanti alla Chiesa con i
suoi amici e… Bedelià con tante altre ragazze. Quasi tutte
splendide, ma - è inutile dirlo - al par di lei non c’era
nessun confronto!
“Perché si va in chiesa?” chiedo io.
“È una chiesa molto speciale, dove si fanno concerti, ci
sono anche dei musicisti italiani. Vieni te li presento, sono
tutti fuoriusciti.”
“Fuoriusciti? Che vuol dire?”
“Significa che son scappati dall’Italia per evitare di finire
in prigione.”
“Ah, come quelli che si nascondono nei vagoni in transito
a Pino! Dei clandestini, insomma.”
“Ecco, bravo! Gli stessi… questi, in particolare, sono in
gran parte anarchici.”
Certo, non sapevo cosa significasse “anarchici” e non
c’era manco il tempo di farmelo spiegare: eravamo in
ritardo, bisognava dar inizio al concerto. Ho preso allora
posto sul più bel seggio del mondo: le ginocchia di
Bedelià e per schienale e poggiatesta avevo le sue zinne!
Intanto i musicisti stavano approntando gli strumenti:
Bruno s’era seduto al pianoforte. C’erano delle chitarre
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grandi come un uomo (che si chiamavano contrabbasso) e
delle grandi trombe ritorcinate, i sassofoni e poi tamburi
con piatti e tamburelli di metalli, la batteria insomma e poi
trombe più o meno simili a quelle della banda dei
gendarmi. Fra i suonatori, c’erano anche due neri con una
strana chitarra e una donna col violino. Bedelià mi ha
spiegato che quel violino si chiamava hot e la chitarra
tonda ukulele.
“Quando mi vieni a trovare al di là del lago?” le ho
chiesto.
“Purtroppo sarà difficile. Il Governo fascista ha imposto al
nostro di ritirare Bruno dall’ambasciata per via delle sue
idee un po' sovversive.”
Avrei voluto chiederle cosa significasse quel “sovversive”
,ma continuava il concerto quindi, zitti e attenti.
Non avevo mai ascoltato una musica come quella.
All’inizio mi è sembrata un po' fracassona, piena di
strombazzate perfino stridule, come da pagliacci… ma poi
mi sono sorpreso a segnare il tempo battendo le mani.
Veniva fuori una sgangherata armonia, ma mi piaceva.
“Come si chiama questa musica?” ho chiesto a Bedelià.
“Jazz - mi ha risposto - e quest’altro che sta per iniziare è
invece un blues: ascolta, fra poco cantano.”
Infatti i due neri si son levati in piedi e hanno cominciato a
tirar fuori una voce acuta da tromba e poi una tiritera
ritmata agitando le braccia e accennando passi di danza.
Anche la ragazza del violino s’è unita al canto. A sua
volta, Bruno ha tirato fuori una voce incredibilmente
pastosa e gutturale, proprio da nero.
Dopo un po’ l’intera platea era coinvolta da quel canto,
pian piano tutti quegli svizzeri così compassati
sollevavano le braccia e le muovevano a imitazione di
quanto stavano facendo i cantori ghospel sul transetto:
battevano mani e piedi e ripetevano in coro i vari refrein.
Io di certo non mi rendevo conto, ma in quel momento
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stavo assistendo a una delle prime esibizioni di musica
jazz e blues in Europa.
Dicono che da bambini i nostri sensi siano sensibili come
lastre fotografiche: ogni colore, ogni fremito di
commozione resta inciso con inaspettata profondità e
precisione.
Quell’evento avrebbe di fatto segnato il mio modo di
ascoltar musica, non accentandola solo come sequenza di
note e ritmi, ma soprattutto come gesto e azione collettiva
di un rito.
Quando, dopo una settimana, sono tornato alla stazione di
Pino, mia madre si chiedeva cosa mi fosse successo.
Continuavo a raccontare di quello che avevo visto: del mio
canto in tedesco, del cavallo imbizzarrito dalle api, del
concerto jazz e tentavo di rifare il verso a quei suoni
muovendo braccia e gambe come un grillo.
“Me car testón, - diceva preoccupata mia madre – non è
che ti hanno drogato o fatto un accidente di fattura da
tarantolati?! Acquietati, prendi un po’ di fiato e soprattutto
non raccontare più a nessuno qui intorno dei fuoriusciti
anarchici che suonavano e cantavano coi negri: è
pericoloso!”
Eravamo nel’32: io avevo compiuto i sei anni e dovevo
andare a scuola. Mio fratello Fulvio ne aveva due meno di
me; a detta di tutti, dimostrava un’intelligenza esagerata:
aveva quattro anni e leggeva e scriveva come un ragazzino
della seconda elementare. Per di più, se ne usciva con
battute e osservazioni da lasciare interdetti.
La scuola elementare di Pino non era molto prestigiosa:
c’erano solo le prime tre classi e per frequentare le altre
due bisognava salire fino a Tronzano che stava a 600 metri
di altezza. A Pino c’era un’unica maestra che insegnava a
dieci bambini e sette femminucce.
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Si chiamava Suor Maria, infatti era una suora di San
Vincenzo con una cuffia bianca che si annodava sotto il
mento. Per me, di sicuro, era come la Grande Madre
Terra: ampia, maestosa, dolce e piena di tenerezze per
ognuno. Non levava mai la voce né allungava una mano su
di noi… anche quando ci meritavamo gran pedate nel
sedere. Io mi ci trovavo proprio d’incanto con Madre
Maria, oltretutto ero di certo il suo coccolo preferito,
anche se non lo dava a vedere. Forse mi comportavo un
po’ da ruffiano arrivando sempre lassù da lei con qualche
fiore che coglievo strada facendo, lungo la scarpata. Un
giorno sono arrivato addirittura con un coniglietto che
avevo trovato fuori dal recinto, un’altra volta ho esagerato:
ho trascinato su addirittura un randagio… brutto e sporco
come un landrou.
Suor Maria ogni volta mandava grida di gioia, festosa
come una ragazzina… non parliamo poi delle espressioni
di meraviglia quando le mostravo uno dei miei dipinti;
spesso mi incitava a disegnare e colorare in classe,
coinvolgendo tutta la scolaresca.
La nostra scuola aveva trovato asilo dentro l’antico
palazzo medievale del Municipio. Fuori, nei corridoi,
stavano “rinfrescando” le decorazioni pittoriche. Dentro
uno sgabuzzino, gli imbianchini avevano lasciato i
barattoli con le vernici a tempera.
Una bambina aveva portato in classe un paio di quelle
tolle con relativi pennelli e s’era messa a dipingere su un
muro, nel frattempo Suor Maria era uscita per un
attimo… tutti noi ragazzini eravamo scandalizzati:
“Imbrattare in quel modo le pareti! Vedrai Suor Maria
cosa ti dice appena torna!
La suora entrava proprio in quell’istante, ha osservato
quella serie di sberleffi di colore e ha esclamato:
“Potrebbe essere un’idea! Che ne dite di dipingere tutto lo
stanzone?”
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L’abbiamo guardata ammutoliti: “Oh Dio, Suor Maria è
andata fuori di testa!”
La ragazzina con un grido trionfante si è rigettata a
spantegare colori sulla parete. Dopo un attimo, come
formiche scatenate, eravamo addosso ai muri impugnando
pennelli che intingevamo nei barattoli di cui avevamo fatto
rapina.
Quell’inverno aveva nevicato più del solito. Per salire alla
scuola si dovevano inforcare gli sci. Io e mio fratello
Fulvio avevamo imparato a muoverci su quegli aggeggi
abbastanza rapidamente. Non si trattava certo di sci come
li intendiamo oggi: erano “tappelle”, cioè tavole di legno
scolpite alla bella e meglio che si affrancavano agli
scarponi con molle molto rudimentali. Non servivano a
fare dello sport, ma soltanto a muoverci senza affondare
nella neve. Le racchette erano bastoni di frassino con due
cerchietti di vimini infilati sul fondo.
Per riuscire a manovrare con quelle tappelle, bisognava
possedere un bel talento: noi tutti in quella valle,
dovevamo averne a dismisura giacché riuscivamo a
lanciarci giù per certe scarpate da far mancare il fiato.
Verso febbraio, nessuno se l’aspettava, c’è stata un’altra
tremenda nevicata che aveva superato il metro. I camion
non transitavano più. Pure la ferrovia era bloccata: una
slavina era franata proprio fra le due gallerie di Zenna e la
neve intasava anche la via per Luino. Ci si muoveva solo
con gli sci e con le slitte. Noi ragazzini non ci si rendeva
conto di cosa volesse dire trovarsi completamente
isolati; neanche per via lago si poteva raggiungere la costa
svizzera o quella di Luino: tirava un vento di maestrale
che sollevava onde da marenca tanto che la notte avanti il
motoscafo della Finanza aveva perso gli ormeggi e,
andando a sbattere contro gli scogli, s’era inabissato.
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Per noi era la pacchia: si sciava dappertutto, battaglie con
le palle di neve e poi quell’avventura di trovarci tagliati
fuori ci faceva sentire come naufraghi su un’isola deserta.
Anche la gente della valle non era preoccupata più di
tanto, un po’ di scorta nei tre o quattro negozi d’alimentari
c’era ancora. Il macellaio inoltre poteva disporre di agnelli
e capretti a volontà e soprattutto i contrabbandieri adesso
avevano il via libera: i finanzieri di stanza sul confine
infatti non erano in grado di muoversi con sufficiente
agilità su quella neve, quindi se ne stavano in caserma e
gli spalloni coi loro sci fatti in casa andavano e venivano
con delle bricolle sulla schiena da affondare perfino la
slitta di Babbo Natale con tutte le sue renne.
Proprio in quella settimana è circolata la voce che il
maresciallo che comandava il presidio dei carabinieri
aveva ricevuto l’ordine di lasciare il comando e di
trasferirsi in “altra località”. Qualcuno gli aveva tirato il
roccolo, come si dice. In poche parole, aveva mandato una
lettera al comando di Luino, accusando il povero
maresciallo di essere addirittura in combutta con i
contrabbandieri e di chiudere un occhio davanti al
continuo espatrio di sovversivi e delinquenti comuni
braccati dalla giustizia.
Una carognata ignobile. In paese tutti erano convinti che la
frappata zozza gliel’avesse tirata il tenente dei finanzieri.
Altri erano certi che la spiata fosse partita dal vice
capostazione che veniva da Maccagno tutti i giorni a dare
il cambio a mio padre.
“Quello è un fascio fanatico. – avvertiva sempre papà –
Attenti che ha le mosse di un serpente!”
“Sì, ma deve stare attento anche lui! – ribatteva il
cantoniere – Uno può anche scivolare sotto ad un treno,
specie quando c’è tutta ‘sta neve!”
Di lì a qualche giorno, i cantonieri son riusciti a liberare la
ferrovia dalla neve, anche un trattore con lo spazzaneve
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era arrivato a ripulire la strada provinciale. Ci trovavamo
di nuovo liberi… peccato.
Così ci c’è stato il trasloco: il solito vagone coi mobili
smontati, la solita stufa che scivolava giù andando a pezzi.
La moglie del maresciallo era molto triste: abbracciava
mia madre e tutte le donne del paese che erano scese a
salutare. Anche il figlio del maresciallo, Nanni, il nostro
capo di scarpignate e di giochi era triste e tratteneva a
stento le lacrime. A mia volta sentivo un groppo allo
stomaco da piegarmi in due.
Ma io sapevo bene che di tutta quella famiglia chi mi
sarebbe mancata di più sarebbe stata senz’altro la sorellina
di Nanni, Beatrice, mia compagna di banco a scuola… con
quegli occhi neri, grandi… che mi rubava sempre le
gomme… mi pasticciava i disegni… mi tingeva il naso
con l’inchiostro, ma poi, quando si tornava giù alla
stazione, ci si teneva per mano e si scivolava finendo a
rotolare insieme sul largo ciglio erboso della strada e ci si
abbracciava ridendo. Spesso nel rotolare ci prendevamo
delle botte pesanti, allora ci si aiutava l’un l’altra a tirarci
in piedi. Io le cingevo la vita, per reggerla… lei mi
sbaciucchiava.
Forse quegli incidenti li provocavamo apposta noi o forse
erano addirittura finti!
“Ma adesso che Beatrice se ne va, con chi rotolerò io
lungo la sgaladra a prato? Chi abbraccerò? Chi mi aiuterà
a rimettermi in piedi?”
Gli anarchici van via
All’improvviso, con il primo viaggio del battello che
riprendeva servizio, abbiamo visto arrivare Bruno. Era
sceso senza Bedelià. Come mai?
Abbracci, sbaciucchi… io mi aspettavo almeno una stecca
di cioccolata e invece, niente. “Qui c’è qualcosa che non
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va!” ho pensato subito. Lui e mio padre parlavano
bisbigliando fitto.
Poi l’indomani mia madre mi ha preso in disparte e mi ha
detto sottovoce: “Car testón, il papà ha bisogno un grande
favore da te: dobbiamo far arrivare una lettera a uno di
quegli amici che tu hai conosciuto a Lugano… ti ricordi in
quella chiesa?”
“Ah sì, dove suonavano e cantavano musiche da neri!”
“Bravo! Tu devi andare con Bruno di là e io ti cucio una
lettera sotto la maglia. A te i finanzieri non guardano di
sicuro!”
“Va bene.”
“Non devi aver paura…”
“No, non ne avrò.” E ho stretto le ginocchia una contro
l’altra per non far vedere che mi sbattevano per il tremore.
Per tutta la traversata sul battello sono rimasto seduto
sottocoperta.
“Vai di sopra con gli altri bambini! - Mi diceva il capo dei
marinai – Cos’è, non ti senti bene?”
E io: “No, è che star di sopra mi viene da vomitare. Soffro
il mal di mare.”
E il marinaio: “Peccato… uno che sta sul lago e non può
manco andare sul battello!”
Una volta di là, con una corriera, abbiamo raggiunto
Brissago. Gli anarchici stavano facendo trasloco anche
loro. Il governo italiano s’era lamentato con quello
svizzero per il fatto che permetteva a dei sovversivi di
starsene proprio lì, affacciati alla frontiera: dovevano far
fagotto, andarsene fuori dal Canton Ticino e anche dalla
Svizzera. Così mio cugino era molto arrabbiato e l’ho
sentito dire: “Bel Paese questo! Pulito, ordinato… è
proprio il cesso più pulito d’Europa! Se la fanno sotto a
ogni coglione che sbraga ordini!”
Dai loro discorsi sono venuto a scoprire che quella non era
la prima volta in cui gli anarchici dovevano subire una
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simile violenza. Già una trentina di anni prima, al tempo
cioè del famoso anarchico Pietro Gori, una gran quantità
di rifugiati politici era stata costretta ad andarsene da
Lugano. Il re e il governo del tempo avevano fatto
pressione sul parlamento svizzero perché a quei sovversivi
fosse negato il diritto di asilo.
Così, ricordando quella prima diaspora, siamo arrivati al
Caffè Lungolago; Bruno mi ha accompagnato nella
toilette, lì mi sono tolto la maglia e ne ho indossata
un’altra che tenevo nella borsa. Nel corridoio del caffè
c’era uno degli anarchici che ha afferrato subito la mia
maglia con cucita la lettera e se l’è ficcata in saccoccia.
Poi mi ha preso in braccio, mi ha stretto forte e mi ha
detto: “Ringrazia tuo padre, dagli un bacio quando lo
rivedi. Digli di stare accorto, non deve esporsi!”
“Sì, glielo dico.”
Siamo usciti… c’erano dei camion che trasportavano la
roba degli indesiderati. Prima di partire, si sono messi tutti
in fila lungo l’imbarcadero, di là in fondo al Lago si
vedeva l’Italia…
“Adesso cantano - pensavo io – batteranno il tempo con le
mani e accenneranno ad una danza come l’anno scorso in
chiesa.”
Con mia sorpresa hanno invece intonato una specie di
valzer dalle parole molto tristi con le quali davano l’addio
al lago e agli amici che erano venuti a salutarli.
C’era della gente lì del Canton Ticino, ma anche qualcuno
che veniva da fuori, dagli altri Cantoni. Appena si son
mossi i camion e il pullman, hanno fatto segni di saluto
con le braccia e qualcuno ha persino applaudito. Stavo per
applaudire anch’io, ma Bruno mi ha fermato afferrandomi
un braccio: “Non ti muovere. Ci sono poliziotti in
borghese arrivati dall’Italia… è meglio che non ci
scopriamo!”
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Dopo tanti anni, finita la guerra, ho sentito un sacco di
volte intonare quella canzone degli anarchici che fa:
“Addio Lugano bella
Addio Lugano mia
cacciati senza colpa
gli anarchici van via”
M’è capitato di cantarla a mia volta, ma non m’è mai
riuscito di eseguirla per intero: ad un certo punto, mi si
sgranava la voce e potevo solo fingere di cantare. Ogni
volta mi ritrovavo lì, sull’imbarcadero, bambino che
tentavo di applaudire e mio cugino che mi bloccava e mi
sussurrava: “Cerchiamo di non dare nell’occhio!”
L’amico francese
Anni dopo, nell’estate del ’44, quando si era appena
conclusa la Grande Guerra, è arrivato a trovarci,
proveniente dalla Francia, un uomo che ha abbracciato
mio padre con incredibile affetto… erano amici fin da
ragazzi, infatti si erano conosciuti a Montpellier dove mio
padre a 16 anni era emigrato per trovar lavoro in
un’impresa edile. Insieme si arrampicavano ogni giorno
sulle impalcature di grandi caseggiati in costruzione nel
ruolo di “magüt”, cioè garzone-muratore.
In quel tempo, nel 1913, si susseguivano cruenti lotte per
l’emancipazione operaia, per la conquista di sacrosanti
diritti, per il salario e soprattutto per la sicurezza nelle
fabbriche e sui cantieri.
Gli scioperi e le relative manifestazioni venivano
immancabilmente troncate con ferocia inaudita: gli operai
venivano caricati non solo dalla polizia, ma anche
dall’esercito con l’intervento di truppe a cavallo. I
sindacati alla fine erano riusciti però ad ottenere qualche
vantaggio.
Proprio il giorno in cui si riprendeva il lavoro al cantiere,
un’intera impalcatura è crollata di schianto e tutti gli
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operai, circa una quindicina, precipitavano al suolo. Mio
padre era fra loro. Nel disastro ha avuto la prontezza di
afferrare una fune che pendeva da un trabattello.
Purtroppo la struttura con scale è rimasta travolta da un
ulteriore crollo. Dieci superstiti, in fin di vita, sono stati
portati all’ospedale. Mio padre era il meno malconcio:
aveva una gamba fratturata in più punti e una gran botta
alla schiena così da ritrovarsi semi paralizzato. In cinque
erano morti.
Dimesso dall’ospedale, è stato accolto nella casa di
Andres, così si chiamava il suo compagno magüt… la
madre di lui lo ha curato proprio come fosse suo figlio.
Mio padre ripeteva spesso che a quella donna doveva la
vita.
Rimessosi, da Montpellier si è trasferito in Germania
ancora in compagnia di Andres: avevano trovato lavoro in
un cantiere ad Hannover.
Stava per esplodere la Prima Guerra Mondiale: Andres se
ne è tornato allora in Francia, mio padre in Lombardia.
Due anni dopo anche il nostro Paese entrava in guerra e,
prima che compisse i 19 anni, mio padre si è ritrovato a
combattere in prima linea sul Carso.
Dai loro discorsi ho scoperto che quella lettera, che da
ragazzino mi avevano cucito sotto la maglia e che io avevo
trasportato a Lugano per gli anarchici, era indirizzata
proprio a lui. Andres era diventato il responsabile
dell’Associazione per gli aiuti ai fuoriusciti politici che la
Francia aveva raccolto in gran numero. Naturalmente mio
padre sollecitava Andres e la sua organizzazione perché
accogliesse quei profughi, trovasse loro una sistemazione
e un lavoro.
Tanto mio padre che Andres avevano militato nel Partito
Socialista prima e appena dopo la guerra. Nella solidarietà
verso i perseguitati, non importa a che partito o gruppo
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democratico appartenessero, il movimento dei lavoratori
in quel tempo aveva trovato la propria ragione d’essere.
La conversa e Fulvio nel fango
All’inizio del secondo anno, nella scuola elementare di
Pino, era arrivata un’assistente della suora madre, il suo
nome era Irene. Non era ancora suora, ma solo conversa,
cioè una novizia. Infatti teneva ancora tutti i suoi capelli
nascosti sotto la cuffia. Indossava una specie di camicione
leggero di qualche misura in più a coprire quel suo corpo
sottile e armonioso. Si muoveva con grande agilità
scuotendo le vesti come avesse dentro spifferi d’aria.
Mio fratello Fulvio non avrebbe dovuto ancora frequentare
la scuola, ma vista la sua particolare facilità
nell’apprendere, la suora madre l’aveva accolto in classe:
sperduti in capo al mondo come ci trovavamo, mai
nessuno avrebbe potuto farci caso.
Il 21 di marzo, per il primo giorno di primavera, si andava
sempre per campi lungo la collana dei boschi a far la
“Narcisata”, cioè a raccogliere gran mazzi profumati di
narcisi.
Quel giorno tutti noi della scuola siamo saliti fino ad
Arcomezzo, dove le spianate apparivano sbiancate da
migliaia di quei fiori. Eravamo stati affidati ad Irene che di
certo fra tutti noi appariva la più scatenata: correva,
saltava sollevando con le mani la lunga sottana e la
sbatteva di qua e di là come a voler scacciare nugoli di
vespe. Ci incitava a raccogliere anche fiordalisi, mughetti
e giacinti… dopo un paio d’ore tornavamo a valle con
mazzi di fiori più grandi di noi. La giovane conversa
inoltre ci provocava lanciandoci addosso tappelle di
muschio e mazzi di cipolle selvatiche, poi si dava alla fuga
con tutti noi appresso come tanti cuccioli di segugio.
I contadini avevano issato muriccioli per contenere
eventuali smottamenti del terreno e la conversa si divertiva
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a superarli con un sol balzo, invece per noi era più
difficile: inciampi, gran ginocchiate e ruzzoloni!
Ad un certo punto si è levato un grido: Fulvio, nello
scavalcare uno di quei muriccioli non s’era reso conto che
al di là di quel ruzzo di pietre c’era un fosso profondo e
ripieno di una fanghiglia putrida e vi era cascato dentro.
La novizia è subito accorsa gridando spaventata: Fulvio
s’era letteralmente inzuccato in quella poltiglia. Rischiava
di soffocare. Irene quindi non ci ha pensato un attimo e si
è gettata nel pantano a sua volta, così com’era, tutta
vestita. Immersa fino al collo, ha sollevato mio fratello di
peso e l’ha gettato sull’argine erboso.
A ‘sto punto ha tentato di aggrapparsi alla sponda del
fosso, ma ad ogni tentativo gli argini le franavano nelle
mani. A pochi metri, c’era un albero abbattuto con
appresso qualche ramo mozzato dal tronco. Un volta
sollevata la frezzula d’albero più lunga, ne abbiamo fatto
scivolare la cima nel fosso, così che Irene lo potesse
afferrare. Poi tutti insieme, abbrancati al ramo come i sette
Nani (anche se in verità eravamo in dodici) ci siamo messi
a tirare come disperati finché la nostra novizia non ha
cominciato a riemergere. Era impastata di fango dai piedi
alle guance… il suo camicione le si era incollato al corpo
come un calco.
Ancor oggi mi vergogno per il mio comportamento: c’era
il mio fratellino lì lungo-disteso sul terreno, mezzo
asfissiato che sanguinava dalla testa ai piedi… ed io avevo
occhi solo per quell’impasto prodigioso fatto di abiti,
fango e corpo di ragazza del quale si riuscivano a leggere
tutte le forme tonde e piane più che se non fosse stata
nuda.
Dopo qualche attimo mi sono reso conto che non ero il
solo ad apprezzare quella prodigiosa metamorfosi. Una
delle ragazzine ha addirittura esclamato: “Irene, hai visto
che bello? Ti sono spuntate le zinne con in cima i piroli!”
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La conversa non si preoccupava più di tanto: in fondo
eravamo bambini, quindi nessuno scandalo. Lei era solo
molto agitata per quel bozzo sulla nuca di Fulvio fessato
da una ferita che buttava sangue. L’ha sollevato fra le
braccia e correndo si è diretta verso un cascinale. Lì
appresso c’era un abbeveratoio alimentato da una fonte: ci
è saltata dentro tutta, con il ragazzino in braccio e ha
cominciato a lavarlo a partire dalla nuca e poi lo sbatteva
in su e in giù cercando con quel suo gioco di scioglierlo
dallo shock che l’aveva ammutolito.
Di lì a poco, dalla casa che stava sopra le stalle è scesa la
reggiora del podere. Di lassù aveva già visto e capito il
problema perciò arrivava con un paio di lenzuola e delle
coperte. Era seguita da una ragazzina alla quale, appena
resasi conto della ferita sanguinante di Fulvio, ha ordinato
di andare a prendere in cucina delle fasce di lino e
dell’alcool. Irene allora ha affidato mio fratello alle cure
della reggiora e, dopo aver preso lenzuola e coperte,
spallucchiando acqua dappertutto, è saltata fuori
dall’abbeveratoio e se ne è andata correndo nella stalla.
Mio fratello intanto, poverino, urlava come una poiana
spellata mentre la donna gli disinfettava la ferita. Dopo
qualche minuto, tutta avviluppata nella coperta, è uscita la
conversa. Mio fratello con la testa fasciata è poi stato a sua
volta infagottato in un telo.
L’avventura sembrava finita lì. Invece tre giorni dopo
Fulvio si sente male: è bianco smorto in faccia, vomita e
ha un gran febbrone. Il medico a Pino viene per tre giorni
alla settimana ed è andato via proprio questa mattina;
quello di Tronzano ha dovuto correre a Luino dove sua
madre ha avuto un infarto.
Mio padre telegrafa alla stazione di Maccagno:
“Trovatemi un medico!”
“C’è, ma è in giro per visite e non riusciamo a
rintracciarlo.”
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Intanto il bambino sta peggiorando: la febbre è salita a
quaranta, non si capisce cosa gli sia preso, una
congestione, un’infezione intestinale, una meningite:
nessuno pensa alla ferita alla testa.
La mamma continua a porre delle pezze gelate sul capo
del suo bambino e altre calde ai piedi, poi si lascia andare
distrutta su una sedia: “’Sto ragazzino mi sta morendo e
nessuno ci viene in aiuto - dice fra le lacrime – bisogna
portarlo subito con una macchina all’ospedale di Luino”
“C’è il macellaio che sta venendo giù con il suo
camioncino” la tranquillizza mio padre.
Ma lei non da retta più a nessuno: è lì tutta tesa come in
trans ad ascoltare qualcuno che le sta parlando. Ora sorride
rasserenata. Quindi si rivolge a mio padre: “Stai tranquillo,
va tutto bene… Fra un attimo arriva qualcuno che lo
salva!”
“Chi arriva?”
“Un medico molto bravo. In moto!”
“In moto?”
“Sì, me lo ha detto mia madre. Era qui un attimo fa!”
Mio padre l’accarezza sul viso. Di sicuro sua moglie sta
andando via di testa per la disperazione.
“Eccolo, sta arrivando!- la mamma salta in piedi e va di
corsa alla finestra -È lui!”
Nel piazzale della stazione s’è fermata una moto. Ne
scendono il maresciallo di Finanza e un signore con una
valigetta. A passo affrettato salgono le scale. Appare il
maresciallo: “Una gran fortuna! È il dottore di Mugadino.
Ero entrato in farmacia per chiedere se sapessero dove
abitasse il medico condotto e incoccio proprio lui che sta
uscendo in quell’istante.
“Infatti lo aspettavamo - dice la mamma con molta
naturalezza – ma da come me l’aveva descritto mia madre,
dottore non me la immaginavo di certo così giovane. Si
accomodi, ecco il bambino: ha quasi quaranta di febbre!”
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Il medico lo visita… lo osculta, lo palpa un po’
dappertutto. Quando lo tocca sulla testa, Fulvio manda un
gemito e scuote il capo. Il dottore estrae dalla borsa un
paio di forbici e inizia a tagliarli i capelli. Dopo poco vedo
mio fratello Fulvio con la chierica, proprio come un
fraticello! Il medico disinfetta con del liquido rosso, poi
afferra il bisturi e incide, lui manda un urlo da locomotiva
all’uscita di galleria. Dopo pochi minuti misura la febbre
che fortunatamente è calata di botto. È fuori pericolo.
“Un’infezione molto seria – commenta il medico – c’era il
rischio di una setticemia diffusa e anche peggio. Tornerò
domani per cambiare la medicazione. Gli ho lasciato della
garza nella ferita che deve spurgare. Mi saluti sua madre…
mi dispiace molto, ma non ricordo dove io l’abbia
conosciuta.”
“In nessun posto!” risponde la mamma.
“Perché?”
“È morta da tre mesi e prima da queste parti non c’era mai
venuta.”
Il medico si ammutolisce… in quel momento pensa di
sicuro di avere a che fare con una pazza. Mia madre
continua nelle sue spiegazioni: “Ecco, qui su questa sedia
c’ero io, invece mia madre si era seduta lì, sul letto, vicino
al bambino. Sorridendo mi ha detto: - Pinin (Pinin sono io)
non ti preoccupare… piantala di piangere. Tra poco arriva
un dottore che ha una gran testa, un professore chirurgo…
arriva in moto e te lo tira fuori in quattro e quattr’otto il
tuo ragazzino! -”
Mio padre cerca di condir via la questione: “Poverina ha
avuto un’allucinazione!”
“È strano – dice il medico – quella in chirurgia è proprio la
mia specializzazione. Infatti io non sono il medico
condotto, mi trovavo a Mugadino per far visita a mio
padre… è lui il medico condotto. Io sto facendo la
specializzazione a Milano, al Fatebenefratelli e ho proprio
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l’intenzione di prendere la docenza. È curioso che sua
moglie, se pure in stato di trans, abbia azzeccato questi
particolari… molto strano, da studiare direi.”
“Non come un fenomeno da baraccone, spero! - ride la
mamma – In verità m’è successo altre volte: prima che
morisse mia madre, veniva a darmi le avvisate una mia
sorella morta da bambina e qualche volta anche un
bisnonno che io non ho mai conosciuto.”
“Lascia andare il dottore che s’è già scomodato a venire
qui di corsa!”
“Ha ragione mio marito, le stavo attaccando un bottone da
paranoica, ma mi creda, io non sono affatto pazza.”
“È appunto quello che dicono tutti i pazzi!” ha tagliato
corto mio papà.
I nonni
Avevo due nonni. Il primo, il padre di mio padre, un vero
gigante, di mestiere aveva sempre fatto il muratore, come
suo padre e, prima di lui, suo nonno e il bisnonno. In paese
lo chiamavano “Maìster”, cioè maestro, nel senso di
capomastro. Anche mio padre, come già ho accennato,
aveva cominciato come muratore. Solo dopo la guerra del
‘15-’18 s’era iscritto ad un istituto tecnico ed era
approdato in Ferrovia. “Possiamo imboscarci dentro tutti i
mestieri più strambi di ‘sto mondo – diceva mio padre con
orgoglio - ma gira e rigira restiamo sempre una razza di
muratori”… anzi, lui diceva “comacini” che non vuol dire
muratori di Como, ma viene da faber cum macina, cioè
operai che agiscono servendosi di macchine: trabattelli e
centine mobili, gru, argani e così via. Aggiungeva anche
che tutti noi della razza dei Fo l’avevamo ormai nel
sangue questo mestiere. Nelle mani e nella memoria.
Esiste una pratica che diventa rito e si trasmette fin dentro
al cervello di generazione in generazione. Compiamo
gesti, azioni che eseguiamo quasi per istinto e che nessuno
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ci ha mai insegnato: sono già impressi nel nostro codice
genetico.
A mia volta sono convinto di possedere il DNA del
muratore.
Quando ero ragazzino questa mia predisposizione
l’avvertivo nel piacere che mi dava l’afferrare una pietra e
cercare di modificarne la forma con colpi di scalpello e di
mazza.
Eguale emozione mi ha sempre procurato l’impastare terra
creta.
I numerosi trasferimenti a cui era costretto mio padre, ci
hanno portati a Oleggio, presso Novara. Vicino alla casa
dove abitavamo, c’era una fornace con relativa fabbrica di
mattoni e di laterizi in genere. Io e mio fratello Fulvio ci
trascorrevamo gran parte della giornata. Eravamo entrati
nella manica del padrone che ci insegnava la tecnica
dell’impasto e della cottura. Inoltre ci aveva messi al
tornio, quello per plasmare i vasi. Era un gioco davvero
magico: il tornio non serviva solo per foggiar vasi, otri e
ciotole, ma, modificando sapientemente la tecnica della
manipolazione, si riuscivano ad ottenere forme più
complesse: una testa e perfino un busto con tanto di petto,
ventre e glutei.
Ma, con mio grande dolore anche da Oleggio ci è toccato
traslocare. Anzi, me ne sono dovuto andare via da solo.
Mia madre aspettava un altro figlio (che poi si è rivelato
essere femmina) e non ce la faceva più a badare a me e a
Fulvio. Perciò mi hanno spedito dall’altro mio nonno che
stava in Lomellina, a Sartirana, giusto per dare il tempo a
mia madre di partorire un po’ più tranquilla
Il soprannome del nonno di Sartirana era Bristìn che vuol
dire “seme di peperone”. Ho scoperto quasi subito la
ragione di quel titolo: le battute e i commenti di mio
nonno bruciavano davvero la pelle come sferzate di frusta.
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Ero proprio scocciato di dover rimanere chissà quanto
tempo in quella terra piatta senza manco una collina…
nugoli di insetti che ti pizzicavano e bordate di moscerini
che ti toccava ingoiare perfino dal naso e un gran pantano
dappertutto che chiamavano risaie.
Ma quando sono arrivato alla cascina del nonno, il mio
umore è cambiato all’istante. Prima di tutto, addossato al
muro del casone c’era un grande portico dalle cui arcate
pendevano a grappoli migliaia di frutti e ortaggi messi a
seccare. Sembrava una maestosa decorazione da festa
grande.
In mezzo all’aia c’era un enorme cavallo da tiro, un
bertocco. Non avevo mai visto un cavallo di quelle
dimensioni: pareva un elefante. Vicino a lui, c’era una
puledra agile e svelta che caracollava di qua e di là
provocando un asino bianco che scalciava più per gioco
che per risentimento.
Poi, di là da un canale che attraversava il podere, si apriva
un giardino con gli orti e una quantità incredibile di alberi
da frutto. Nonno Bristìn mi ha preso per una mano e
insieme abbiamo attraversato il canale su un ponte di
legno a schiena d’asino. Siamo capitati subito sotto un
gran albero… era un susino, ma la cosa incredibile è che
ad ogni ramo erano appese prugne diverse di forma e
colore: gialle, rosse e blu. Mio nonno mi spiegava che
quello era un “innesto plurimo”. Era opera sua. Non avevo
mai visto un portento simile! Sembrava come
l’incantesimo di una favola. Appoggiata al tronco
maggiore c’era una lunga scala; il nonno mi ci ha fatto
montare e mi incitava: “Forza, vai su ad assaggiarle.
Sentirai come sono diverse di sapore una dall’altra.”
Ed era proprio così. Ho dato un morso ad una prugna
scura, mi è schizzato sulla faccia un sugo rosso,
profumatissimo; sono passato ad assaggiare le altre su
diversi rami. La susina gialla era succosa e di un dolce
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delicato, quella rossa pareva immersa nel rosolio. Ce
n’erano anche di grosse, gonfie, ma avevano un gusto
amaro e aspro. Le più succulente erano quelle gialle a
grappoli… piccole, con un nocciolo tenero che si poteva
masticare.
Ma sono rimasto senza fiato quando ho scoperto un gran
ramo che dava “mugnaghe”… incredibile: un innesto di
albicocche su un pruno!
“Nonno, sei un mago! Quando lo racconterò ai miei
compagni di gioco, nessuno mi crederà. Mi daranno del
contaballe, un titolo che oltretutto mi hanno già
appioppato in un sacco di occasioni!”
Lungo i vialetti che portavano alle varie coltivazioni, si
contavano un numero infinito di piccole piante da fiore.
Ogni tanto spuntavano getti altissimi di iris viola e spadoni
blu. Al quadrivio, nel centro del podere, troneggiava un
gran bersò di rose. Sul fondo, molto lontano, passava la
ferrovia: “Grazie nonno – ho detto – per quei binari. L’hai
fatto per farmi sentire a casa, vero?”
“Bravo! – Ha esclamato lui – Sei spiritoso! Meno male,
sei proprio un Bristìn anche tu!”
Il giorno dopo ho scoperto che nonno Bristìn faceva
l’ortolano. Non solo coltivava legumi, verdura e frutta, ma
le andava anche a vendere in paese e soprattutto nelle
fattorie e nei cascinali della zona. Al mattino, che era
ancora buio, la nonna mi è venuta a svegliare. Mi ha
portato giù in cucina, uno stanzone con il camino grande e
fondo come un armadio di sacrestia; intorno al tavolone
c’erano cinque o sei ragazzi che stavano facendo
colazione. Mi hanno salutato con frastuono: ognuno aveva
voluto prendermi in braccio e naturalmente sbattermi in
aria come un pupazzo. Erano i miei zii e avevano una
forza terribile, la nonna li ha bloccati preoccupata: “Fermi
lì che rischiate di fargli del male!”
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La nonna si chiamava Maria, ma tutti la chiamavano “la
bella Maria”; aveva 55 anni e, pur avendo partorito 9 figli
e faticato per tutta la vita nei campi e nelle filande, era
ancora degna del soprannome che portava: dolce e gentile,
si muoveva con una grazia inimmaginabile.
Nonno Bristìn era fuori nell’aia, aiutato da Aronne, il
figlio maggiore, stava attaccando il cavallo al carro delle
verdure. Tutti insieme, zii e lavoranti, si sono avvicinati al
carro per caricare le ultime ceste di frutta e mazzi di fiori
appena colti. Il nonno mi ha afferrato e sollevato fino a
piazzarmi sul dorso dell’enorme bertocco, quindi mi ha
consegnato le redini da tenere fra le mani: “Guida tu!” mi
ha ordinato.
“Non son capace, nonno! Non l’ho mai fatto.”
“È semplice: quando vuoi che il cavallo giri a destra, tu tiri
questa corda… per farlo voltare a sinistra, tiri
quest’altra… perché si fermi, dai uno strattone a tutte e
due insieme.”
“E per fare che torni a camminare?”
“Devi mollare un po’ le redini e sbatterle. Con i tacchi dai
due o tre botti sui suoi fianchi e soprattutto devi gridare:
Vai! Iha, iha!”
“Ci provo, ma tu nonno dove ti metti?”
“Sul carro… a farmi una dormitina!”
Ero terrorizzato: “Ma almeno dimmi che strada devo
prendere!”
Lo zio Aronne mi rincuorato: “Guarda, per evitare che tu
ti perda, qui c’è la carta con segnata la strada… è quella in
rosso. Tu la segui e fai fermare il cavallo dove ci sono
questi segni gialli. Non puoi sbagliare!”
“Come non posso sbagliare?!”
Erano tutti matti in quella casa: accidenti, non ho
nemmeno sette anni e mi fanno portare in giro per strade
mai viste ‘sta bestia di cavallo col carro e mio nonno che
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ci dorme dentro! E devo pure leggere una carta
geografica!
“Scusa, zio Aronne: che segno è questo?”
“È un ponte, un grande ponte sul Po.”
Mi veniva da piangere, ma tutti in coro gli zii si son messi
a cantare: “Il fantolino è un gran fantino!
È un carrettiere che non può sbagliare.
Il nonno dorme come un ghiro
e lui, tranquillo, lo porta in giro!”
Una manata sul sedere e via che il cavallo sbatte i suoi
zoccoloni al suolo e parte lento e inarrestabile. Svolta a
destra… dritto, su per il ponte… giù fino alla prima
fattoria. Non è da crederci: ce l’ho fatta! Quel casolare era
grande come un borgo: un largo spazio in mezzo, con
tutt’intorno un’enorme struttura a quadriportico che
ospitava dieci e più famiglie. Come se lo stessero
aspettando, da ogni lato ecco che spuntano donne e
bambini e vengono incontro al carro del Bristìn. Lui le
saluta tutte per nome e per ognuna ha una battuta
complimentosa o ironica, sempre con uno sfondo di
bonario sfottò. Le provoca chiedendo dei mariti, dei
morosi e subito inventa lazzi sui loro rapporti… il tutto
gettando in aria e riprendendo al volo da autentico
giocoliere legumi e verdure. Io allora non afferravo certo
la tempesta di allusioni sessuali, spesso oscene, che il
nonno scaraventava intorno con il far trombolare zucchini,
enormi carote e cetrioli tempestati di bernoccoli… il tutto
provocando grasse risate con esplosioni in falsetto e vere e
proprie crisi di fourir.
“Oh dio, basta Bristìn! - Supplicava un donnone tenendosi
il ventre - Me la faccio addosso!” e così dicendo, afferrava
le sottane sventolandole e scopriva sul selciato un lungo
rigolo di pipì.
Le donne sceglievano la merce… erano quasi tutte
primizie che il nonno otteneva coltivandole dentro le serre.
Milano
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Pesava frutta e verdura con la “balanza” e ci aggiungeva
sempre qualcosa in più: una manciata di carote, del
rosmarino, una grande zucca o un fiore, inventando spesso
dichiarazioni d’amore paradossali, ma sempre con qualche
tocco poetico. Era chiaro che tutte quelle clienti venivano
in così gran numero intorno al suo carro soprattutto per
godersi lo spettacolo di quello spassoso ciarlatore. Ho
sempre avuto il dubbio che spesso comprassero roba della
quale non avevano ‘sto gran bisogno quasi per ripagare il
sollazzo che il Bristìn riusciva a regalare loro.
Il rito della vendita con farsa si ripeteva per tutto il
“percorso mercatale”. Ogni tanto il nonno mi faceva
scendere dal gran cavallo e mi caricava in alto, sul carro,
in cima alle ceste di cocomeri e meloni. Le donne
chiedevano chi fosse quel ragazzino e lui faceva tutta una
pantomima da stupito come se mi scoprisse lassù in
quell’attimo: “Non so chi sia e da dove sia spuntato ‘sto
marmocchio! – esclamava – Qualche ora fa una donna me
l’ha ammollato dicendo che è sangue del mio sangue! Il
padre è uno dei miei cinque figli maschi, la giovinotta non
si ricorda quale. “Ma dove? Come? Quando è successo?”
le chiedo io. E la ragazza mi fa: “È capitato nei boschi
sotto Po… stavo andando lungo l’argine a raccoglier
funghi: pioppaioli e galletti. All’istante, oh tu guarda che
fortuna!, scorgo un castolazzo ritto e sodo. Un porcinotto!
Vado golosa per raccoglierlo, batto la fronte su un braccio
di pioppo… un botto che mi fa piegare le ginocchia e cado
seduta, infilzata dal fungo castolazzo. Mi becca una
vampata dal basso fino al cervello. Dio che sbirola! Sono
rimasta come imbesuita. Sento un gran gemito e davanti ai
miei occhi, dall’erba fitta, spunta all’improvviso una
faccia e poi le spalle col busto. Dietro alle mie natiche
scopro due cosce con le gambe: “Santo cielo, un fungo
nato da un uomo!” Il ragazzo dal fungo-infilza-femmine
respira e geme ripetendo: “
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E io: “Che ci fai qui tu, sotterrato in mezzo a ‘sta
verzura?” - “Mi ero sguazzato nel fiume e mi ero coperto
di foglie… stavo dormendo e quando tu di schianto ti sei
infilzata nel mio frullo, mi sono sentito svenire…” - “E se
mi hai messo incinta?” - “Vuol dire che lo chiameremo
Porcino!” - “Io mi son disciuccata con rabbia da quel
birolo, – racconta la ragazza – ho tirato fuori dalla mia
sacca il falcetto e ho gridato: “Va bene! Io ti ho regalo un
figlio, ma mi porto via il fungo!” e così con una ranzata
secca l’ho mozzato via dal suo padrone.” “Eccolo qua! grida mio nonno Bristìn– Donne approfittate! - e mostra
‘sto porcino da sollazzo – Non lo vendo, ma ve lo posso
affittare una settimana a testa. Piantatelo nel bosco e
inciampateci sopra quando e come volete!”
È inutile dire che le risate si sprecavano, le donne stavano
al gioco e si portavan via il fungo fingendo di
contenderselo a vicenda. Certo non mi rendevo conto
allora, ma stavo assistendo a uno spettacolo davvero
straordinario, un’ineguagliabile lezione di teatro
all’improvviso.
“Tutto dipende dai maestri che hai avuto.- diceva Luciano
di Samosata, il grande satirico greco – Ma attento, spesso i
maestri non sei tu a sceglierteli, sono loro che scelgono
te!”
Mio nonno Bristìn mi aveva scelto come suo allievo di
clowneria tenendomi in groppa a quel gigantesco bertocco
manco fossi lo gnomo Patapò!
Ma il Bristìn non giocava solo alla buffoneria.
All’improvviso scoprivi che il suo orto era un’Accademia
della scienza agraria. A parte gli innesti d’alberi, aveva
realizzato matrimoni incredibili fra razze diverse di
pomodori, peperoni e cetrioli.
“Vedi – mi spiegava mentre con un coltello affilato
spalancava quegli ortaggi come fossero corpi d’animali da
sezionare per mostrarmi la loro struttura - ci sono anche
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qui maschi, femmine e perfino i senza sesso. Anche loro
son creature come noi. Sentono la paura e forse anche il
dolore, provano simpatia e repulsione l’un l’altro come
succede fra gli uomini e le donne. Ci sono frutti che
s’innamorano regolari e altri che perdon la testa per
creature di un’altra razza. Io, per quanto ce l’abbia messa
tutta, non son riuscito ad accoppiare d’amore a una papaia
con un caco!”
Spesso veniva a trovarlo il Professor Trangipane.
Insegnava alla facoltà di agraria… non ricordo se a Pavia
o Voghera. Con lui c’erano sempre degli allievi che
seguivano incantati le lezioni pratiche che mio nonno
impartiva infarcendole di variazioni comiche.
Un giorno, mentre teneva una sua dimostrazione dentro la
serra, il cielo si è fatto all’istante tutto nero. Il Bristìn ha
chiamato allora tutti i suoi figli che già avevano capito di
cosa si dovessero occupare. Sono usciti dall’enorme
deposito dei carri, tenendo distesa a cerchio una tramata,
cioè una gigantesca rete a maglie strette. Mio nonno ha
coinvolto in quell’operazione tutti i suoi braccianti e anche
gli studenti. Da lunghi pali che fiancheggiavano la serra,
pendevano funi che terminavano con ganci a molla; la rete
è stata distesa lungo quella fila di pali. Aggrappati alle
funi a gruppi di due o tre uomini, insieme, seguendo gli
ordini di mio nonno, hanno incominaciato a tirare: la rete
issata in alto veloce si stendeva a coprire la vetrata della
grande serra proteggendola per intero come uno chapietau
da circo. Con paletti e mazze rapidissimi, mio nonno e i
suoi figli, bloccavano al suolo il fondo della tramata. Non
era stato ancora sistemato del tutto quel marchingegno che
un vento terribile si è levato fischiando tra le maglie della
rete. Poi tuoni e lampi, e giù, una cascata di grandine con
ciocchi di ghiaccio grossi come uova che rimbalzavano
sulla rete come palle da tennis. Tutti si erano riparati sotto
le arcate del portico, ma mio nonno mi aveva afferrato per
Milano
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una mano e mi aveva trascinato dentro la serra: “Vieni, ti
faccio assistere a uno spettacolo che non dimenticherai
mai, vivessi cent’anni!”
Là, sotto quelle vetrate, era il finimondo. I ciocchi di
grandine, battendo sulla tramata e rimbalzando
generavano suoni indescrivibili, le lastre di vetro
vibravano producendo ululati a volte terrificanti e
all’istante dolcissimi. I lampi, riflettendosi sulla vetrata
della serra, moltiplicavano i loro “stralusc” come
nell’orrido alla fiera degli specchi.
Quando, più tardi al liceo, sono incappato per la prima
volta nell’avventura di Ulisse legato all’albero della sua
nave, stordito e ammaliato da effetti speciali – di suoni e
di luci - organizzati delle sirene, non ho potuto fare a
meno di collegare quella situazione magica con lo
spettacolo vissuto da ragazzino dall’interno di quel vivaio
di cristallo… dove la tempesta eseguiva per noi un
concerto da fine del mondo.
“Sei un incosciente da legare – gridava mia nonna con
quella sua voce sottile – ma ti rendi conto, cosa sarebbe
successo a te e a quel povero fiulìn se il vento avesse
strappato via la rete?! Tutta la vetrata vi sarebbe cascata
addosso, frantumata in migliaia di pezzi!”
Mio nonno, sempre forte e sicuro, davanti a quel donnino
così fragile e delicato, aveva piegato la testa in giù e
farfugliava: “Sì hai ragione, Maria. Sono stato un po’
incosciente… anzi del tutto. Ma per vivere certi momenti
bisogna pure rischiare!”
Ritorno a Oleggio
Dopo un paio di mesi, zio Beniamino, l’ultimo dei fratelli
di mia madre, s’incarica di riaccompagnarmi a casa. Alla
partenza, il nonno mi fa salire in groppa a quel cavallo
grande lo stallone di Gargantua: “Sarà lui ad
accompagnarti alla stazione!”
Milano
48
Afferro le briglie, ma mi guardo bene dal manovrarle:
ormai da tempo ho scoperto che non serve tirate in su e in
giù le redini, tanto quel cavallone decide da sé dove
voltare giacché da anni percorre almeno tre volte alla
settimana la stessa strada che porta alle fattorie e ai
villaggi dove il nonno offre ciarlando i suoi ortaggi. Mi
avevano bellamente gabbato!, ma non ho dato loro
soddisfazione, continuavo imperterrito a mimare i gesti
della guida.
Per di più, il bertocco rispondeva solo alle varianti imposte
a voce o strattonando le briglia da parte del padrone. Ecco
perché in quell’occasione il nonno era montato con me in
groppa: stavolta si andava alla stazione, un percorso
inconsueto per il cavallo.
Baci, abbracci, un gran magone e qualche lacrima… mani
che salutano… il treno si muove. Sono rimasto col viso
incollato ai vetri dello scompartimento per tutto il tempo
in cui si attraversava la Lomellina. E pensavo al giorno in
cui ero arrivato a Sartirana, a quanto fossi ostile, quasi
disgustato alla vista di quel paesaggio trapuntato da
miriadi di zanzare e moscerini. All’ostilità che provano
verso quel territorio piatto, segnato da immensi filari di
pioppi che delimitavano le risaie, solcate da ragnatele
verticali e orizzontali di canali e di rogge a disegnare
labirinti infiniti. Ora quelle complesse geometrie mi erano
entrate nel cervello come espressione di una calma
metafisica, surreale.
Il capotreno si era meravigliato nel vedermi da solo in quel
vagone: non era normale che un bambino, specie di quei
tempi, viaggiasse senza un accompagnatore, ma io mi ci
ero abituato. I treni, i binari, le stazioni mi erano del tutto
naturali come il respirare, bere e fare pipì.
Al mio arrivo, alla stazione, non ho fatto altro che
guardarmi intorno: vicino alla locomotiva, col cappello
rosso in testa c’era mio padre che mi è venuto incontro e
Milano
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mi ha abbracciato sollevandomi con un solo braccio fino
al suo viso. Ha fischiato verso il macchinista, gli ha fatto
cenno che poteva ripartire e quindi mi ha annunciato con
un gran sorriso: “A casa c’è una sorpresa stupenda per te!
Ci è nata una sorellina… Bianca! Vedrai come è carina,
sembra un bambolotto di porcellana!”
Ed era proprio un bambolotto quella mia sorella… Così
delicata di lineamenti, con quegli occhi enormi e lustri!
Me la lasciarono prendere in braccio per un po’, ma ho
dovuto mollarla quasi subito perché scalciava come un
grillo ed era scoppiata in un pianto disperato. Tutti le
erano intorno: parenti, conoscenti, più tre sorelle maestre
che abitavano sul pianerottolo. Per me e mio fratello
Fulvio, nessuna attenzione. Ci sembrava che si
accorgessero di noi solo quando ci inciampavano addosso.
Perciò abbiamo deciso di starcene un po’ alla larga:
giocavamo nel cortile e nella “guandra”, cioè nel parco
con alberi al di là della piazza dove stavano montando il
tendone di un circo. Impiccioni come eravamo, abbiamo
subito cercato di far amicizia con gli inservienti che
issavano lunghi pali e tendevano le funi dello chapiteau.
Ci misero subito al lavoro: insieme ad un vecchio clown
andavamo ad incollare i manifesti della compagnia sui
muri e sui pali della luce lungo le strade principali.
Dal momento poi che ci si offriva con tanto entusiasmo, ci
hanno concesso il privilegio di partecipare alla cosiddetta
“gran sfilata” insieme a due elefanti, una giraffa, quatto
cavalli che trainavano un’elegante carrozza sulla quale
clown e acrobati si esibivano suonando e battendo
tamburi. Io e Fulvio stavamo fra quegli indemoniati con il
viso dipinto di bianco e addosso costumi da pagliaccio,
stra-eccitati mandavamo urla e battevamo gran colpi su
due piccoli tamburi. Con quella nostra esibizione ci
eravamo guadagnati il diritto di partecipare gratis alla
rappresentazione serale. Avevamo chiesto il permesso alla
Milano
50
mamma che, tutta presa, frastornata per la nuova bambina,
non ha fatto la minima resistenza. Noi eravamo già lì, due
ore prima dell’inizio davanti allo chapiteau. Uno degli
inservienti adibito alle bestie feroci ci ha accompagnato
alle gabbie. Ad una decina di metri prima del recinto degli
animali, ci siamo sentiti letteralmente aggredire da una
puzza da vomito: era il tanfo dei leoni.
Che delusione! Un animale così maestoso, il simbolo di
potenza e di coraggio, che emana un fetore tanto
insopportabile!
Come può un imperatore issare sul proprio labaro
l’immagine di quello scagazzone orrendo?!
“Per coerenza dovrebbe portarsi appresso anche la sua
puzza…” ne parlavo con l’inserviente.
“È questa condizione da reclusi… bestie catturate costrette
in gabbia, che li fa puzzare a quel modo Normalmente la
libertà non puzza. Quando stanno liberi nella savana non
tanfano certo a quel modo, odorano giusto, quel poco che
basta per farsi riconoscere dai loro simili e temere dalle
prede.”
Quel nostro primo impatto col circo è stato davvero
sconvolgente: leoni che zompavano con ruggiti da
strangolati le budella e da bloccarti il respiro, effetto
questo, accentuato dall’inarrestabile puzza delle
fiere. Esibizioni di elefanti che, a tratti, apparivano così
leggeri nei loro movimenti, da sembrar pompati d’aria
calda come mongolfiere.
Ma lo spettacolo che ci ha tenuto con il fiato sospeso per
tutto il tempo, s’è rilevato senz’altro quello degli acrobati.
Due ragazze che partono dalla loro postazione lassù sul
trapezio e volteggiano lasciando indietro scie evanescenti
di luce. Dio, cos’è?! Una capovolta… una ragazza si
rovescia a testa in giù, le mani rimangono senza presa e
annaspano nel vuoto. Precipita… PAK! No, miracolo!
Non so come, resta appesa per i piedi all’asta del trapezio.
Milano
51
Ora oscillando, attraversa tutto l’arco dello chapiteau,
inghiottita dal controluce dei riflettori… e di colpo
riappare, sottile e flessibile, con un corpo da “rilibel”1,
l’insetto dorato che volteggiando nell’aria si esibisce sulle
cime delle canne nelle paludi.
Per tutto il numero di acrobazia, sotto, nella pista, c’è un
clown che manda grida acute ad ogni capriola nel vuoto;
alla fine del numero, applaude e a sua volta esegue
piroette dall’esito disastroso.
Fra gli applausi, le due acrobate scendono scivolando
lungo la fune che raggiunge il suolo. La ragazza più sottile
s’arresta sospesa al centro della grande arcata e rimane in
equilibrio su un cavo che attraversa orizzontalmente tutto
lo spazio. Il clown, di sotto, le lancia una lunga pertica che
la ragazza afferra come fosse l’esercizio più semplice al
mondo. Quindi comincia a camminare sul cavo teso con
leggerezza inaudita servendosi dell’asta per aumentare la
propria stabilità. Il clown, come in una romanza, le dedica
parole d’amore… lei lo ignora. Pur di avvicinarsi alla sua
adorata libellula, il clown si procura una lunga scala che
issa al centro della pista ritta in verticale, nell’aria… senza
alcun appoggio. A ‘sto punto come spinto da una folle
attrazione amorosa, il pagliaccio monta su per i gradini
della scala e sembra dover precipitare al suolo da un
momento all’altro. Ma ecco che, con scatti di reni e
contorcimenti, il clown riesce a mantenerla in equilibrio e
a montare su, fin all’ultimo gradino. Ma all’improvviso, la
scala scivola da sotto i suoi piedi e va a pezzi
precipitando; lui riesce ad afferrare il cavo sul quale
cammina in equilibrio la ragazza facendolo vibrare e
sballonzolare come una frusta. La leggiadra acrobata,
sbilanciata, sta per perdere l’equilibrio… si riprende
roteando, come una lancia, l’asta e va a colpire il clown
1
Libellula
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che proprio in quell’istante riesce a porsi in piedi sul cavo.
La botta lo scaraventa fuori equilibrio… precipita! Ma
ancora uno straordinario scatto di reni lo salva: testa in
giù, riesce ad appendersi al cavo per i piedi. Una
giravolta… e rieccolo di nuovo in equilibrio, dritto,
davanti alla ragazza che per non precipitare a sua volta si
trova costretta ad abbracciare il clown che la bacia.
Insieme, entrambi, sempre avvinghiati l’uno all’altra si
lasciano scivolare lungo il filo che cala dall’alto. Il
pubblico applaude a spaccamani in un tripudio di banda.
In seguito ho assistito a centinaia di esibizioni comiche di
clown, ma mai, in nessuna occasione mi sono divertito e
commosso a quel punto.
La sera però tornando a casa ci aspettava una ramanzina
coi fiocchi: il papà aveva saputo della nostra esibizione
estemporanea sul carro dei clown e dei saltimbanchi. Era
stato informato da un suo collega: “Ho visto i tuoi
ragazzini ingaggiati come pagliacci che battevano sul
tamburo e invitavano il pubblico a non mancare alla
serata.”
Il capostazione allora era considerato un’autorità del paese
come il farmacista, il parroco eccetera. Nonostante tutta la
sua spregiudicatezza e l’anticonformismo, Pa’ Fo non
poteva però accettare di ingoiare critiche pelose, causa la
folle passione dei suoi due ragazzi per il circo e i
pagliacci.
Per fortuna ad addolcire la paternale piuttosto vivace del
padre capostazione, si era inserita la mamma che riusciva
a smontare la severità della filippica ricordando al marito
di averlo visto per la prima volta a teatro su un
palcoscenico mentre, travestito con abiti femminili,
recitava esibendo uno stupendo falsetto e due poppe regali
nonché chiappette prosperose degne di una sciantosa
napoletana.
Milano
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“Chi è senza patente da pagliaccio, getti la prima pietra,
caro Pà Fo!” ha gridato con voce da soprano la mamma.
A ‘sto punto, tutti, compreso il babbo, siamo scoppiati in
una gran risata liberatoria.
Porto Valtravaglia
L’anno scolastico era appena iniziato… la mamma ci
accompagna a scuola annunciando al Preside che, causa
un ulteriore trasferimento ordinato al babbo dalle EFFE
EFFE ESSE ESSE, i bambini avrebbero dovuto proseguire
gli studi a Porto Valtravaglia.
Dopo una settimana scaricavano il nostro bagaglio, mobili
e suppellettili varie, alla nuova stazione a cui mio padre
era stato destinato.
Un paese davvero incredibile questo Porto Valtravaglia:
piazzato in riva al lago segnato ai lati da due torrenti. Su
un fianco, la rocca irta e maestosa come la piramide di
Cheope. Una fornace di calce sotto la rocca. Il porto con le
barche dei pescatori, un’antica filanda, due officine di
meccanica e, per finire, la presenza di un’enorme vetreria
con ben cinque forni.
Gli abitanti di Porto Valtravaglia erano soprannominati:
‘Mezaràt’, mezzo topo, cioè pipistrelli. Questo per via che
la maggior parte di loro viveva e lavorava di notte. Era
giocoforza: i forni della vetreria dovevano rimanere in
funzione 24 ore su 24 poiché, è risaputo, spegnere e
accendere un forno impone uno stallo lavorativo che
supera la settimana. Oltretutto, per sfruttare in pieno la
fusione e quindi la soffiatura della malgama vetrosa, si è
costretti a turni di lavoro continui.
Lo stesso succedeva per i forni della calce, per i pescatori
che, come è noto, hanno la ‘calata’ delle reti prima
dell'alba e soprattutto per la piccola comunità quasi storica
dei contrabbandieri che anche qui come a Pino agivano
preferibilmente col buio.
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54
Così in quel paese dei "Mezaràt" le osterie, le trattorie, i
bar e gli alberghi non chiudevano mai i battenti. Al bar
Garibaldi sul porto, avevano staccato di netto le serrande,
tanto non servivano. In quei locali c'era sempre un gran
movimento: maestri soffiatori coi loro assistenti, quelli
delle fonderie della calce a cavallo dei turni. Altri clienti
fissi erano poi i pescatori, seguiti dai soliti
contrabbandieri.
Naturalmente come ornamento indispensabile a tanta
popolazione notturna, s'accalcavano: giocatori d'azzardo,
sfaccendati d'ogni misura, simpatici balordi e balordi
grami, imbroglioni allegri e fantasiosi bidonisti, grevi
venditori di orologi e gioielleria più o meno fasulla…
quindi, qua e là, collocate in bell’ordine, prostitute di vario
livello, leggiadria e prezzo.
Ma, fra tutta ‘sta caterva di fantasisti sbilenchi, i
personaggi che raccoglievano maggior attenzione e
rispetto, erano senz’altro i contastorie e i frottolanti.
Quella di fabulatore però non era una professione a sé
stante, infatti i ciarlatori provenivano da quasi tutte le
categorie di mestiere della Valtravaglia. Senz’altro, e
vedremo appresso il perché, il maggior numero di essi
aveva però origine fra i soffiatori di vetro.
I fabulatori erano la gloria e vanto di questo mio nuovo
paese. Li ritrovavi nelle osterie, in piazza, sul sagrato della
chiesa, sull'imbarcadero, sulle banchine del porto.
Spesso raccontavano di fatti accaduti secoli e secoli fa…
ma era una ribalteria, cioè si prendevano a prestito storie
mitiche per trattare della realtà quotidiana e degli
avvenimenti della cronaca più recente giocando di satira e
di grottesco.
Gli stranieri - I foresti
È curioso che, ancor oggi, a sessant'anni di distanza,
sfogliando la guida telefonica, nelle pagine che interessano
Milano
55
la Valtravaglia, ci ritrovi una quantità incredibile di
cognomi stranieri (i "foresti").
Eccovene qualcuno a caso: Guttierez, Vankaus,
Schumhaker, Batieux, Besinski. Sono i nipoti dei maestri
soffiatori che già sul finire dell'Ottocento arrivavano alla
vetreria di Porto da tutta l'Europa, ognuno con la propria
arte diversa dell'impastare, del fondere e del soffiare.
Quei "vetradùr" si presentavano a gruppi di famiglie con
livelli, valori e compiti ben diversificati.
In seno ad ogni gruppo etnico, è ovvio, ci si esprimeva
nella lingua d’origine, ma sul lavoro, in vetreria, nelle
osterie e per strada la lingua in uso non era l’italiano, ma il
lombardo. Un idioma che con tutti quegli inserti lessicali
provenienti dai vari linguaggi s’era modificato e arricchito
d’una caterva di nuove espressioni.
Quello scombinato paese era ad un tratto diventato un
crogiolo fantastico di culture, tradizioni, lingue,
pregiudizi, mentalità le più strampalate e diverse, spesso
inconciliabili. Eppure, pare incredibile, fra quella gente
non affioravano mai moti di razzismo. Certo, ci si sfotteva
l'un l'altro, anche con sarcasmo pesante: per la rispettiva
pronuncia, per l'intercalare, per il gestire o il modulare dei
suoni gutturali o arrotati, ma sempre senza aggressione ne
cattiveria. Era davvero spassoso ascoltare tedeschi,
spagnoli, francesi e polacchi che si arrabattavano in quel
dialetto già di per sé abbastanza astruso e intorcinato.
A Porto Valtravaglia stava nascendo un nuovo incredibile
idioma: lucertola diventava ritzòpora (dal greco
dell'Ellesponto); pastore diventava bergeròt; l’espressione
germanica Trampmen indicava l'imbranato; stappìch il
truffatore; sfulk l'impostore; tachinósa la battona e così
via... Credo non esistesse al mondo lingua tanto ricca e
imprevedibilmente varia.
Eccovi un esempio fra i più logici: "Sbirolà compàgn d'un
sìful scrìsia-pel de la ratéra" cioè: “Strampalato, contorto,
Milano
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come il fischio che accappona la pelle del serpe mangiaratti.”
In quel paese mi sono reso conto che il passo bibblico
della tragica confusione scoppiata sulla torre di Babele era
senz’altro una subdola invenzione di un mitico bugiardo.
Certo a quel tempo, ragazzino com’ero, non mi rendevo
conto che in quella strana fucina di lingue e dialetto io
stessi frequentando una straordinaria ed unica università
della comunicazione teatrale, che proponeva una ricchezza
incredibile di onomatopeica impostando nel mio cervello
l’idea di poter comporre all’infinito moduli espressivi di
impagabile libertà ed effetto.
Ma torniamo ai fabulatori della Valtravaglia che con il
loro linguaggio e le loro storie hanno inciso con segno
indelebile sulle mie future scelte e sul modo di giudicare
fatti e personaggi del fantastico e del reale.
Determinanti sono state anche le palestre dove si
svolgevano le rappresentazioni, inconsueti palcoscenici
che variavano col mestiere del fabulatore e con l'utilità
della “conta”.
I pescatori eleggevano a loro spazio il portico della
darsena. Tutti noi ragazzini eravamo il loro pubblico più
appassionato. Il Fidanza, capo barca e i suoi aiuti, ci
sistemavano tutti in fila, a semicerchio, a sorreggere e
dipanare le reti da rammendare. Non ce lo imponevano,
per carità: era un invito che noi raccoglievamo sempre di
buon grado, anzi con entusiastica passione. Loro ci
ripagavano raccontando favole. Di quei racconti in
particolare mi affascinavano i paradossi e soprattutto la
stupenda lingua col suo dialetto infarcito di termini
strambi che mi provocavano immagini inconsuete, ma che
faticavo ad assorbire nel mio vocabolario. La mia famiglia
era lombarda da generazioni, ma quel continuo
deambulare di qua e di là in diversi paesi del confine
Milano
57
svizzero giù fino alla Liguria aveva fortemente
imbastardito il nostro linguaggio. Spesso non mi riusciva
di cogliere precisamente il gioco di parole così me lo
facevo ripetere… e mi ritrovavo a ridere fuori tempo,
zittito dai miei compagni di ascolto.
Senz’altro il mio primo maestro di “conta” è stato nonno
Bristìn, ma in quel momento io mi ritrovavo a frequentare
addirittura una vera e propria Accademia dei Giullari dove
apprendevo tecniche e forme le più diverse del ritmare
vocalità e cadenze, e soprattutto mi stavo appropriando più
che di un dialetto, di una lingua ricca e rigorosa quasi
come il ladino. Me ne sono reso conto quando al liceo mi
sono trovato a studiare la nostra poesia arcaica, specie la
cosiddetta veneto-provenzale di Bonvesin de la Riva,
Bescapé, Mattazzone da Calignano, eccetera. Nel leggere
questi poeti mi sorprendeva lo scoprire che certe
espressioni per altri incomprensibili erano per me del tutto
familiari.
Ecco, io ho così imparato la struttura del dialetto originale,
che è cosa diversa dal parlare semplicemente il dialetto;
soprattutto ho imparato la struttura di una lingua
primordiale, integra: struttura e lingua, che oggi fanno
perno nei miei monologhi teatrali.
Lo
stile
di
quei
fabulatori
si
realizzava
nell'improvvisazione; era evidente come abbiamo già
accennato, che innanzitutto si preoccupavano di adattare i
vari passaggi ad una realtà contingente. Mi è capitato di
ascoltare la stessa storia proposta in tre o quattro versioni
diverse. L'abilità di chi raccontava consisteva proprio
nell'adattarla ogni volta a tutte le varianti di cronaca,
compresi i fatti locali e i pettegolezzi del lavatoio. Ogni
incidente o imprevisto esterno veniva immediatamente
conglobato nella rappresentazione: un botto causato dai
pescatori di frodo, un colpo di fucile da caccia, un suono
di campane… nulla veniva tralasciato o ignorato.
Milano
58
E soprattutto i fabulatori non perdevano mai di vista
l'umore, le emozioni di chi stava ascoltando. Se c'era il
tipo che rideva sguaiato o che reagiva storto alle
punzecchiature ironiche prendendosela a male, ecco che
quello diventava il capro espiatorio del tormentone; lo
stesso trattamento veniva riservato allo spettatore lento di
riflessi che non afferrava subito il gioco comico.
Tutto serviva a muovere, rendere vivace, coinvolgere
ognuno nella narrazione. In poche parole, riuscivano a far
diventare cronaca anche il fantastico e viceversa.
Certo quei fabulatori non concepivano la narrazione come
teatro e nemmeno io a quel tempo abbinavo i due generi;
soprattutto non ero ancora in grado di recepire la grande
differenza fra il raccontare e il rappresentare, ed ero
assolutamente convinto che fare teatro implicasse
esclusivamente recitazione, presenza di più attori,
scenografie, effetti di luce e di suoni… insomma una
magia organizzata. Solo più tardi quando avevo già
acquisito una notevole esperienza sul palcoscenico, ho
capito che quello del “fabulare” è stata la chiave di volta
che mi ha permesso di diventare un commediante epico e
popolare. Ma questo è un argomento che merita uno
svolgimento molto più ampio e dettagliato e di cui avremo
forse occasione di trattare altrove.
Però ero ben conscio che quella dei fabulatori del lago
fosse una trasposizione fantastica del reale, presentata da
ognuno di loro con tecniche e chiavi narrative
notevolmente diversificate.
Il Galli (pescatore di frodo) era uno che, per esempio,
presentava storie tragiche con l’aria sprovveduta di chi
analizza i particolari di un disastro senza rendersi conto
che sta narrando del disastro stesso.
Poi c'era un altro, invece, che recitava sommesso, quasi
sottogamba, mentre pescava. Si chiamava Dighelnò (non
dirglielo).
Milano
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Si sistemava lì sul molo con le sue canne a pescare e noi
ragazzi tutt'intorno lo si provocava perché si decidesse a
raccontarci una storia. Se non lo si sollecitava, Dighelnò
rimaneva lì assente, osservando i sugheri delle lenze che
galleggiavano sull’acqua, senza proferir parola.
Poi all’istante, dopo che lo si era abbastanza tormentato
col “Dai racconta, dai racconta!”, ecco che spillucava una
frase completamente sottotono, tre o quattro parole senza
senso: “Quando l’invàrna2 tira, alle piòtte3 prude il culo!”
Noi ragazzi lo si guardava allocchiti e lui, sempre con lo
sguardo rivolto al lago, puntava la canna verso l’isola dei
Malpaga e aggiungeva: “Dategli un occhio, fate mente a
quella riga blu scuro davanti al castello di Cannobbio.
Quella è una corrente che porta via anche le motovedette
della Finanza!”
E così, senza parere, ecco che introduceva la storia di una
pesca straordinaria della quale era stato l’unico
protagonista e testimone. “Avete mai visto voi tirar su una
lenza con appese centinaia di alborelle, cavedani e
lavarelli?” “No, mai!” si rispondeva noi in coro. “Ebbene,
io l’ho goduto ‘sto spettacolo! È successo all’alba qui
sull’imbarcadero. Ero solo con le mie canne e le lenze. Per
tutta la notte avevo lavorato a metterle insieme… erano
dieci canne e ce n’erano quattro o cinque di sette braccia e
più. Alla base ne avevo unite le tre più grosse, imbragate a
mazzo poi ne ho infilate in cima a ‘sto primo masso amtre
due e così di seguito fino a ritrovarmi con un “pilonàzzo”
di almeno trenta metri. Il difficile era lanciare la lenza con
‘sto cannaccione! Una lenza lunga almeno un paio di
chilometri con duemila ami e più. Ma come lanciare una
simile lenza? Mi era venuta un’idea: ho disteso tutto il filo
di refe lungo la strada che dalla pieve quasi precipita dritta
al lago. Ho tirato fuori il camion di mio fratello e gli ho
2
3
Vento che annerisce il lago
Piccolo pesce piatto e di poco valore.
Milano
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ficcato ben in centro la grande canna bloccandola con una
decina di pali messi a piramide. Appena sistemato
l’intraken sono salito col camion lassù, in cima alla strada
che scende e… via!, a tutta birra verso la riva,
trascinandomi appresso la lenza che si sollevava come la
fune di un aquilone. Il camion ha raggiunto l’imbarcadero:
frenata da spacca gomme e VUOMM! La gran canna fa la
frustata e scaraventa tutta la lenza ben distesa verso il
centro del lago, distribuendo con gran precisione gli ami
innescati e i sugheri a galleggiare. Eccola lì, io l’avevo
previsto: arriva la marenca da terra che spinge galleggianti
ed esca al largo. Le onde strette tingono l’acqua di blu. Ci
siamo - grido io - fra poco abboccheranno a rossci. Infatti
ecco i galleggianti che van giù affondandosi come anatre
dietro i pesci. È il momento: salgo sul camion e mi
preparo a ritirare la lenza. Via! Piano, piano per non
spezzare il refe di pescata. Monto su per la strada, il
pilonàzzo si curva da far spavento, ma tiene. Tira,
tira… pesci pesci! Neanche uno. Eppure qualcosa ho
beccato! Chi può tirare con tanta forza? Eccolo,
spunta… spuntano… suonano. Cristo, ho pescato le
campane del campanile di Cannobbio… dall’altra parte
del lago!”
Ma il vero maestro dei “fabulazzanti” era senz’altro il
Ravanèl. Il suo soprannome gli veniva dall’aver in capo
una specie di mazzotto di capelli di un rosso acceso che lo
facevano assomigliare proprio ad un rapanello. Le storie
che raccontava erano quasi sempre la teatralizzazione di
un fatto di cronaca veramente avvenuto, magari anche
recente e che quindi stava ancora nella memoria di tutti.
Lui partiva, per esempio, con la storia di uno che era
andato fuori di matto; lo avevano preso al mattino,
tirandolo giù dal campanile dove si era appollaiato per
orinare di sotto, con bello slancio sui fedeli che sfilavano
nella processione del santo. Lo avevano caricato sulla
Milano
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macchina dei matti con l’interno tutto imbottito, quella che
il comune metteva a disposizione per il trasporto
d'emergenza al neurodeliri di Varese.
Il mestiere del soffiatore, è risaputo, causa
immancabilmente la silicosi che si manifesta spesso con
crisi di follia. Ecco perché la Valtravaglia poteva vantare
la maggior produzione di pazzi di tutto il lago.
A questo proposito ricordo la storia di un tale che s'era
messo in testa di poter volare, di un altro che andava in
giro nudo con l'abito dipinto sulla pelle, la storia di un
altro ancora che si era gettato giù dal ponte o che aveva
bruciato la casa, dopo aver impiccato tutte le galline.
In verità il tema della pazzia era un pretesto per raccontare
anche diquelli che stavano intorno al matto: il prete che
voleva benedirlo o esorcizzarlo, il medico che diceva che
era una questione di depressione sessuale e via via… fino
al sindaco, la moglie, l'amante di lei, il maresciallo dei
carabinieri.
La figura del diverso, dell'imprevedibile, dell'illogico mi
ha sempre affascinato; ma ciò che maggiormente mi
coinvolgeva era il riuscire ad impossessarmi della tecnica
del raccontare.
Ecco, c'era ad esempio un altro narratore che giocava
spesso e volentieri al biliardo. Questo biliardista si
chiamava Bratèl, era un tipo alto magro, con due vistose
fasce elastiche rosse che gli reggevano le braghe. Lo
chiamavano anche Scusà Bretèla per il fatto che sempre
prima di ogni partita indossava un grembiule per non
sgualcirsi i pantaloni con lo sfregare sulla cornice del
biliardo. Il biliardo era il suo spazio, la sua macchina
scenica. Ad un certo punto, sul pretesto di una frase
lanciata da un avversario, interrompeva per un attimo il
gioco... e introduceva un fatto, una storia. Girava attorno
al biliardo, osservava le biglie e raccontava nello stesso
tempo, riprendendo la pantomima che prepara la steccata.
Milano
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La partita non esisteva più, esisteva la sua storia. Giocava
imperterrito scrutando il tappeto verde e non lasciava mai
la stecca, che mentre raccontava diventava la spada, la
lancia, il bastone, era la donna, il violino: diventava tutto.
Anche mio nonno Bristìn era un fabulatore eccezionale…
di lui, del suo grande carro pieno di ortaggi e frutta vi ho
già parlato.
Simile al nonno era un altro venditore ambulante del mio
paese, che si chiamava Caldera-Magnàn, un nome da
zingaro, e che realizzava proprio il mestiere classico degli
zingari: vendeva pentole e padelle, le zincava, le
rattoppava, le ribatteva le argentava. Viaggiava su un
grosso carro, enorme, con dentro appoggiato tutto, dalla
scopa, all'ammoniaca, al Sidol, centinaia di caldaie,
casseruole, pignatte e bacili di zinco e di rame.
Quando arrivava, pareva un monumento inventato da
Savinio... una costruzione gigantesca, a due piani: il
bottino derivato dalla distruzione di un esercito medievale.
Lui ci stava sopra e, intanto che offriva la merce, discuteva
con i clienti e inventava storie, proverbi, massime e tirava
fuori aneddoti straordinari.
Ma non diceva mai “comprate”. Lui sul problema del
comprare non metteva parola, mostrava una pentola, ne
afferrava un’altra, ci batteva sopra con le sue dita di
quercia facendone scaturire suoni da concerto giapponese:
DIN, TON… TING TONG e accompagnandosi con quel
ritmo inventava filastrocche e solfeggiava: “Quèst l’è
compàgn al cü del cugidùr. Se t’el fréghi, ol devègn tüt
d’or!”
E poi si buttava a descrivere l’antagonista del giovane
chierico, marito di una dolcissima ragazza per la quale il
chierico perde la testa fino a spogliasi della tonaca,
scaraventarla fra le ortiche a rotolarsi con l’innamorata.
Cambiava ritmo e aggrediva il malfidente che non dava
credito al valore della sua merce: “Io te l'avevo pur detto
Milano
63
che dovevi prenderti ‘sta pignatta: una padella tutta
schiocca che ti sbolognavo a metà prezzo… guarda che
ramata lustra e bella, ma tu, da mal fidente stitico, l’hai
schifata, hai detto picche e adesso ce l’hai ficcata in fra le
chiappe! Giusto scorno “a chi tira in dré”4 come è capitato
a quelli della rocca di Caldé!”
E di qui, senza parere, introduceva una storia,
naturalmente nel dialetto infarcito di espressioni foreste
della Valatravaglia: “A gh’era un vèjo mult tiémpo passào
chi-loga in lu Porto, ol me cuntàva me’ pèr… l’es veretàd,
no’ sluz fàbule sbèrgen…”
Fermi! Vedo già tutti voi che leggete con gli occhi in
strambola. Di certo, se continuassi con questa parlata
ancora per un po’, prendereste il libro a mozzicate. Quindi,
per carità, cambiamo subito registro e linguaggio. Allora,
da capo, ecco la “conta” tradotta del Caldera-Magnan:
“Viveva molto tempo fa un vecchio qui a Porto… è la
verità, non vi rifilo frottole da ciarlatano. ‘Sto vecchio
aveva avvertito i paesani abitanti della Rocca di Caldé, che
sta sopra la cava del porto, del fatto che si era aperta una
crepa sul monte e il paese stava scivolando giù verso il
fondo del dirupo.
"Eh!... - gli gridavano anche i contadini e i pescatori di
fondovalle - attenti, state franando... sloggiate di lassù!"
“Ma va', ma chi ve l'ha detto? State tranquilli che qui il
fondo non si muove!”
E tutti i roccaioli ridevano beati e incoscienti, anzi
sfottevano: "Furbi loro, ci vogliono far sloggiare di qui per
prendersi i nostri terreni e le nostre case."
E così continuavano a potare le viti, seminare i campi,
sposarsi, fare all'amore. Sentivano slittare la roccia sotto le
fondamenta delle case... ma non se ne curavano più di
tanto: "Normali mosse d'assestamento..." si rassicuravano.
4
Malfidenti
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La grande scheggia di roccia continuava a scivolare,
affondando nel lago: "Attenti, avete i piedi nell'acqua!"
gridavano dalla costa, "Macché, è l'acqua di scolo delle
fontane!" e così, piano, piano, ma inesorabilmente, il paese
intero slizza, annegando nel lago.
Glù... Glù... Pluf... affondano case, uomini, donne, due
cavalli, tre asini... Iaaa... Glù... Il prete continua
imperterrito a confessare una suora... "Te absolvi...
animus... santi... Gluù... Amen... Glù!" Scompare la torre,
va sotto il campanile con le campane: Don... Din... Dop...
Plok!
"Ancora oggi - racconta il Caldera - se ci si affaccia dallo
spuntone di roccia rimasto a picco in quel punto di lago, se
in quell'istante scoppia un temporale e i lampi riescono ad
illuminare il fondo dell'acqua… incredibile!, là di sotto si
scorge il paese affondato con le case e le strade ancora
intatte e, come in un presepe vivente si scoprono loro, gli
abitanti della vecchia Rocca, che si muovono ancora... e
imperterriti ripetono: "Non è successo niente."
I pesci passano davanti ai loro occhi di qua e di là, fin
nelle orecchie: "Niente paura!... è solo un tipo di pesce che
ha imparato a nuotare nell'aria." "Certo oggi c'è davvero
più umido di ieri...” commentano e imperterriti tirano
avanti senza ombra di dubbio del disastro.
Queste chiavi, questi sviluppi di storie oggi mi capita di
portarli spesso e volentieri in scena, non con gli stessi
temi, ma con analoghe situazioni, e soprattutto con un
analogo clima.
Ad esempio, nella storia (Fablieaux, ispirato ai testi
ritrovati da Rossana Brusegan) del “La Parpaia Topola”,
così come nell'apologo che ho tratto da Luciano di
Samosata, “Lucio e l'asino”: l'avventura del poeta, che va
a ricercare l'impossibile e arriva in Tessaglia in un borgo
abitato da maghi e streghe. Tutte le volte che racconto
questa favola metafisica, iperclassica, qual'è l'immagine
Milano
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che io proietto? Non cerco di sicuro di immaginarmi o far
immaginare l'Ellesponto, Samo o la Tessaglia, io sono ben
collocato nel mio paese, in quelle sue strade, in quei fiumi
lombardi, nei boschi che mi sono familiari: montagne,
cielo, acqua sono sempre quelle dove ho ascoltato la mia
prima storia. Forse non esce abbastanza palese, però il mio
universo di immagini è lì. Io, appunto, quando racconto
delle montagne del Fabulazzo provenzale, del Johan Petro,
dell'Icaro che insulta il padre Dedalo, persino quando
insceno la tigre cinese e il Tibet con i suoi fiumi e le sue
immense caverne, della Medea urlante e del volo sul carro
magico, non mi sposto dal lago, dalle valli e dai fiumi
dove sono nato.
Ma spesso mi ritrovo a staccarmi dalla memoria delle
“conte” per sguazzare dentro i testi dei codici medievali e
dei poeti, testimoni delle nostre origini più antiche ed ogni
volta scopro, non senza una compiaciuta soddisfazione,
che là in quegli scritti stanno le radici di ogni fabulazzo
che ho appreso dai miei contastorie. Quelle mie canzonate
tramandate sempre e solo oralmente per generazioni per
poterle riproporre ad un livello dignitoso abbisognano
spesso di ripuliture a liberarle da graffiate, ingombri e
scorie, ma devo riconoscere che molte giullarate della
Valtravaglia sono già serrate, essenziali, ridotte all'osso e
cariche di una forza surreale incredibilmente autonoma.
Un esempio lampante è quello della caccia alla lumaca
veloce.
Si tratta di un fabulazzo che racconta di una caccia mitica
e cruenta che da anni si ripete nella valle. L’eroe di tanta
epopea sta già pronto a cavallo della sua moto addobbato
come un guerriero medievale. Egli saluta e avverte gli
amici che quella sarà l’ultima tenzone. Uno dei due dovrà
soccombere: o il cacciatore o la preda. Ma chi sarà mai
‘sta terrificante preda?
Una lumaca!
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66
Attenti, non si tratta di uno squarocco mollaccione
qualsiasi. Ci troviamo di fronte a una lumaca epica,
gigantesca, delle dimensioni di un ippopotamo. Una bestia
orrenda, un refuso del mesozoico che scorrazza bellamente
per tutte le tre valli dai calanchi di Muceno alla forestaccia
del Musadino, fino ai picchi della Sgossola. Il tempo in cui
si da inizio alla battuta è quello della fioritura dei castagni
e per tutta la valle si spantegano odori che esaltano il
cacciatore e lo spingono alla lotta. Così il nostro eroe parte
con la moto, il fucile e una fiocina per riuscire a beccare
questa lumaca che gli sfugge da anni oltre che per la
straordinaria velocità e l'abilità nello zigzagare, per lo
sbrodolame bavoso che l’animale spande dietro di se nella
fuga. “Maledetto! Proprio in curva versi il tuo viscido
sozzume!” Frena, sbanda, slitta, rotola il guerriero e si
schianta contro l’immancabile faggio secolare. Ma questa
volta il cacciatore ecco che riesce a indurre la lumaca a
spingere la propria velocità oltre misura, a farla sbandare a
sua volta e ruzzolare nel burrone. Allora va giù, la squarta
che respira ancora, la fa a pezzi, carica il gran bottino sulla
moto che straborda di lumacame e torna a casa. Tutto il
paese mangia, o meglio s’abbuffa per una settimana:
quarti di lumaca da star male!
Oggi mi rendo conto che potrebbe essere una storia di
Rabelais.
Milano
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STAMPATO FINO A QUI. SILVIA
Ero ancora ragazzo, non avevo più di quattordici anni e
nella Valtravaglia ero già considerato un notevole e
promettente fabulatore, ma non pensavo assolutamente
che un giorno sarei montato su un palcoscenico. Allora
ripetevo chiavi e situazioni che provenivano addirittura dal
Medioevo, ma io non lo sapevo. Ancora non immaginavo
che il modo di introdurre, di iniziare le storie, la tecnica
dell'approccio, venissero da così lontano.
Già vi dicevo che il venditore ambulante, il pescatore, il
giocatore di biliardo, mio nonno Bristìn stesso, non
iniziavano mai d'acchito una storia, ma trovavano pretesti
esterni e si facevano "tirar dentro" a fabulare fingendo
succedesse loro malgrado. E questa è stata la prima grande
lezione, il fondamento che timbra il narratore: l'inizio della
"conta" deve avvenire come per caso.
È lo stesso meccanismo che spesso ancor oggi impiego
nell'abbrivio
degli
spettacoli,
cioè
quell'inventare
situazioni, pretesti per cominciare a conversare con il
pubblico a luci accese in sala.
Sono giochi di coinvolgimento addirittura elementari, tipo:
“ Lei arriva in ritardo. Eravamo in pensiero - Sedetevi quella signora là... sì, lei... l'ho vista che sta fumando di
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nascosto... sì, si china fin sotto l'ascella ... e spipazza...
roba da scottarsi tutta!”
Invento altri pretesti, parlando a voce portata verso le
quinte, con macchinisti, elettricisti, col microfonista:
“Abbassate quel riflettore! - Guarda che c'è il ritorno
dell'eco”... poi al pubblico: “Non sembra anche a voi che
ci sia una specie di alone nella mia voce... un rimbombo?”
Tutto serve per rompere la quarta parete, per annullare il
cliché del "sono uno spettatore, vediamo cosa mi fai
ascoltare."
Parto anche dal commentare il fatto di cronaca di cui tutti
sono al corrente. Inizio spesso col dire: “Avete letto il
giornale oggi? La prima notizia...”.
L'intento è quello di spiazzare il pubblico. Il pubblico che
è arrivato fin lì per vedere, ascoltare una storia, magari
tratta dagli antichi narratori Greci, e invece io lo prendo in
contropiede e gli propino un fatto recente, attuale: “La
televisione proprio adesso ha detto che l'acqua del mare
Adriatico si può anche bere... la mucillagine non è
velenosa... i giapponesi hanno sperimentato che è
nutriente, la danno da mangiare ai tacchini che ne sono
golosissimi... Un ricercatore tedesco ha scoperto che è un
medicamento strepitoso per le malattie della pelle...
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meglio dei fanghi. A Riccione è sorta una casa di cura con
piscine ripiene di mucillagine... i tedeschi ne vanno
pazzi!”
Poi pian piano rientro nel tema dello spettacolo vero e
proprio.
In un paese come quello dei Mezaràt con una vita notturna
tanto intensa, non potevano mancare le visite dei teatranti.
Ogni settimana arrivava una diversa compagnia di giro.
C'era un teatro in Porto Valtravaglia e altri tre nei borghi
limitrofi (Caldé, Muceno, Musadino), d'estate arrivavano
anche saltimbanchi le marionette.
Io ne ero rimasto letteralmente affascinato, così, aiutato
dai miei fratelli, abbiamo fabbricato burattini in quantità.
Ma lo spasso maggiore per noi ragazzi rimanevano sempre
i fabulatori della nostra valle. A mia volta mi esibivo ogni
tanto con i miei compagni di scuola. Ripetevo le storie del
Magnan, del Bretèla e del Dighelnò, infilandoci spesso
mie variazioni o adattamenti. Quasi senza rendermene
conto stavo acquistando un certo mestiere e un piccolo
pubblico di affezionati ascoltatori.
Avere gente che ti ascolta e partecipa quando si recita è la
prima ed essenziale condizione. E se a uno non piace, se
non gode dell'effervescenza che gli spettatori determinano,
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quel coinvolgersi l'un l'altro che nasce col propagarsi della
risata, è inutile che pensi a fare il commediante. La gente
ti suggerisce i ritmi, i tempi, le assonanze; fa capire che
devi tagliare una battuta o che è inutile insistere su una
situazione. Il pubblico è sempre stato la mia cartina di
tornasole, in ogni momento.
Se la sai ascoltare, la platea ti sa dirigere come un grande
maestro. Guai però a lasciarti blandire, travolgere: il
pubblico può diventare anche il tuo assassino.
Io non ho frequentato né scuola né accademie, salvo quella
di pittura... ma ho avuto molti maestri... alcuni, loro
malgrado.
Credo senz'altro che il problema non sia tanto di farsi
insegnare quanto di "rubare “il mestiere al maestro. È
"convivendo" con il maestro che l'allievo prende, non
"apprende", ma "ruba" il mestiere. Come si insegna l'arte
dell'attore?
Come in ogni mestiere, il maetro svela dei segreti e se
riesci a farli tuoi, bene… altrimenti non c'è niente da fare.
Certo io ho rubato a man bassa, a cominciare dai
fabulatori del lago. Ma loro mi davano lezioni con gran
leggerezza e senza parere. I contafavole di Mezaràt mi
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hanno sempre insegnato ad essere paziente e aperto con i
principianti.
E così io oggi insegno ai miei allievi come un prestigiatore
che mostra ogni volta i suoi trucchi, compreso la
differenza fra il gestire e il gesticolare, cioè l'imparare a
muoversi mai a caso... magari con l'aria di autodirigersi,
eseguendo movimenti essenziali che coinvolgano tutto il
corpo a partire dai piedi.
In molti mi riconoscono agilità e prontezza di riflessi nel
gestire il mio corpo sulla scena. Queste qualità le ho
acquisite grazie ai numerosi scontri a cazzotti che si
svolgevano sul lungo lago fra i ragazzi del mio paese e nei
quali ero spesso trascinato. I match a pugni, le spintonate,
i calci e le ginocchiate, erano all'ordine del giorno in
Valtravaglia.
Io provenivo da un paese tranquillo dove le esibizioni di
forza e di aggressività erano molto rare. Arrivando a Porto
mi sono trovato subito travolto da quei rissosi screanzati.
Essendo timido e completamente privo di grinta
aggressiva, mi ritrovavo immancabilmente a terra e
ammaccato.
“Basta col farsi prendere a pugni come un materasso!”
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Scazzottato da tutti, specie dal Manassa e dal Mangina, mi
ritrovavo pure sfottuto e rimbrottato da mio padre:
“Impara a difenderti da solo! Pretendi che venga a
proteggerti come una femminuccia moccolante dal naso?
Datti da fare e cerca di imparare a scansare, a bloccare i
botti e a menare a tua volta!”
“E chi m'insegna ?”
“A Luino c'è una scuola di box!”
Mi presento. “Cosa fai qui?” - “Vorrei allenarmi!”.
Quando mi tolgo il cappotto e mi presento così smilzo e
dinoccolato scoppia una gran risata. Per poco il maestro
non se la fa addosso: “Venite a vedere il nuovo prossimo
campione dei picchiatori! Prova a presentarti al corso di
scherma... lì forse ti accettano, può servirti a farti un po'
più agile... e a imparare almeno a slittar via dai cazzotti”
Ma aihmé il corso di fioretto e di spada sono completi.
Mi accettano a sciabola. Credo, solo per far numero. Era
un corso che non tirava: solo quattro iscritti. Il maestro di
sciabola di origine siciliana non voleva saperne di farci
allenare con "i ferri" per i primi mesi: solo a mani nude.
“Si duella col taglio della mano, col braccio, con il busto,
le anche e le gambe, e soprattutto col cervello. La spada
sarà la propaggine della vostra mano. Dovete imparare a
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memoria tutte le posizioni... Quindi arrivare ad eseguirle
ad occhi chiusi”.
Dopo un paio di mesi di quella disciplina, come un
pistolero uscente dal saloon, mi presento all'imbarcadero,
palestra fissa degli scontri.
E lì ho il primo match dal vivo con il Manassa. Lui veniva
avanti con la posizione impostato classico alla "boxeur", io
da schermitore: il braccio sinistro piegato dietro la
schiena, petto in fuori, braccio destro teso, mano con dita
strette, incollate una all'altra, rigide come una lama.
Affondo... parata... finta di tronco... stoccata a dritta... pah!
Una botta sulla faccia del Manassa, che snariccia
allocchito: “Eh, no Cristo, non vale! Ma che box è?!”
Intorno a noi due contendenti s'era radunato un gran
crocchio di ragazzi e anche qualche vecchio pescatore. Il
Manassa ritornava all'attacco menando colpi a pugni ben
serrati...e con tanta foga da scomporsi.
Io rimanevo sempre in linea, da buon schermitore:
retrocedevo a scatti rapidi senza abbassare il braccio teso,
mulinandolo a ogni attacco del Manassa. Scarto, finta...
parata di taglio... sgancio di sortita... affondo... pah!
Di nuovo una botta in piena fronte del boxeur... e altro
fendente di ritorno... Manassa casca a terra. Aveva il naso,
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fronte e zigomi vivacemente arrossate. “E no, cazzo! Basta
con sta box del porcogiuda!” sbuffa il Manassa.
“Ne ho pieni i coglioni... non vale!”
“Tutto regolare - sentenzia il Mangina, con il tono e
l'autorità di un arbitro federale, -ognuno combatte con lo
stile che gli pare. Basta che meni soltanto con le mani,
senza bastoni o pietre. Se poi uno preferisce dar cazzotti
con una mano sola, fatti suoi, non c'è niente da rognare... È
uno stile anche quello. Lo stile classico del monco!”
E da quel giorno mi chiamarono: "il mutilato"; però con
molto rispetto.
Ma non potevo tenermi addosso quel terribile soprannome
dovevo fare qualcosa.
Imparare a battermi con tutte e due le mani... sempre con
lo stile dello spadaccino, però roteando con entrambe le
braccia come tenessi sciabole dappertutto.
Mi esercitavo ogni giorno, con mio fratello che mi faceva
da
allenatore.
Senza
rendercene
conto
avevamo
reinventato una specie di box esotica, forse cinese. Per
colpire meglio coi piedi si facevano di continuo giravolte
in un senso e nell'altro, scalciando all'improvviso. E nello
stesso tempo si scattava con le mani a pugno, caricando
anche con la testa. Finalmente mi hanno cambiato
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soprannome: sono diventato il "pirla-trottola", che non è
poi sto gran miglioramento!
Guerra d’Africa e Guerra Mondiale
Nel trentacinque era scoppiata la guerra d’Africa. Tutti
allegri: l’Italia invadeva l’Abissinia!
“Noi ci andavamo per colonizzare, mica per far rapine c’insegnavano - andavamo laggiù a costruire ponti, dighe
e strade per dare a questi selvaggi la civiltà. Per premio
l’Italia diventava un Impero.”
Non capivo perché mio padre tirasse moccoli e parlasse
fra i denti di “rapina”: “Anche gli straccioni vogliono il
posto al sole! Per bussare e farsi aprire dall’Europa
bisogna sparare in Africa, solo così ci faremo rispettare dai
plutocrati padroni del mondo!”
A scuola ci dicevano “Vendichiamo la strage di Maccallè
e di Adua... gli abissini schiavi del Negus saranno
liberati!”
Pà Fo sbottava schiacciando a fatica il tono della voce:
“Certo, e per liberarli più alla svelta gli butteranno il gas!”
E mia madre annuiva aggiungendo: “Lo puoi giurare!”
Io guardavo con stupore i miei genitori e mi dicevo: “Che
orrenda famiglia di disfattisti anti-italiani!”
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Com’è possibile che un uomo onesto e coraggioso come
mio padre si lasciasse andare a certe battute di disprezzo
per la patria e il Duce! Non parliamo di quando tirava in
ballo il Re: “Quel nano criminale!” ,lo insultava.
Io avevo molta soggezione del babbo, ma un giorno l’ho
quasi aggredito ripetendo le belle frasi che, a tiritera,
avevo imparato a scuola: il Risorgimento... la guerra
mondiale per liberare Trento e Trieste... il sacrificio eroico
dei nostri valorosi soldati... il senso della Patria...
“E poi proprio tu che sulla tua giacca da capostazioneaggiunto sfoggi tutte quelle medaglie, le strisce d’argento
sul braccio per ricordare le ferite... e allora che ci sei
andato a fare volontario negli arditi!”
Mi aspettavo che Pà Fo mi mollasse un gran
manrovescio... invece no, ha sorriso, e parlando tranquillo
mi ha bloccato:
“Ehi calma, prima di tutto in guerra non ci sono andato
volontario, ma di leva. Avevo diciannove anni, sono del
‘98, e mi hanno arruolato in fanteria. Dopo un mese ero
già al fronte... ti rendi conto? Ti sbattevano in
quell’inferno come un allocco. Cosa potevi aver imparato
delle armi, del combattimento, della strategia militare? A
parte i fucili, i Drapen (bombe a mano), i mitragliatori, i
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mortai... niente! Ti sbattevano a farti ammazzare con una
golata di grappa buttata giù in fretta prima di ogni attacco,
allo scoperto come passeri: infilzare o farti infilzare!
Nei primi sei giorni di frontiera nel Carso metà del nostro
battaglione era già fottuto, fatto fuori.
Al settimo giorno ci danno il cambio. Io ero letteralmente
stravolto: due miei compaesani erano saltati in aria per una
centrata d’obice a cinque passi da dove mi ero interrato.
Di questi disgraziati che erano arrivati con me non
restavano che pezzi di carne e ossa sparsi qua e là.
Dappertutto si sentiva ‘sto odore amaro di polvere da
sparo e quello dolciastro del sangue e delle budella. E urla
dei feriti, dei moribondi, lamenti e gemiti da strapparti la
pelle.
Sono arrivate altre compagnie “fresche” a darci il cambio,
così noi superstiti, acciaccati e rinscemiti, siamo scesi al
paese di sotto dove si trovavano servizi con gli alloggi di
retrovia e dal campo abbiamo scaricato i feriti in un
ospedale e a mia volta mi son fatto medicare. Avevo una
scheggia nella spalla, me l’hanno cavata così... in piedi,
senza anestesia... di “dormia” ce n’era solo per quelli
gravi... m’han messo tre punti e via.
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È lì che ho incontrato Gigi Briasco, era mio cugino, di
Leggiuno. Era sotto le armi da tre anni, un veterano.
Stavano medicandogli una sgnaccata alla testa, una
sferzola profonda sul cranio. Ho fatto per abbracciarlo, lui
si scansa: “Fermo, Felice - era il nome di mio padre - c’ho
lo stomaco ricamato a punto croce... mi sono beccato una
sventagliata a rosa di Drapen!”
Ho aspettato che gli tappassero la sferzola sul cranio e
insieme siamo scesi alla distribuzione del rancio. C’era
una fila che non finiva più. “Vieni, andiamo alla mensa
ufficiali!” - “Perché, non mi dirai che sei graduato?” “Certo, sergente sono... Ma non è per questo che mi fanno
entrare ma per ‘sta patacca!” E mostra sulla spalla un
cerchio ricamato in oro con un pugnale e una bomba che
scoppia fiammeggiante. “Cos’è?” - “È l’emblema degli
arditi.” - “Ti sei buttato in ‘sta banda di disperati?!” faccio
io incredulo. “Sì, terza compagnia arditi di battaglione. È
l’unico espediente per sperare di salvarti la pelle.” - “In
che modo? Non dirmi che così t’imboschi?” - “No,
tutt’altro. Rischio la “ghirba” eccome. Mi tocca strisciare
fuori della trincea, allo scoperto, di notte, mozzare con gli
sgarbi a forbice il filo spinato, disinnescare le bombe che i
Crucchi hanno piazzato qua e là... insomma preparare il
Milano
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terreno sgombro per i nostri che l’attraverseranno
l’indomani mattina buttandosi all’assalto. Ma noi, dopo
aver fatto il nostro lavoro, si torna dentro le trincee e si
raggiunge la nostra base, in retrovia... quelli che ce
l’hanno fatta, s’intende.” - “Appunto - dico io - e quanti ce
l’hanno fatta?... Quanti non son stati beccati dai cecchini,
non sono saltati in aria sulle bombe trappola, non si sono
beccati una mitragliata grazie al solito razzo luminoso che
li ha messi allo scoperto?” - “È vero - ammette mio cugino
- ma dimmi una cosa tu, Felice... sbaglio o della tua
compagnia in sei giorni siete rimasti meno della metà?
Nella mia banda di disperati siamo in centoventi, negli
ultimi tre mesi ne sono rimasti fottuti una quindicina e
abbiamo partecipato a una ventina di azioni. Quindi fai il
calcolo e capirai qual’è il vantaggio: di sicuro il nostro
d’arditi è un compito da strizzapalle che non c’è uguale...
tutte le volte che si torna da un’azione ci abbiamo addosso
una strizza di culo che non si caga per tre giorni... schegge
un po’ dappertutto, le strigliate dei reticolati che ti segnano
la pelle... ma il conto torna sempre a nostro vantaggio.
Noi, chi più chi meno, si porta a casa la “ghirba” ma voi,
fantaccini, siete peggio che dei condannati al tiro a segno
della fiera... tre palle un soldo! Per ‘sta volta Felice t’è
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andata bene, ma è difficile azzeccare ogni volta il numero
buono della tombola. Tu ti ritrovi come in una bisca
d’azzardo... gira e rigira il banco vince sempre... i crupié
sono i generali, il re e le fabbriche di camion, bombe e
cannoni. Sono loro che girano la ruota e si vincono la
nostra vita. Fatti furbo, rischia di più, anzi tutto, se vuoi
sperare di fottere la smorta (la morte)!”
Così, detto fatto, il cugino Briasco mi aveva convinto. Il
giorno dopo sono andato ad arruolarmi negli arditi: strizze
di terrore, strisciare da ramarro, sforacchiato dappertutto...
ma la pelle l’ho portata a casa. Purtroppo invece il cugino
Briasco non ha pescato il numero giusto della tombola e
c’è rimasto.
Alla sorella di mia madre è arrivato un encomio solenne e
una medaglia d’argento. Il suo corpo non è mai arrivato a
casa... l’hanno beccato in pieno con un obice. Per
ammazzarlo hanno dovuto sprecare una bomba che
doveva, nel programma dei mercanti, servire a far fuori
almeno quaranta uomini... una perdita insopportabile!”
Ero a mia volta stravolto per il racconto di mio padre.
Sono rimasto in silenzio per un po’, poi ho azzardato: “Ma
dimmi papà, d’accordo, hai ragione: ‘sta guerra è solo a
vantaggio dei mercanti e dei generali che festeggiano
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seduti su milioni di tombe, e allora com’è che accetti di
portarti sulla giacca tutte ‘ste decorazioni?”
“Son le mie patacche parafulmine! È grazie a loro che mi
son salvato da denunce e sospensioni, ho scampato anche
qualche arresto! Col mio mestiere incontro un sacco di
sparaspocchia fanatici di ‘sto regime di maimorti che
sbroffano cazzate sulla ‘gloria della fede e l’ideale’... tu
ormai mi conosci, io non ce la faccio a starmene schiscio a
pecoroni: ogni volta li sputacchio di sfottò. E loro “Guardi
come parla... io la denuncio!” - “Avanti, razza di
pisciacchione con l’orbace, denuncia anche queste! E gli
sbatto in faccia, petto in fuori, la mia collezione di
onorificenze, compresa la patacca d’ardito e l’encomio
solenne! Una volta in faccia a una signora scatenata del
fascio ho calato le braghe e ho mostrato la gamba
massacrata con la rotula d’argento, gridando: “Heia, heia,
alalà! Beccati questa e portala a ca’!”… Chi s’arrischiava
a trascinare in tribunale un simile làbaro di trofei!”
A ‘sto punto sono scoppiato a ridere da ingozzarmi.
Da quel giorno, tutte le volte che in classe arrivava
qualcuno a recitare l’elegia del regime e a fare il
panegirico dei sacri martiri della Patria, non potevo fare a
meno di vedere apparire mio padre lì, in piedi sulla
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cattedra, con i pantaloni calati che zompante di qua e di là
mostra le cicatrici e il ginocchio d’argento. Non porta
mutande... le sue vergogne sono adornate da collane di
medaglie che scampanellano gioconde.
Spesso capitava che in classe il maestro e chi per lui
s’interrompesse puntando il dito verso di me e con tono
molto seccato mi gridasse: “Ehi tu... cosa vuoi dire con
quel sorriso da schiaffi?!”
“No signore - rispondevo spudorato - non è un sorriso...
cercavo solo di trattenere la commozione!”
Il mistero delle statue innamorate
Al limitare del paese, era piazzata una stupenda villa del
'700 che s'affacciava sul lago... Stava dentro un enorme
parco, sfiorata da un piccolo fiume che scorreva a lato.
Nel mezzo un paio d'ettari di bosco e, sparsi nell'enorme
giardino una gran quantità di alberi esotici, centenari.
Qua e là, sistemate con finta casualità, statue palladiane
raffiguranti ninfe, satiri e dei a piacere. Nella villa
abitavano i padroni della vetreria. Il parco era circondato
da una lunga cancellata barocca che lo serrava lungo tutto
il perimetro.
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83
Il responsabile della vita degli alberi era il Sereno, di
cognome Tempo… suo fratello infatti si chiamava
Nuvolo. Era giardiniere provetto con tanto di diploma e
aveva già lavorato all'isola madre dei Borromeo.
Era un uomo tranquillo, ma anche lui un giorno è andato
fuori di matto... Tutta colpa di una passione amorosa
esplosa tra le statue del parco.
Assurdo? Un paradosso metafisico?
Può darsi, ma per il Sereno, che oltretutto la metafisica
non sapeva che fosse, fu egualmente un evento tragico.
Io ero affezionato a quel giardiniere così, dopo qualche
settimana, sono andato alla neuro di Varese a fargli visita
insieme al Giuda e il Tajabis, due amici che avevano un
paio d'anni più di me.
Il Sereno pareva abbastanza tranquillo, come detta il suo
nome, e si è dimostratp stra-contento di vederci e
soprattutto ansioso di confidarci il fatto che l'aveva
mandato via di testa.
E lì nel parlatorio, si è dato a raccontare:
“Nel parco della villa, voi lo sapete, ci sono un sacco di
statue intorno alle quali edere, sgarmigli e rampa-maria
s'erano intorcicate da farci giacca, cappotto e calzini. Il
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padrone mi aveva ordinato: “Bisogna mozzare quei
rampicanti altrimenti mi spaccano a pezzi le statue...”
Mi sono allora armato di falcetto, tronchese da ramo,
segaccio e ho cominciato a sgorbiare i rampicanti... con
calma, che guai grattargli la pelle.
Quelle statue erano molto antiche... qualcuna addirittura di
epoca romana. Si ritrovavano talmente ricoperte di rami e
foglie, che manco si riconosceva se fossero maschi o
femmine. Cominciavo a smozzare i tronchi dei rampigi
alla base...
I piedi erano i primi a venir fuori... Dai piedi degli antichi,
non si riesce ad indovinare il sesso della statua. Andando
in su gli ho liberato le gambe... lunghe... tornite con
leggerezza... era di sicuro una donna... o forse era Apollo,
che è quasi lo stesso... La differenza la fanno il birolo e la
cetra.
E infatti era proprio lui, il dio della musica, col suo
chitarrone. Tutto nudo... uno straccetto ben panneggiato
intorno ai fianchi... ma non serviva a niente, tanto
mostrava tutto per intero il suo "pirolo"... piccolo e
discreto. Gli dei non hanno mai bisogno di strafare.
La seconda statua che ho liberato, invece era proprio una
femmina... Bellissima, era fatta su nelle glicini e nei potos.
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Taglia e ritaglia sono spuntate le gambe come colonne... il
pube... i fianchi... i glutei... che meraviglia! E più in su
sono emersi il ventre e poi le zinne.
Mi tremavano le mani, liberando quei due tondi leggeri.
Sembrava respirasse. Alla fine son venute fuori il collo e
la faccia, con la bocca e gli occhi... Sorrideva e mi
guardava... proprio a me… dolcissima. Come a dire grazie di avermi liberata! - Ma dico sono scemo? Cosa mi
sto mettendo in testa?
Mi viene da farle una carezza. Mi pulisco la mano,
sfregandomela con una foglia di gelso... e scorro le dita e
le palme sulle guance... Una scivolata da fremito!
Chissà che dea è? Magari è una ninfa... sì, è lei di sicuro:
ninfa. Sono lì con ‘st'incanto addosso, mi scappa l'occhio
sulla destra. C'è lì la statua di Apollo che mi guarda. O
bella, non mi ero accorto che avesse la faccia voltata di
qua!
Vado vicino, sbircio l'attaccatura del collo... la tocco: è
calda, anzi scotta come se la pietra si fosse torta. Di certo
l'ho sfrisata troppo io segando via il ramo che
l'attorcigliava. Ridò un'occhiata alla ninfa: ha una mano al
seno. E sembra si sia girata un poco di spalle.
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E no basta. Sto andando in strambola! Stop all'incubo.
Diamoci da fare a liberare l'altra statua. La terza.
Mi viene tutto più facile. Ormai ci ho preso la mano.
Mozzo rampicanti come un tosa montoni. Questo è un
altro maschio... ma ci ha una gran coda (anzi dev'essere un
mantello tutto panneggiato).
È completamente nascosto dentro un garbuglio d'ederafocus... Alla fine vien fuori; è il tronco di un cavallo, con
chiappe, zampe, zoccoli e tutto. Un uomo a cavallo? No, è
un centauro!
Muscoli tesi e nervosi, un bel pettorale, e sotto fra le cosce
di dietro, un gran pindorlone... erto e spocchioso... I
cavalli non hanno il senso della misura. Sono immodesti!
In più impugna un arco che tiene ben teso con tanto di
freccia incoccata, con le mani, s'intende.
Tasto: l'arco e la freccia sono fusi in bronzo.
Sta venendo scuro. Me ne vado. Ritorno la mattina dopo.
Porca d'una miseria il centauro non c'è più. Per terra c'è
soltanto l'arco con la freccia... nient'altro... l'hanno
rubato... sul prato è rimasto tutto un solco, come l'avessero
strascicato. Seguo il solco e mi ritrovo alla scuderia... c'è il
portone spalancato... mancano dei cavalli... mi guardo
intorno: meno male, sono tutti laggiù allo stagno che
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bevono. Li vado a riacchiappare. Cristo, ce n'è uno dentro
l'acqua tutto affondato... ma cos'è tutto sto sangue? Il
cavallo è senza testa...
Ma è la statua del centauro! Senza il tronco, le braccia e la
testa da maschio umano. L'hanno staccata... e poi, se la
sono portata via... chissà dove. Guarda qua che ci sta a
fare qui la mia scure?
Sento gridare. È la signora Lazzarini che mi chiama... la
voce viene da laggiù, da dove ci sono le statue. La
raggiungo di corsa. È sconvolta... c'è l'Apollo steso a terra
con una freccia di bronzo conficcata nel petto... il busto si
è spezzato in due.
La statua della ninfa è ancora in piedi, ma con le braccia
sollevate in aria in un gesto disperato e trionfante insieme
con la mano sinistra tiene alto l'arco.
“Chi ha combinato sto disastro? - quasi mi aggredisce la
signora - questa mazza di ferro di chi è? - la solleva da
terra... togliendola dalle dita serrate di Apollo - non mi
dirai che fa parte della statua? Apollo con la mazza!?”
Si, la mazza è mia... anche la scure con la quale hanno
scorzato in due il centauro è mia... ma io non ne so
niente... e anche non capisco cosa ci faccia lei, la ninfa,
con l'arco in mano... e con le braccia spalancate in aria...
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che prima le teneva abbassate, sono sicuro... con una mano
sul seno... tutta un po' girata, così...
A parte che vorrei sapere chi ha rovesciato tutto quel
sangue nello stagno.
Intanto erano arrivati anche il padrone coi figli, il
guardiano della villa e l'autista. Tutti facevano domande.
“Ve l'ho detto... io, ste statue, le ho spogliate dei
rampicanti solo ieri e non avevano ‘ste posizioni. È
successo qualcosa... si sono mosse... lei poi non aveva
l'arco... l'arco ce l'aveva il centauro.
Sì, la mazza e la scure è roba mia... ma io non le ho
spaccate le statue... a parte che per portarla fino laggiù nel
laghetto ‘sto sacripante del centauro, ci vorrebbe il
trattore... no io il trattore non l'ho toccato... il tronco del
centauro è sul trattore? Non ne so niente io... E no, è... voi
mi volete far andar fuori di matto! Ma che è uno scherzo?
Beh, io non ci sto”.
E sì, può darsi che si siano mazzolati fra loro... le statue.
Già io avevo notato che l'Apollo si voltava di scatto a
guardare da geloso... appena accarezzavo la ninfa... E
avevo anche visto il sorriso che lei faceva al centauro
come l'ho spogliato dalle glicini... E poi, già che ci siamo,
stanotte avevo sentito uno strano calpestare.
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Mi sono affacciato dalla mia finestra sopra il deposito... e
ho visto un cavallo. Libero. Con tutto che le scuderie
erano sprangate.
Sarà un'impressione, ma m'è sembrato fosse il centauro...
faceva un fracasso... stamattina qui ho trovato schegge dei
suoi zoccoli di marmo un po' dappertutto... e poi,
parliamoci chiaro: io sono sicuro che in groppa gli fosse
montata la femmina... e insieme si sono acquattati nel
bosco... io sono sceso, sono entrato fra le magnolie
africane... ho sentito gemiti incredibili e anche un nitrito,
come di un cavallo che gode come un pazzo e ansima da
moribondo.
Quando sono tornato indietro ho trovato il portone del
deposito spalancato e mancavano degli attrezzi... la scure
di sicuro... ecco chi ha spaccato in due il centauro, lui...
quel assatanato geloso dell'Apollo!
A sto punto di sicuro è chiaro: lei, la ninfa... per il dolore
s'è imbestialita... con l'arco l'ha infrecciato da sboronarlo
netto.” Tutti mi guardavano allocchiti...
“Beh, sì. Dev'essere andata proprio così... - ha tagliato
corto il padrone - non c'è altra spiegazione”.
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Verso sera, all'improvviso, sono arrivati i due infermieri
del comune con l'auto per i matti, mi ci hanno caricato su
di peso.
Ed eccomi qua. Il dottore primario mi ha fatto parlare per
un giorno, a raccontare quello che è successo. Poi mi ha
convinto ad ammettere che ero stato io... in un momento di
nervoso tremendo a combinare tutto ‘sto casino... perché
ho la sindrome dello spacca-statue... È l'unica maniera per
farmi uscire. Fra qualche settimana mi liberano...”
Non era trascorsoun mese da quella visita al Sereno,
quando ho deciso di andare a farmi quattro passi nel parco
dei misteri.
Ho riconosciuto lo spiazzo dove erano sistemate le tre
statue. C'era solo quella della ninfa... i rampicanti se
l'erano avvolta tutta di nuovo, per intero, in alto dalle
glicini spuntava solo la mano che brandiva l'arco...
nient'altro.
La teleferica
Come tutti i bambini di questo mondo che vivono in
campagna, anche noi, al Porto, andavamo a rubare frutta
negli orti e nei poderi. La “sgraffignata”, così come si
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chiamava in gergo, non aveva tanto lo scopo di soddisfare
la nostra golosità, quanto l’esigenza di mettere alla prova
il nostro coraggio di fronte al pericolo di essere sorpresi
sugli alberi dai padroni e rischiare di venir sparacchiati.
Infatti i contadini erano spietati: se ti facevi beccare nel
loro orto a far mambassa di mele, pesche o fichi, ti
sparavano una “sorrazzata” con i fucili caricati a sale... ed
erano dolori! C’era poi il pericolo dei cani, allenati ad
azzannarti le natiche ed i polpacci.
Del resto mio fratello Fulvio ed io facevamo parte di una
banda dove il “cimento” a rompicollo era un rito
d’obbligo: i tuffi a testa in giù nel lago precipitando dalle
rupi della cava di Caldé, le volate da suicidio sui carrelli
che correvano sulle rotaie fino al caricamento dei forni
abbandonati.
La più folle delle nostre esibizioni era senz’altro la
“slizzata” sulla teleferica per le cascine: un cavo di ferro o
rame veniva steso dai taglialegna a partire dall’Alpe di
Corveggio, lassù ad ottocento metri d’altezza, fino a
raggiungere le rampe di Tramezzo. I tronchi e i fasci di
legname scendevano appesi a rotelle che strullavano sul
filo andando a sbattere contro il fermo di grosse travi… il
botto era a dir poco violento.
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Il primo ad appendersi alla rotella era stato il “Manac”,
figlio di spaccalegna, con una mano aveva abbrancato un
gancio di ferro, con l’altra lo scorritore con rotella e via
come fosse la cosa più semplice di ‘sto mondo.
Noi si era tutti sotto nel vallone con la faccia per aria e gli
occhi
sbarrati
senza
fiato,
in
apnea...
scendeva
velocissimo!
Arrivato a fondovalle in prossimità del fermo a travi, tenta
di rallentare la corsa... Dio, se ci va a sbattere fa la
marmellata! Ma il Manac sapeva il fatto suo: s’aggrappa
con forza al gancio di ferro che funge da freno... adesso è
appeso solo a quello. L’attrito sul cavo produce scintille
come una saldatrice.
Porca miseria! Non rallenta abbastanza! Si spiaccica!
No, ecco, frena. Arriva sul fermo ancora veloce, ma non
c’è schianto: il nostro “slizzatore” butta in aria le gambe e
attutisce il botto.
Mandiamo un urlo in coro. Siamo tutti smorti come
stracci. Io mi lascio cadere mezzo disteso per terra.
“Adesso tocca a voi”, sghignazza il Manac.
Si fa la conta: tocca al Bigulot, figlio di un pescatore. Si
sceglie un percorso meno ripido e rischioso. Ce la fa! Si
scompone un po'... va a lambire la cima di qualche
Milano
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castagno, si becca delle gran scudisciate in faccia, ma
tiene... e il botto finale è sopportabile.
Il ragazzino che mi precede parte bene, ma a metà
percorso si trova a “sfrisare” un olmo gigantesco,
altissimo. Non ha avuto la forza di sollevare le gambe e il
busto ed è arrivato sparato dentro il fogliame. Ha mollato
la presa, la rotella gli è sfuggita di mano e anche il gancio.
Per sua fortuna riesce ad abbrancare una forcella di rami...
ballonzola come sbattuto da una tempesta di qua e di là,
ma è salvo.
Quando tocca a me sono piuttosto stressato. Non bisogna
dimenticare che, a differenza di quei miei compagni, io
ero piuttosto fragile e poco dotato di muscolatura... ero
proprio una mezza sega!
Ma mi sono fatto coraggio, spronato anche dall’orgoglio:
avevo sentito “Manac” e il “Bigulot” far commenti a
sfottò sulla probabilità quasi inesistente che io ce la facessi
ad uscirne intero. Avevo solo un vantaggio: aver potuto
osservare con attenzione tutte le altre discese, compresi
errori e scaltrezze dei miei sopravvissuti compagni. Avevo
notato che quasi tutti istintivamente tenevano ad usare il
piede, o meglio gli scarponi, facendoli strisciare sul cavo,
nel tentativo di rallentare la velocità. Ammaestrato da quel
Milano
94
particolare mi sono legato lungo le suole degli scarponi
con dello spago due ganci, uno per scarpa.
I miei compagni mi osservano con una certa crudele
ironia. Afferro il gancio a rotella, poi l’altro... mi lascio
andare a corpo morto... ma subito comincio ad oscillare
come fossi appeso ad un trapezio finché non riesco ad
infilare i ganci che spuntano dagli scarponi sul cavo della
teleferica. La mia trovata funziona a meraviglia. Riesco a
governare la velocità con discreto vantaggio. Quando
voglio accelerare basta che mi sganci con i piedi; per
frenare mi riappendo con tutti e quattro i ganci.
I ragazzi che mi seguono da sotto il percorso non mi
sfottono più.
“Ehi, quel cagasotto ci ha fregati tutti quanti! Caro
“strizzachiappe”! - mi gridano - Sei un’aquila!”
Sceso dal cavo, ero talmente carico ed euforico che manco
mi ero accorto di fumare dai piedi: per l’attrito i ganci
s’erano letteralmente arroventati e stavano bruciandomi le
suole degli scarponi.
Tornato a casa, mi è stato molto difficile spiegare alla
mamma come avessi combinato quel disastro: ogni suola
appariva segata in due.
Milano
95
Gog
Facendo ritratti mi sono comprato un cane, ma un cane
oltre che di razza, straordinario!
Avevo cominciato a scuola, all’ultimo anno delle
elementari, disegnando il ritratto della mia maestra. Era
una signora piuttosto giovane con un viso delicato dentro
il quale erano evidenti due occhi quasi a mandorla, un
naso sottile e due labbra molto pronunciate. Il collo era
lungo, quasi esagerato… infatti il suo nome era Berenice,
ma il soprannome “Giraffa”. A me piaceva molto.
Quando all’Accademia di Brera, cinque anni dopo, mi
sono capitati fra le mani dei ritratti di Modigliani, ho
esclamato: “Oh, ha conosciuto anche lui la maestra
Giraffa!”
Avevo tenuto nascosto il cartone e l’avevo completato a
casa, a memoria. Per il suo compleanno gliel’ho regalato.
Mi ha abbracciato e sbaciucchiato… mi sono trovato le
gote tempestate di vermiglio, un po’ era per il suo rossetto,
ma il rosso più intenso era senz’altro quello prodotto dalla
mia emozione!
Poi, mi sono buttato a far ritratti a tutti i miei compagni e
anche alle ragazzine. Mi ero fatto un nome: più di un
Milano
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genitore entusiasta mi aveva ripagato con qualche regalo,
anche in denaro. Così mi sono ritrovato eletto a ritrattista
ufficiale del Valtravaglia… il più piccolo della storia
(locale, s’intende). Per me ha posato il Dottor Ballarò e
sua figlia, la tettuta morettona che si sarebbe beccata la
pesciata in faccia. Poi è toccato alle ragazzine del Podestà
e appresso a tutta la famiglia. Mi sembrava di essere un
parrucchiere ambulante: ogni giorno, si può dire, mi
toccava andare per case dai vari prenotati. Chi ha brigato
di più per essere messi in lista sono stati il prevosto e il
maresciallo dei Carabinieri, un napoletano rotondo e molto
simpatico.
Come diceva Ulisse: “Mia fama salì oltre il greto
dell’isola mia”… insomma mi sono arrivate commissioni
perfino da fuori valle!
Un allevatore di cavalli di gran razza, campioni di trotto e
galoppo di Besnate (sul lago omonimo) mi manda a
chiamare, anzi mi fa venire a prendere dal suo autista con
una Alfa Romeo fuori serie con parafanghi e paraurti color
rame.
Arrivato alla tenuta con i miei album Fabriano, i pennelli,
le tempere e gli acquerelli, sono stato accolto da un gran
scalpiccio di zoccoli che faceva tremare il terreno: lì, sulla
Milano
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pista di dressage, stavano passando, pancia a terra, non
meno di trenta cavalli. Alcuni erano montati da fantini,
altri galoppavano liberi in branco. L’allevatore era molto
occupato e manco mi ha salutato. Mi viene incontro una
ragazzina più o meno della mia età con una gran
capigliatura, tutta boccoli e riccioli: pareva Shirley
Temple… si chiamava Ornella.
Poi si presenta Matilde, la sorella maggiore, a sua volta
biondo-capelluta… splendida! Per finire, tutte insieme
appaiono altre tre sorelle; in totale cinque che, tutte in fila,
sembravano il coro degli angeli di Benozzo Gozzoli.
Ornella me le presenta una ad una. Chiedo preoccupato se
dovrò fare il ritratto a tutte quante.
“Sì”, mi rispondono all’unisono.
“In ordine di età” aggiunge Ornella.
“La più piccola sono io, quindi tocca a me per prima!”
“Non ti preoccupare, non pretendiamo che tu ci ritragga
tutte in un solo giorno, - aggiunge Matilde - puoi lavorare
anche fino a domani!” e scoppiano a ridere tutte insieme.
Per farla breve, ho cominciato a disegnare con discreta
agilità. Qualche mese prima mi ero esercitato copiando
figure e volti di pittori del Quattrocento. In quel momento
mi sentivo proprio a casa.
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Terminato il ritratto di Ornella, tutti erano entusiasti:
l’allevatore mi ha abbracciato da stritolarmi e con un tono
che pareva il nitrito di uno stallone in fregola aveva
esclamato: “Ma tu guarda, un ragazzino che dipinge a ‘sto
modo! Hai un bel talento figliolo! Se tu fossi un cavallo, ti
farei subito correre al gran premio di Parigi!”
La signora Francis, madre di tutta quella covata, aveva
telefonato alla stazione perché avvertissero subito mio
padre che suo figlio non sarebbe tornato a casa quella sera
e forse neanche l’indomani. Fra tutte quelle ragazze e
ragazzine che mi coccolavano, mi riempivano di
affettuosità e complimenti, io mi sentivo un pò in
cimbali… frastornato.
Non tutti i cinque ritratti mi sono riusciti come avrei
voluto, ma il coro degli angeli del Gozzoli era egualmente
soddisfatto.
L’allevatore, tanto per farmi sgranchire gambe e cervello,
mi ha portato a visitare le scuderie. Passando dinnanzi ai
vari box, mi indicava i suoi campioni, famosi vincitori di
corse internazionali. In particolare si soffermava a tessere
elogi davanti agli stalloni che scalpitavano o se ne stavano
imbesuiti per l’eccessivo tour de force.
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Prosegunedo siamo transitati davanti a un recinto dove
facevano una gran caciara una mezza dozzina di cuccioli
giganteschi: erano tutti alani di gran razza.
Io non ero un fanatico di cani, ma quelle specie di belve
burlone mi affascinavano; il maschio padre, poi, si
muoveva con un eleganza da circo equestre. Il giorno
appresso, prima di tornarmene a casa, il gran cavallaro mi
saluta e mi dice imbarazzato: “Vorrei farti un regalo, ma
non so cosa scegliere. Poteri infilarti in sacoccia una
manciata di quattrini, ma non mi pare una buona idea…
oppure preferisci una gran scatola di colori o un
cavalletto?”
Io l’ho interrotto: “Quanto costa uno di quei cuccioli di
alano?”
Il cavallaro è rimasto bloccato come in una foto di gruppo
insieme a tutta la sua collezione d’angeli. Quel silenzio
m’aveva fatto capire immediatamente che l’argomento era
intoccabile.
“Mi spiace, ma quegli animali sono già tutti prenotati... poi ha aggiunto velocissimo nell’evidente timore di venir
contraddetto dalle sue figlie - Uno però, il meno
sviluppato, forse te lo posso dare…”
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Altro silenzio e poi con un acuto da alleluia tutte insieme
le ragazze hanno cantato: “Ma certo, Gog è suo!”
Siamo tornati al canile, io saltellavo per la contentezza.
“Ecco quello grigio con le zampe bianche e la sferzola a
stella sul muso è Gog ed è tuo!”
“Il papà dice che è il meno riusciuto della cucciolata, ma
non è vero. È solo più timido rispetto ai suoi fratelli che
sono una banda di criminali!”
Quella stessa sera mi sono portato a casa la mia “belva”.
Gog è il nome di uno dei due mostri dell’Apocalisse: Gog
e Magog.
Ma il mio cucciolo d’alano non aveva proprio nulla del
feroce sbrana-uomini del mito biblico… anzi, era l’essere
più dolce e timoroso che avessi mai incontrato. Sul treno
s’era accucciato sotto i sedili dello scompartimento e per
farlo scendere me lo sono dovuto caricare in braccio.
Pesava sicuramente più di me, tanto che nel fare i gradini
siamo finiti a rotoloni giù dalla scaletta come due allocchi.
Arrivati a casa, Fulvio e Bianca hanno gridato di gioia; il
gatto, anzi la gatta l’ha annussato e dall’odore che
emanava deve aver subito capito che si trovava di fronte a
un tontolone sbarloccato di spavento. La mamma se l’è
subito tirato vicino facendogli carezze.
Milano
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Gog viveva di continuo con noi fratelli e con tutti gli altri
compagni della masnada sia in piazza che fra i boschi. Era
con noi perfino quando si andava a rubar frutta ed era il
primo che se la dava a gambe… bastava sentisse abbiare
un cane da pagliaio. Aveva letteralmente terrore sia dei
can pastore che di ogni altro bastrado che gli ringhiasse
cattivo… lo vedevi subito con la coda fra le gambe
andarsene strisciando lungo i muri.
Questo finché era cucciolo… ma di lì a qualche mese,
ecco che comincia a crescere a vista d’occhio: gli si era
sviluppato un pettorale da leopardo… zampe, natiche,
collo, tutta la struttura s’era arricchita di una muscolatura
armoniosa e possente. Solo il muso, occhi compresi, era
rimasto quello del tontolone di sempre. Proprio per questo
lo lasciavamo circolare libero dappertutto… non c’era
pericolo: se ne andava in paese e fra i borghi in valle. Tutti
lo conoscevano e lo sapevano mite come un agnello. Lo
chiamavano,
gli
davano
qualche
boccone,
lo
accarezzavano… i bambini gli saltavano addirittura in
groppa come ad un cavallo e Gog lasciava fare.
L’unico guaio era il suo eccessivo appetito: si mangiava
delle grosse gamelle di zuppa con pezzi di carne, ma al
primo rutto il pasto era già digerito!
Milano
102
Perciò andava a rubare galline. Nei pressi della nostra casa
c’erano orti e poderi con relative gabbie di conigli e pollai
recintati. Per quella specie di levriero gigante scavalcare di
netto uno steccato rinforzato da reti metalilche, era un
gioco da dilettanti. Saltava, si acchiappava il suo gallo o il
pollo e via… quattro masticate ed erano spariti carne,
piume, penne, ossa comprese!
Di lì a poco, puntuali come agenti delle tasse arrivavano a
casa nostra i proprietari dei pollai saccheggiati. Noi non li
lasciavamo neanche terminare il discorso: “Accomodatevi
nel nostro orto, in fondo c’è un pollaio. Prendetevi un
animale, il più simile a quello sbranato dal nostro cane e
scusateci per il disturbo!”
Ormai a casa nostra era proibito mangiarci polli e galline:
bisognava preservarli per rimborsare quelli del pastomerenda di Gog!
Adesso oltre i polli, le oche e i tacchini, la suo passaggio si
scansavano anche gli altri cani, specie quelli di
temperamento particolarmente aggressivo. Ho visto un
boxer tentare un assalto contro di lui e finire sanguinante
giù da una scarpata.
Erano trascorsi tre anni, io mi ero iscritto a Brera e ogni
mattina dovevo andare a prendermi il treno per Milano.
Milano
103
Gog mi accompagnava alla stazione e puntuale alla sera
mi veniva a prendere. Faceva tutto da solo e se non mi
vedeva scendere dal treno della prima corsa serale, tronava
a quella seguente. Aveva imparato gli orari dei treni.
Dopo qualche anno, tutta la famiglia ha dovuto traslocare
a Milano, compresa mia madre. Il papà invece era tornato
a dirigere la stazione di Pino Tronzano e quindi non si
poteva più occupare del cane. Bisognava forzatamente
metterlo a pensione in un canile fidato per tre o quattro
mesi al massimo. Poi all’inizio dell’estate ci saremmo di
nuovo trasferiti tutti quanti al lago e Gog sarebbe tornato
con noi.
Mio padre aveva trovato un allevatore di cani proprio alla
perifieria di Luino… uno spazio in mezzo al verde, gli
animali stavano quasi sempre all’aperto e chiusi in gabbia
solo alla sera per la notte. Purtroppo, l’abbiamo saputo
solo in seguito, l’allevatore di cani trattava gli animali
come fossero gli ospiti di un lager: se non ubbidivano
immediatamente ai suoi ordini, impartiti in tedesco
naturalmente, li aggrediva a colpi di bastone badando bene
di indossare sempre una apposita protezione, una specie di
tuta imbottita con bracciale rinforzato di cuoio e metallo.
Figurarsi, quando si è trovato a imporre disciplina e
Milano
104
ubbiedienza a Gog, quello ha subito mostrato la sua
copiosa dentatura e ha sparato una ringhiata da trasformare
il sangue in latte cagliato. Il domatore gli ha sferrato un
tremendo colpo di bastone sul muso e l’alano invece di
indetreggiare, come di regola, gli si è lanciato addosso con
un gran balzo, l’ha afferrato per il braccio e gli ha
squarciato tutta l’armatura. Il domatore ce l’ha fatta
appena a sgattaiolare fuori dal recinto e a darsela a gambe
in un luogo più protetto, lui e i suoi inservienti terrorizzati.
Nella fuga avevano lasciato aperto i cancelli e la belva se
ne era uscita, senza fretta scomparendo nei boschi.
Al nostro ritorno al lago, quella stessa domenica abbiamo
saputo della fuga di Gog, soprattutto del particolare che
s’era dato a sbranare qualche agnello qua e là per la valle.
Con mio fratello ci siamo innoltrati nell’entroterra,
chiedevamo notizie del cane ai contadini. Molti di loro ci
conoscevano: “L’hanno visto su a Muceno. Dicono che è
diventato capobranco di una muta di randagi. I contadini
di Cerasa, Masnago e Tramezzo si stanno organizzando
per dargli la caccia in gruppo iniseme ai Carabineieri.”
Siamo saliti sino a Domo; il parroco al quale ci siamo
rivolti, quando viene a scoprire che l’alano era nostro, ci
ha
riempito
di
improperi:
“Disgraziati,
razza
di
Milano
105
incoscienti! Come si può lasciare andare intorno un
animale del genere… è peggio di una pantera! Adesso poi
si è messo addirittura in branco con altri bastradi:
scannano vitelli e se li sbranano lì sul posto!”
La filippica è stata bloccata da una serie di spari.
“Sono i cacciatori?” chiede Fulvio.
“Certo, ma di sicuro non sparano ne a quaglie ne a passeri.
Siamo furoi stagione…”
Siamo corsi in direzione dei botti. Abbiamo raggiunto il
vialone… laggiù sopra un rialzo c’erano dei cacciatori.
Davanti a noi, sul greto del torrente un agnello sgozzato.
Poco più in là presso il rivolo d’acqua due, anzi tre grossi
cani. Gog si era salvato.
Altri spari ci giugono dal pianoro dei gelsi. Di nuovo ci
arrampichiamo correndo.
‘Sta volta l’hanno beccato… lo capisco dalle grida dei
carabinieri. È stata una vera e propria fucilazionie: Gog è
lì, lungo disteto a pancia in su… sanguina dappertutto.
“Era vostro - chiede il maresciallo - Qui c’è un verbale.
Datelo a vostro padre… Lo sapete che vi toccherà
rimborsare ai contadini almeno una decina di bestie
ammazzate da ‘sto vostro alano? Dovreste imparare: cani
Milano
106
di questa stazza o di tengono appresso come crisitiani o è
meglio ammazzarli subito!”
I Burattini
In primavera a Porto è sceso un aereo che ha planato
sull’acqua. Un idrovolante realizzato ad Angera in una
fabbrica che stava quasi sul luogo dove il lago sfocia nel
Ticino. Ne vedevamo passare qualcuno ogni tanto di
quegli aerei… erano voli di collaudo, ma poter osservare
una macchina del genere così da vicino col motore
completamente allo scoperto e le grandi eliche dava a tutti
noi un’ineguagliabile emozione. La meraviglia maggiore
la si aveva però quando il pilota usciva dal suo abitacolo
cavandosi la cuffia di cuoio dalla testa e quegli occhialoni:
“Oh tu guarda… la faccia da uomo normale!”
Ma il maggior successo di quella stravolgente stagione è
stato conquistato senz’altro dal debutto della compagnia
dei burattini di “Spatagnak”, una specie di mangiafuoco
famoso su tutta la costa del lago come il re dei pupari.
Lo Spatagnak e i suoi aiutanti manovravano pupazzi detti
“Guignol”, cioè burattini che si muovono infilando una
mano sotto la veste del personaggio fino a raggiungere il
collo cavo del pupazzo e infilare il dito indice nel cranio
Milano
107
della maschera. La posizione del puparo è del tutto
particolare: egli è costretto a tenere le braccia tese in
verticale, fianco al viso; su ogni braccio è infilato un
giugnol. L’abilità quindi sta nello sdoppiare movimenti
alterni e spesso ritmicamente in conflitto dei due burattini.
Inoltre è lo stesso puparo che da voce diverse ai
personaggi che muove.
L’eroe della compagnia era senz’altro Gioppino detto
anche Tri Goss (Tre Gozzi). Nato dalla stessa terra di
Arlecchino,
è
come
impiccione,
truffaldino,
lui
spudoratamente
realizzatore
di
bugiardo,
trappole
e
improvvisi cambi di ruolo e situazioni, codardo e al tempo
stesso dotato di un imprevedibile coraggio, quasi eroico.
La sua forza è contemporaneamente il candore e la
mancanza assoluta di regole e regolamenti; moralità,
pudore, rispetto delle consuetudini e della buona creanza
non trovano albergo alcuno in quest’ingovernabile
cialtrone.
Non s’inchina davanti al re, né si cava il cappello… ma si
prostituisce davanti all’oste e ad un suo fiasco di vino. Va
palpando indegno i glutei di una verginale nobildonna, ma
sviene languido di fronte alla puttana.
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108
Col suo immancabile bastone, la canella, sferra terribili
bigolate sulla testa e sulla schiena di briganti, capitani,
gendarmi, draghi e non s’arresta né davanti a Belzebù né
tanto meno incontrando la morte in persona.
Con tutti s’impegna in duelli di retorica, dialettica, logica
e perfino scienza e teologia… ma in uno sproloquio
completamente fuori registro. Alla fine però di stufa e
risolve ogni tenzone con una sequenza di legnate degne di
un batterista rock.
È inutile dire che tutti noi ragazzini eravamo letteralmente
affascinati da quelle esibizioni. La nostra casa si trovava
proprio in prossimità del lago, sul fianco più largo della
piazza dell’imbarcadero. Una casa con lesene in terracotta
che adornavano le tre facciate; sull’angolo destro si levava
una torre ottagonale a sua volta decorata con strani archetti
pensili in cotto rosso… una costruzione che non poteva
certo passare inosservata. Proprio di fronte alla nostra casa
il burattinaio aveva issato il suo baraccone teatrale: una
specie di gazebo con il palcoscenico che s’apriva nel bel
mezzo della parete maggiore.
Il signor Spatagnak aveva urgente bisogno di uno spazio
coperto dove sistemare per un mese circa tutto il suo
bagaglio, compresi i burattini che non si fidava a lasciare
Milano
109
nel baraccone al termine d’ogni rappresentazione. Aveva
saputo che noi si disponeva di una specie di magazzino a
piano terra così era venuto da mio padre perché glielo
affittasse. Non c’era problema, il signor Spatagnak poteva
tranquillamente sistemare tutta la sua truppa pupazzara nel
nostro deposito. Mio fratello ed io ci siamo subito offerti
come aiuti per il trasporto dei giugnol e delle varie
macchine sceniche. Aiutato da suo figlio e da Adele, una
sua figliola molto carina, ha cominciato ad approntare una
specie di enorme appendiabiti su cui sistemare l’intera
compagnia di legno.
Così abbiamo scoperto che i burattini erano composti da
un tronco mobile alle cui spalle s’appendevano le braccia,
mani incluse. Fra le spalle si inseriva la testa che poteva
essere sostituita con altre capocce di personaggi diversi. In
poche parole, esisteva un’asse portante neutro buono per
tutti i ruoli da rivestire con costumi maschili o femminili,
a seconda delle diverse esigenze. Il figlio del burattinaio
aveva approntato un marchingegno con cantinelle
inchiodate a dei traversoni sulle quali venivano appesi tutti
i costumi per essere rinfrescati e restaurati con rammendi e
dipinture.
Milano
110
Scoperto che avevo una certa predisposizione per il
dipingere, il burattinaio mi ha messo subito all’opera.
Dovevo ridare il colore alle facce dei personaggi,
soprattutto ridisegnarne gli occhi e le labbra. Intanto il
burattinaio, infilato un tocco di legno su un’asta in
metallo, ne stava tirando fuori a colpi di scalpello una
testa. Visto che lo guardavo incantato, ha fatto provare
anche a me, incitandomi ad essere deciso nei movimenti e
ad usare la sgorbia con leggerezza.
Tutte le sere me ne stavo coi miei fratelli seduto in prima
fila a godermi lo spettacolo… ogni volta una storia
diversa: “La Principessa rapita”, “L’Indemoniata”, “Il re
che
ha
perso
la
memoria”,
“L’incantesimo
dell’innamorata”…
Anni dopo, in una ricerca condotta presso l’Università La
Sapienza di Roma sui canovacci della Commedia
dell’Arte e sul teatro medievale, ho scoperto che quelle
storie avevano un’origine antichissima e soprattutto che,
rifacendosi ai testi per burattini, si riusciva a ricostruire
l’intero tessuto originale di una commedia antica anche
quando ci si trovava in possesso di un canovaccio ridotto
ad una sequenza di frammenti incomprensibili.
Milano
111
Ogni tanto il burattinaio permetteva a me e a Fulvio di
montare sul rialzo scenico dove godevamo del privilegio
di manovrare qualche burattino comparsa durante la
rappresentazione. Lo stare col braccio ritto, il muovere le
dita infilate nella testa dei gioppini nonché nelle loro
braccia non era affatto cosa facile, specie per due ragazzini
minuti come eravamo noi.
Ad ogni modo in quel mese di accademia dei pupazzari,
abbiamo imparato artifici e trucchi del mestiere in
abbondanza.
Un giorno, mentre aiutavamo Adele, la bella figlia di
Spatagnak, a restaurare un fondale tutto sdrucito, non so
come, ho cominciato a muovermi alla maniera di un
burattino sbattendo le braccia come fossero “disossate” e
volgendomi di qua e di là con il busto a scatti per poi,
all’istante, lasciarmi ricadere piegato in due con la testa
che sballonzolava sulle ginocchia… Adele rideva a
crepapelle.
All’improvviso alle mie spalle è scoppiato un applauso:
era il padre burattinaio che aveva assistito alla mia
esibizione di nascosto.
Milano
112
“Complimenti, complimenti! Non immaginavo tu fossi
così disarticolato e tanto bravo a fare il verso ai miei
pupazzi… fammi vedere di nuovo!”
Naturalmente da quell’istante per l’imbarazzo ero bloccato
proprio come un burattino ingessato.
Qualche giorno dopo il capocomico dei gioppini, mentre
lo aiutavo a scolpire una testa nuova, mi ha detto: “Questa
mi serve per uno spettacolo che ho in mente da un sacco di
tempo. Hai mai sentito parlare di Gulliver?”
“Gulliver? Sì, me ne ha accennato qualcosa mio padre. Mi
pare sia un gigante che si trova imprigionato, fatto su in
una ragnatela di fili…”
“No, non era una gigante… Gulliver era un giovanotto di
dimensioni del tutto normali. Erano i suoi aggressori ad
essere piccoli: il popolo dei Lillipuziani!”
“A sì? E come gli è capitato di ritrovarsi in quella
situazione?”
“Per via del solito naufragio… come un Ulisse qualsiasi,
gli succede di rotolare svenuto sulla spiaggia di un’isola
sconosciuta. Ed è lì che si risveglia tutto impacchettato da
migliaia di fili e, intorno, circondato da una banda di
omuncoli che strepitano eccitati, pronti ad infilzarlo con le
loro piccole lance!”
Milano
113
Il burattinaio era davvero bravissimo a raccontare… quasi
meglio di quando si esibiva coi suoi pupazzi. Man, mano
che proseguiva con l’avventura, io mi ci trovavo sempre
più immerso… proprio dentro, mani e piedi.
“Bellissima! - Ho esclamato entusiasta – Ma come ha in
mente di metterla su?”
“Beh, dovrei scolpire una gran testa e cucire un enorme
costume appropriato. Ma poi ci vorrebbe un braccio di un
paio di metri per riuscire a spuntare dal proscenio issando
il gigante!”
“Certo, - faccio io deluso – e allora come si fa?”
“Forse si può rimediare…”
“Come?”
“Facendo muovere sulla scena un attore vero!”
“Chi?”
Mi fissa con un gran sorriso e poi sollevandomi di peso e
agitandomi come un pupazzo esclama: “Tu!, tu saresti il
mio Gulliver perfetto!”
“Io? Ma io sono un bambino?”
“Per quello basta un piccolo trucco alla faccia e sei
sputato! Un uomo normale rispetto ai burattini apparirebbe
sproporzionato, senza contare che tu ti sai muovere alla
maniera giusta!”
Milano
114
Insomma per farla breve, mi ha convinto. Mio fratello poi
era letteralmente entusiasta. Ne ho parlato anche con la
mamma: “Splendida idea! Vai, me car testón, divertiti
come un pazzo!”… Dio che bella mamma avevo!
Per tutta la giornata si facevano le prove; io non dovevo
parlare… recitava lui, il burattinaio, doppiandomi con una
voce un po’ nasale. A me toccava solo mimare a tempo
ogni situazione, muovendomi sempre - s’intende - da
burattino. Camminavo andando quasi in equilibrio su una
tavola larga mezzo metro circa, e stesa sotto il proscenio
per un paio di metri.
Il burattinaio e i suoi figli recitavano le loro battute e mi
suggerivano l’azione in generale. Con un marchingegno
meccanico sul quale erano infilati decine di burattini si
riproduceva la folla di Lillipuziani. Il burattinaio dava
anche la voce al re e a qualche ministro, Adele doppiava la
principessa Briseide.
La scena che più mi appassionava era naturalmente quella
in cui la piccola Briseide si diceva innamorata pazza di me
e mi chiedeva di essere rapita perché si fuggisse insieme.
Al culmine della sua passione, la mia minuscola
innamorata s’arrampicava su per le gambe, raggiungeva i
fianchi e montava come un gattino fino sulle mie spalle. Lì
Milano
115
si sedeva abbandonandosi sul mio viso e mi tempestava di
piccolissimi baci.
Il debutto è stato trionfale: la gente andava i visibilio…
commozione e risate si sprecavano. Ma la scena di
maggior successo si è rivelata senz’altro quella dove il
piccolo cavallo sapiente dialogava con Gulliver. Entrambi
eravamo prigionieri dei giganti tiranni, ma nessuno di loro
immaginava che quel piccolo animale sapesse parlare e
ragionare con tanta sottile ironia. A questo proposito il
maestro pupazzaro aveva avuto un’idea a dir poco geniale:
come risolvere il problema del cavallo lillipuziano? Un
burattino
quadrupede
di
certo
non
risolveva
sufficientemente la magia scenica.
Per nostra fortuna Adele teneva sempre con sé un volpino
dal pelo rado, molto intelligente che aveva lavorato per
qualche anno nel circo. In quattro e quattr’otto il
burattinaio mette in forma il calco di una piccola maschera
che riproduce il muso di un cavallino. Sistemata sulla
faccia del volpino la metamorfosi è quasi completa…
basta addobbarlo con finimenti dorati come da copione e il
risultato è perfetto!
L’ippo-volpino era a dir poco fenomenale: sentiva la scena
d’attore consumato; si rizzava sulle zampe posteriori
Milano
116
appoggiandosi ai miei fianchi. Io mi abbassavo appena e
lui con uno zompo mi montava sulle spalle e, al culmine
della tenzone dialettica, si piazzava con tutte le quattro
zampe in equilibrio sulla mia testa.
Non esagero:”Il viaggio di Gulliver” è stato un trionfo!
Il mio capocomico si lamentava che risate e applausi si
sovrapponessero cancellando il dialogo e con lui il
significato satirico.
Naturalmente i complimenti di mia madre sono stati i più
graditi insieme a quelli del Caldera-Magnan, il contastorie
che vendeva pentole.
Dopo la prima, ci siamo ritrovati tutti quanti noi della
combricola all’osteria. Vicino a me c’era il CalderaMagnan che entusiasta mi svelava lo straordinario
significato allegorico di alcuni passaggi di Gulliver: i
piccoli uomini che tengono prigioniero il gigante e senza
conoscerlo subito lo battezzano “nemico”, “mostro” e il
commento del buffone di corte sul bisogno per chi
governa di inventarsi il “pericolo dello sconosciuto” che
crei terrore allo scopo di produrre un diversivo che sposti
l’attenzione dai problemi reali che affliggono la comunità.
Naturalmente non capivo gran ché di quella sguazzonata
di concetti di cui mi sarebbe riuscito chiaro il significato
Milano
117
solo di lì a una decina d’anni, quando finalmente avrei
cominciato a studiare da vicino il valore allegorico di
quelle avventure paradossali che preannunciavano le basi
del pensiero illuminista.
Il conte-ingegnere
Nella Valtravaglia non vivevano solo soffiatori di vetro,
pescatori, meccanici e contrabbandieri, ma vi dimoravano
anche famiglie di gente abbiente con ville, giardini e
boschi a ridosso della montagna, e palazzine e castellazzi
posati lungo tutta la costa da Caldé a Mogadino.
Per le strade di Porto capitava sovente di incontrare un
nobiluomo che alcuni chiamavano Signor Conte ed altri
Ingegner Enrico.
Si muoveva sempre con eleganza, il corpo retto; guardava
in faccia la gente, anche se dava l'impressione di non
vederla...
Rispondeva con un cenno del capo a chiunque lo
salutasse... ma non si fermava mai... anche se lo
interpellavano o gli chiedevano della sua salute. La faccia
era mal rasata. Non aveva l'aria sporca... solo che
indossava una camicia dal colore indefinito.
Milano
118
Era dimesso, ma dignitoso. A qualcuno accennava un
sorriso appena, ma poi ricadeva nella sua normale
espressione di caparbia malinconia.
La tragedia che l’aveva ridotto così era esplosa all'albergo
Hermitage, il più famoso e ricco di tutta la costa. La gente
che contava nella valle si era riunita per una delle solite
feste in onore non so di chi. C'erano belle donne, certo la
più
appariscente
era
Sveva
Rosmini,
moglie
dell'ingegnere. Tutti nell'ambiente sapevano di una
relazione fra la signora Sveva e l'avvocato Colussi,
amministratore
unico
della
F.I.V.E.C.
(Fabbrica
Internazionale Vetri e Cristalli). Durante la festa, al
termine del pranzo, la signora Sveva si levò da tavola
ondeggiando come una manequin e andò decisa verso il
fondo sala dove stava il suo amante.
Allo stesso tavolo era seduta la giovane figlia del Dottor
Ballarò, medico condotto. Una morettona molto vistosa.
Era evidente a tutti che l'avvocato le faceva una corte
neanche tanto sottointesa... La Ballarò per tutta la serata
aveva ostentato una festosa soddisfazione espressa con la
risata classica della gallina eccitata per le ripetute tastate
copiosamente elargite alle sue natiche dall’avvocato. La
signora Sveva aveva abbozzato per tutta la serata, ma a
Milano
119
sto' punto: basta! Raggiuge il tavolo dei due flirtatori,
acchiappa da un piatto di portata una grossa trota bollita,
guarnita di maionese. La solleva roteandola e finisce per
schiaffeggiare con la medesima il viso della esterrefatta
gallina starnazzante. La trota si spezza in due. La signora
Sveva sempre brandendo il tronco di pesce per la coda, lo
va quindi a conficcare con un affondo magistrale nella
bocca spalancata dell'avvocato fedifrago. Succede il
finimondo: la giovane è riversa sul tavolo imbandito. Un
cameriere, urtato dalla signora, è finito a sua volta lungo
disteso al suolo dopo aver proiettato in aria una dozzina di
coppe di gelato alla vaniglia che, ricadendo, vanno ad
annaffiare facce e teste di clienti in attesa di dessert.
L'avvocato dopo un primo attimo di sgomento prende a
schiaffi la signora, che reagisce insultando e sputandogli
in viso. Poi scoppia in lacrime e si getta fra le braccia
dell'avvocato che, la scaccia… nella foga del gesto si
ritrova però a strapparle l'abito di dosso. Lei rimane quindi
in mutande e a torso nudo, mostrando bellissimi seni
palpitanti. È chiaro che entrambi gli amanti sono ormai
ubriachi fradici.
Gli invitati rimangono senza fiato. Qualcuno applaude
l’esibizione da spogliarellista della signora e l’azione
Milano
120
dell'avvocato che, come in una danza, salta a cavaceci sul
dorso di lei, serrando le cosce e cavalcandola. Lei
traballa... ma resiste in equilibrio e lo trasporta intorno.
“Guardate che puledra mi sono acchiappato!”
In quell'istante in molti si rendono conto che da qualche
minuto è entrato in scena il marito della signora Sveva,
l'ingegnere appunto. Qualcuno, un po' su di giri non lo
riconosce subito e gli ammolla qualche pacca d'allegro
coinvolgimento.
All'istante si bloccano tutti quanti. La signora Sveva è
forse l'ultima a rendersi conto dell'avvenuto cambio di
scena. S'arresta un attimo poi riprende a caracollare
montata dall'impavido avvocato.
“Che fai lì, così imbesuito, caro? Scegliti una cavalla
anche tu e fatti un bel giro. Mi dispiace, io sono già
impegnata a torneare su questa giostra per tutta la sera!”
È presente anche la figlia che impallidisce e scoppia in
lacrime fra le braccia del padre ingegnere che però rimane
come assente.
Si fa notare anche il solito ubriaco gaffeur che non avendo
ben afferrato la situazione se ne esce con battute proprio
fuori luogo:
Milano
121
“Le corna son tutta salute. Importante che la giovenca
rimanga nella stessa premiata scuderia.”
“Non fateci caso, mio marito è un vero signore!”
L'ingegnere a questo punto se ne va senza fare una piega.
E per due giorni sparisce senza dar alcun segno di sé.
“Sarà andato a Milano, o in Svizzera da suo fratello”.
Ma nessuno l'ha visto salire sul treno ne comprare biglietti.
“L'auto non l'ha toccata - osserva la figlia - è lì nel garage”
Ognuno fa congetture:
“Si sarà mica buttato nel lago, magari dall'alto della rocca
?!”
“Impossibile. Soffre di vertigini!”
In verità qualcuno che è al corrente d’ogni particolare c’è,
ma non parla. Del resto nessuno ha pensato ad
interrogarlo: è il Menghissu, un barbone dall'espressione
sempre ridente. Una specie di maschera di Gianduia.
Aveva fatto la guerra d'Africa ed era rimasto per più di un
anno prigioniero degli abissini.
Lui conosce bene il luogo dove s'è ritirato l'ingegnere,
perché quello è un suo feudo. Sotto le fornaci, scavata per
metà nella roccia, c’è una piccola costruzione con una
porta ed un'unica finestra.
Milano
122
Di certo l'ingegnere, così educato aveva chiesto il
permesso di alloggio a Menghissu... che possedeva quel
tugurio da anni senza averlo mai abitato.
Quella domenica la gente della Valtravaglia, gli abbienti, i
benestanti, seduti sulle loro panche di famiglia, gli altri
accomodati come capita, stanno riuniti in chiesa per
assistere alla messa.
È quasi mezzogiorno quando si spalanca il portale del coro
e con molta discrezione entra l'ingegnere. È addobbato in
modo piuttosto inconsueto: in capo ha un fez rosso dal
quale cade un pendaglio dorato; indossa una specie di gilet
ricamato, dalle spalle in giù è avvolto da un grande
mantello di lana bianca con spenzoli colorati in modo
vario e acceso. Da sotto il mantello s’intravede un paio di
braghe alla turca molto basse di cavallo… le scarpe sono
l’unico capo di sua proprietà. Evidentemente ha indossato
un costume della collezione africana di Menghissu.
Si cava il fez dal capo e s'inchina appena. Rimane in piedi
in disparte, davanti alla sacrestia. Di botto si crea un gran
silenzio, poi un chiacchierio sommesso. Tutti osservano
quel viso dall’espressione solenne e assente posato sopra
un abito a dir poco paggliaccesco. E allo stesso tempo
sbirciano le reazioni della signora Sveva, di sua figlia e
Milano
123
dell'avvocato. La signora cerca atteggiando un sorriso
piuttosto affettato di raggiungere l'abside. Avvicinandosi
al marito, si genuflette alla volta del Santissimo e
bisbiglia:
“Ma come ti sei conciato? Dove ti eri cacciato?”
Lui non la lascia continuare. Si gira su se stesso e
scomparve rapidissimo per la porta del coro che dà in
sagrestia.
“Gloria Pater Imploremus”, intona il coro di cui io ero
grazie alle mie naturali doti canore uno dei solisti più
apprezzati.
Quel giorno avevo goduto il privilegio di assistere da un
seggio di prima fila all'imbarazzo della moglie e al
morboso piacere in cui si crogiolava tutto il pubblico dei
fedeli. Mi ero divertito più che se fossi stato al cinema.
Qualche minuto più tardi il rito si conclude: “Ite, missa
est!”
Con gli altri ragazzi del coro rientro in sagrestia. Ognuno
si preoccupa di spogliarsi della cotta bianca e della tunica
rossa, ripiegarla per bene e appenderla nei vari armadi. Il
mio armadio sta nell'atrio che dà al campanile. Il
sacrestano si affaccia verso di me e mi chiede: “Ehi voce
d’oro, ti spiacerebbe montare un attimo in cima e scoprire
Milano
124
cosa è successo lassù. Credo si siano attorcigliate le corde
delle campane… non suonano più!”
Detto, fatto… m’arrampico su per le scale; tre rampe, tre
ballatoi e sono finalmente arrivato agli arconi. Come
spunto fra il marchingegno dell’orologio, mi blocco per lo
spavento: lì, sdraiato sul traversone campanario, c’è il
corpo dell’ingegnere avvolto nel mantello da califfo
beduino.
“È morto?” mi chiedo ad alta voce.
“No! - mi risponde il signore sollevando il capo col fez.
Poi mi riconosce e aggiunge – Tu sei il figlio del
capostazione, vero? Ti ho sentito cantare, hai un bel
timbro da contralto… proprio il ruolo che avevo anch’io
da ragazzo nel coro.”
Impacciato butto là: “Mi fa piacere… sono montato qui
per via che le campane non suonano più.”
“Devi scusarmi, sono io che ho imbrigliato le corde.
Avevo bisogno di farmi un sonnellino e col baccano che
combinano ‘sti quattro batticlavi capirai… ma stai
tranquillo, adesso tolgo il disturbo: sciolgo le campane e
torno giù!”
Milano
125
Così dicendo mi sorride e mi accarezza sulla testa. Era la
prima volta che gli scoprivo un atteggiamento tanto
cordiale.
Da quel giorno m'è capitato spesso di rivederlo: lo
incocciavo
sul
lungolago,
appoggiato
ai
piloni
dell’imbarcadero, seduto sul muraglione del porto o
addirittura accovacciato fra le forcelle dei tronchi di un
olmo gigante o di un abete centenario.
Gli piaceva stare seduto in cima a qualcosa di elevato.
Spesso lo scorgevo sul campanile romanico della chiesa
grande.
Era
passata
qualche
settimana
dallo
scandalo
dell'Hermitage. La signora Sveva e sua figlia Alfa
cominciavano
ad
essere
piuttosto
preoccupate.
L’ingegnere che era il responsabile tecnico della vetreria
aveva lasciato il lavoro senza richiedere aspettativa e tanto
meno la liquidazione.
La signora s'era recata allora alla sede centrale per farsi
liquidare almeno lo stipendio, ma purtroppo, senza delega
firmata dall'ingegnere, soldi non ne potevano uscire. Tutto
congelato. Nell’apprendere la notizia alla signora non era
riuscito di trattenere una sonora bestemmia… in francese
s’intende, noblesse obilge!
Milano
126
“Merde de Dieu!, mi ritrovo addosso l'occhio malevolo
della gente e il suo disprezzo, tutto ‘sto bordello è
successo perché me la faccio con l'avvocato. E quello
manco mi aiuta. Ci sarà pure un modo di sbloccare almeno
la liquidazione!”
“Sì, c'è la soluzione - la tranquillizza l'avvocato - anzi più
di una.
Primo caso: l'ingegnere defunge per cause naturali. Se lo
ammazzi tu... la soluzione si fa un po' più complessa.
Secondo caso: si spara da se solo o si butta sotto un treno.
Ritirare la liquidazione, la pensione e tutti i suoi averi
diventa complesso, ma richiederà solo un po' di tempo.
La soluzione migliore: visto il luogo malsano dove
alloggia, gli ambienti perigliosi che frequenta, la dieta
poco salutare che va seguendo… tutto ciò ci fa intendere
che egli ci libererà del suo disturbo al più presto.
Ma la soluzione "monstr" è quella di farlo interdire, a per
riuscirci bisogna dimostrare che egli non sia più in grado
di intendere e di volere, quindi sollecitare il tribunale
affinché te lo affidi. Allora ti preoccuperai, per il suo bene
di sistemarlo in un istituto psichiatrico senza ritorno.”
La signora Sveva e sua figlia si sentono già più tranquille.
Basta attendere con pazienza. Ma purtroppo l'ingegnere
Milano
127
detto Signor-Conte, oltre che appollaiarsi su qualche
albero, affacciarsi dal campanile e accennare saluti col
capo ai cittadini che incontrava, esibire abiti esotici non da
segni
di
altra
stravaganza.
Oltretutto
un
simile
comportamento, in un luogo di pazzi come era Porto
Valtravaglia, non provocava certo grande stupore.
Però una tenera speranza stava affiorando.
Durante il funerale del Jean Bartieux capo fonditore della
cristalleria, ecco che si verifica un curioso incidente:
Butrisa, il porta tamburo maggiore che da anni andava
caricandosi sulle spalle la grancassa in occasione di parata
o processioni, crolla di schianto e con lui il suo tamburo.
Sono presenti parecchi operai fonditori e le loro famiglie
che seguono il feretro.
Il maestro direttore della banda chiede aiuto:
“C'è qualcuno che ci dia una mano e prenda il suo posto?”
Deciso si fa avanti l'ingegnere sempre in costume da
califfo che, senza attendere il benestare, si carica sulla
schiena la grancassa.
Il batti-tamburo gli allaccia le cinghie. L'ingegnere si
piazza a fianco dei due tamburini, fez in testa, e la banda
riprende a suonare la marcia funebre. Stupito ognuno
Milano
128
osserva il nuovo reggi-tamburo beduino mentre il battitamburo sferrava botti solenni.
La domenica appresso la gente, entrando in chiesa trova
l'ingegnere seduto su uno sgabello del coro. Non so dove,
s’è procurato una tunica bianca di pizzo e la cotta rossa,
l’ha indossata ed ora è li vicino a me… sempre con il fez
in testa. Il parroco entrando lo scorge e rimane un attimo
perplesso. Il Signor conte- cantore gli si rivolge con un
cenno perentorio che significa: non t’impicciare e fatti i
riti tuoi!
Il parroco inizia la messa. Noi del coro intoniamo il "De
Midia-Domine". L'ingegnere tituba un attimo, accennando
sotto tono, poi, deciso si unisce al nostro canto con una
bella estensione intensa da baritono. La gente solleva il
collo esterrefatta per meglio inquadrare il nuovo cantore.
A qualcuno viene anche da applaudire. La signora Sveva
si porta la mano agli occhi e mormora:
“Che vergogna!” Ad Alfa, la figlia, viene il singhiozzo.
“È chiaro che fa apposta il buffone per mortificarci, per
sputtanarci davanti a tutti”.
“Modera il linguaggio - la redarguisce l'avvocato - specie
davanti a tua madre!”
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129
“Scusa, dimenticavo che sputtanare viene da puttana e
certe allusioni in famiglia suonano irriverenti!”… Pach!,
Alfa si becca una sberla tremenda in pieno viso. Una gran
pacca materna. Allo schiocco, tutti si voltano a guardare.
Proprio in quel momento il coro intona l’alleluiatico:
“Alleluia, alleluia!”
Uno scampanellare per l’elevazione, quindi intoniamo:
“Genitori genitoque… perdona Signore l’offesa che a
te Padre nostro abbiam recato” DA TRADURRE IN
LATINO
Brandendo l'asta per la questua, il sacrestano transita tra i
fedeli facendo scorrere il sacchetto appeso davanti alle
loro facce. Sul lato opposto spunta l'ingegnere che, a sua
volta, si è procurato un'asta da questua e va lancia in resta
ad invitare i fedeli affinché siano generosi. Con un affondo
proietta il cestello con sacchetto a battere sul naso
dell’avvocato che spalanca la bocca per inveire. Il
sacchetto gli si infila fra i denti. Vorrebbe protestare, ma
capisce che l’unica soluzione è sborsare in fretta qualche
moneta. La questua violenta continua… a fine messa il
sacrestano conta più volte l’incasso incredulo.
La sera stessa la signora Sveva si reca a far visita al dottor
Ballarò, medico condotto che riveste anche l'incarico di
Milano
130
psichiatra. È lui che da il benestare perché si carichino i
fuori di senno sull'auto pubblica dei matti.
“Sono preoccupata per mio marito - introduce fra le
lacrime la signora - sono stravolta e mi sento totalmente
responsabile della crisi che lo ha colpito. Ma bisogna fare
qualcosa, sta peggiorando ogni giorno...”
“Immagino che lei desideri che l'ingegnere venga
ricoverato, vero signora?”
“Certo, non si può più lasciarlo circolare liberamente. Ha
saputo, ieri s'è messo a cantare in chiesa...”
“Ha ragione - annuisce il medico - cantare durante la
messa cantata... è un atto blasfemo e criminale. Bisognerà
che lo faccia caricare immediatamente sulla macchina dei
matti furiosi e con lui tutti i ragazzini del coro, il prete, il
sacrestano, le tre suore e le cinque beghine... stonate per
giunta!”
“Ma, dottore mi sta prendendo in giro?”
“Lei che ne dice, signora? Se si vuol liberare della
presenza di suo marito in paese e dintorni, mia cara, mi dia
retta: le consiglio un'altra soluzione.”
“Sentiamo, quale?”
“Personalmente mi sono incontrato con l'ingegnere. La
voglio tranquillizzare. L'ho trovato sereno e disteso, non
Milano
131
ha nessun risentimento verso di lei e l'avvocato, nessun
desiderio di rivalsa”.
“Oh, questa si che è bella - sghignazza la signora - nessuna
rivalsa? Lei non lo conosce il caro Signor Conte. Tutto il
suo comportamento e le stravaganze, sono messe in atto
all’unico scopo di umiliarci, provocarci, farci andare fuori
di testa...”
“Beh, questo dimostrerebbe che è tutt'altro che pazzo, e
che anzi, al contrario possiede un cervello lucido e
geniale!”
“No, questo dimostra soltanto che è una mente criminale!”
“Beh, se ne è convinta, non le resta che denunciarlo alla
polizia. A proposito… il commissario, che ho incontrato
ieri, ha ricevuto una richiesta firmata da lei, signora,
perché
si
decida
ad
arrestare
suo
marito
per
vagabondaggio, ma l'avverto che questo sarebbe un abuso
d'ufficio gravissimo, in quanto l'ingegnere si è legalmente
trasferito nella sua nuova catapecchia, con tanto di
indirizzo, via e numero civico. Non si ubriaca, ne compie
atti osceni in presenza di minori, non bestemmia in luogo
pubblico, non sputa per terra... e ha un'occupazione seppur
saltuaria...”
Milano
132
“Un’occupazione? Ma se non si presenta alla palazzina
della direzione da più di un mese ...”
“Lo so, ma io parlo delle sue nuove occupazioni...”
“E quali sarebbero? Cantare in chiesa, reggere il tamburo,
raccogliere
l'elemosina
per
la
diocesi
o
starsene
accovacciato sugli alberi...?”
“No, quelli sono hobbies non remunerati. Sto parlando del
suo incarico alle latrine”.
“Come dire alle fogne?” La signora s'ingozza con la
saliva.
“Si, il comune gestisce una trentina di pozzi neri, dove si
raccoglie il liquame proveniente dai vari borghi.
L’amministrazione si prende l'onere di ripulirli pompando
fuori il liquame appena fermentato. Suo marito si è offerto
per realizzare questa ripulitura e curare la manutenzione
delle pompe da sterco, il trasporto con le cisterne da e il
resto.”
“Ah, ecco da dove viene quell'odore fetido che ha sempre
addosso!”
“Intuisco signora che lei l’ha annusato. Quando è
successo?”
“L'ho rincorso per potergli parlare, convincerlo a desistere
da questo suo folle atteggiamento e lui non s'è voltato
Milano
133
nemmeno
a
guardarmi.
Io
gli
andavo
appresso
chiedendogli perdono, mortificandomi, ma ad un certo
punto ho dovuto desistere... proprio per la puzza che
lasciava dietro di sé... come di pesce marcio”.
“Ah, no, l'odore di pesce marcio è conseguenza dell'altro
impegno.”
“Quale impegno? ”
“Vuole un caffè? - chiede per prender fiato il dottore - l'ho
appena fatto fresco”.
“No, grazie... sono già abbastanza rovesciata di stomaco...
Quale sarebbe st'altro incarico allora?”
“La stazzatura dei cavedani in barile.”
“I cavedani ?”
“Sì, il pesce grasso che si mette sotto sale, pressato”.
“Lo so, alla "Spada-Fish". E lui, il Conte lavora lì ?”
“Sì, ma solo per qualche mattina la settimana”
“E lei, dottore insiste a volermi convincere che anche
questo di imbrattarsi di sterco e di pesce marcio non sia
messo in atto appositamente per mortificare, me e mia
figlia, agli occhi della gente...? Lo sa che non mi riesce di
circolare per strada senza sentirmi addosso il disprezzo di
quelli che incontro, per non parlare degli insulti, più o
meno bisbigliati. Da quasi un mese né io né mia figlia
Milano
134
veniamo più invitate alle feste. E quando ci invitano è solo
per metterci in bella mostra alla maniera degli animali da
baraccone...” e scoppia in un pianto disperato.
Il medico cercò di consolarl :
“Vedrà che tutto si sistemerà. Suo marito ha solo bisogno
di trovare se stesso”. La signora si rizza allora imbestialita.
“Ah sì? E trova se stesso pompando merda? Appestandosi
con i pesci marci, facendosi pestare mazzate sul tamburo,
cantando il "Te Deum" con il coro dei ragazzini e
standosene come una scimmia sugli alberi? E poi vi
rifiutate di caricarlo sul taxi dei matti?! È che siete tutti
d'accordo ed è me che volete far andare fuori di testa, ma
non ce la farete!- Un profondo respiro e poi – massa di
stronzi!!”
Lanciato il suo anatema, la signora Sveva se ne va
sculettando, cosa che le accade puntualmente nei momenti
di grande furore.
Qualche giorno dopo si viene a sapere che Alfa, la figlia, è
fuggita di casa. L'avvocato su sollecitazione della madre è
andato a cercarla. Intanto si arriva al venerdì santo.
A quel tempo, nei sette giorni che lo precedevano tutte le
campane venivano legate perché con i loro rintocchi non
Milano
135
avessero ad interrompere il sacro silenzio. Veniva bloccato
anche il macchinario che segnava e batteva le ore.
Per tutta la valle giravano i Mascaràt-de-dolo (maschere di
dolore): frotte di ragazzini col viso tinto di rosso,
abbigliati di nero che roteavano le raganelle, battevano i
tamburi e sparavano trik-trak a ripetizione. Ad ogni
crocicchio, i Mascaràt-de-dolo si fermavano e davano
l'avvisata alla memoria antica:
“Sem arivà al primo quarto”.
“El signor l'è bastonà”
“Spudà”
“E ghe fan turment”
“Jesus, basa i ogi e no fa lament”.
Quindi ricominciavano con i loro frastuoni:
“Vergognansa e perdision, bative! Bative la faccia e ol
coer con vergogna e pentiment”.
Di seguito proseguivano in silenzio fino al nuovo
crocicchio.
Anche questa volta i penitenti se ne vanno intorno
seguendo più o meno per lo stesso tragitto, ma quando
arrivano davanti alla villa della Signora Sveva stanno un
attimo in silenzio, quindi all’unisono cominciano a battere
Milano
136
i tamburi ed a emettere un lamento simile ad un ululato di
un branco di cani.
Il capo "battidur" da il segnale di inizio della tiritera in
litania.
“Vergognanza e perdision”
“Bative!”
“Troiamento de putana el Signor a ve condana ”
“Fornigon”
“Dona bramosa scelerà, ti el to omen sarit brusadi”
“Brusadi nel fogo ben rostidi col cü, la pàsera e i coion
tutti schisciadi a ribaton!”
“Pentive !”
E giù a battere come forsennati producendo un frastuono
terribile.… e poi petardi e botti a volontà.
In casa, la signora si tappa le orecchie, urla, poi esplode di
rabbia: spalanca la finestra del terrazzo e s'affaccia
brandendo un fucile da caccia a due canne. Quindi spara
nel gruppo dei penitenti. Due bordate tremende.
Fuggi fuggi generale, tamburi che ruzzolavano giù per la
scalinata. Insieme, due o tre Mascaràt-de-dolo.
Il fucile era caricato a pallini da caccia all'anatra. Fra i
ragazzi, in molti sono rimasti sbucacciati per fortuna quasi
esclusivamente solo sulle natiche.
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137
Un'ora dopo dal medico Ballarò c'è una gran folla di
Mascaràt-de-dolo che si fanno cavare i pallini. E un'altra
folla urlante di madri in caserma a far denuncia dai
carabinieri.
Nella notte del venerdì santo, in quegli anni, si
approntavano, ancora, le stazioni sacre. Ogni borgo
s’impegnava a mettere in scena un momento della
passione di Cristo.
Ai parrocchiani di Porto toccò allestire il cosiddetto
prologo alla Passione, cioè la scena di Erode che sbava
d'amore per Salomé, e che poi finisce col supplizio del San
Giovanni decollato.
Anch'io facevo parte della compagnia e mi toccò un bel
ruolo: quello di schiavo sventagliante. Piazzato sul fondo,
andavo muovendo in su e giù un ventaglione così da
arieggiare il terribile re, la sua amante Erodiade e la
splendida Salomé, danzatrice solista.
Al momento in cui la processione arriva al grande
porticato del Municipio che funge da palcoscenico, si
accendono quattro fari da lampara... e appare Erode che
abbraccia l'amante. Erodiade è interpretata da un ragazzo,
il Stralusc (saetta) travestito da donna con tanto di
parrucca e tette.
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I partecipanti alla processione si sono sistemati tutt'intorno
al portico. Dalle case e dai palazzi che racchiudono la
piazza, si è affacciata un sacco di gente. Da un terrazzo di
casa Mangelli si affaccia anche la signora Sveva.
Sotto il portico, il re e la sua concubina si rotolano in una
strana pantomima che assomiglia più a un incontro di lotta
greco-romana che ad un amplesso amoroso. Preceduto da
un botto di grancassa, entra in scena San Giovanni.
L'indice accusatore teso verso i fornicatori e lancia il suo
anatema:
“Vergogna, ludibrio carnale! Sia maledetta la meretrice!”
Ma ecco sopraggiungere le guardie che afferrano il santo
recalcitrante e lo trascinano via. Erodiade è presa da una
crisi di nervi... strepitando butta a terra piatti e vasi di
cristallo …tutta roba di scarto della premiata vetreria,
naturalmente. Colpo di scena: appare Salomé, la figlia
danzatrice… la madre scoppia in lacrime e va implorando
Erode:
“Ti prego, mozza il capo a quel bastardo di San Giovanni!
M’ha offesa!”
“Ma figurati - fa Erode - poi arriva Gesù e mi pianta una
maledizione che mi fotte per la vita!”
S'arresta un attimo, sbircia la bella Salomé e dice:
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“Sì, gli taglio la testa, se tua figlia balla per me.”
Salomé è già pronta:
“D'accordo ci sto, ma prima giura sul Signore che se io
danzo poi gli tagli la testa!”
“Sì, lo giuro, ma tu in cambio ti togli tutti i sette veli!”
“Facciamo cinque...”
“No, o tutti o niente.”
“Tutti!” urlano applaudendo i commensali alla tavola di
Erode. Applaude anche il pubblico:
“Prego maestro!”
Ecco l'orchestra: due fisarmoniche, un sassofono, due
trombe e il contrabbasso. Via con il liscio! Intonano un
tango molto languido.
La bella Salomé, (stavolta si tratta di una ragazza davvero
splendida) danza roteando armoniosa fianchi e natiche...
inarca la schiena, ondeggiano quasi a sfiorare il suolo.
Ogni tanto si sfila di dosso un velo e lo butta in faccia a
San Giovanni che è lì legato, mani e piedi.
Al terzo lancio di velo, Erode si leva in piedi, raggiunge la
ragazza e da lussurioso arrazzato, le salta in groppa come
ad una cavalla.
Salomé caracolla per la scena... si scuote e palpita nel
tentativo
di
disarcionare
il
cavalcante
indiscreto.
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Sopraggiunge la madre furente che brandisce un pesce
enorme per la coda.
Tutti i fedeli hanno ormai afferrato l'allegoria e
sghignazzano spudorati. Scoppia anche qualche applauso.
In molti si voltano verso il terrazzo di casa Rosmini per
spiare la reazione della signora Sveva.
Lei è lassù annichilita. Pare una statua del parco dei
Lazzarini.
Intanto sulla scena Erodiade sta prendendo la figlia a
pesciate in faccia. Cavalla e cavaliere rotolano a terra.
L'azione viene doppiata con botti di tamburi e pernacchi di
trombe come nell'avanspettacolo. Erode si rialza stordito,
si becca un'altra mazzata di pesce in piena faccia e crolla
al suolo Erodiade brandendo la trota sferra un altro gran
botto sulla cranio di San Giovanni che si stacca rotola sul
pavimento fino a colloccarsi miracolosamente nel bel
mezzo del classico vassoio… il trucco c’è ma non si vede.
Effetto scenico da manuale. Applausi… fine del sacro
dramma.
Qualche giorno dopo la signora Sveva che ormai tutti in
paese chiamavano Erodiade, fa i bagagli e se ne va con
l'auto caricata di valige fino all'inverosimile, seguita da un
camion a rimorchio stracolmo.
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La domenica dopo la grande fuga, come sempre, i
parrocchiani
gremiscono
la
chiesa
per
la
messa.
Sull'abside maggiore sfiliamo noi ragazzini del coro con
indosso le solite tuniche bianche di pizzo ricamate e le
cotte rosse. Dal fondo della navata viene avanti
l’Ingegnere… è abbigliato con giacca e pantaloni ben
stirati, camicia bianca e il solito fuolard al collo. Al
passaggio qualcuno lo annusa: nessuna puzza di pesce o di
cloaca, solo eau de toilette. Si va a sedere sulla panca con
inginocchiatoio di famiglia, sorride al sacerdote che
ricambia e fa segno a noi del coro di intonare "Te laude
Domine". A gran voce iniziamo a cantare: tonno solenne,
ma piuttosto mosso, quasi festante. Il conte ingegnere si
leva in piedi e si unisce al coro, tutto il pubblico dei fedeli
fa altrettanto… in un tripudio proprio da gran finale.
La “risciada”
Agli inizi della primavera tutti i ragazzi e le ragazze del
lago erano in fermento: stava per esplodere la “risciada”,
in poche parole è il tempo in cui tutti i pesci vanno in
fregola e letteralmente esplodono fuori dall’acqua. Per
coloro che sono totalmente digiuni di pesca e di ritualità
naturali della fauna ittica, dirò semplicemente che quello è
Milano
142
la stagione in cui i pesci vanno in amore (appunto fregola).
Lasciandosi trasportare dalle onde, le femmine arrivano
nei pressi della riva per depositare le uova fino a lambire
la risciada (costa sassosa). Di lì a poco sopraggiungono i
pesci maschi che fecondavano le uova dopo un rituale che
li vede sparati fuori dall’acqua con piroette e tuffi infiniti.
Tutti
noi
ragazzini
ci
si
incontrava
in
battera
sull’imbarcadero e quindi si decideva dividendoci in
gruppi dove andare: chi sceglieva di montare a nord lungo
la costa, e che di scendere verso Laveno. Ognuno s’era
portato uno o due secchi… i più organizzati perfino reti a
quadrella e retini da pesca. Quelli del mio gruppo avevano
scelto
la
spiaggia
verso
Luino.
C’eravamo
dati
appuntamento all’alba: bisognava trovarci sul posto della
fregola prima che il sole spuntasse dalle montagne.
Eravamo tutti eccitati, specie le ragazzine… oltre i secchi
impugnavano lunghe canne per scacciare le serpi che in
quell’occasione non mancavano di ritrovarsi, come noi, in
riva al lago.
I vecchi fabulatori raccontavano che quello di partecipare
alla sferzola dei pesci era un rito antico, che risaliva al
tempo delle prime comunità matriarcali del Verbano.
Milano
143
Il Civolla che era lo storico più prestigioso e riconosciuto
della tradizione locale… ci assicurava che nemmeno cento
anni prima solo alle donne, in particolare alle giovani che
stavano emergendo dalla pubertà, era concesso il
privilegio di partecipare alla grande fregola.
Era la prima volta che mi capitava di assistere a quello
straordinario fenomeno… non avevo ancora compiuto
dieci anni; forse, a parte due compagne di classe, ero il più
giovane di tutta la combriccola.
Arrivati alla riva, abbiamo cominciato a saltellare sui
piccoli sassi del greto…
“Attenti! Lì c’è un verdone!” ed ecco che ognuno si
lanciava contro quella povera serpe che se la dava a
gambe, si fa per dire.
“Eccone un’altra… via, scasciga!”
“Ma che ci fanno tutte queste serpi? – Chiedevo io –
Normalmente qui non se ne vedono mai!”
“Sono venute per la nostra stessa ragione – era la risposta
– per acchiapparsi qualche pesce appena comincerà la
fregola.”
“Perché? Cosa succede con ‘sta fregola?”
“Aspetta un attimo ancora e vedrai…”
Milano
144
Infatti non passa neanche un minuto che dalla conca dei
Verzoni (i monti della Valtravaglia) vediamo sparare una
raggiata a ventaglio di luce… si leva il sole e fa capolino
dal monte alto investendo con una lunga sferzola d’oro
tutta la spiaggia.
“Ecco, cominciano le alborelle!”
Dall’acqua appena increspata da una bava di vento… ecco
saltare per aria due o tre piccoli pesci e poi, più in là, un
getto sparato di trenta, quaranta in un botto. Su, su… e
SPLASH!… che ricadono nell’acqua. Sono femmine e
maschi che saltando si sfiorano: sembrano strusciarsi
innamorati nell’aria.
“Guardate adesso siamo alla gran sfregolata!”
Il sole di taglio coi suoi raggi va esaltando quel luccicare
di squame leggere di mille pesci impazziti. Qualche
manciata d’alborelle e acquarole va ricadendo sulla ghiaia.
Noi, completamente scalzi e zompettando con la maggior
agilità possibile sulle pietre che ci tormentano i piedi,
rincorriamo i pesci che saltellano a loro volta sul ghiaione.
Ne raccoglievamo a secchiate!
Ad un certo punto, uno dei ragazzi più grandi si toglie
maglia e braghette e brandendo un gran retino entra in
acqua dove si trova letteralmente tempestato da pesci
Milano
145
acrobati che gli volano addosso e da soli si ficcano dentro
la rete.
“Presto, passatemi il secchio!”
Il Pelata, un ragazzino dal cranio rasato, toltosi tutti gli
abiti di dosso e rimasto completamente nudo si getta in
acqua, accompagnato dalle grida scandalizzate delle
ragazze. Di lì a poco tutti si gettano in mezzo a quella
spruzzata
a
fontana
di
pesci
che
monta
fino
all’inverosimile. Ecco il culmine… anche una ragazza si
toglie le vesti, rimanendo in mutandine e coprendosi con
le braccia i piccoli seni, e a sua volta si butta.
“I cavedani!- grida una sua compagna gettandosi
seminuda – Stanno saltando anche i cavedani e i
lavarelli!”
Infatti ecco che adesso schizzano i pesci più grossi che
montano svirgolando in aria agili come delfini. Le ragazze
sono ormai entrate tutte in acqua… ci entro anch’io. Con
grande imbarazzo mi trattengo le mutande con una mano
poiché nel togliermi le braghe avevo strappato l’elastico…
ma in verità nessuno ci faceva caso.
Ora ragazzi e pesci saltano insieme nell’acqua.
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146
“Dio come sono in fregola!” grida un piccoletto
lanciandosi nel vuoto da uno scoglio, quindi esegue una
piroetta con spatasciata in acqua.
“Sì, sì… siamo tutti in fregola!”… e via a zompare!
Ormai i mastelli sono tutti stracolmi.
“Oh Dio! Mi si è infilato un pesce nelle mutande!”
“Tienilo stretto - lo sbeffeggia un amico – è di sicuro più
vispo e grosso del tuo naturale!”
Scoppia una gran risata. Sbottano anche le ragazze…
e sembra che riescano a sghignazzare anche trote e lucci.
“Dove scarichiamo i secchi?” chiede la ricciolina dai
piccoli seni.
Poco distante c’è una barca immersa nel fondo perché si
gonfi il legname. In quattro o cinque la tirano fuori, la
rivoltano con la chiglia all’aria così da svuotarla, quindi la
ripongono a galleggiare spingendola verso di noi e
facendola scivolare sul bagnasciuga.
“Qui! Zompate qui pesci, pescetti e pesciolini!”
Quasi ubbidendo all’ordine impartito, alborelle, cavedani,
piotte e troterelle si gettano davvero dentro la pancia della
barca.
Una morettina dalla pelle di latte, l’unica che esibisca
poppe regolamentari, urla disperata:
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147
” Oh Dio! Mi ha spaccato le mutande!”
“Chi? Dove? Come? Quando?” domandiamo tutti noi in
coro.
“Una trota, credo. L’avevo infilata dentro gli slip per via
che il secchio era stracolmo. ‘Sta disgraziata ha
cominciato a divincolarsi come una forsennata e me le ha
squarciate.”
“Niente paura, ti presto le mie!” La tranquillizzava il
Rosso e così dicendo, si libera delle sue mutande e gliele
lancia.
Il sole era già alto quando esausti siamo rientrati
all’imbarcadero spingendo il barcotto appesi alle sue
sponde. I nostri abiti sono ammucchiati sulla prua
dell’imbarcazione. Ormai s’è creata una tale euforia e
complicità per cui nessuno di noi si preoccupa più di
nascondere le proprie vergogne. Lì nella piccola
insenatura del castellotto ci togliamo quel che rimane di
mutande e slip… ma prima di rivestirci, ci rituffiamo
mandando grida da selvaggi e sguazziamo lanciandoci
l’un l’altro per aria.
Era la prima volta che vedevo tanti ragazzi e ragazze senza
niente addosso… sembravamo a nostra volta una”
fregolata” di pesci in festa!
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Amenofet e Nofret
Avevo compiuto da poco tredici anni. Una sera,
all’imbrunire, con quelli della battera siamo andati a
sgraffignare nel giardino della polacca che possedeva una
villa arroccata a cento metri a picco sul “Grifone”, uno
slargo di lago profondo più di 300 metri di un colore
sempre blu cobalto. Sapevamo dal “Vescica”, il più
anziano della banda, che la tenuta in quei giorni era
disabitata.
Ci siamo calati dalla murata di cinta scendendo lungo i
rampicanti. L’obbiettivo della nostra scorreria erano i
grappoli d’uva fragola che pendevano dal pergolato che
circondava quasi tutta la villa… sembravano frutti del
paradiso terrestre!
Eravamo in quattro: la nostra guida era il “Bigulot” che
s’era calato sul tetto del pergolato e avanzava strisciando
verso i grappoli più gonfi e succulenti. Noi lo imitavamo
badando di non cadere di sotto. Io ero l’ultimo della
comitiva, prima di me strisciava il “German”, figlio di un
soffiatore tedesco.
Stavamo rasentando la vetrata che s’affaccia sul
“Grifone”, quando all’istante le ante di centro si sono
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spalancate: noi quattro all’unisono ci siamo appiattiti fra le
foglie della vite. Qualcuno si è affacciato dal finestrone…
un uomo e una donna che, per fortuna essendo noi
completamente immersi nel buio, non ci potevano
scorgere. Ho sollevato appena la faccia per sbirciare e ho
riconosciuto la ragazza. Elise si chiamava, era la donna di
uno dei faccendieri più ricchi di tutta la valle: il Brizzi
detto “Scorridor”, un balordo a capo di tutta la ligera della
valle.
“Tu guarda che colore ha il lago è proprio blu cobalto, è la
prima volta che mi riesce di vederlo da così a picco, fa
paura!” dice Elise sottovoce all’uomo che le cinge la vita.
Ma l’uomo che sta con Elise non ha niente a che spartire
col ligera. È molto più giovane. Lui l’abbraccia, si
baciano… adesso parlano sottovoce, bisbigliandosi uno
nella bocca dell’altra.
Noi tratteniamo il respiro, io ho la faccia affondata fra il
fogliame, mi viene da starnutire, per fortuna i due si
staccano dalla finestra, rientrano appena, li sentiamo
gemere e ansimare. La paura non ci permette di godere di
quel clima da guardoni. Non so quanto tempo sia
continuato quel loro idillio con amplessi, intorcinate,
piccole grida e lamenti. Le luci, dall’interno, proiettavano
Milano
150
immagini sulla vetrata, ingigantendole e raddoppiandole,
cosicché si aveva l’impressione che ad abbracciarsi e a
rotolarsi come in una danza, fossero addirittura tre o
quattro coppie... certo quando hanno richiuso la vetrata e
spente le luci, noi eravamo esausti. Non riuscivamo più a
spiluccare neanche un acino di quell’uva profumata.
Ci siamo calati dal pergolato e cercando di fare il minor
rumore possibile abbiamo scavalcato il muraglione.
Raggiunto il sentiero scavato nella roccia, uno dietro
l’altro
si
camminava
senza
proferir
parola,
poi
all’improvviso Bigulot ha esclamato:
“Dio, come si “sbarlottavano” quei due! Ad un certo punto
non si capiva se giocavano a gattolarsi o si stavano
sgagnando la pelle!”
“Di certo se li becca il Brizzi voglio ridere le sgagnate - fa
il Vescica - La pelle gliela cava lui di sicuro.”
“Ma voi avete riconosciuto l’uomo con cui lei faceva
l’amore?” chiedo io impacciato.
“Sì, era il “Monco”, figlio della polacca.”
“Il monco?”
“Ma sì, possibile che tu non l’abbia mai visto? Gli manca
una mano, se l’è mozzata con l’elica del motoscafo.”
“Oh, poveraccio!”
Milano
151
“Ad ogni modo - fa il Vescica - Io mi farei mozzare anche
un piede, pur di farci l’amore con quella Elise. Dio che
bella che è! Per un attimo l’ho vista tutta nuda che
attraversava la vetrata”
La situazione di noi quattro… ladri di uva, sospesi
acquattati sul pergolato nel buio, la grande vetrata
illuminata sulla quale come fossimo al cinema venivano
proiettati i corpi dei due innamorati le cui ombre si
muovevano come danzassero in un rito di indicibile
passione, mi erano rimaste stampate nel cervello in
continuo movimento. Quasi per liberarmi da quella
ossessione ho cominciato a disegnare, a raccontare quelle
immagini accennando alle straordinarie deformazioni dei
corpi che si contorcevano nello spazio di luce e
s’ingigantivano riempiendo tutta la vetrata e poi si
rimpicciolivano raddoppiandosi, scomparendo… per poi
esplodere in sequenze assurde e piacevolissime. Stendevo
macchie di colore su una superficie nera… in primo piano
avevo dipinto grappoli d’uva e il profilo di un ragazzino…
quindi ritagliati nel rettangolo della finestra, due
innamorati che si tenevano stretti. La vetrata copriva quasi
tutto lo spazio del dipinto… le ombre colorate si
Milano
152
inseguivano deformandosi sull’enorme lastra quadrettata
degli infissi. Ogni bozzetto mi sollecitava altre soluzioni,
così ho dipinto e ridipinto decine di tavole. Mia madre mi
chiedeva:
“Cos’è ‘sta follia? Pare la cappella Sistina vista da uno in
trans!”
E io allucinato lo ero davvero.
Per fortuna, dopo qualche giorno quell’ossessione mi stava
del tutto uscendo di testa.
Sto passeggiando lungo la riva con il mio cane (non
l’avevamo ancora affidato al canile-lager). All’istante mi
sento chiamare: è lui, il Monco, figlio della polacca. Sta
affacciato alla balaustra dell’imbarcadero. È in controluce
e i capelli riccioluti sembrano incisi nel rame.
“Mi piacerebbe vedere qualcuno dei tuoi quadri che ha i
dipinto con me e Nofret!” (Quello era il vero nome della
donna del faccendiere).
Come fa a saperlo? Da chi l’ha saputo?
Qualcuno dei miei compagni di sicuro! Solo a loro e a mia
madre ho mostrato i dipinti.
Il ricciuto mi toglie subito dall’imbarazzo:
“Stai tranquillo, Brusapé (Bruciapiedi era diventato il mio
soprannome dopo la fiammante discesa appeso alla
Milano
153
teleferica), non l’ho saputo per via di una spiata. Il fatto è
che io vi avevo visti distesi sul pergolato dell’uva fragola.
Per caso poi ieri ho beccato il Manac e il Bigulot e gli ho
fatto un salta fosso. Loro, credendo che io sapessi tutto, mi
hanno raccontato anche delle tue pitture. Ti spiace
farmene vedere qualcuna? Mi hanno detto che sono molto
belle!”
“Non c’è problema!” gli ho risposto.
Mi ha accompagnato a casa. Siamo saliti nello stanzone
dove dipingevo e gli ho mostrato le tavole: è rimasto in
silenzio per non so quanto tempo. Poi sottovoce ha
mormorato:
“Te li compro! Quanto vuoi?”
Mi ha preso così di contropiede che ho balbettato qualcosa
senza senso. Poi ho concluso:
“Niente, niente… te le regalo volentieri –poi in fretta –
Basta che me ne lasci uno.”
Era incredibile la velocità con cui, servendosi di una mano
sola, riuscisse a sollevare i dipinti uno dietro l’altro, a
rivoltarli e a smazzarli come fossero un gran mazzo di
carte e alla fine infilarseli tutti sotto le ascelle salvo quello
che aveva deciso di lasciare a me.
Milano
154
“Mi hai fatto un gran regalo! – poi ha concluso uscendo –
Non so proprio come potrò ringraziarti…” e se ne è sceso
velocissimo le scale.
Gog gli andava appresso saltandogli intorno e cercando di
addentare qualche tavola che il Monco si portava via come
un bottino.
La sera stessa il Manac è arrivato sotto la mia casa
correndo trafelato:
“Scendi – mi grida e intanto mi viene incontro sulle scale hanno massacrato il Monco!”
“Massacrato? Quando? Dove? Chi è stato?”
“Il Brizzi con i suoi scagnozzi. In cinque sono piombati
alla villa della polacca… li hanno trovati tutti e due nel
letto. Lei l’hanno sollevata di peso, nuda com’era, e se la
sono portata via… con tutto che sgambettava, si
divincolava e gridava come un’aquila. Lui l’hanno
cazzottato e preso a calci fino a ridurlo un sanguinaccio!”
Ci interrompe un urlo di sirena.
“Ecco, lo stanno portando all’ospedale di Luino!”
L’autoambulanza transita proprio in quel momento a gran
velocità ed è seguita da una macchina nella quale
scorgiamo di sfuggita la polacca, sua madre.
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155
In chiesa tre giorni appresso, alla messa della domenica ho
intravisto Nofret: calzava occhiali neri e aveva il viso
tumefatto. Stava sul fondo, vicino al confessionale. Mi ha
fatto cenno di seguirla ed è uscita. L’ho raggiunta nel
vicolo dietro il campanile.
Mi ha preso le mani:
“I tuoi lavori li ho io! Non ci capisco un gran ché di roba
d’arte, ma ti giuro… quelle pitture mi hanno fatto venire i
brividi.
Eravamo
proprio
noi
due
impacioccati
d’abbracci!”
“Grazie. Come sta il Monc… voglio dire il Risul…
insomma il tuo moroso?”
“Si sta rimettendo pian piano. Io non l’ho ancora visto; sua
madre non vuole manco che vada all’ospedale. Dice che io
lo sto rovinando… il suo ragazzo. Per fortuna, lui mi ha
mandato un biglietto.”
“Io pensavo di andare domani a trovarlo.”
“Ecco, era per questo che ti ho chiamato. Puoi fargli avere
una lettera per me?” Così dicendo mi consegna una busta e
mi stampa un gran bacio sulla guancia, poi mi abbraccia.
Sto per andarmene un po’ sbirolato, quando lei all’istante
mi richiama:
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“Oh mi dimenticavo! Ho pensato di preparare una bella
sorpresa al mio rizzolo per il suo ritorno. Te la senti di
farmi un ritratto?”
“Subito?”
“No, se è possibile verrei a casa tua oggi dopo pranzo…
sempre che tua madre non abbia niente in contrario.”
“Mia madre sarà felicissima. Ti aspetto… a che ora
arrivi?”
Erano le due del pomeriggio quando all’improvviso ho
sentito bussare al mio camerone: era lei, Nofret.
“Ma da dove sei arrivata? Ero qui affacciato sul piazzale e
non ti ho vista attraversarlo!”
“Arrivo dagli orti… da dietro la casa. Ho saltato tre siepi e
due staccionate e così finalmente sono riucita a tirarmi via
di dosso i suoi scagnozzi che mi stanno sempre appresso.
Non vorrei che venissero a menare anche te!”
“Ah bene… bella prospettiva!”
S’è tolta gli occhiali scuri:
“Nel ritratto, ti prego, non metterci ‘st’occhio pesto!”
Ha davvero un occhio tumefatto, violaceo:
“Sei bella anche così!” azzardo e poi arrossisco all’istante.
La faccio accomodare a fiancio della finestra:
“Se non ti spiace, proverei a ritrarti in controluce.”
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“Decidi come vuoi… un attimo, aspetta – affonda la mano
nella sua sacca ed estrae un tubo portadisegni – Ho qui
una riproduzione che ti voglio far vedere. È un regalo del
mio Rizul.”
Srotola il foglio e lo stende: si tratta dell’ingrandimento di
una foto. Due innamorati egizi… forse un faraone con la
sua donna, uno appresso all’atra, si abbracciano teneri e
felici.
“Sono Amenofet e Nofret… Nofret, proprio come me! mi avverte lei - Gurada, hai notato come mi assomoglia?”
“È vero, è quasi il tuo ritratto!”
“Lo sapevi - fa lei pavoneggiandosi un po' - che io sono di
razza egizia?”
“Ma va?”
“Sicuro! Sono nata al Cairo e mia mamma è araba. Mi
piacerebbe che tu ci mettessi insieme come questi due,
abbracciati allo stesso modo. Tieni, ti ho portato una una
foto del mio Risul… se ti può aiutare.”
“Benissimo, allora bisogna cambiare posizione. Ecco,
straiati su questa specie di divano.”
Nofret si toglie la giacca e rimane con addosso un lungo
abito leggerissimo.
Milano
158
“Se vuoi, posso togliermi anche questo: non mi
dispiacerebbe esser ritratta nuda!”
Per poco, non svengo di botto. Lei si rende conto del mio
improvviso pallore e cerca di rimediare:
“Va beh, se preferisci ritrarmi a memoria… tanto mi hai
già vista spogliata dalla polacca quella sera, no?”
Ho chiesto di andare in bagno un attimo a fare pipì. Sono
tornato quasi subito. Lei si era messa in posa, sdraiata
come la Nofret egizia. Ero molto turbato.
La tela era già sul cavaletto.
“Senti, preferisco, per cominciare, metter giù qualche
disegno.”
Abbozzo su quattro fogli, poi comincio a disegnare sulla
tela e a dipingere. Seguivo incantato le linee del suo corpo
che correvano segnate dal controluce e l’inseguirsi dei
volumi che si incastravano larghi e maestosi. Non mi
rendevo nemmeno conto del tempo che passava… lei era
sempre lì sdraiata come affacciata in un altro mondo.
“Il sole sta calando. Dobbiamo smettere.”
Nofret si scuote come risvegliandosi:
“Fammi vedere cosa sei riuscito a combinare? - chiede
sollevando la tela - Sì, sì!” e si è messa a saltellare per
tutto lo stanzone.
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“Sono io… ah, ah, mi hai fatto le treccine come quelle
della mia antenata!” e mi è venuta vicino.
Mi aspettavo mi sbaciucchiasse… invece mi ha preso in
braccio e girando su se stetta ripeteva quasi cantando:
“Bravo! Bravo… il mio fenomeno! Vorrei restare incinta e
partorire un ragazzino magico come te!”
Poi mi scarica sul divano come un sacco e guardando
l’orologio eslama:
“Oh, mio Dio! Son già le sette. Sono in ritardo di un’ora.
Quel bastardo di Brizzi mi farà nero anche l’altro occhio!”
e via che se ne va sgambettando giù per le scale. Mi
affaccio alla finestra e la sgorgo che attraversa l’orto
correndo seguita da Gog che le scodinzola appresso. Mi
accorgo che nella fretta ha lasciato qui la sua sacca.
Spalanco la finestra e la chiamo, ma non mi sente…
neanche Gog mi sente o forse fa finta. Afferro la sua borsa
e mi precipito per le scale… taglio per i vicoli del paese;
forse riesco a raggiungerla prima che arrivi al palazzotto
dove abita col balordo. Monto la scalinata dei Malarbeti ed
eccomi lì davanti al cancello che da nel giardino del
Brizzi. C’è un furgone della Polizia e anche una
camionetta dei Carabinieri. Di lì ad un attimo vedo uscire
due poliziotti che spingono avanti il Brizzi ammanettato.
Milano
160
Appresso, in fila come i re magi, escono anche i suoi
scagnozzi tutti con le manette pesanti, da campagna. Con
loro c’è anche il mio amico, il Maresciallo dei Carabinieri.
“Cosa è successo?”
“Beh, tu dovresti saperlo…” e prosegue fino alle macchine
per controllare che i prigionieri siano sistemati a dovere.
Partito il furgone, torna indietro. In quell’istante
sopraggiunge Nofret con il mio Dansese che non smette
mai di strusciarlesi addosso… io e il mio cane abbiamo gli
stessi gusti!
Ad entrambi il Maresciallo racconta che la madre del
monco, la polacca lo stesso giorno in cui il figlio è finito
all’ospedale, è corsa dal commissariato di Luino a
sporgere denuncia contro il balordo per l’irruzione nella
sua casa di quegli energumeni con relativo pestaggio ai
danni del figlio, ricoverato con prognosi riservata. Inoltre,
tanto per gradire, i lestofanti si son portati via suppellettili
di valore e alcuni preziosi che stavano in un mobile della
camera della signora.
“Per loro disgrazia, siamo entrati nel momento in cui la
nostra onorata gentaglia stava confezionando porzioni di
coca da smerciare.”
“Tombola!” dico io.
Milano
161
La ragazza compie una gikravolta su se stessa lanciando
un grido acuto di trionfo. Il maresciallo le sfila rapidissimo
gli occhiali.
“Buon per lei che questi lividi sull’occhio testimoniano il
fatto che fosse costretta con la forza a rimanere col Brizzi!
Per di più c’è la prova di queste foto.”
Così dicendo mostra alla ragazza una sequenza di
immagini scattate alla villa; nel momento in cui gli
scagnozzi la sollevano nuda per portarsela via.
“Chi le ha scattate?” chiede Nofret stupita.
“I miei uomini erano appostati da un paio d’ore nel
giardino: avevano ricevuto la soffiata che la banda del
Brizzi sarebbe arrivata alla villa della polacca per regolare
i conti.”
“E com’è che non siete intervenuti a liberarmi e a tirar
fuori il mio ragazzo dalle grinfie di quei farabutti. Avete
lasciato che lo massacrassero… così, restando a guardare!
“No – fa il maresciallo – non solo a guardare… dalla
finestra abbiamo scattato un sacco di foto di quel
pestaggio e poi se li avessimo fermati quella sera, oggi
non avremmo la possibilità di incastrarli con la cocaina!
Calcoli poi che per l’aggressione si sarebbero beccati al
massimo un paio d’anni… invece per la droga se ne
Milano
162
beccheranno altri dieci almeno. D’accordo, abbiamo
lasciato che vi pestassero, ma adesso potete tirare il respiro
per tutta ‘na dozzina d’anni. Siete liberi di amarvi come
fringuelli a primavera!”
“Grazie
maresciallo…
già
che
c’è
non
potrebbe
incarcerare anche sua madre, la polacca?”
Il maresciallo si fa una gran risata: “Lei non solo è ‘na
bella guagliona, è pure vispa assai d’uocchi e di cerviello!
Ma dateme retta: stanne luntano de la droga se vuoi campà
cuntenta e sana!”
Trascorso un mese, il Monco esce dall’ospedale. La
madre, col pretesto che ancora non si è rimesso del tutto,
lo porta ad Ascona, dove hanno la casa paterna. Non
passano neppure tre giorni e il Monco è di nuovo a Porto.
È arrivato con il suo motoscafo, lo stesso che gli aveva
causato la mozzata di mano. Lei, bella come la sposa del
faraone è lì sul molo che l’aspetta da non si sa quante ore.
Lo scafo attracca, lui salta fuori, l’afferra per la vita e la
trascina in un ballo scatenato: girano, girano… finiscono
tutti e due finiscono in acqua. Tutta la gente che sta sul
lungolago accorre. I due riemergono e ridono sbattendo le
braccia sull’acqua e spruzzano tutt’intorno gli accorsi.
Milano
163
Ma la madre del monco proprio non ne vuole sapere che
suo figlio viva con quella “puttanella egizia”. Dopo aver
inutilmente tentanto di convincerlo con le buone, passa
alle soluzioni pesanti. Tanto per cominciare, vende la villa
a dei turisti tedeschi così da costringere il figlio e l’amica
a sloggiare, poi gli taglia i fondi. Il Monco ha sempre
campato con i soldi della madre, adesso come se la cava?
Gli è rimasto solo il motoscafo. Si mette allora a
disposizione di un impresa di trasporti merci e passeggeri.
Affitta una casetta proprio nei pressi della darsena, li
incontro
spesso.
Sono
proprio
felici.
Vorrebbero
organizzare un bel matrimonio, ma non possono: il Monco
è ancora sposato con una ragazza di Lugano. Non stanno
più insieme da cinque anni; in Svizzera c’è il divorzio, ma
lui è cittadino italiano e da noi non vale.
Una domenica invitano sul piazzale della darsena tutti gli
amici… ne hanno a bizzeffe. Ci siamo anche noi
ragazzini. Hanno deciso di celebrare un finto matrimonio:
sarà una cerimonia in rito copto. Arriva un soffiatore greco
con tutta la sua comunità… c’è un uomo ausetero
abbigliato con una tunica rossa e un cappello a tubo con
un cerchio finale. Il gruppo dei greci comprese le donne
sono in costume tipico del loro paese e hanno svariati
Milano
164
strumenti: trombe, viole, fisarmoniche. Cominciano a
cantare con musicalità che assomigliano al gregoriano.
La sposa indossa una vesta molto accollata che scende
come un colonnato con sottili plissé fino ai piedi. Lui è in
tight.
Durante la cerimonia in cui tutti impugnano candele e
scuotono campanelle, grande è la commozione. Qualche
donna non trattiene le lacrime.
Hanno sistemato un gran tavolo sullo spiazzo in riva al
nostro lago… stanno servendo un pantagruelico pranzo
offerto dai pescatori. Sul più bello arriva anche il
parroco… è venuto ad abbracciare i due sposi della
concorrenza. Ho sempre pensato che quel prete fosse un
uomo di grande spirito!
È il momento dei regali; quando tocca a me, tiro fuori una
tavola tutta impacchettata. Lascio che sia lo sposo a
liberarla dai lacci e dalla carta, anche Nofret l’aiuta
fremente. Alla fine si scopre il contenuto. Appaiono loro
due in gran ritratto, sdraiati uno appresso all’altro,
seminudi, ma adorni di collane. Gli apprezzamenti sono
coperti dalla musica di una banda di ottoni che intona un
gran valzer e la piazza si trasforma in una gigantesca
balera.
Milano
165
Come comincia a calare il sole, tutti accompagnano gli
sposi all’approdo della darsena dove è preparato il
motoscafo adorno di fiori. Nofret salta dentro all’unisono
col suo Rizzul.
La banda inizia un gran finale semi glorioso. Parte il
motoscafo, tutti applaudono e salutano agitando le braccia.
Qualcuno da la notizia che la madre polacca è morta una
settimana prima e che ha lasciato tutto al figlio
perdonandolo… una fortuna.
Ci stiamo allontanando dalla darsena, quando sentiamo un
gran botto, ci voltiamo a guardare verso il lago. Il
motoscafo s’è impennato, sembra volare, poi di colpo
scende a picco verso l’acqua e si infila dritto nel lago fino
ad inabissarsi… scompare. Tutti accorrono. I pescatori
salgono sulle loro barche. Qualcuno mette in moto un altro
motoscafo. In pochi secondi sono laggiù sul luogo del
disastro. Dal motoscafo un ragazzo si tuffa… arrivano i
pescatori, altri uomini scendono in acqua. Li hanno
ripescati, li caricano sulle barche, ma indugiano. Stanno
cercando di far vomitar loro l’acqua. Sul molo
sopraggiunge anche il medico condotto… qualcuno è
andato a prenderlo, ha con se dei medicinali che riattivano
la respirazione. Tornano le barche: i giovani vengono stesi
Milano
166
sul prato, uno vicino all’latra. Il medico pratica le iniezioni
ad entrambi. Qualcuno preme il torace al Monco e si
prodigano anche con la ragazza… passano i minuti, ma
non si riprendono.
Siamo
tutti
intorno
come
pietrificati.
Il
parroco
s’inginocchia, li benedice e prega.
Cominciano a riaccendere le lunghe candele della festa. Le
due salme non si possono rimuovere. Bisogna attendere il
giudice di servizio che arriva da Luino.
Il cielo si fa rosso e proietta un alone vermiglio su tutti
noi.
I Bindula
Bindula viene da abbindolare, beffare. I bindula erano
appunto, una banda di balordi sfaccendati, autentici
campioni della beffa, addirittura geniali nell'architettare e
mandare a segno scherzi a dir poco diabolici, quasi sempre
crudeli.
Organizzavano "bindolate" ai danni di tutti gli sprovveduti
della valle e dintorni. Non guardavano in faccia nessuno...
erano spietati. Ma il loro soggetto preferito era l'Ardito,
detto "Pacioch". Un energumeno candido e credulone,
pareva un tronco dal quale spuntassero margherite: il
Milano
167
classico
"grand-gross-e-ciula".
Insomma
il
capro
espiatorio ideale per quei ciurlatori balordi.
Uno dei capi della banda, si fregiava del nome di una
famosa pianta urticante: Gratacù.
Il
Gratacù,
si
ritrovava
un
giorno
dall'amico
sfasciacarrozze, sopra il paese.
Nell'officina stava smontando una vecchia auto, facsimile
della gloriosa Bugatti, per utilizzarne solo alcuni pezzi, gli
altri erano da buttare. Avevano già staccato le fiancate,
portiere comprese, il cruscotto, la voluta del bagagliaio e il
motore ridotto a un catorcio. Alla vista di quel relitto
d’auto al Gratacù viene un'idea sbilenca: convince l'amico
sfasciacarrozze ad imprestargli il rottame, così come sta,
per mezza giornata. Quindi con l'aiuto di altri due bindula
come lui, si da da fare per riassemblare di nuovo la
gloriosa macchina e riverniciarla con uno smalto brillante.
Il motore lo tengono da parte. Quindi da perfetti carrozieri
ciurlatori, servendosi di un rotolo di bava da pesca (la
cosiddetta lenza), i tre assicurano ogni pezzo alla scotta
del telaio e fanno scorrere i vari fili, rastremandoli e
affrancandoli dietro il bagagliaio. In poche parole hanno
appena imbastito l’intera carrozzeria.
Milano
168
Approntata la trappola, si danno a spingere la macchina
tenuta insieme dai fili giù per la discesa che porta alla
darsena di fronte allo chalet del bar Mira Lago. In vista
dello chalet i due bindula si acquattano dietro il bagagliaio
e la fanno scivolare fino allo spiazzo. Dentro l'auto c'è il
Gratacù che finge di guidarla.
Giunti davanti al bar, tutti i clienti seduti ai tavoli si levano
in piedi e osservano meravigliati quella vettura da
museo… il finto autista scende e chiama l'Ardito Pacioch,
che se ne sta seduto proprio lì fuori, come un gattone
imbesuito.
“Ehi, mi fai un favore? Se non ti disturbo...”
Il Pacioch scatta in piedi all'istante. Poter essere utile a
qualcuno dei bindula è per lui un onore ineguagliabile.
“Mi si è asciugata tutta l'acqua del radiatore... per poco
non vado a fondere tutto quanto. Mi fai una cortesia,
Ardito, vai dentro nel bar e ti fai dare un secchio d'acqua.
Guarda ti lascio aperta la portiera... mi raccomando, poi
chiudila, ma senza sbattere come tuo solito. È una
macchina molto preziosa e delicata!”
Il tontolone si precipita nel bar, tutto eccitato. Gli capita
raramente che gli concedano tanta fiducia! Torna di corsa
Milano
169
con il secchio dell'acqua e trova il cofano dell'auto già
spalancato.
Il Gratacù afferra il secchio:
“Grazie, dai a me, faccio io, tu preoccupati di chiudere la
portiera... fai piano!”
L'Ardito si sforza di agire più dolcemente possibile, ma
come spinge la portiera, quella si richiuse di scatto con un
gran botto. Dietro il portabagagli, i due compari tirano con
forza il cavo della trappola: strappano le lenze fissate ai
vari pezzi della macchina cosicché tutto l’assetto crolla
rovinosamente… franano le portiere, il cruscotto salta per
aria,
si
spalanca
il
cofano.
Scatta
il
congegno
decappottabile che scaraventa il tetto proprio addosso al
Gratacù… il ciurlatore recita un rovinoso ruzzolone e resta
a terra come morto.
Da dietro la macchina a pezzi spuntano all'istante, come
burattini dalla cesta, i due compari che recitano terrore e
disperazione.
“Cristo, Ardito ma cosa hai combinato?!”
“Ci hai buttato una bomba?”
Il povero Pacioch è annichilito, stravolto.
“Cos'è ‘sto disastro?” chiedono a gran voce i clienti che
escono spaventati dal bar.
Milano
170
“Non so - balbetta l'Ardito - io ho chiuso solo la portiera…
piano, piano!”
Alcuni soccorrono il Gratacù, che recita sempre il morto
fresco. Appena rinvenuto, Gratacù scatta come una
catapulta e aggredisce l'Ardito:
“Bestia scatenata, ti rendi conto che hai mandato in pezzi
un gioiello della tecnica?! Ce l’avevano imprestata solo
per un’ora. E adesso chi la ripaga?”
Uno dei balordi grida indicando l’interno del cofano:
“Guardate, qui non c'è più il motore, è sparito!”
Tutti si guardano intorno... Un ragazzino punta il dito
verso il grande platano:
“È lì, sulla pianta! Si è incastrato fra la forca dei due
rami!”
È inutile sottolineare che gli organizzatori della beffa
l'avevano sistemato lassù prima della sceneggiata.
“Ditemi voi – fa osservare uno dei compari - che botta ‘sto
energumeno deve aver tirato per far schizzare il motore
così in alto! È una forza della natura. Ha dei muscoli da
bestia, bisognerebbe imporgli di girare con due cerchi di
ferro intorno nelle braccia per bloccargli la potenza
propulsiva, se no è un pericolo per tutta l'umanità.”
Il povero Ardito si guarda intorno come perduto,
deglutisce mortificazione... d'un colpo si decide.
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“Va' bene, ditemi da che fabbro si deve andare a farsi
mettere ‘sti benedetti cerchi...”
“Dal maniscalco!” gli rispondono in coro. E così, come in
processione lo accompagnano tutti a sistemargli davvero i
ferri che, guarda caso, erano già pronti della sua misura!
Dal nonno
A quattordici anni sono stato ammesso al Liceo di Brera
attraverso una selezione molto dura. Fra trecento
concorrenti, solo quaranta avevano superato l’esame di
ammissione.
Quell’anno, per le vacanze di Pasqua sono andato da
nonno Bristìn e dalla nonna. Appena arrivato in
Lomellina, mi ha stupito che non mi venissero incontro i
soliti nugoli di moscerini e zanzare. Per forza! Eravamo
solo a marzo e la spollazzata degli insetti rognosi era
ancora da venire.
In compenso, al tramonto, man mano che il sole
s’affondava dietro lo scorrere del Po, saliva il gracidare
delle rane che all’istante s’ammutolivano tempestando di
tonfi l’acqua dei canali e delle rogge… non per niente
eravamo a Sartirana.
Milano
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Come sono arrivato al cascinale del nonno, quasi non lo
riconoscevo: i rampicanti che salivano lungo i pilastri
degli arconi del quadriportico erano fioriti… dalla
balconata sottotetto scendevano gelsomini e cascate di
rosette. Anche contro i muri delle stalle e della legnaia
c’erano sviorgole di colore.
Non parliamo degli orti… appena col nonno siamo
montati sul ponte a schiena d’asino che attraversa il canale
e ci siamo affacciati di la, davanti a noi ci sono apparsi gli
orti disegnati come un’enorme tavola da gioco degli
scacchi, trapuntata da infinite tessere di mosaico che
proponevano una prospettiva impossibile… da bloccarci il
fiato. Le pedine maggiori e minori erano gli alberi da
frutto che avevano sparato fiori a pioggia, ad ombrello, a
sbroffo. In mezzo il bersò vestito da strulli rossi era la
regina. Il quercione affogato dalle zinale gialle aveva
proprio la positura di un re furibondo. I cavalli erano veri:
il bertocco e la puledra.
Mio nonno godeva in silenzio del mio stupore, poi mi ha
soffiato, quasi da suggeritore:
“Non guardare solo con gli occhi, guarda anche con il
naso!”
“Guardare col naso?”
Milano
173
“Sì, annusa, ascolta gi odori e i profumi!”
“Eh sì, li sento… sono buonissimi!”
“Attento che il profumo, l’odore è qualcosa che devi saper
leggere. Per esempio, vieni qui sotto a ‘sto ciliegio: annusa
lento, aspirando piano. Senti, ha un fondo appena salato…
questo invece che è un altro ciliegio ha un odore più dolce,
quasi rotondo e più intenso dell’altro. E sai il perché? Per
il fatto che il primo albero ha buttato i fiori troppo presto e
s’è beccato una gelata. Quest’altro non ha avuto fretta di
fiorire e ha evitato il guaio!”
“E tu lo capisci dall’odore?”
“Certo, e dall’odore so già come saranno i frutti: il
raggelato li farà tardi e magri, il secondo darà sgrafioni
pieni e profumati.
Del resto succede così anche fra gli uomini. Se un
bambino si becca un malanno serio, prima che si riprenda
ci vuol tempo, buone cure, cibo e calore e dal suo odore si
può capire che non è in gran forma.”
“E com’è che i dottori quando ti visitano non ti annusano
mai?”
“Perché hanno dimenticato l’antica medicina. Sui trattati
salernitani che insegnavano come si conduce una visita sul
paziente c’è scritto: ‘Tasta la sua pelle e i suoi muscoli dal
Milano
174
collo fino ai piedi, ascolta come gli circola il sangue,
assaggia con le dita la pelle fino a scoprire dove è dolce,
umida o dove è asseccata e soprattutto annusa, indovina
l’umore, il salato, l’amaro… là dove è piacevole e dove
pute… come a dire dove puzza!”
“Davvero? Ma quante cose sai tu nonno… ma hai studiato
da dottore?”
“No, sono solo un gran curioso che non s’accontenta
facilmente delle nozioni che ti propinano sia i libri che i
professori! Vedi, per le piante, per le patate, i fiori o i
pomodori il discorso è lo stesso: se una mela è beccata da
un insetto bastardo o infettata da un virus, subito reagisce
cambiando il suo odore, prima ancora dell’aspetto. È un
segnale che ti da gratis.
Così come per un uomo o una donna… il suo buon odore
non ti avverte soltanto che sta in salute, ma anche del suo
umore. Se poi ti lancia una sberfola di profumo, significa
che sta provando un’emozione, che magari tu le piaci e se
tu ci stai, se senti un fremito o ti batte il cuore, stai
tranquillo che allo stesso modo anche tu sprizzerai
nell’aria il tuo messaggio di odore compiaciuto!”
“E tutti si accorgono? Basta che sniffino?”
Milano
175
“Purtroppo no. Uno che s’innamora, guarda negli occhi la
sua ragazza, s’accorge che lei è impallidita o arrossita, che
trema, che ha le mani madide di sudore per la
commozione, ma non ascolta il suo odore, non lo sente
perché abbiamo perso l’olfatto… siamo rimasti castrati di
questo senso fondamentale!”
Ero costernato: “Che guaio! E ormai non c’è più niente da
fare?”
“Beh,
qualcosa,
facendo
degli
esercizi,
si
può
rimediare…”
“Esercizi di annusata?”
“Sì, proprio: allenarsi a snaricciare ogni cosa, ogni
persona come fanno gli animali. Un cane, che t’incontra, ti
annusa… se non gli piace il tuo odore se ne va schifato e ti
va bene se non ti piscia pure addosso.”
“Nonno mi stai a sfottere! Adesso per ritrovare l’olfatto
devo fare il cane … mettermi a carponi e annusare le game
e magari anche il sedere di tutti quelli che incontro?!”
Il nonno ride proprio di gusto:
“Complimenti! Ottimo sfottò. Ad ogni modo ti consiglio
di provarci, magari senza dare troppo nell’occhio…
pardon, nel naso, ad assaggiare le puzze e gli odori buoni.
Vedrai che ti farai una bella cultura!”
Milano
176
“Una cultura sulla puzza?!”
“Sì, non ti sei mai chiesto perché le donne e ormai anche
gli uomini si annaffiano di profumo?”
“Per coprire i cattivi odori e il sudore rancido.”
“Se per quello, basterebbe una bella sguazzata con sapone!
No, il fatto è che la gente non si fida più del proprio odore
naturale e soprattutto dal momento che, a seconda degli
stati d’animo, ognuno varia intensità, sapore, asprezza,
rotondità è meglio cancellare ogni traccia dell’emozione
perché, se appena lo sniffatore di profumi ha il naso
addomesticato, può scoprire ogni atteggiamento falso o
naturale: l’imbarazzo si manifesta con un odore ben
preciso, la commozione libera un piacevole sapore,
l’arroganza o l’ipocrisia una puzza da volta stomaco!”
“Nonno vuoi dire che, se mi esercito, una annusata… e
nessuno con me può fare il furbo?”
“Sicuro! Tutto in natura ha un linguaggio: il gestire, il
gesticolare della gente, il modo di camminare, di sedersi,
di mangiare, di dare la mano… il modo di usare la voce e
di articolare le parole… tutto è un enciclopedia di segnali
impagabili ed è come se tu strappassi i vestiti di dosso alla
gente, come se li vedessi nudi, per quello che sono…
anche il re vedresti nudo!”
Milano
177
Alla fine di questa folle tirata del nonno mi veniva da
battergli le mai:
“Da dove ti vengono ‘ste idee? Non mi dirai che ti
nascono così, per loro conto!”
“No, niente nasce da niente! A cominciare da ogni idea
sputata dal cranio di un uomo fino alla scoreggia sparata
dal culo di una scimmia. Manco uno starnuto sbroffa così,
da solo. Ogni idea nuova viene sempre dall’innesto fatto
dentro un tronco senza camole, ricco di fermenti che si
incanalano attraverso un gran numero di rami colmi a loro
volta di idee altrettanto sconvolgenti!”
“Basta nonno! Con tutte ‘ste metafore mi mandi via di
testa! A che cosa alludi con quel tronco senza camole?
Cosa significano i rami?”
“Significano una bella base di conoscenza pratica e poi
un’infilata di testi, di libri da leggere con golosia da
fanatico, poi, di nuovo, la ragione e la pratica.”
“Va bene, quando sarò più grande ci proverò! Ma tu
nonno come hai fatto da contadino ad impararti… come
dire, farti tutti ‘sti innesti di sapere. Io ti ascolto anche
quando parli con i tuoi compagni di osteria… mi pare che
tu faccia addirittura fatica ad esprimerti come loro.”
“Dici che mi sono montato la testa?”
Milano
178
“No, non dico che ti dai delle fotte… intendo per i
discorsi, per i concetti.”
“Ecco ti svelo subito che il mio colpo gobbo è stato
l’incotro con don Gaetano, parroco di Casale Monferrato,
o meglio, di una diocesi del contado. Ce l’avevano
mandato per punizione a fare il prete di parrocchia. Prima
ancora di prendere i voti, era professore d’Università… ci
faceva scuola a noi ragazzini e riusciva a farci prendere
passione. … perché era tutto come un gioco pieno di
battute da ridere, e poi storie più belle delle favole. Pensa
tu, ero così preso dalla voglia di imparare, che scappavo
dai campi pur di non mancare a una sua lezione. Guarda
personalmente io, come memoria non sono un Pico della
Mirandola, ma se mi raccontano o leggo di un problema o
di un fatto che mi coinvolge, te lo posso raccontare anche
dopo un mese, senza sbagliare di una parola!
Don Gaetano era uno con le idee un po' diverse da quelle
dei terrazzari, cioè dei padroni delle terre e delle filande.
Spesso sparava loro delle bordate terrificanti anche
durante la predica. Finché qualcuno non gli ha combinato
una trappola. Lui stava in un casone proprio attaccato al
muro della chiesa; per arrivarci bastava salire per una
rampa di scale direttamente dalla sacrestia. Una mattina
Milano
179
scendeva per la messa e qualcuno ha ben pensato di
segargli via i primi due gradini: è venuto giù come un
sacco! S’è spaccato tutti i due femori ed è rimasto per non
so quanto tempo immobilizzato a letto. Io andavo a
tenergli compagnia quasi tutti i giorni, appena di ritorno
dai campi. Lui per ringraziamento mi leggeva qualche
capitolo, quando era stanco leggevo io. Quanta roba
abbiamo letto: libri di storia, filosofia, perfino di
meccanica razionale… E poi romanzi, addirittura testi
censurati dal Vaticano. Per esempio, l’edizione di un
Vangelo tradotto nel ‘500 dal greco in dialetto mantovano
e stampato di nascosto a Ginevra. Il traduttore era finito
sotto processo per eresia e in seguito bruciato vivo.”
“A ‘sto punto com’è che non ti sei fatto prete anche tu?”
“Scusa, ma non ti salta in testa che se tuo nonno fosse
andato prete, la tua mamma non sarebbe nata e tu adesso
non saresti qui ad ascoltarmi?!”
“Ah! L’hai fatto solo per far nascere me! Grazie! Di sicuro
nonno, a sentire certi tuoi discorsi da sovversivo non si
direbbe che tu sia stato educato da un parroco!”
“Non giudicare mai nessuno dall’abito che porta ragazzo
mio! Ad ogni modo, non è il solo a cui debbo tutto il mio
ammaestramento. Ti ricordi il Professore Trangipane che
Milano
180
insegnava alla facoltà di agraria all’università di
Alessandria e veniva qui con i suoi allievi? Lui e quei suoi
ragazzi venivano qui prima ancora che tu nascessi.
Arrivavano implacabili a farmi un sacco domande di
agronomia pratica. Per non far brutte figure, ho dovuto
imparare anche la teoria: studiavo sui testi che mi
procurava il Professore come fossi io a dover dare gli
esami.”
“Peccato che non l’hai fatto nonno! Ti saresti beccato
sicuramente una laurea!”
“Pensa tu, era proprio quello che diceva il Professore… e
poi aggiungeva che sarebbe stato un delitto: ‘Caro Bristìn,
oggi tu sei un fenomeno: sei l’unico contadino docente che
si sia al mondo! Con la laurea saresti invece un professore
qualsiasi.”
Il viaggio degli Argonauti
Frequentavo da qualche anno Brera; compivo in quei
giorni sedici anni. Mi alzavo ogni mattina alle cinque e
mezza, mi lanciavo di gran carriera percorrendo tutto d’un
fiato il lungolago e, tenendo un orecchio sempre teso
all’uscita delle gallerie dentro e fuori delle quali spariva e
Milano
181
riappariva il treno proveniente da Luino, ingaggiavo
perennemente la gara a chi arriva prima alla stazione. Una
volta sola ho perso il match, causa una gran tombola sulla
linea del traguardo… era notte fonda e non mi ero accorto
di un tubo del gas posto di traverso alla strada.
Salivo spesso sul treno già in corsa con i compagni di
viaggio che mi incitavano e mi abbrancavano al volo per
tirami dentro il vagone appena avevo appoggiato il piede
sul predellino.
Il treno era formato da cinque o sei vagoni: c’era quello di
seconda classe, tutto a scompartimenti di otto posti, il
resto dei vagoni era di terza classe, cioè composto di un
solo ampio spazio che noi ragazzi preferivamo in quanto
ci permetteva di stare tutti insieme. Una masnada di
maschie e femmine, studenti, giovani impiegati e qualche
operaio… salivano tutti alle varie stazioni a piccoli gruppi
fino a stipare l’intero convoglio.
Io, con qualche altro amico della Valtravaglia, coprivo il
ruolo di “contastorie”, poi c’erano ragazzi e ragazze che
cantavano accompagnandosi con chitarre e fisarmoniche.
A Caldé saliva spesso una vera e propria banda di ottoni: i
due che suonavano il flauto e il trombone a culisse erano
addirittura allievi del conservatorio. Così il nostro vagone
Milano
182
godeva del soprannome di “Caravàn de cioch” (Carovana
degli ubriachi).
Ogni tanto disertavo da quel pandemonio e mi rifugiavo in
un altro vagone dove poter studiare, ma non sempre ci
riuscivo: i miei compagni mi venivano a sequestrare e mi
imponevano di raccontar loro almeno un paio di storie. A
quel tempo possedevo un repertorio piuttosto limitato, per
cui per non ripetermi ero costretto ad inventarmi sempre
nuove avventure buttando in paradosso grottesco imprese
storiche famose come quella di Garibaldi e la spedizione
dei Mille… con la nave ferma all’attracco di Quarto che
indugia poiché mancano ancora tre garibaldini. Se non
fanno il pieno, mica possono chiamarla la “Spedizione dei
Novecentonovantasette”!
Cominciano
allora
ad
acchiappare chi gli capita… due ubriachi fradici, il primo
si chiama Nino Bixio l’altro Santarosa e per ultimo, uno
che è appena evaso dalla galera di Genova.
Sempre lì, nel vagone di terza classe sono nate così per
caso atre storie impossibili a ribaltone dedicate a
Cristoforo Colombo, ad Ulisse e altri eroi epici.
In particolare l’Odissea era diventato il mio magazzino
inesauribile di motivi satirici e pagliacceschi.
Milano
183
Ecco il tormentone di Ulisse che cerca ogni volta di
riprendere il mare per tornarsene a casa e Nettuno che lo
cura, sbirciandolo da sott’acqua da dentro una balena…
povero pachiderma del mare, costretto a starsene sempre
con la bocca spalancata, scossa di continuo da urti di
vomito!
Puntuale esplode una tempesta: Ulisse si trova sbattuto su
un’altra costa. Eccolo dai Feaci, e poi nelle braccia di
Nausica.
Nettuno sbatte manate sul mare piatto e si alzano onde più
altre di montagne; la nave si sfascia e questa volta l’eroe si
ritrova scaraventato sull’isola Eea, fra le braccia di Circe e
si fa travolgere dalla passione: fa cose da pazzi con la
maga golosa. I suoi compagni intanto trasformati in maiali
zozzi si annoiano, si divertono solo un po' guardando
Ulisse che fa cose da porco con la bella Circe!
Ma è chiaro, Ulisse non aveva nessuna intenzione di
tornarsene a casa: quel vivere in continuo sballo
d’avventura gli piaceva troppo! L’idea di tornarsene ad
Itaca, irta di sassi, con una moglie che fa la maglia e tesse
la tele in ogni momento, un cane pulcioso che gli gira fra i
piedi non gli va proprio giù!
Milano
184
In verità è lui che va a cercarsi le tempeste per il pretesto
di non tornare, tant’è che prima di staccarsi da una costa,
bada bene che il Dio del mare sia ben sveglio e incavolato
con lui. Anzi, quando si rende conto che Nettuno comincia
ad averne abbastanza di perseguitarlo, lui che fa?
Sbarca apposta nell’isola dei ciclopi va a tampinare
Polifemo, il figlio di Poseidone, e sacrifica una mezza
dozzina di suoi compagni offrendoglieli belli freschi da
sgranocchiarli quindi lo ubriaca e lo acceca con un palo
che, guarda caso, si era portato preventivamente appresso
dentro l’antro del ciclope.
Ma andiamo… è possibile che uno scaltro marinaio
inarrivabile com’è Ulisse per dieci anni non riesca a
staccarsi dalle coste della Sicilia?
E sì, perché, fateci caso, è sempre intorno a quest’isola che
continua a girare. Si fa tutti gli scogli, le insenature intorno
e al massimo arriva per un attimo a toccare la Tunisia,
Malta o Pantelleria… poi, subito di nuovo fa rotta verso la
costa sicula si Scaramia!
Quando torna a Itaca è solo per un incidente: lui cedeva di
essere arrivato a Zacinto!
“Maledizione Mi ritrovo a casa!” e pur di non essere
riconosciuto, si trucca da barbone, ma quel bastardo del
Milano
185
suo cane lo riconosce e lui gli sferra una pedata che lo
ammazza. Solo Ulisse poteva far secco un cane con una
scarpignata del genere.
“Papà, papa!” lo riconosce subito il figlio Telemaco.
“Sì sono io, ma non dire niente alla mamma!”
“Perché?”
“Non mi fido, ha intorno tutti quei Proci che la tampinano
per portarsela a letto!”
“Ma papà, lei non ci sta con nessuno di loro!”
“Beh, non si sa mai… puoi giurarlo sulla Bibbia?”
“Padre, non posso. Non sono cristiano!”
“E allora taci!”
Detto fatto: prende l’arco e infilza tutti quegli zozzoni dei
porci. Solo allora si fa riconoscere dalla moglie.
“Ben tornato, marito mio!”
Baci e abbracci.
“Domani parto di nuovo!”
“Di già? Sei tornato giusto per il cambio di biancheria!”
“Vengo anch’io padre!”
“D’accordo, ma sbrigati che la nave è pronta e dobbiamo
prendere il vento buono! Addio moglie… tranquilla che
torno presto. Fra una ventina d’anni!”
Fine dell’avventura.
Milano
186
È ovvio, vi ho accennato solo alle trame abbozzate delle
storie con le quali mi esibivo sul treno nel viaggio dal lago
a Milano. A ogni replica, inserivo varianti con lazzi nuovi,
improvvisazioni vocali e mimiche. Speso ero costretto a
montare su una cassa posta al centro del corridoio del
vagone perché tutti mi potessero seguire, specie per
quanto riguardava la mimica. Insomma la carrozza
dell’accellerato Luino- Gallarate- Milano Garibaldi è stato
per anni il mio palcoscenico con platea sempre esaurita e
festante!
Fra gli spettatori non c’erano solo ragazzi e ragazze, molto
di frequente capitavano anche viaggiatori occasionali di
età matura… alcuni, dopo un po’, si alzavano indispettiti o
contrariati da certe battute ritenute inopportune, ma il più
delle volte capitavano ascoltatori casuali inaspettatamente
entusiasti. Fra questi, vi era un singolare signore di mezza
età che, a tratti, esplodeva in una risata grassa e
coinvolgente. Quel signore era il Professore Civolla,
storico e antropologo dell’Università di Milano. Una sera,
tornando a casa, fuori orario e con l’ultimo treno, l’ho
trovato tutto solo in uno scompartimento. Mi ha invitato a
sedermi accanto a lui e ha cominciato a farmi un sacco di
Milano
187
domande. Sapeva che studiavo a Brera, che avevo avuto
come maestri i migliori fabulatori della Valtravaglia (fra
l’altro anche lui abitava a Porto), ma si chiedeva a quali
fonti avessi attinto a proposito di certe chiavi grottesche
delle quali mie ero servito per ribaltare la forma originale
delle situazioni narrate.
“Beh – rispondevo io - non ho fatto altro che applicare le
chiavi di parodia a sgambetto che ho imparato dai
contastorie di Porto…”
“E no – incalza lui – quelle le conosco anch’io, sono
cresciuto in mezzo a loro! Ti ‘sto parlando dei paradossi
basilari.”
L’ho guardato piuttosto bollito e poi ho ammesso di non
aver capito la domanda: “Scusi Profesore, cosa intende per
paradossi basilari?”
“Sono quelli della tradizione storica antica… conosci
Luciano di Samosata?”
“No, chi è?”
“Uno straordinario poeta del secondo secolo, greco
naturalmente… lui è l’autore satirico che ha portato a
somma perfezione la tecnica del paradosso. Prendeva una
storia aulica, quasi sacra e la buttava all’aria. Achille… un
eroe generoso? Macché, era un isterico, egocentrico, pazzo
Milano
188
criminale! Un bastardo che si promette sposo a Ifigenia, la
dolce figliola di Agamennone e poi, quando l’oracolo di
Delfi sentenzia: “Achei se volete conquistare Troia, dovete
sgozzare come un capretto la vergine innamorata di
Achille”, lui, il Pelide, che cosa fa? Prende sotto braccio
Ifigenia e come niente fosse la conduce al tronco
dell’albero sacro sul quale dovrà essere immolata!
Poi continua presentando Ulisse che tradisce l’amico
Filottete morso da un serpente velenoso ad una cosca. Il
poveraccio con ‘sta gamba che gli va in cancrena viene
convinto dall’onesto Odisseo a sbarcare a Lemmo,
un’isola deserta. Poi lo molla tutto solo come un
naufrago… e che si arrangi!
Ma non basta: avendo bisogno dell’arco dell’incancrenito
che scopre essere infallibile, Ulisse si presenta sull’isola,
travestito da mercante di passaggio gli regala un po’ di
vettovaglie e poi se ne va fregandogli l’arco portentoso.
Così uno dietro l’altro, il Professore mi fa il ritratto di una
sfilza di eroi, regine, dei e dee che a scuola ci dipingono
come modelli da emulare ma che in verità sono, chi più
chi meno, una congrega di lestofanti, ipocriti e figli di
buona donna patentati.
Milano
189
Ero letteralmente affascinato dai discorsi di quel Civolla.
Siamo arrivati alla nostra stazione in un battibaleno ed
eravamo talmente presi, io a far domande, lui a raccontare,
che per poco non ci accorgiamo della fermata… saremmo
arrivati fino a Luino senza poter tornare indietro a casa
giacché quello era l’ultimo treno. Nel salutarci ci siamo
ripromessi di incontrarci di lì a qualche giorno; era
martedì e puntualmente il giovedì sono arrivato a casa sua,
nel palazzo del Vecchio Cambio. Lui abitava al terzo
piano sottotetto, in uno stanzone unico che teneva tutta
l’area del palazzo. C’erano i tavoli ricolmi di carte e
volumi, una libreria su tutta una parete e quattro porte
finestre iscritte dentro archi che davano su un grande
balcone. Subito mi ha mostrato una sua ultima scoperta:
era una specie di carta geografica del V secolo dopo Cristo
che riproduceva il mitico viaggio degli Argonauti. Mi
sono sentito affogare in un pozzo di ignoranza: chi erano
gli Argonauti? Cosa hanno combinato, da dove venivano,
dove andavano?
La dote maggiore di un maestro, diceva Plinio il vecchio, è
quella di non far mai pesare il proprio sapere sul cranio
povero di conoscenza dell’allievo e, senz’altro, questa era
anche la dote del Professor Civolla. Illustrandomi la carta,
Milano
190
mi faceva notare come fosse disegnata senza tener conto
della reale forma di un lago o del verosimile andamento di
una costa.
“Vedi, questa è la rappresentazione della nostra penisola.
Guarda tu… l’Italia è irriconoscibile: non si indovina ne lo
stivale ne il tacco. Solo le catene dei monti sono attendibili
come sono abbastanza precise le lunghezze dei fiumi e la
distanza fra una costa e l’altra.
“Ecco qui è segnata la posizione di Corinto, da dove pare
siano partiti gli Argonauti una cosa come quattro mila e
passa anni fa! Più precisamente, il porto da dove sono
salpati si chiama Pagase, nel cui cantiere è stato partorito
lo scafo dell’imbarcazione.
Di questa epopea i cantori hanno narrato molti secoli
prima che dell’Iliade e dell’Odissea.
Nella spedizione, lo saprai di certo, c’erano Giasone nel
ruolo di capitano… tanto per gradire, c’era Ercole che si
prendeva così una vacanza di svago, i due Dioscuri, Teseo
e un gran numero di eroi allo scopo di far numero e
zavorra. C’era anche Orfeo, il grande musico, che avrebbe
avuto il compito di neutralizzare le sirene suonando e
cantando le sue melodie.
Milano
191
Il loro programma era quello di raggiungere la Colchide
nel Mar Nero dove, protetto da un drago, si trovava il
Vello d’Oro, il tosone di un ariete d’oro dotato di poteri
straordinari.
La nave era stata costruita da un maestro d’ascia
abilissimo, Argo, che aveva usato un tronco di quercia
donato da Atena, un tronco che parlava, così parlava anche
la nave: dava indicazioni di rotta e segnalava i pericoli. La
sua voce usciva dalla bocca della testa del bue posta in
cima alla prua della nave. L’imbarcazione era di una
stazza considerevole per quei tempi: circa venti braccia di
lunghezza e prevedeva che potessero remare cinquanta
uomini, cioè quasi tutto l’equipaggio.
La spedizione fa rotta verso i Dardanelli, attraversa lo
stretto del Bosforo e finalmente raggiunge al Mar Nero…
naturalmente superando infinite difficoltà: popolazioni
ostili, rocce e faraglioni che si stringono l’un l’altro spinti
dal vento.
Sbarcati nella Colchide, il re di quel regno ordina a
Giasone delle prove durissime come imporre il giogo a
due tori scatenati che sputano fuoco dalle narici e sferrano
zampate terribili con i loro zoccoli di bronzo.
Milano
192
Per fortuna di Giasone, la giovane figlia del re, Medea che
è dotata di una notevolissima intelligenza e di poteri
magici, si innamora perdutamente dell’eroe e lo aiuta
tradendo il padre in ogni sua tenzone, compresa quella di
far fuori un esercito di guerrieri nati niente meno che dalla
semina di denti di un drago. Medea con la collaborazione
di Orfeo, riesce a far sì che il drago si addormenti così da
permettere agli Argonauti di trafugare tranquilli il Vello
d’Oro.
La conquista dell’aureo pelliccione è costata il sacrificio di
parecchi Achei della spedizione. Ad ogni modo, Medea si
è rilevata determinante per il successo dell’impresa; la
ragazza è decisa a seguire Giasone e da lui ha ottenuto la
promessa che, giunti al sicuro, la prenderà in sposa.
Il re, padre della giovane strega, è fuori dalla grazia di Dio
non solo per via che quei bastardi degli Achei gli hanno
trafugato il Vello, ma soprattutto per il fatto di avergli
rapito la figlia.
La nave Argo prende il largo verso la via del ritorno, ma il
re la insegue con la sua biremi da battaglia ricolma di
guerrieri.
Medea ha portato con se il fratello minore… la splendida
strega, pur di salvare il suo uomo, bloccando il padre e la
Milano
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sua nave, compie a questo punto un atto di ferocia
inaudita: ammazza il fratello, lo fa a pezzi e ne va a
spargere le membra divelte per i campi della costa. Il re
disperato attracca sulla riva e aiutato dai suoi uomini
indugia alla ricerca dei brandelli del cadavere del figlio.
L’orrendo espediente permette agli Achei di guadagnare
un notevole vantaggio, ma il re ha ordine ad altre navi
appena sopraggiunte di inseguire l’imbarcazione dei
fuggitivi.
Issate vele gigantesche, gli inseguitori tagliano la strada
agli Argonauti e si appostano alla bocca dello stretto del
Bosforo. Gli eroi in fuga si vedono incastrati, ma ancora
una volta li salva Medea: l’unica soluzione è risalire il
Danubio, la cui foce si apre proprio davanti a loro.
“Ma così allungheremo il viaggio di ritorno almeno dieci
volte!” obbietta Ercole.
“Dovete scegliere: o allungare il viaggio o accelerare la
morte!” gli risponde Medea”
Così dicendo il Professore mi indica la carta bizantina che
disegna fiumi e coste dei Balcani.
“Ed eccoli i nostri, costretti a risalire il più grande fiume
d’Europa con fatica, obbligati spesso a trascinare la nave
con numerose cime dalla riva.
Milano
194
Durante la rimonta del fiume acquistano dagli abitanti
della costa cavalli e muli o forse, più semplicemente, li
trafugano dai loro allevamenti… prassi questa ormai
consuetudinaria
per
quegli
eroi,
noti
briganti
professionisti.
Dopo qualche mese razziando e uccidendo qua e là,
attraverso l’attuale Ungheria, la Romania, la Serbia e
l’Austria,
quasi
sempre
navigando
il
Danubio,
raggiungono la Germania.
Ad un certo punto ecco che il Danubio curva decisamente
verso Nord. I naviganti son costretti a portare a terra la
loro nave, caricarsela in spalla per raggiungere un altro
fiume che scenda a Sud. Dopo settimane, da una collina
avvistano il Reno, quindi entrano nel lago di Costanza.
Riprendono ancora il corso del Reno fino alle Alpi che
separano la Svizzera dall’attuale Lombardia … a ‘sto
punto si ritrovano nuovamente costretti a caricarsi la nave
sulle spalle svuotata da tutto il superfluo, cioè ridotta al
semplice scafo. Devono superare quello che oggi
chiamiamo il passo del San Bernardino.
A ‘sto punto ecco che l’ epopea giunge a interessarci
molto da vicino! ”
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“E già! – Esclamo soddisfatto – Appena giù dalla catena,
finalmente Ercole, Orfeo, Giasone, Medea e compagnia
bella si infilano col loro barcone nel Ticino e arrivano a
sfociare nel nostro lago!”
“Sì, ma attenzione! – Mi avverte il Civolla – Mica si tratta
di una passeggiata della domenica. Da queste parti… dei
ticinesi dediti al turismo… abitavano tribù molto rognose,
di razza celtica che non ci mettevano nulla a scannare ogni
pellegrino di transito! Ma noi abbiamo a che fare con degli
eroi invincibili, determinati e soprattutto ricchi di una
buona scorta d’oro, frutto delle numerose scorrerie messe
a punto durante il viaggio.
Quindi pagato il dazio di transito ai focosi nativi,
raggiungono il lago e, rimesso in sesto alla bella e meglio
ciò che resta dell’imbarcazione, scendono alla ricerca di
un porto sicuro dove restaurare la vecchia Argo che ormai
sta andando a pezzi. E dove la troveranno una baia sicura
gli stremati Argonauti?”
“Professore, non mi vorrà far credere che hanno preso
terra qui a Porto?!”
“Dai un’occhiata alla carta… vedi qui: c’è segnato tutto il
precorso compreso il passaggio del Gottardo e, arrivati al
nostro lago, la riga rossa s’arresta a questa insenatura,
Milano
196
proprio dopo la foce della Tresa. È la nostra fonda
insenatura l’unico rifugio protetto e sicuro di tutta la
costa.”
“Già allora?”
“Soprattutto
a
quel
tempo!
Inoltre
qui,
secondo
Apollodoro e Apollonio, i due narratori antichi, questo
porto era famoso per un cantiere navale che poteva vantare
la presenza di carpentieri, artigiani e maestri d’ascia di
grande abilità e sapienza!”
“Non saranno stati per caso i trisnonni dei Fidanza…
quelli che hanno il cantiere sotto la rocca?”
“Può anche darsi, certe origini hanno profondità infinite! Il Civolla ride e tira fuori da un cassetto un’altra mappa Guarda qui, riconosci questa zona? Fai attenzione che il
fiume segnato è l’Uralo.”
“Ma certo! Questo segno ha forma di croce è il San
Giorgio, la pieve romanica sotto le cascate dello Starallo.”
“Sì, ci ha azzeccato: il punto è questo, però quella croce
non indica il San Giorgio che è dell’XI secolo. Infatti
questa è la riproduzione di una carta di qualche secolo
prima e indica un luogo sacro dei Celti composto da
pilastri giganteschi.”
Milano
197
“Vuol dire che la pieve romanica è stata costruita sui
ruderi del tempio celtico?”
“No, non sui ruderi del tempio, ma incorporandolo. Infatti
i quattro pilastri centrali sono di fattura senona, che sono
poi i celti primordiali.”
“E
perché
Professore
mi
ha
sottolineato
questo
particolare?”
“Per il fatto che quasi certamente i nostri eroi si sono
serviti di quel tempio per il loro rito di purificazione! In
poche parole, dopo i delitti compiuti fin dall’inizio del loro
viaggio a cominciare dal massacro del fratello di Medea,
spargimento di frattaglie compreso, le razzie e i rapimenti
tipo quello messo in atto da Ercole ai danni di un
giovinetto portato via di peso dalla famiglia per farne il
proprio amante, bisognava compiere un solenne rito
riparatore che purgasse le loro anime di tante nefandezze.
Vestiti di lino immacolato, i superstiti del viaggio si sono
immersi nella grande sorgente ai piedi della cascata dello
Starallo che per gli antichi era sacra e aveva la facoltà di
ridare energia e togliere i mali-umori.
Ma per liberarsi dalle colpe, quegli uomini dovevano
assistere ad un rito sacrificale veramente tragico.
Milano
198
Medea era gravida e aspettava da un momento all’altro di
partorire. Sapeva che il delitto compiuto sul corpo del
fratello, seppur dettato da un gesto d’amore, le avrebbe
causato un travaglio straziante. A quel suo parto doveva
assistere ogni Argonauta: le sofferenze di Medea
avrebbero liberato anche le loro coscienze. La figlia del re
della Colchide viene distesa sul pavimento del tempio
celtico: ecco che hanno inizio le doglie… Medea è presa
da terribili contrazioni; gli spasmi si susseguono e il suo
viso si deforma per la sofferenza. Il nascituro grida da
dentro il ventre di sua madre… prima sono urla senza
senso, poi man mano si trasformano in una serie di
impropéri di una ferocia inaudita: è la voce di un oracolo
che parla attraverso le grida del bimbo. Gli Argonauti
ascoltano l’elenco di tutte le loro malefatte… il corpo di
Medea è diventato quasi trasparente e dentro il suo ventre
si agita il nascituro che continua a lanciare insulti e
minacce. Gli eroi si chinano, appoggiando la fronte al
pavimento, sono madidi di sudore e piangono. Il travaglio
è interminabile… alla fine nasce il figlio di Giasone e
Medea, lo stesso che per vendetta la madre fra non molto
sgozzerà.”
Milano
199
Alla fine del racconto mi sentivo a mia volta madido di
sudore, con fatica ho chiesto: “Viene forse da questo parto
doloroso il nome della nostra valle?”
“Già – conclude il Professore – Valle del “travaglio”…
Quello si Medea si intende!”
“Incredibile! Io pensavo alludesse alla fatica del
lavorare…”
“Può darsi che sia l’origine giusta. Non fidarti mai
soprattutto delle storie cariche di mistica tragicità!”
“Ad ogni modo, che sia tutta un’autentica vicenda o
invenzione è una storia bellissima da raccontare. È strano
che Omero se la sia lasciata scappare…”
“Allora tu approfitta e reinventala al più presto! Sbrigati
perché gli antichi tornano sempre all’improvviso e ti
copiano ogni idea nuova!”
L’armonia fisica
Quale poteva essere il gioco preferito di noi ragazzi del
lago se non lo sguazzare nell’acqua, il tuffarci dalle rupi e
il remare su ogni tipo di imbarcazione?
Tutto questo non lo si vedeva come sport, disciplina
organizzata, ma come piacevole passatempo nel quale
Milano
200
sfidarci l’un l’altro a chi fosse più veloce, più agile e
spassoso.
Così eravamo in acqua da maggio a settembre pieno.
I più fortunati imparavano anche a governare piccole
barche a vela. Mio fratello ed io conoscevamo un ragazzo,
maggiore di noi che possedeva una vela classe star,
velocissima… roba da grandi skipper.
Insomma, era una vita proprio da sguazzo.
Sulla spiaggia dei bagni stavamo attenti a come nuotavano
i ragazzi più grandi, quelli soprattutto che dimostravano di
possedere esperienza e stile. Spesso prendevamo coraggio
e chiedevamo loro che ci dessero qualche dritta…
insomma ci facessero un po' da maestri.
Così avevo imparato che il valore più importante nel nuoto
è l’armonia, più della potenza: tutto, ogni arto, ogni parte
del corpo deve scivolare rotondo, senza porre intoppi in un
equilibrio estremo fra il respiro e il gesto, fra la parte del
corpo che emerge e l’altra che si muove immersa
nell’acqua.
Una decina d’anni dopo, lavorando in teatro ho scoperto
che quel produrre il massimo effetto con il minimo dello
sforzo e della gestualità si rivelava la regola principale per
ogni buon mimo e per ogni attore di peso e valore. In
Milano
201
quella mia esperienza, studiando da vicino grandi autori,
ho scoperto che perfino Shakespeare attraverso le parole di
Amleto consigliava agli attori di muoversi e recitare con
scioltezza ed armonia piuttosto che con inutile spreco di
forza.
Nell’acqua mi sentivo come nel mio elemento naturale,
anche se purtroppo, come succede a tutti i ragazzi che si
appassionano ad un gioco senza disciplina e misura, mi
capitava di esagerare. Spesso con i miei compagni si
usciva dall’acqua blu, tremanti per il freddo anche se in
pieno sole. Il pericolo maggiore erano le correnti
ghiacciate che sovente ci procuravano crampi dolorosi per
i quali si rischiava il peggio. Andando sempre in gruppo
nelle nostre nuotate ci si veniva in soccorso: se a qualcuno
era colto dalla sfrezzata del “crampul”, sapevamo come
massaggiare il muscolo azzannato fino a rianimarlo.
La nostra seconda grande passione era il remo. Il sogno di
tutti noi naturalmente era quella di farsi una barca propria,
ma quelle degne di questo nome costavano parecchio e
non erano certo all’altezza delle nostre misere tasche.
Infatti nessuno di noi ne possedeva una, ma ogni tanto
c’era qualche anima generosa che ci faceva fare un giro.
D’estate poi si approfittava di qualche turista che non
Milano
202
sapendo
vogare,
ci
caricava
volentieri
sulla
sua
imbarcazione presa a nolo… e lì finalmente ci si sfogava.
Avevamo così imparato a vogare su barche diverse: la
spinta del remo si produceva in piedi premendo in avanti
con tutto il corpo o da seduti facendo forza con le braccia
e con la schiena, badando bene di far gioco col chiudere e
stendere le gambe.
Remare mi piaceva moltissimo soprattutto quando ho
cominciato ad intendere l’equilibrio aggiunto allo stile
dell’intera
gestualità
dell’azione:
respirare,
arcata,
distensione, leva, buttar fuori il fiato, tendere, sciogliersi,
inchinarsi e ritorno con affondo dei remi in acqua.
Avevo scoperto che, come nel nuoto, un perfetto
coordinamento dei movimenti permetteva di realizzare la
maggior velocità col minimo sforzo.
A Milano ogni anni noi dell’Accademia di Brera
venivamo ingaggiati per gli allestimenti delle esposizioni
della fiera. Ci pagavano bene, ma era un tour de force da
massacro. Si trattava di sviluppare progetti, realizzare
decorazioni dipingendo o montando sagome, volumi
plastici vari, eseguire scritte gigantesche e improvvisare
all’ultimo minuto soluzioni di pubblicità.
Milano
203
Non avevo ancora 17 anni quando mi è capitato un
ingaggio per un enorme allestimento che mi avrebbe
impegnato per almeno un mese. All’inaugurazione della
fiera5 ero letteralmente distrutto: le ultime due notti le
avevo passate quasi completamente in bianco, me ne sono
tornato a casa che era ormai l’alba. Prima uscire avevo
attraversato il padiglione dove si esponevano i prototipi di
canoe e barche da competizione a remi con carrello
scorrevole. Ce ne era una che mi aveva affascinato, una
remo-singolo con scafo in legno di frassino e voga
carrellata.
Una volta raggiunto il mio letto, ho dormito per 20 ore di
seguito. Poco prima del risveglio, ho sognato quello skif
da corsa che scivolava sull’acqua leggera ed ero io che lo
facevo andare muovendo facilmente i remi che sfioravano
il pelo dell’acqua con le pale; li affondavo spingendo
appena la barca. Ad un certo punto si sollevava nell’aria e
mi trovavo a volare. Passavo sopra l’imbarcadero,
sorpassavo la grande darsena, sfioravo il campanile,
planavo sulla valle e bucavo le nubi.
Sono tornato in fiera alla fine della settimana. Avevo
appena ritirato il saldo per l’allestimento: era una bella
5
Quella fu l’ultima fiera perché durante la guerra vennero interrotte a causa dei bombardamenti.
Milano
204
cifra. Sono entrato nel padiglione dove esponevano la mia
barca. Ho chiesto se potevo guardarmela da vicino,
esaminarla. Il commesso mi ha squadrato appena e poi con
reticenza mi ha detto:
“Per favore però, non metterci addosso le mani!”
L’ho guardato con un sorriso cattivo e poi gli ho chiesto:
“Posso almeno leccarla un po'?”
Il commesso mi ha fissato e poi è scoppiato a ridere: da
quel momento si era smollato. Mi ha aiutato a sollevarla,
soppesarla e a contemplarne sia al dritto che al rovescio la
forma: era un capolavoro. Bella ed elegante come un
delfino… di più: una sirena da competizione!
L’ho comprata, ci ho messo quasi tutto il mio capitale, ma
ne valeva davvero la pena. Per controllare meglio il
corriere che me l’avrebbe trasportava sul lago, ho
partecipato di persona all’imballaggio e al carico e per non
perderla d’occhio sono montato pure sul camion insieme
all’autista.
Quando l’ho messa in acqua davanti alla grande darsena,
c’erano tutti i miei compagni della banda: ognuno
esplodeva in commenti entusiasti.
Nel montare dentro lo scafo mi tremavano le gambe come
se ci dovessi fare all’amore. L’equilibrio era talmente
Milano
205
delicato, che ad ogni gesto rischiavo di ribaltarmi e ho
imbarcato subito un po' d’acqua, ma appena ho inforcato i
remi e ho iniziato a muovermi scivolando sul carrello,
ecco che la barca ha preso l’abbrivio scorrendovia liscia e
tagliando le piccole onde come una lama. Impressionante
poi era la velocità: sembrava che lo skif fosse mosso da un
motore nascosto e silenzioso.
I miei amici applaudivano e mi imploravano in coro:
“Faccela provare, falla provare anche a noi!”
Eccitato ho affondato con più forza le pale dei remi
nell’acqua, ho inarcato la schiena e spinto con le gambe al
massimo del ritmo il carrello. Una pala è affondata a
dismisura, bloccando la corsa e facendo leva, si è
ingrippata e… VRUOM! Mi sono sentito proiettare in
aria, ficcato a testa in giù, gambe in su nell’acqua.
Un grido e una gran risata del mio pubblico e poi un
applauso seguito da una gragnola di lazzi e sfottò.
Sulla spiaggia dopo il ponte, dove andavamo noi ragazzi a
fare il bagno, c’erano gruppi d’intere famiglie sfollate per
via dei bombardamenti. Fra quella colonia di foresti non si
poteva fare a meno di notare due ragazze stupende:
avevano entrambe più o meno quattordici anni, una
Milano
206
scuoteva grandi ciocche di capelli scuri e riccioluti, l’altra
teneva capelli dritti e biondissimi. Le due amiche
correvano e saltavano ridendo dentro e fuori dall’acqua
mettendo in mostra come in un continuo defileé due corpi
eleganti e svelti. Ognuno di noi le osservava alternando
meraviglia a vampate di calore. Ma eravamo imbastiti dal
loro comportamento: era come se non ci fossimo. Pur di
farci notare, noi ci lanciavamo dai piloni d’attracco ficcati
nell’acqua esibendo tuffi con piroette, ma quelle due
foreste non ci degnavano di molta attenzione. Restavano
spesso da sole, specie in acqua nuotando con uno stile
perfetto: bracciate e movimento di gambe a rana da
competizione… cioè sparivano affondando sotto il livello
dell’acqua per riapparire sulla spinta a forbice della
gambe. Anche noi non eravamo da meno in quanto a stile,
soprattutto conoscevamo a perfezione il muoversi delle
correnti e ne approfittavamo per farci trasportare più
veloci.
Delle due, la ragazza che mi affascinava maggiormente
era Lucy, dai capelli neri e riccioluti. Mi era riuscito di
parlarle per un attimo in acqua. Lei e la sua amica di
origine tedesca erano andare molto al largo. Approfittando
Milano
207
di una corrente parallela al loro percorso, le ho raggiunte e
ho dato loro l’avvertimento:
“Attente che vi trovate nel bel mezzo di una corrente
fredda… potreste beccarvi un crampo. Vi consiglio di
trasferirvi dieci bracciate più a destra, da dove vengo io. Lì
la corrente è calda e aiuta a muoversi più rapidi!”
Mi hanno ringraziato sorridendomi, specie Lucy che mi ha
seguito subito e intanto mi andava chiedendo come si
riuscisse a scoprire la direzione e la qualità delle correnti.
Non mi pareva vero di poter esibire tutto il mio sapere da
scienziato lacustre… mi sentivo un vero e proprio maestro
delle acque!
Mi ha fatto persino un complimento:
“Hai una bella entrata in acqua. Da chi hai imparato?”
“Qui sul lago, osservando quelli bravi!”
Avrei voluto farle qualche complimento a mia volta, ma
non ce la facevo: ero bloccato come un pesce persico in
salamoia.
Arrivati a riva, ci siamo salutati. Per una settimana intera
l’ho persa di vista… forse aveva cambiato spiaggia, forse
era partita. Poi l’ho rivista sulla spiaggia di Caldé: era
insieme a sua madre e ad una sorellina. L’ho salutata e lei
mi ha risposto con molto imbarazzo.
Milano
208
Parecchi giorni dopo sono transitato remando sul mio skif
nei pressi della rocca di Caldé… l’ho riconosciuta subito
davanti a me ad una decina di metri dalla riva. Era in
compagnia di un giovanotto con quale scherzava; lui si
tuffava sott’acqua e la scaraventava in alto fra scoppi di
risate. Sono passato al largo, lei mi ha visto e ha accennato
ad un saluto. In quel momento il suo amico riaffiorava
dall’immersione e lei si era girata volgendomi le spalle.
Era trascorso quasi un mese da quell’accenno di incontro e
ormai avevo perso ogni speranza di rivederla. Eravamo a
fine estate. Andavo vogando sulla mia jole con carrello
verso Cannero… avevo già sorpassato il centro-lago,
quando scorgo più avanti qualcuno che nuota. Un ragazzo
mi pare. Ancora tre remate e sono vicino al nuotatore: no,
non è un ragazzo. È lei, Lucy!
La saluto, lei si volta sorridendomi.
“Scusa, ma non pensi sia un po' azzardato arrivare così al
largo, da sola?”
“Non ti preoccupare, fra poco ritornano Jute (l’amica
bionda) e suo fratello a ricaricarmi sul loro motoscafo. Mi
sono tuffata in acqua dieci minuti fa… loro arrivano
all’isola e tornano fra un attimo.”
“Se vuoi, mi fermo ad aspettarli con te!”
Milano
209
“No - fa lei tagliando corto - grazie, ma preferisco star
sola… scusami!”
E riprende a nuotare affondando il viso in acqua ad ogni
bracciata.
Riprendo a remare a mia volta. Mi allontano mortificato e
piuttosto offeso:
“Ma chi si crede d’essere ‘sta naso-in-aria spocchiosa? No
grazie, preferisco star sola…”
Era la prima volta che una ragazza mi trattava con tanta
sufficienza. Perché le altre,
invece? Non avevo ragazze… io!
Punto lo sguardo verso l’isola col castello per controllare
se sta spuntando il motoscafo: non si scorge nessuna
barca; in compenso dietro, dopo la scarpata della costa,
vedo una riga nera che attraversa tutto il fondo lago.
“La Madonna! – esclamo - quella è il segno dell’inverna
(un terribile vento strappa ormeggi) che annuncia una
tempesta, una sgurrata da marenca. Mi sarà addosso fra
neanche venti minuti… e quegli imbecilli del motoscafo
manco si vedono spuntare!”
Punto i remi a freno e ruoto a rovescio la mia barca.
Spingo a spacca-schiena verso il centro lago, raggiungo
Lucy che nuota in modo sconnesso e agitata.
Milano
210
“Per fortuna sei tornato, – mi grida – sta prendendomi un
crampo!”
“Mettiti tranquilla, ora ti faccio montare in barca.”
“Grazie, ma cos’è quella striscia nera laggiù?”
“È una brutta marenca.”
“Come dire… una specie d’uragano?”
“Sì, ma vai tranquilla: c’è tempo prima che ci arrivi
addosso. Forza allora, appenditi alla sponda dello skif. Io
mi sporgo dall’altro lato – così dicendo, vado a sedermi
sul bordo opposto – Devi tirarti su con le braccia e
scavalcare venendo dentro con le gambe a tempo con me,
che vado a gettarmi in fuori più che posso. È uno scafo
leggerissimo, questo. Se non ci muoviamo a sincrono, si
ribalta.”
“Maledizione - grida lei – il crampo! Mi ha preso il
crampo! Non riesco a sollevare la gamba. Non ce la farò
mai a montare!”
“Calma, che adesso inventiamo un'altra soluzione! Resta
appesa con le braccia come ti trovi. Ora attenta, che mi
butto in acqua!”, così dicendo mi tuffo badando di non
provocare lo sballozolamento dello scafo. Giro intorno alla
barca e mi metto alle spalle di Lucy.
Milano
211
“Stai pronta, adesso io mi butto sott’acqua e ti infilo la
testa fra le tue gambe…”
“Ho capito: mi fai la cavallina! Sbrigati, che non ci resisto
più!”
Eseguo: capriola, due bracciate a scendere, infilata di
testa, forbiciata di gambe… riemergo di slancio tanto da
proiettare in un sol botto la ragazza dentro lo scafo. Volgo
lo sguardo dietro a me: la striscia nera avanza inesorabile.
“Lucy, per favore – le ordino – adesso mettiti seduta sul
bordo opposto a me. Devi farmi da contrappeso!”,
gemendo per il dolore lei si arrampica sulla corona della
fiancata.
“Va bene, sporgiti in fuori. Uno, due…” ed eccomi a mia
volta dentro lo scafo.
Per il contraccolpo, ci troviamo entrambi abbracciati…
situazione piacevolissima, ma che purtroppo devo
interrompere. La spingo verso la prua e raggiungo il sedile
del carrello. Inforco i remi e inizio a vogare. Lucy
continua a lamentarsi per i crampi e si massaggia una
coscia.
“Strizzati i muscoli con la maggior forza che puoi…
allunga le gambe e adesso pian piano piega le ginocchia
finché non raggiungono la tua faccia!”
Milano
212
“È incredibile! Mi sta passando. Grazie!”
Una tremenda ventata scuote la barca.
Lucy manda un grido: “Che succede adesso?”
“Tranquilla, la prima folata è sempre la più pesante. Fra
poco ci siamo!”
Aumento il ritmo delle entrate in acqua al massimo delle
vogate. Cominciano ad arrivare onde brevi che sbattono
con rabbia contro le fiancate… si barcolla e imbarchiamo
qualche spruzzata d’acqua. Dalla riva, che è ormai vicina,
ci giungono grida di incoraggiamento:
“Forza che ce la fate!”
Entriamo nella conca del porto appena in tempo per
sfuggire
alla
prima
pesante
arrotata
di
marenca.
Raggiungiamo con gran forza la riva bassa: la barca slitta
tutt’intera sul declivio di terra battuta. Siamo salvi!
“Certo che se aspettavo il motoscafo dei miei amici –
commenta Lucy – rischiavo di andar sotto come una
pietra. Ma cosa gli sarà successo?”
Fra la gente che ci incoraggiava dalla riva c’è anche
qualcuno che conosco: un mio compagno di scuola…
Aristide si chiama. Lucy sta tremando, non riesce a
reggersi in piedi. A mia volta sono stremato. Da convinto
salvatore, la sollevo di peso fra le braccia.
Milano
213
“Venite, - ci sollecita Aristide – entriamo in quel bar.”
Io muovo tre passi… all’istante mi cedono le braccia e le
gambe all’unisono. Due ragazzi mi reggono in tempo,
prima che finisca lungo e disteso con la ragazza. L’amico
si incarica di sollevare di nuovo Lucy e di corsa la va
trasportando al caffè.
“Ehi, - grido accasciato come un sacco lì a terra – e io? Mi
piantate qui come il figlio della povera schifosa?”
A fatica, camminando a carponi, raggiungo tutto solo il
bar. Mi sistemano subito addosso una coperta.
”Non vedo Lucy, dov’è?”
“È nel bagno della signora, di sopra, a farsi una doccia.”
Chiedo se sanno qualcosa di un motoscafo arrivato a terra
prima che scoppiasse la marenca.
“Sì,- mi rispondono - ce n’è uno che ha attraccato al molo
dei Finanzieri. Aveva il motore in panne, ingrippato.”
Aristide si affacciato alla porta e indica il lago dritto
davanti a sé:
“Guardate, c’è il motovedetta della Finanza che prende il
largo. Quei due in costume da bagno che stanno a poppa
sono di sicuro gli amici della ragazza. Infatti vedi che
girano tutt’intorno al centro lago… Che fanno adesso?
Puntano verso Porto Valtravaglia.”
Milano
214
Interviene il vigile del comune:
“Bisogna avvertirli che siete qui. Fra poco dovranno
prender terra anche loro, se non vogliono finire a picco.
Guarda che onde stanno montando!”
L’amico esce deciso:
“Vado al comando del porto… loro sono di sicuro in
contatto radio con la motovedetta.”
Nel bar ora Lucy è lì seduta su una sedia con me vicino
che cerco di calmarla. Piange proprio come una bambina,
è disperata al pensiero di sua madre che non la vedrà
tornare a casa.
Ecco che torna Aristide, porta buone notizie:
“I
finanzieri
sono
riusciti
a
comunicare
con
la
motovedetta. I due amici di Lucy erano a dir poco
sconvolti, convinti com’erano di averla perduta. Ci
penseranno loro ad avvertire la famiglia di Lucy e anche la
tua, Dario.”
Finalmente tiriamo un sospiro, Lucy chiede se non ci sia la
possibilità di tornare indietro la sera stessa. Il vigile del
comune la invita a dare un’occhiata al lago: ormai è
diventato di un blu nerastro tempestato dalle sbiancate
delle onde a sgranfio. Soffia un vento che scuote gli alberi
e li spoglia di tutto il fogliame.
Milano
215
“Di sicuro la motovedetta a ‘sto punto s’è infilata nel porto
sotto la Rocca ben al coperto e fino a domani, se tutto va
bene, non la vedremo spuntare.”
Entrambi avvolti nelle coperte, raggiungiamo la casa del
mio compagno di scuola che sta sulla parte alta della
costa: è una villa maestosa con tanto di parco sul davanti.
La madre di Aristide ci accoglie con molta affettuosità.
Quando poi il figlio racconta del pericolo corso, si
commuove: abbraccia Lucy e l’accarezza. Si rende conto
che sotto la coperta la ragazza ha solo un piccolo costume
ancora umido. La prende per mano e la porta di sopra dove
ci sono le camere. Aristide accompagna anche me nella
sua stanza e mi offre abiti asciutti traendoli da un suo
armadio.
Dopo un pò ci mettiamo tutti a tavola. La signora mi
accarezza una mano e poi guardando Lucy chiede:
“Siete fidanzati, vero?”
Un attimo di imbarazzante silenzio, poi Lucy risponde
decisa:
“Sì, da questa primavera!”
“Ah, ah, – scoppia a ridere la signora- guarda il tuo
ragazzo com’è arrossito! Non c’è niente di che
Milano
216
vergognarsi, figliolo mio. Se non ci s’innamora alla vostra
età, quando mai vi può succedere?”
Terminato di cenare, la signora ci accompagna nelle nostre
due rispettive camere.
“Siete troppo giovani per dormire nello stesso letto –
commenta – La tua mamma, sono sicura, non me lo
perdonerebbe mai!”
Ci ritiriamo. Mi sdraio sfinito sul grande letto, ma non
riesco ad addormentarmi… fuori il vento, strisciando nel
canalone, emette ululati tremendi contrappuntati da
schianti d’alberi sradicati. Adesso si vede il cielo
sbiancare per i fulmini seguiti da tuoni a che sembran botti
da miniera. Una folata terribile spalanca la finestra. Vado
a bloccarla prima che con lo sbattere crollino tutti i vetri.
Ci riesco con fatica. Mi volto… sulla porta aperta c’è
Lucy avvolta in un enorme drappo copriletto.
“Ho tanta paura – dice – mi fai stare qui con te?”
Balbetto qualcosa di incomprensibile e la invito ad entrare.
Lei va diritto al letto e ci si siede. Dopo qualche
preambolo senza senso, io le chiedo:
“Ti ho vista una volta col fratello di Jute che giocavi e
ridevi in acqua…”
Milano
217
“No, - mi blocca lei decisa – non è il mio moroso. Mi fa la
corte, ma non mi piace!” “Salvo per giocarci in acqua e
farti sbattere in aria fra le sue braccia!” Faccio io.
“Oh Dio ci siamo appena fidanzati e già mi fai una scena
di gelosia!”
Ridiamo.
“Però io ho ancora qualche chiodo da togliermi dal cranio.
Scusa Lucy, mi vuoi spiegare perché quando ti ho
raggiunta in barca non hai voluto che stessi con te?”
“È semplice: perché mi seccava che al ritorno del
motoscafo, Jute e suo fratello ci vedessero insieme. Lei mi
sfotte sempre dicendo che come ti vedo, vado in fregola e
sbatucchio gli occhi come una suora davanti a un
Sebastiano nudo trafitto da frecce! Suo fratello poi, va giù
ancor più pesante. È molto geloso di te… gli stai, a dir
poco, sulle scatole. Se ti avesse scoperto sulla tua jole
appresso a me, c’era rischio che ti speronasse col suo
motoscafo da gran bullo.”
Tiravo respiri come un mantice: mi stavo scaricando di
tutto il magone che da mesi mi si era accumulato nello
stomaco.
Fuori la tempesta andava e veniva, ogni tanto si acquietava
poi riprendeva ancor più fracassosa di prima. Noi ci si
Milano
218
raccontava tutto dalla prima volta che ci siamo incontrati
sulla spiaggia. Lei sfotteva divertita le mie esibizioni da
acrobata tuffatore che spesso concludevo con spanciate
orrende. Io la stupivo ricordandole particolari dei suoi
gesti e comportamenti dei quali si era completamente
dimenticata. Era evidentemente lusingata per le emozioni
che mi aveva provocato. Mi sono messo in piedi sul letto e
ho cominciato a rifare il verso alle sue camminate davanti
a noi ragazzi imbesuiti, il suo modo di correre, saltare…
imitavo perfino la voce e le risate. Lucy rideva da rotolarsi
infatti stava rivoltandosi di qua e di là sul letto finché è
cascata di sotto con un gran tonfo.
“Oh Dio, la testa! Che botta!”
L’ho afferrata per aiutarla a risalire. Mi ha abbracciato,
con un piccolo bacio sulla guancia. Il cuore mi sbatteva
nelle tempie, in petto e giù fino al pollice dei piedi.
Si chiaccherava ancora, sdraiati uno appresso all’altro, ma
le parole ormai ci uscivano con fatica, smozzicate dal
sonno. Ci siamo addormentati proprio come due ragazzini.
Eravamo entrambi al nostro primo amore: io avevo
diciassette anni, lei quattordici.
Benedetta quella tempesta di marenca!
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Fuga verso la Svizzera
Avevo 17 anni quando gli americani e gli inglesi sono
sbarcati in Sicilia… dopo qualche mese è avvenuto il
crollo del governo fascista e la resa decretata dal re. Di lì a
poco, con lo sfascio del nostro esercito, si son visti tornare
a casa molti compaesani che provenivano chi dalla
Jugoslavia, chi dal Sud. Ho visto scendere dal treno un
mio amico vestito da macchinista delle ferrovie che
arrivava dalla Croazia, un altro su una bicicletta da donna
travestito da panettiere, tutto in bianco, un altro ancora con
un abito scompagnato con braghe da marinaio e giacca da
postino.
Qualche giorno dopo io mi trovavi a Milano dallo zio
Nino, un fratello di mia madre, che si era salvato dal
militare in quanto riformato. Mi viene a trovare a scuola:
“Ho bisogno di te, forse mi puoi aiutare!”
“Volentieri, che ti serve?”
“Parrucche da donna?”
“Parrucche? Per farne che?”
“Dopo, ti spiego dopo.”
All’inizio di Via Garibaldi c’è un negozio dove ne
vendono di sintetiche. Ci andiamo… non costano molto,
Milano
220
ce ne sono una dozzina smangiucchiate dalle tarme…
vengono via a poco. Lo zio sceglie quelle.
“Accompagnami alla stazione.”
Quando ci arriviamo mi dice:
“Forse è meglio che vieni con me… mi puoi essere utile!”
“D’accordo, dove andiamo?”
“A Sartirana.”
“E che ci fai con delle parrucche a Sartirana?”
Appena ci troviamo nello scompartimento, spalanca una
sacca che aveva con se: dentro, tutti infucignati, ci sono
degli abiti da donna. Poi da una borsa semi-rigida estrae
una scatola con delle creme da trucco per signora.
“Dovete fare una recita?” chiedo io.
“Quasi. A Torreberetti c’è un campo di prigionieri inglesi,
sudafricani, più qualche indiano. La guarnigione che si
occupava di quel campo se l’è svignata. Ora bisogna
trasportarli in Svizzera prima che si risveglino i tedeschi.
Quelli che hanno affidato a me sono una cinquantina. Se li
carico tutti insieme su un vagone, anche con addosso abiti
civili, danno troppo nell’occhio. Mica posso farli passare
per un gruppo di partecipanti ad una scampagnata del
dopolavoro Pirelli! A parte che una decina di loro è
scozzese… quasi tutti con i capelli rossi e la faccia bianca
Milano
221
tempestata di lentiggini; un’altra mezza dozzina è
sudafricana… alti un metro e novanta con il 54 di piede!
Per non parlare poi dei quattro indiani che sembrano Tung
della Malesia!”
“E scusa zio, pensi che travestendoli da donna con belletto
e parrucca possano passare per un corpo di ballo del
varietà in trasferta?”
“Mica ho in mente di travestirli tutti, solo una decina fra i
più credibili. Poi li carico sul treno dei ‘Catariso’…”
“Che è?”
“I catariso, quelli che vengono dalla città in Lomellina a
cercare qualche sacchetto di vialone, segale o frumento
per poter mangiare almeno una volta da cristiani. Le
guardie dell’annonaria lasciano correre anche perché fino
ad un paio di chili a testa è permesso. Noi non facciamo
altro che confondere i nostri prigionieri in mezzo ai cataris
che sono in gran parte donne. Anzi, qualcuno fra i più
passabili, lo affidiamo a loro!”
“E sei sicuro che queste catariso ci stiano a prendersi ‘sto
rischio?”
“Stai tranquillo! Le donne sono sempre le più generose…
le uniche disposte a rischiare!”
Milano
222
Il mattino dopo, era ancora scuro, siamo alla stazione di
Sartirana. Arriva il treno da Mortara che poi prosegue per
Novara e arriva a Luino. È già abbastanza affollato, in
gran parte di cataris coi loro pacchi e sacchetti. Il treno si
ferma, carica altri viaggiatori poi, invece di ripartire, fa
marcia indietro: raggiunge il deposito dove deve
agganciare un vagone merci. Vengo a scoprire più tardi
che tutta quella manovra è un espediente per consentire ai
prigionieri liberati di salire sulle ultime vetture di coda al
coperto, cioè sbucando da dietro l’arconata del deposito,
non visti dalle guardie di servizio alla stazione… era
evidente che macchinisti e controllori fossero tutti
d’accordo.
A mia volta seguivo lo zio Nino sui vagoni di coda;
c’erano altri quattro compagni di Sartirana incaricati di
gestire il trasporto. Come aveva previsto lo zio, almeno
una decina di donne si era lasciata coinvolgere
nell’avventura. Alcune di loro mostravano di non essere
assolutamente preoccupate per il rischio a cui andavano
incontro.
“Se ci beccano, voglio che mio sbattano nella stessa cella
insieme a ‘sto bello scozzese truccato da mondariso!”
sghignazzava una di loro.
Milano
223
Era proprio una banda in fuga ben assortita!
Calzavano quasi tutti pantaloni troppo corti e stretti, quelli
con le parrucche da donna sembravano baldraccone da
marinai in astinenza pesante… a una di quelle battone
avevano persino posto sulle ginocchia un bambino che
scalciava e piangeva terrorizzato.
Il maggior pericolo consisteva nel fatto che qualche
viaggiatore facesse loro delle domande: non conoscevano
una parola di italiano… dei quattro indiani, due parlavano
un dialetto strettissimo del Bangladesh, per di più uno era
talmente scuro di pelle che nemmeno con mezzo chilo di
fondotinta s’era riuscito a schiarirlo. Alla fine avevamo
deciso di fasciargli la faccia con delle bende, lasciando
liberi gli occhi, le narici e una fessura per la bocca; per
nascondere le mani gli avevamo fatto calzare dei guanti da
cameriere. A chi chiedeva cosa gli fosse successo, si
rispondeva che era stato investito da un ritorno di fiamma
del forno dove lavorava…… ustione di terzo grado un po’
dappertutto.
Per fortuna il vagone era talmente stracolmo di gente che
nessuno trovava modo di salire. Anzi, ad ogni fermata noi
ci si affacciava dal finestrino invitando i viaggiatori che
cercavano posto di proseguire verso il centro del
Milano
224
convoglio. Anche a guardie che a Novara avevano in
programma di attraversare i due vagoni dove stavano
acquattati i nostri prigionieri in fuga, dopo un paio di
tentativi per farsi strada nella calca, hanno desistito e sono
saliti più avanti.
Siamo arrivati a Luino con il solito ritardo di mezz’ora:
per percorrere non più di 150 chilometri ci abbiamo
impiegato quasi quattro ore.
A ‘sto punto la faccenda si faceva più difficile: al controllo
della ferrovia c’era una guarnigione di tedeschi, per di più
il numero dei viaggiatori nei nostri due vagoni si era
andato dimezzando. Non potevamo più approfittare della
calca per bloccare un eventuale controllo. Inoltre con il
passare del tempo, per il gran caldo, la crema del trucco
stava colando dalle facce dei travestiti… sembravano
clown reduci da un match a torte in faccia.
“Attenzione! Quattro guardie armate stanno risalendo
verso i vagoni di coda!”.
All’istante il treno si mette in moto provocando un o
scossone tale che uno dei militari della Wermat che stava
già con un piede sul predellino è stato scaraventato a terra.
Il capostazione fischia come un pazzo. Il convoglio si
blocca a freni inchiodati… un altro gran scossone. I
Milano
225
quattro tedeschi ritornano correndo verso la locomotiva.
Scende il capotreno che urla col capostazione… il
macchinista si sporge dalla postazione del locomotore e
urla a sua volta. I tedeschi cercano invano di inseristi nella
discussione, ma nessuno li ascolta.
Come se non bastasse, ora anche i viaggiatori si affacciano
dai finestrini e urlano: “Siamo già in ritardo di mezz’ora!
Vogliamo darci un taglio con queste vostre beghe e
deciderci a ripartire?”
Alla fine, ecco che il macchinista taglia corto con un
terribile fischio a pernacchio della locomotiva che riparte
decisa con uno stantuffare da chi si è proprio rotto le
scatole. Il capotreno continua a discutere con le guardie
crucche... passando davanti al gruppo degli altercanti, li
sbircio dal finestrino e ho proprio la sensazione che anche
‘sta volta i ferrovieri di Luino e quelli del nostro treno
abbiano messo in piedi una bella sceneggiata allo scopo di
non permettere ai gendarmi di svolgere il loro controllo.
Dopo mezz’ora, superata la stazione di Maccagno,
arriviamo alla galleria che si apre qualche chilometro
prima di Pino, cioè a quattro passi dal confine. Il treno si
ferma con la locomotiva e gran parte del convoglio infilato
Milano
226
nella galleria, solo gli ultimi vagoni sono rimasti fuori. Si
spalancano tutte le porte:
“Via! Fuori, scendete!”
Non siamo ancora con i piedi a terra ed ecco che il treno
riprende la corsa.
I cinquanta prigionieri e noi accompagnatori, seppur con
qualche ruzzolone, ce l’abbiamo fatta!
Poco più indietro c’è un sentiero che si infricca nel bosco,
poi si monta per un dosso scosceso: ci arrampichiamo con
ritmo da capre selvatiche. Il Tung finto ustionato s’è
sfasciato la faccia; con urla di soddisfazione i travestiti da
femmina si vanno spogliando di sottane e corpetti, ma non
c’è tempo di fermarci per procurar loro dei pantaloni
perciò sono costretti ad arrampicarsi con le gambe all’aria
e nude. Per la tensione si son dimenticati di togliersi di
dosso le parrucche… una visione sempre più oscena.
Raggiunto il pianoro dei gelsi sopra Tronzano, incrociamo
un gruppo di pastori - uomini e donne - che alla vista dei
Tung, dei giganti africani, degli scozzesi bianchi e rossi e
delle femmine sgambate, sgranano gli occhi attoniti e si
fanno il segno della croce.
Ancora due balze da superare e siamo nei pressi del
confine. Ci fermiamo ad un casolare ad abbeverarci e
Milano
227
prendere fiato. Ad attenderci ci sono un paio di
contrabbandieri che conosco da anni e appresso un gruppo
di persone, uomini e donne con qualche bambino. In
mezzo a loro scorgo mio padre… è salito con quella gente
da Pino. Non mi aspettavo di trovarlo lassù, ci
abbracciamo. Il papà si complimenta con lo zio Nino e con
i suoi compagni:
“Avete avuto un bel coraggio a fargli fare un viaggio del
genere!”
Dal casolare escono due contadine che distribuiscono fette
di polenta e formaggio. Arriva un pastore con qualche
fiasco di vino e del latte per i ragazzini. Chiedo al papà:
“Chi è questa gente che hai portato con te?”
“Ebrei - mi risponde - È già il terzo gruppo che facciamo
passare di là in questi giorni. Adesso però devo salutarvi,
tra un’ora riprendo servizio alla stazione.”
Prima di rimettersi incammino, va a salutare il gruppo
degli Ebrei: tutti lo abbracciano… una donna non smette
di sbaciucchiarlo, solleva il bambino e glielo da prendere
in braccio per un attimo.
Adesso scende il crinale… tutti gli gridano parole di saluto
e ringraziamento.
Milano
228
Gli inglesi si sono informati: hanno spiegato loro che mio
padre è il responsabile dell’organizzazione che fa
transitare per la Svizzera fuoriusciti, perseguitati e
prigionieri in fuga. Anche loro adesso lo salutano.
Mio padre laggiù accenna appena un gesto con il braccio e
prosegue fino a scendere.
Io sono molto orgoglioso di lui.
Servizio di leva volontario
La guerra era agli ultimi fuochi eppure causava ancora
lutti e tragedie. Ad ogni modo pensavo di avercela fatta,
d’essere riuscito a restarne fuori senza gran danno… anche
se qualche rischio con scossone da infarto l’avevo
scansato proprio per un pelo.
A Milano mi era capitato di rimaner sotto ad un
bombardamento, fra i più pesanti sopportati dalla città.
Alloggiavo da una mia zia all’Isola. La zia era sfollata in
Brianza, ma mi aveva lasciato le chiavi dell’appartamento.
Quella sera non ho fatto in tempo a tornare a casa da
Corso Buenos Aires dove mi trovavo. Stavo montando sul
tram ed ecco che suona l’allarme… ho dovuto scendere
nel rifugio sotto il teatro Puccini. Dopo un po' sembrava
Milano
229
fosse arrivata la fine del mondo: calcinacci e polvere
piovevano ad ogni botto.
Ad un certo punto ho visto scendere nel sotterraneo una
trentina di persone terrorizzate. Erano fuggite dal rifugio
di fronte. Il palazzo che stava sopra era stato letteralmente
abbattuto … con gran fatica erano riusciti a strisciare fuori
da un pertugio.
Il bombardamento, seppur con qualche pausa, è durato un
paio d’oro. Al suono delle sirene che annunciavano il
cessato pericolo, siamo usciti tutti all’esterno. Appena s’è
diradato un po' il fumo, ci siamo trovati di fronte ad uno
spettacolo orrendo: c’erano palazzi in fiamme, caseggiati
interi ridotti a ruderi… cumuli di detriti che sbarravano le
strade. I mezzi di soccorso non riuscivano a trovare un
varco dove passare… sirene dei pompieri che urlavano in
ogni direzione.
Tutt’intorno vedevo facce inebetite. Credo che la mia
espressione non fosse molto diversa.
Non si riusciva a venir fuori da quel labirinto infernale
segnato da lamiere contorte e detriti. Finalmente ho
incrociato un ragazzo alla giuda di un’ambulanza della
Croce Rossa che mi ha indicato un percorso d’uscita.
Milano
230
Il sole era già alto quando sono arrivato all’Isola: stesso
disastro, stesso fumo aspro provocato dalle bombe al
fosforo che ti bruciava la gola. Ho raggiunto la strada con
la casa della zia: l’appartamento si trovava lassù al quarto
piano, ma del quarto piano e di tutto il palazzo non era
rimasto nulla… solo il cielo grigio.
Ad un certo punto, mi sento battere una mano sulla spalla:
è il droghiere che ha il negozio nello stabile in faccia:
“Che ci fai tu qui? Ti avevamo dato per morto! Non si è
salvato nessuno del tuo stabile...”
“Beh, mi scusi se mi sono permesso di non far parte della
lista!”
Insomma, a parte il terrore, come dicevo all’inizio di
questo racconto, le cose mi stavano andando abbastanza
bene: avevo 17 anni e ormai la fine della guerra era vicina.
Questione di pochi mesi e poi avrei raggiunto l’età
indispensabile per venir chiamato sotto le armi.
E invece il governo di Salò ha pensato bene di fregare me
e gran parte dei ragazzi della mia leva. Uscì un editto che
ordinava ai nati nel primo semestre del 1926 di presentarsi
per essere spediti in Germania a lavorare. Più sotto si
spiegava che saremmo stati utilizzati soprattutto in
Milano
231
fabbriche e in servizi utili. In poche parole dovevamo
integrare quelle maestranze che in seguito ai disastrosi
bombardamenti erano venute meno. Mio padre aveva
subito commentato:
“È peggio che se vi avessero chiamati al fronte!”
C’era però una scappatoia: al comando della Artiglieria
Contraerea di Varese accettavano volontari. Una volta
arruolati in quel corpo ecco ce si evitava il trasferimento
da deportati in Germania. Detto, fatto: mi sono unito a un
bel gruppo di coscritti della mia leva e tutti insieme ci
siamo presentati alla caserma degli artiglieri. Eravamo
molto soddisfatti della nostra scelta anche perché ci
avevano assicurato che non disponendo di postazioni
batteria in azione, quel comando ci avrebbero rimandati
momentaneamente a casa in licenza provvisoria in attesa
di nuovi ordini.
Ma ahimé era una trappola: la sera stessa ci hanno
consegnato
le
divise,
zaino
ed
equipaggiamento.
L’indomani, di buon’ora ci hanno caricati tutti e trecento
coglioncioni che eravamo su carri bestiame alla volta di
Mestre dove ci avrebbero istruiti al servizio dei pezzo da
9E31.
Milano
232
Sulla fiancata dei vagoni che ci trasportavano c’era scritto
in grande stampatello: cavalli 12, uomini 40, cioè a dire
che il vantaggio era dei cavalli. Con noi reclute rintontite
sono stati di una certa magnanimità: in ogni vagone
eravamo 35… c’era da scialacquare.
Era estate e dentro quei casoni di legno si soffocava,
perciò viaggiavamo con il portellone spalancato. Man
mano che il convoglio prendeva velocità, il frastuono e i
cigolii aumentavano fino a stordirci… ma come facevano i
cavalli?
Arrivati a Milano, ci hanno dirottato su un binario laterale
di manovra. Siamo scesi in cerca d’acqua. Abbiamo
trovato una fontana in zona dello scalo merci e abbiamo
riempito le nostre borracce. Rientrando ai nostri vagoni,
abbiamo tagliato trasversalmente sorpassando cinque o sei
linee di binari; quindi abbiamo costeggiato una fila di
vagoni dai quali ci siamo sentiti chiamare… c’erano
fessure fra le tavole delle pareti da cui si indovinavano
occhi e bocche che ci chiedevano da bere:
“Acqua, acqua!” ripetevano donne, uomini e qualche
ragazzino. Alcuni di noi ha provato a far scorrere qualche
portellone… erano tutti chiusi con lucchetti.
Un ragazzo di Luino ha esclamato:
Milano
233
“Ma sono deportati!”
Lì per terra c’erano dei cartoni, li abbiamo fatti a strisce di
un paio di centimetri, poi ognuno di noi ha infilato il
proprio listello fra le fessure e ha cominciato a versare
l’acqua che scorrendo sul cartone scendeva al di là della
parete dove bocche assetate si spalancavano trangugiando
fino all’ultima goccia.
Non è passato un minuto che abbiamo sentito gridare:
Weg! Weg von hier! Es ist verboten!”
Erano i soldati tedeschi di guardia al convoglio che ci
cacciavano inferociti spintonandoci con il calcio dei fucili.
Per fortuna, in nostro soccorso è spuntato un ufficiale
spalleggiato da una decina di guardie ferroviarie che ha
spento deciso il vociare dei crucchi e ci ha pigliato sotto il
suo commando tirandoci via da quel vespaio. Ma quello
che abbiamo intravisto fra le stanghe dei vagoni serrati dai
lucchetti ci aveva letteralmente sconvolti. Non riuscivo a
togliermi dalla mente gli occhi di un bambino che cercava
di attirare la mia attenzione e la sua piccola bocca
spalancata, tutta protesa ad aspirare l’acqua che ero
riuscito a farmi scivolare fra le labbra.
Siamo arrivati a Mestre dopo due giorni. A Verona i
bombardieri americani avevano colpito in pieno i due
Milano
234
ponti dell’Adige. Perciò ci è toccato attraversare il fiume
su un barcone. Durante il trasbordo a pochi metri della
riva è risuonato l’allarme e si è sentito il rombare dei
motori. Qualcuno, preso da panico, si è buttato in acqua.
Ma ‘sta volta le bombe non erano destinate a noi: i
quadrimotori proseguivano per la Germania.
Nella caserma di Mestre ci siamo aggiunti ad un altro
migliaio di reclute provenienti da tutta Italia. La maggior
parte s’era arruolata per la nostra stessa ragione: evitare il
trasferimento forzato nelle fabbriche tedesche sotto i
bombardamenti a tappeto.
Ma anche in quella zona, fra mare, canali e paludi mica si
scherzava coi bombardamenti! Qualche giorno dopo dal
nostro arrivo ci fanno sgombrare dalle nostre baracche e ci
portano nelle campagne. Ci alloggiano in alcuni casoni
abbandonati; dormiamo sdraiati sulla terra battuta?
Chiediamo ad un anziano sergente del perché di quel
trasloco.
“Dobbiamo lasciare il posto a un battaglione che rientra
dalla Iugoslavia.” ci risponde. La notte bombardano
Mestre e Marghera: scorgiamo vampate di fuoco di lampi
biancastri che si levano dalla zona abitata. Sentiamo il
frastuono dei motori passarci sopra le teste. Dopo qualche
Milano
235
minuto, lassù alle nostre spalle si leva uno squarciazzo di
lampi e schizzi di fuoco e sbarlusi. Dopo un attimo trema
la terra, accompagnata da una scarica infinita di tremendi
boati. “Stanno spianando Treviso!” grida il sergente.
Le contraeree sparano all’ipazzata… sembra la luminaria
di carnevale. E invece in quel momento muoiono più di
diecimila poveri cristi, uomini, donne e bambini.
Ma che c’entrano loro con ‘sta guerra?
Milano
236
Il bombardamento era ad ondate successive. Noi eravamo
lì, nei prati , faccia all’insù come pietrificati. Lampi e
boati erano da poco cessati quando ecco che da lontano ci
arriva l’ululato delle sirene: sono i mezzi dei vigili del
fuoco provenienti da Padova. Vicino a noi c’era il
raccordo fra le tre strade, una che proveniva dalla laguna,
un’altra da Marghera e proseguiva per Treviso e l’altra
ancora che saliva dalla “Pavania”.
Le autobotti dei pompieri giravano tutte verso Treviso.
Una camionetta si ferma davanti al casone dove siamo
alloggiati; scende un ufficiale e ci ordina di tenerci
pronti… dobbiamo raggiungere Mestre. C’è bisogno di
manovalanza per rimuovere i detriti e dare una mano per i
soccorsi.
Dopo pochi minuti ci caricano su due camion e arriviamo
così in città. Hanno colpito l’intero centro. Ci si presenta
la stessa scena del bombardamento di Milano, con la
variante dell’aprirsi di enormi crateri che sparano getti
d’acqua come fontane. Gente che grida, feriti portati via a
braccia mentre i morti vengono stesi sotto un porticato.
Prima che ci si riesca ad organizzare passa più di un’ora.
Nessuno ci dice quello che dobbiamo fare.
Milano
237
Arrivano dei trattori muniti di pale meccaniche; ci
consegnano dei badili: dobbiamo accatastare i detriti spinti
dalle pale. Sotto un lastrone abbiamo sentito salire delle
voci… si è scavato a lato come forsennati e finalmente si è
aperto una specie di tunnel… poco per volta, uno ad uno,
abbiamo tirato fuori una decina di persone. Avevamo le
mani che sanguinavano. Solo pochi di noi potevano
vantare i calli da terrazziere.
Il giorno appresso grande adunata nella caserma centrale,
cambio di vestiario:
“Gli abiti che avete addosso sono di tipo invernale… con
questo caldo crepate. Ora vi procuriamo divise più adatte,
roba estiva!”
Ci consegnano pantaloni e giacche di uno strano colore,
giallo sabbia.
Come li indossiamo ci guardiamo tutti l’un l’altro ad occhi
sbarrati:
“Ma sono divise tedesche, della WerMark!”
“Non fatevi strane idee - ci tranquillizzano gli ufficiali sono tedesche, ma le mostrine sono quelle del nostro
esercito, state tranquilli…”
Nei giorni appresso cominciamo le esercitazioni:
“Faremo pratica sui cannoni da 88!”
Milano
238
“Ma sono quelli in dotazione alla contraerea tedesca?”
“Dobbiamo adattarci a far pratica sulle loro batterie… i
nostri 91 non sono disponibili per il momento.”
Passa un’altra settimana… altra adunata generale:
“Rifate gli zaini e raccogliete la vostra roba… si torna a
casa, o meglio a Monza dove si trova la sede del comando
dei quattro battaglioni. L’esercitazione riprenderà in quel
campo più attrezzato.”
Risaliamo sui carri merce, con noi ci sono i veterani
tornati dalla Jugoslavia. Uno di loro commenta:
“Non mi dice niente di buono ‘sto trasferimento… mi sa
che ci fottono!”
“In che senso?” chiediamo noi reclute.
“Il senso non lo so, ma ‘sto fatto delle divise deutch…
l’esercitazione sugli 88 dei crucchi e adesso pure il
trasferimento con l’accompagnamento delle guardie
tedesche… mi puzza di gran fregata!”
“E dove sarebbero ‘ste guardie crucche?’
chiediamo increduli.
“Calma che a momenti arrivano!”
Non so da chi i “vecchi” l’avessero saputo, ma appena
sistemati nei vagoni merci ecco che arrivano i nostri angeli
Milano
239
custodi. Sono armati con Machin Pistol e Machin Gerver.
Si piazzano nelle garrite senza degnarci di uno sguardo.
“Non agitatevi - fa un sergente - vengono con noi solo per
proteggerci?”
“Da chi? Dal lupo cattivo?”
Quando il convoglio raggiunge Verona, puntuale come la
scalogna, ecco che suonano le sirene d’allarme; i genieri
avevano
appena
sostituito
il
ponte
abbattuto
approntandone un altro appoggiato su barconi.
La nostra tradotta s’è bloccata a un centinaio di metri dal
nuovo ponte. Spalancati i portelloni, ci siamo precipitati
tutti quanti giù dai vagoni.
“Lasciate su i vostri zaini che vi impicciano e basta!” ci
gridavano i sergenti.
Non capivo del perché quasi tutti i “vecchi” se ne
fregassero dei consigli e si tirassero appresso i propri
bagagli. L’ordine era di allontanarsi dagli argini
dell’Adige e dalla ferrovia.
“Sparpagliatevi nei campi, in mezzo al granoturco, ma
restate tutti uniti!” urlava l’interprete tedesco, sicuramente
alto atesino.
“Ma quello è suonato - sghignazzavamo noi in coro come si fa a sparpagliarsi e restare tutti uniti?”
Milano
240
Le nostre risate non sono durate a lungo, anzi ci si sono
raggelate in gola quasi subito: in picchiata stavano
venendo giù una mezza dozzina di “Urricane” che
lasciavano cadere bombe come manciate di riso addosso
agli sposi. A ogni assalto volavano in aria getti altissimi
d’acqua e di ghiaione.
“‘Sta volta l’hanno beccato in pieno!” si gridava noi
affacciandoci appena fra le spighe del formentone. E
invece, come il nebbione prodotto dall’esplosione in acqua
si diradava, ecco che appariva il ponte galleggiante sui
barconi
sballonzolante
per
li
sconquasso,
ma
perfettamente intatto.
Di sicuro quel ponte era magico!
Dopo la terza picchiata andata buca, lo stormo degli
Urricane desisteva rientrandose alla base dietro la linea
gotica.
“Cessato allarme, si torna al convoglio!”
Più di un vagone appariva sforacchiato: uno dei caccia
americani gli aveva tirato addosso una scarica da 20
millimetri… Ecco perché i “vecchi” della compagnia si
erano portati appresso gli zaini e le varie masserizie!
A questo punto i sergenti delle varie compagnie
cominciano a fare l’appello, ma il nostro capo non c’è. I
Milano
241
tedeschi
della
scorta
bestemmiano:
“Hurensöhne,
Fanhfluchtige! Verräte!”
Scopiamo quasi subito la ragione di tanto furore: tutti gli
anziani del battaglione, compreso il nostro sergente, hanno
tagliato la corda… spariti!
Si riparte. Anche il vagone che ci hanno assegnato è
rimasto sforacchiato e gli unici zaini che troviamo sono
tutti squarciati.
I tedeschi ci ordinano nuovamente di scendere : il
convoglio si appresta ad attraversare il ponte e non c’è da
fidarsi a restarci sopra. Quindi la truppa lo attraversa a
piedi, zompando da una traversa all’altra.
Finalmente si rimonta nei nostri vagoni e qui godiamo di
una sorpresa davvero inaspettata: come riprendiamo
posto sui carri, la scorta dei tedeschi fa scorrere i
portelloni e ci chiude dentro, bloccati con il lucchetto.
“E che è?! Siamo forse deportati? - urliamo indignati Bastardi!”
L’interprete col suo bell’accento bolzanino ci grida:
“E fate gli scongiuri che non ci vengano a bombardare
ancora perché ‘sta volta, niente libera uscita. Restate
dentro! E di questo ringraziate quei vostri soci che se la
sono data a gambe!”
Milano
242
Eravamo rimasti in piedi come allocchiti in quelle nostre
trappole cigolanti mentre il convoglio proseguiva a
velocità sostenuta.
Dopo un paio d’ore senza altri intoppi, siamo arrivati allo
svincolo per Sesto san Giovanni… un’altra mezz’ora e
finalmente raggiungevamo la caserma di Monza.
Trascorsa una settimana davvero tranquilla, eravamo più
che convinti che la fuga dei vecchi commilitoni fosse stato
un atto inutile e molto rischioso, quello cioè di venir
catturati e finire sotto processo per diserzione davanti al
nemico.
Intanto ogni giorno giungevano altri contingenti di
artiglieri provenienti dall’Albania e dalla Grecia; ogni
gruppo era scortato da uomini della Vertmark… di tanto in
tanto appariva poi fra loro anche qualche soldato delle SS
Ma non c’era da temere. Fra l’altro, molti di noi iscritti
all’Università ottenevano facilmente il permesso di recarsi
a Milano per dare gli esami. Così ogni settimana ero
all’Accademia di Brera per la tesi e al Politecnico per la
cosiddetta “Sei giorni”, l’esame pratico di rilievo dei
monumenti.
Ad ogni rientro in caserma, mi prestavo a eseguire ritratti
ai vari graduati del battaglione. Lo ammetto, il classico
Milano
243
arruffianamento, ma di grande vantaggio perché mi dava
la possibilità di girare per uffici e ottenere proroghe e
permessi speciali.
Insomma, in quel casermone di Monza stavo vivendo
un’esperienza quasi idilliaca… piano piano, l’incubo della
tradotta da deportati stava svanendo, anche i tedeschi
erano spariti. L’avventura di Mestre, i bombardamenti a
tappeto, l’incarico di dissotterrare i cadaveri ormai
apparivano a tutti noi come una lontana esperienza da
dimenticare.
A liberarci definitivamente da quel cosmar è arrivato
l’ordine di un ulteriore cambio di divisa… in verità sarei
più portato a definirla l’ultima metamorfosi giacché questi
rito implicava anche la trasformazione del nostro ruolo
fisico in quella assurda commedia. L’ordine del cambio
d’abiti e di ruolo ci è stato impartito durante l’adunata
generale nella quale venivamo presentati al nuovo
comandante
in
capo
del
battaglione
d’artiglieria
contraerea. Appena schierati nel grande spiazzo è apparso
un colonnello burbero, ma molto simpatico che dopo
un’occhiata sommaria, ci ha quasi aggrediti:
“Cos’è ‘sta schifezza di costumi che vi hanno messo
addosso… tutti gialli come merda di dromedario. È roba
Milano
244
che va giusto bene per mimetizzarsi nel deserto. Mi spiace
per voi, l’Africa Corps è sciolta… Kaputt! Quindi o vi
trovate un cammello a testa o buttate quella divisa!”
C’è stato uno sghignazzo generale e perfino un accenno di
applauso. Un ufficiale così spiritoso, quell’ironia così
smaccata era una bomba liberatoria!
Detto, fatto: appena acquartierati, passati sotto le docce
nudi come vermi in fregola, divertendoci con uno sguazzo
festoso di piselli sbatacchianti di forme e misure a tutta
scelta, abbiamo ricevuto le nostre nuove divise. Non
esaltavano certo il nostro aspetto guerriero e virile, anzi, ci
siamo ritrovati di botto con il naturale aspetto di burbe
italiote… segno che eravamo veramente di nuovo a casa!
Sollecitato dai miei compaesani, ho ricominciato ad
esibirmi nel racconto di storie buffe. Avevo inaugurato un
nuovo repertorio tratto dalla più che sgradevole esperienza
di Mestre, episodi realmente vissuti in prima persona e che
avevano completamente rimosso. Uno dei più applauditi
era il racconto del salvataggio delle battone di Mestre.
Queste povere vestali dell’amplesso a cottimo erano
rimaste sotterrate sotto la franata della ‘casa rossa’ dove
operavano, una villetta ai margini della città Il loro
numero, data la presenza di caserme con truppe
Milano
245
provenienti da lunga e sofferta astinenza, era piuttosto
cospiquo: circa cinquanta procacciatrici di orgasmo
pneumatico.
La famosa notte in cui venne completamente distrutta, la
casa del sollazzo fallico era letteralmente gremita di ospiti
ansiosi di liberare i propri lombi dall’accumulo di liquido
seminale in forte esubero. Al suono della sirena, nessuno
che abbia accennato al prudente gesto di sgomberare. La
metresse aveva solertemente dato la notizia alla stimata
clientela
che
avrebbe
potuto
accomodarsi
momentaneamente nelle accoglienti cantine sottostanti, ma
nessuno
che
le
abbia
offerto
un
minimo
di
attenzione… come recita un antico adagio scientifico:
“Fallo ritto no intende un cazzo!”
Ma alle prime bombe che hanno cominciato a piovere a
ridosso della premiata ciollaria con botti tanto violenti da
sradicare d’acchito l’intero tetto della palazzina, ecco tutti
quanti - ruzzate e ruzzanti - precipitarsi giù per le scale per
raggiungere le cantine nella speranza di salvarsi dal più
che imminente crollo. Infatti ad una ulteriore esplosione,
ecco che i tre piani dello stabile hanno cominciato a
franare inesorabilmente su se stessi come un castelletto di
sabbia issato dai bambini sulla spiaggia.
Milano
246
La nostra compagnia di soccorritori improvvisati giunge
per prima sul posto… quei poveracci sono seppelliti da più
di un’ora. Per noi questa era la seconda operazione di
pronto intervento: molto pronto, ma poco efficiente a dire
il vero!
Arriva anche una grossa escavatrice. Ci mettiamo al
lavoro immediatamente. Dopo ore di lavoro estenuante,
siamo bolliti e sdegnerai quando all’improvviso sentiamo
gridare là sotto… sembrano voci femminili, lamenti
disperati: “Presto, forza con ‘sti badili benedetti! Vai con
la ruspa. Questi stanno soffocando!”
Ma
incasinati
e
inesperti
come
eravamo,
presi
dall’impellenza tragica, ci buttavamo palate di detriti l’un
l’altro. Oltretutto intorno al palazzotto franato s’era creato
un assembramento di curiosi che ci incitavano a fare in
fretta.
Ad un certo punto mi sono trovato nella buca scavata fra i
detriti davanti ad una porta bloccata. Ho gridato che mi
passassero un piccone o una mazza. Avuto fra le mani
l’attrezzo, l’ho sollevato caricando le mie braccia di tutta
la forza possibile e… mi è volato via il ferro della mazza
che è arrivato a beccare in pieno le chiappe d’un cavallo
montato da un ufficiale che, non si sa come ne perché, si
Milano
247
trovava in quel luogo a cavalcare come transfertato al
concorso ippico del Prater. Colpito dal tocco di ferro, il
povero animale sferrava una scalciata dietro l’altra e
partiva come un razzo dritto, in mezzo ai ruderi, saltando
ogni ostacolo con foga incredibile.
Al secondo colpo di mazza, ‘sta vola ben assestato, la
porta è andata giù di netto e fra la polvere è apparsa una
ragazza seminuda che, come mi scorge, salta fuori
ridendo, piangendo e gridando… poi mi abbraccia
appassionata e mi stampa un gran bacio sulla bocca. La
donna che le sta appresso la spinge via e a sua volta mi
bacia a labbra spalancate ficcandomi la lingua in bocca a
trillo come un frullatore lasciandomi senza fiato. Per
fortuna i miei compagni del soccorso pronto, mi strappano
via
dall’ingresso
abbracciando
e
del
portale
raccogliendo
e
si
sostituiscono
sbaciucchiamenti
appassionati quale ringraziamento da parte delle liberate.
Si crea un ingorgo con spinte e ricambi di soccorritori che
pretendono ognuno la propria dose di riconoscenza. Un
subentrato, desideroso della sua porzione sbaciucchiosa, si
fa largo proprio mentre sta uscendo un tedesco nudo e gli
impasta una doppia dose di labbra sulla bocca con relativa
slinguata. Il violentato fa il gesto meccanico di mettere
Milano
248
mano alla fondina per estrarre la pistola… per fortuna
dello
sbaciucchione,
il
germano
incazzoso
è
completamente nudo!
Il mio racconto è seguito con contrappunto di grasse risate
che cadono a giusto ritmo con un crescendo che esplode
alla scena della sortita delle liberate ignude che offrono
zinne, baci e tondi glutei in dono ai liberatori. Al finale del
tedesco trafitto dalla linguata la platea esplode con un
applauso davvero caloroso. Fra gli spettatori c’è anche un
maresciallo che esibisce una risata con ululato e
scoppiettio finale. La prima volta che mi capita di sentirla
rimango perplesso: è uno sghignazzo così assurdo che
penso mi stia sfottendo tanto che mi rivolgo a lui e lo
minaccio:
“Attento signor Maresciallo che se continua con quel suo
ululato da coite, le stoppo la bocca con un tal bacio con la
lingua che l’annego!”
Lui scoppia a ridere con tonalità ancor più scarcagnante.
Mi rendo conto allora che quella è proprio la sua risata
naturale.
Alla fine della mia esibizione si alza e mi viene incontro.
Dal suo impaccio e dal fatto che non riesce ad inquadrarmi
con li sguardo capisco che è cieco.
Milano
249
“Non so come ringraziarti per queste sane risate me mi hai
fatto fare… Noi ciechi le immagini fantastiche ce le
ingoiamo!”
Mi ritrovo impastato, non so cosa dire, ma lui mi toglie
subito dall’impaccio sghignazzando:
“Accidenti, mi è venuto in mente che se sapessi raccontare
storie come fai tu sarei l’Omero di questi nostri tempi di
merda!”
Più tardi è lui stesso a raccontarmi di come abbia perso la
vista: durante un bombardamento a Torino una scarica di
schegge l’ha colpito in pieno viso.
“Tu pensa l’ironia, - mi dice - io mi chiamo Bellosgurado!
A giorni devo subire un altro intervento con il quale spero
di recuperare la vista almeno in parte. Io sono di Brindisi e
non ho nessuno qui nel Nord d’Italia. Dovrei starmene
all’ospedale ad attendere il mio turno, solo come un
cane… e cieco per giunta. Chi me lo fa fare, i miei unici
amici ce li ho qui in questo casermone perciò ci resto!”
Qualche giorno dopo vado a trovare Bellosguardo nel suo
ufficio (faceva il centralinista) che mi riconosce subito
dalla voce e mi abbraccia. Poi mi chiede se per favore lo
accompagno allo spaccio. Lo prendo sotto braccio e strada
facendo mi dice:
Milano
250
“Avevo bisogno di parlarti in privato e là negli uffici c’è
sempre qualche orecchio di troppo ad ascoltare. Stamattina
con Giovanni, la recluta che mi accompagna, sono uscito
dalla caserma… io ho il permesso permanente. Mi
aspettavano a Milano per una serie di esami preparatori
all’intervento. Appena passata la cinta delle vecchie mura
Giovanni mi avverte che, ben nascosti fra i platani e i
faggi del parco, stanno tre o quattro auto blindate e un
gran numero di camion. Mi sbaglierò, ma qui ‘sta
succedendo qualcosa di grosso!”
Bellosguardo non si sbagliava per niente.
Ci avevano azzeccato anche i reduci della Jugoslavia a
darsela a gambe levate subodorando che fra i tedeschi e i
capoccia della Repubblica di Salò si stesse a prepararci
una trappola.
La prima avvisaglia l’abbiamo avuta esattamente il giorno
dopo, quando abbiamo scoperto che tutti i permessi,
compresi quelli già prenotati e concessi per sostenere gli
esami erano stati congelati. Proibito uscire dalla caserma!
Il giorno stesso suona l’adunata: tutti nel piazzale in fila
per tre, ogni compagnia pronta per essere passata in
rivista.
Milano
251
“Guardate lassù sulle torrette, - sbotta uno di noi - i
tedeschi stanno piazzando le mitragliatrici pesanti!”
“Vorrei sapere per quale ragione le puntano verso la nostra
parte!” domando io.
Si sta schierando anche la fanfara del reggimento. Entrano
di corsa un centinaio di SS armati come andassero in
battaglia. La banda intona la marcia del nostro corpo. Dal
fondo vengono avanti ufficiali tedeschi e italiani, poi una
compagnia di brigate nere.
In mezzo a loro c’è Mussolini… sì proprio lui, in divisa
come nelle foto di qualche anno fa. È magro, tirato e sfila
davanti a noi accennando un saluto col braccio ogni tanto.
Da vicino mostra un aspetto ancor più emaciato e stanco.
Come ci passa in rassegna, monta su un palco approntato
in fretta con un paio di praticabili e parla servendosi di un
microfono. Non c’è alcuna enfasi nel suo tono:
“Le città tedesche sono aggredite ogni giorno, ogni notte
dai bombardieri nemici. Le predite fra la popolazione sono
molto ingenti, ma si lamentano perdite anche fra le unità
che ogni giorno riescono ad abbattere centinaia di aerei
aggressori. In prima fila fra questi eroici combattenti c’è la
contraerei tedesca. Voi tutti avrete il grande onore di
unirvi a loro per infliggere al nemico una sacrosanta
Milano
252
lezione e dimostrare la più tangibile solidarietà alla
nazione alleata e al popolo tedesco!”
“Ce l’hanno ficcato in quel posto!” ha commentato a
mezza voce il comandante di batteria mentre le SS e le
brigate nere applaudivano e gridavano i soliti peana
esaltanti la gloria e la morte. Qualcuno di noi aveva la
faccia rigata di lacrime.
Con la stessa velocità con cui Mussolini e la sua scorta
erano apparsi, così sono spariti.
I tedeschi intanto rimanevano sulle torrette con le loro 20
millimetri puntate verso l’interno. Non temevano un
attacco, ma un ammutinamento.
Grazie al mio amico Bellosguardo che mi mette a
disposizione il telefono, riesco a comunicare con mio
padre alla stazione di Pino:
“Partiamo domani con una tradotta scortata. La città dove
siamo destinati? Forse è Düsseldorf o Dresda. Se tanto mi
da tanto, ci chiuderanno dentro i vagoni come l’altra
volta!”
Il papà sta in silenzio per qualche secondo, poi mi dice:
“Qualsiasi cosa succeda, non lasciarti mai andare… il tuo
buon umore e l’ironia sono la tua salvezza, non lo scordare
Milano
253
mai! Domani, io sono bloccato qui, ma la mamma verrà a
salutarti.”
La mattina presto, fuori dalla caserma ci sono già centinaia
di persone… sono i parenti dei soldati in partenza: madri,
padri, mogli e sorelle.
Tutti noi con i nostri bagagli siamo lì nel piazzale
inquadrati, una compagnia appresso all’altra… si ripetono
i soliti appelli, insopportabili come tiritere. Noi e altre due
guarnigioni siamo agli ultimi posti della processione. Ad
un certo punto viene da noi il colonnello. Io sto
leggendo un biglietto che mia madre è riuscita a far filtrare
attraverso il cappellano. Mi dice che sta fuori, sotto il
grande faggio: “Quando uscirete per salire sui camion,
guarda da questa parte.”
Quel giorno non ho visto mia madre a causa di n inatteso
evento.
Lei, come diceva su quel biglietto, stava in piedi da ore
sotto il grande albero che in dialetto ha il mio stesso nome
(il faggio in lombardo si chiama “fo”). Davanti ai suoi
occhi transitavano le compagnie di ragazzi che cercavano
disperatamente i propri cari fra la quella folla vociante che
spintonava e veniva tenuta in disparte dalle guardie
Milano
254
tedesche alle quali si erano aggiunti un centinaio di
carabinieri.
Ad un certo punto, l’ho saputo poi, s’è appoggiata con le
spalle al tronco del fo quando, all’improvviso, ha sentito
sussurrarle:
“Non parte, il tuo ragazzo non parte!”
Lì vicino a lei, a sua volta appoggiata all’albero, c’era una
donna piuttosto anziana e sconosciuta.
“Diceva a me? Di mio figlio?” le chiede.
“Sì, del to fiòl… ol resta a ca’! - ribadisce parlandole in
dialetto della Lomellina - ol part mia!”
“Ma come nol parte! Guardi lì, se ne stanno andando tutti,
più di un migliaio!”
“Ma i ultìm i resta chi!”
E così dicendo se ne va appoggiandosi ad un bastone…
scompare ingoiata da uno stuolo di madri che corrono
verso un altro drappello in partenza.
“Signora Giuseppina Fo, - si sente chiamare - per favore,
tra di voi chi è la madre di Dario Fo? Risponda!”
“Io! sono io! Sono qui!” e si sbraccia senza capire da dove
la stiano chiamando. Ecco che spunta un soldato, anzi,
due… vengono avanti a braccetto. Uno dei due è cieco.
Milano
255
“Signora Giuseppina, ho un biglietto da parte di suo figlio.
La sua compagnia non parte per il fatto che sono reclute,
non sono ancora addestrate in batteria e i tedeschi non
sanno cosa farsene.”
Mia madre non riesce a parlare, abbraccia il Maresciallo
Bellosguardo. Altre madri che hanno ascoltato il
messaggio chiedono informazioni più precise.
“Anche mio figlio è una recluta!”… “Anche il mio!”
“E allora state tranquille: restano qui! - ribadisce il
maresciallo cieco - Chi non è addestrato resta a casa!”
Decine di braccia si protendono a stringere le mani di
Bellosguardo.
“Grazie! Grazie!”… “Dio ti renda merito!” gli gridano…
“Che Gesù Cristo ti benedica, caro fiòl!”
“Ecco, per favore, se lo vedete intorno, metteteci una
buona parola per me… che domani ci esca davvero il
miracolo!”
Ritorno dal nonno
Terminata la guerra tutti a Porto si stava vivendo una
eccitata euforia. Il Civolla ripeteva ad ognuno:
“Ci troviamo finalmente davanti a una enorme pagina
bianca sulla quale scrivere idee nuove e sogni nuovi!”
Milano
256
Con i miei fratelli si riprendeva a viaggiare avanti e
indietro dal lago a Milano, ma più spesso si rimaneva in
città dove la mamma aveva affittato una villetta - di quelle
dei ferrovieri - nei pressi di Largo Foppa.
Un sabato di maggio sono andato a trovare il nonno. Era
quasi un anno che non lo vedevo.
Lo zio Nino si era offerto di portarmi con la sua auto che
chiamavamo il “calderone” poiché era stata messa insieme
con pezzi di auto diverse e rottami salvati dalla fonderia.
“Grazie, ci vengo volentieri… e speriamo di riuscire ad
arrivare a Sartirana!”
L’assemblaggio dei pezzi si traduceva in una visione
metafisica che faceva pensare immediatamente a una
composizione di Depero: ingranaggi, scatole a cupola,
tubi, batterie, scappamenti, cilindri e pompe incastrati uno
nell’altro in una specie di ammucchiata oscena.
I primi dieci chilometri, a parte qualche sussulto di troppo
sono scivolati via senza grandi intoppi. Arrivati a Pavia,
l’acqua del raffreddamento però ha cominciato a bollire
spruzzando una quantità di vapore che superava di sicuro
quella di una locomotiva. Poi uno scoppio con lancio di
bulloni e guarnizioni…
Milano
257
“Ci fermiamo un attimo - lo zio Nino mi tranquillizza - È
solo una sciocchezza! Un secondo e si riparte.”
Con una tenaglia afferra i pezzi sparsi sull’asfalto e li va a
risistemare nei loro posti… stringe con la chiave inglese
vari bulloni e infine si riparte.
Da quel momento mi sembra di trovarmi dentro un film di
Ridolini. Una sequenza proprio da clown: all’improvviso
si spalanca il cofano che si stacca e vola via… il tappo del
radiatore viene sparato per aria, spruzzi e fumi a volontà…
altri tubi, una pompa e le candele, uno dietro l’altro
prendono il volo. Va tutto a fuoco. Si stacca pure una
portiera e non so come anche il portapacchi esplode…
scoppia una gomma.
Lo zio rimane con il volante in mano.
Saltiamo fuori quasi proiettato e ci sbraghiamo esausti sul
ciglio della strada. Ci guardiamo e scoppiamo a ridere da
farcela addosso.
Nel pomeriggio raggiungiamo Sartirana sulla macchina
trainata da un cavalo. Per nostra fortuna, il numero con le
esplosioni comiche si era svolto a 500 metri dal podere
dello zio Aronne, il primo dei figli del Bristìn e della Bella
Maria. Giunti in prossimità del cascinale del nonno, lo zio
ha posteggiato il catorcio dentro la stalla di un vicino con
Milano
258
la preghiera di non far sapere niente della squarata a suo
padre… l’avrebbe sfottuto da pelarlo vivo.
Abbiamo trovato il nonno in mezzo all’aia che dirigeva la
messa a punto di una “conserva”: si trattava di un enorme
tetto a forma conica di almeno 10 metri d’altezza la cui
base appoggiava direttamente sul terreno. Quel cono
copriva un gran pozzo largo quanto il diametro del cono
sovrastante ed era profondo altrettanti 10 metri. La cupola
conica era costruita in legno e canne intrecciate come in
un gran cesto rovesciato. In fondo al pozzo, dentro il quale
si scendeva attraverso una scala a chiocciola scavata nel
terreno e rinforzata da pale e tavoli di ontano, era stata
pressata la neve e il ghiaccio delle gelate d’inverno. Sopra
quella base ghiacciata si sarebbero sistemati latticini,
carne, verdure e perfino i pesci… insomma quello era il
frigorifero già in uso presso i romani: la “conserva”,
appunto.
Ma vista del nonno si era molto indebolita negli ultimi
tempi e per dirigere quella specie di tempio di faceva
aiutare dal primo dei suoi figli, Aronne.
Ero molto commosso nell’abbacchiato e mentre mi
baciava ho sentito che la sua guancia era bagnata.
Milano
259
Il giorno appresso era domenica e il lavoro dei campi era
fermo così gli ho proposto di posare per me per un ritratto.
Aveva indossato una giacca di velluto, una camicia appena
stirata e s’era seduto ritto sulla schiena come stesse a
cavallo. Avevo bisogno che si sciogliesse da quella
posizione da ingessato, così per farlo sentire a suo agio gli
facevo un sacco di domande su problemi che sapevo
stargli a cuore:
“Scusa nonno, ma cosa succede adesso con i tuoi orti, le
piante e la serra? Chi è rimasto ad aiutarti?”
“Nessuno, chi vuoi che abbia interesse a questo lavoro! Ho
messo al mondo cinque figli maschi e tre femmine e io per
primo, senza volerlo, ho fatto di tutto perché si
procurassero altri interessi. Li ho appassionati alla
meccanica tirando in casa macchine di ogni tipo perfino
una pompa a propulsione elettrica, trattori diesel, un
impianto di irrigazione autonomo e una serra con piani
agibili come non se ne erano mai viste! Ho insegnato loro
come si smontano e rimontano i motori, a variare l’assetto,
effettuare miglioramenti, ripetendo loro a tormentone: un
contadino non può conoscere solo della semina e del
raccolto, spargere merda, pardon… letame e verde rame
sulle viti! Se si limita a questo sarà sempre un villano con
Milano
260
la visuale di un cavallo con i paraocchi. Siate curiosi,
spalancate tutte le finestre del cervello! E loro le hanno
spalancate: Beniamino è diventato pilota collaudatore di
aerei alla Macchi di Varese, Giosuè fa l’assicuratore,
Mattia fa l’orafo incisore a Valenza… Nino, lo sai, è
anche lui matto per i motori. So che si è arruffianato un
bidello che gli permette di assistere di straforo alle lezioni
del Politecnico ad ingegneria. Aronne, l’unico che mi
aiutava un po' nei lavori agricoli, ora ha deciso di mettere
su un auto-officina.
Io li ho cacciati da ‘sta terra i miei figli! Ma stai tranquillo,
non la lascio andare in malora la mia baracca. sto tirando
dentro una cooperativa di ragazzi, gente che è appena
tornata dalla guerra. Gli sto facendo fare il callo piano
piano… erano quelli che ieri, li hai visti , montavano la
conserva a cupola. Mi vengono appresso bene… gli faccio
pagare un piccolo affitto, poi se funziona mollo tutto a
loro.”
Il nonno si era sciolto del tutto: sollevava le braccia,
gesticolava… ad un certo punto, preso dal discorso, s’è
alzato perfino in piedi.
“Ehi Pa’, dove stai andando? Ti sto facendo il ritratto!”
Milano
261
“Ah sì, scusa…” si è portato alle mie spalle per sbirciare
verso il dipinto.
“Accidenti! Aspetta che cambio occhiali… Eh, ma sono
proprio io! Sei meglio di una macchina fotografica.
Peccato che io ci veda così poco e sbiadito!”
Mi ha mollato una manata sulle spalle ed è tornato a
sedere. Adesso taceva seguendo i propri pensieri. Poi,
quasi parlasse fra se e se, ha buttato lì:
“Sai cosa mi fa piacere? Di sapere che son servito a tirar
su una bella razza di gente che ragiona e cerca con
entusiasmo. Se penso che ero nato Perdapé!”
“Perdapé? Che significa nonno?”
“È l’ultimo livello, il più basso nella categoria dei
contadini: sono i fittavoli che hanno diritto di giovare del
raccolto solo dopo che il padrone s’è presa la sua parte
fissa… cioè se l’annata va a schifo, crepano. Il contratto
dei Perdapé si chiama l’“angheria”… non ti dice niente
questo termine?
Ecco io ero nato perdi piedi, destinato a consumarmi i
piedi immersi dentro la terra dall’alba al tramonto, ma ho
fatto il mio salto mortale grazie, tanto per cominciare, a
quel prete che per mia fortuna è capitato nel fondo del
Monferrato, cacciato dall’univertità per via che era troppo
Milano
262
vispo di cervello e voleva ragionare su ogni cosa. Io devo
dire grazie alla Santa Chiesa che continua a ritenere che il
peggior peccato sia quello di mettere a frutto la più alta
dote che il Padreterno ci ha dato: l’arbitrio libero di fronte
ad ogni regola!”
Trascorso l’inverno, sono tornato a far visita al nonno.
Venendo dalla stazione l’ho incontrato che veniva avanti
aiutandosi con un bastone per individuare davanti a se i
tronchi dei tigli della lea, cioè del viale. La gente che
incrociava gli dava la voce, lo salutava, si fermava un
attimo a fare due chiacchere e a provocarlo perché il
Bristìn ribattesse con qualche sua battuta spiritosa e
tagliente. Era ormai quasi completamente cieco, ma
viveva
questa
sua
condizione
con
un’autoironia
impressionante… ogni tanto si metteva a camminare
all’indietro:
“Così - rispondeva a chi gli andava chiedendo di quella
sua stranezza - riesco a prendermi il sole in faccia che mi
da un gran piacere. E poi non mi serve camminare per il
diritto, tanto non ci vedo!”
Quando era a casa non si trovava mai solo: venivano
contadini a chiedergli consiglio sulla semina del tal
Milano
263
agrume o delle granaglie, se era giusta la luna o se erano
buone le sementi che avevano preso al consorzio.
Era vero che non ci vedeva, ma come mi aveva insegnato
da bambino, il tatto e l’olfatto erano mezzi infallibili di
giudizio. Lui affondava una mano nel sacchetto del grano
e del vialone, faceva scorrere i semi fra le dita come
fossero chicchi di un rosario, poi li annusava, li metteva in
bocca e li masticava… alla fine dava il responso. Il Bristìn
era il terrore dei mercanti di granaglie da semina.
Molte volte insultava i suoi amici contadini che andavano
da lui a mostrargli le confezioni di anticrittogamici che il
consorzio aveva loro consigliato per far fuori tarme,
grillotalpa e altri flagelli dei campi.
“È vero, testa di rapa, con ‘sti antiparassitari tu ammazzi
almeno dieci razze bastarde di ciuccia-semi, ma tu hai mai
verificato quante altre larve di insetti buoni fai secche?
No… vero?
Guarda il DDT che sacramento di disastro ci ha
combinato… l’anno scorso, ti ricordi, sono passati sui
campi con un aereo che spernacchiava ‘sto sguazzo
velenoso come fosse la benedizione del corpus domine.
E’ un toccasana, un portento – promettevano gli
agronomi… figli di puttana, ignoranti come talpe. Sì, è
Milano
264
vero: hanno fatto fuori la rogna nel granturco, le erbe
matte delle risaie…risparmiando sulle mondariso, i funghi
rossi, la filossera. Ma insieme hanno accoppato uccelli di
stanza, lucciole, api, libellule, rane, carpe a tonnellate e
perfino, stormi di rondini. Bravi bastardi!
Tiri giù gli uccelli, i passeri e gli stornelli, accoppi i
merli…e poi resti sorpreso che le processionarie crescono
decuplicandosi e ti spogliano i boschi interi di pioppi, te li
sbranano… Ma chi, gli anni passati, o testa di coniglio in
salmì, ti ha beccato tutte le larve di quei millepiedi
vischiosi che si calavano dai rami come piccoli Tarzan
appesi alla loro bava? Le rondini, i passeri, gli storni, e
così via. E lo stesso per le rane…sono loro che si ingoiano
le larve delle zanzare e dei tafani che galleggiano nelle
rogge. Sono le libellule che fan fuori gli ziffili che
sbranano la segale e i fiori teneri delle patate.
Adesso ci vorranno anni perché si riformi quell’equilibrio
straordinario!”
“Ma allora non dobbiamo più spargere diserbanti,
antiparassitari…dobbiamo lasciare che ‘sti rognosi si
strippino ogni raccolto?”
“No, per la miseria, la chimica, il progresso sono una cosa
sacrosanta…ma non fidatevi di primo acchito come talpe
Milano
265
ciecate…informatevi! Basta di stare con l’idea cogliona
che sia importante acchiapparsi il proprio vantaggio e chi
se ne frega di quel che succede appresso.
Attenti che è come menar mazzate su una lippa. Tu batti,
la lippa trilla per aria, ma c’è il rischio che ti si possa
ficcare in un occhio. Certo, non tutto ciò che procura
morte è forzatamente negativo. Mia nonna si curava la
sciatica facendosi mozzicare le chiappe da una serpe
velenosa e…incredibile, è perfettamente guarita. Sua
sorella invece è stata punta da una vespa ed è morta.
In natura tutto si rovescia, ogni cosa ha il suo doppio,
negativo e positivo. Non bisogna mai dire l’effetto di
questo medicamento non lo conosco, non ne voglio
sapere…No,
bisogna
proprio
sapere…informarsi,
conoscere, se no ‘sta grande madre che è la natura diventa
feroce e vendicativa come un normale Padreterno e ci
strozza tutti nella culla…o ci intossica intanto che ci
allatta con le sue grandi tette.”
Io ascoltavo in disparte sempre affascinato per come il
nonno riuscisse ad esprimere, con grande semplicità,
concetti così importanti. Osservando i suoi gesti mi
fissavo ben incisa nel cervello ogni sua lezione e mi
veniva in mente quella stupenda massima di Montesquieu
Milano
266
che dice: “Gli eruditi saccenti son quelli che con termini
ed espressioni arzigogolate riescono a comunicare il nulla
completo”.
Il nonno era proprio il loro contrario.
Venivano
spesso
a
trovarlo
anche
gli
allievi
dell’Università di agraria che ormai si erano laureati e, da
tempo, esercitavano la professione. E, puntuale, arrivava
ogni venerdì il parroco di Torreberetti. Lui e il prete si
sedevano sotto il bersò delle glicini e conversavano
sempre piuttosto animatamente. Una volta ho sentito il
nonno gridare: “Il fatto è che voi, cari cattolici apostolici
romani, per sopravvivere, avete bisogno di tutti i santi riti
della religione, a cominciare dalla confessione che vi
libera da ogni colpa…un po’ di pentimento e via. Se siete
in crisi, vi sbattete in ginocchio e pregate il Signore, i
Santi e la Madonna che vi vengano a tirar fuori.
Noi atei, al contrario, non ci possiamo attaccare a nessun
santissimo. Per le nostre colpe dobbiamo rivolgerci solo
alla nostra coscienza. Se andiamo in crisi dobbiamo
rivolgerci solo alla nostra ragione!”
Appresso, mentre salutava con gesti della mano il parroco
che si andava allontanando, commentava:
Milano
267
“Bisogna che ci vada piano con lo scozzonarlo troppo
pesante…Va a finire che un giorno o l’altro mi va in crisi
e butta la veste e si fa ateo a sua volta. Poi tocca a me
prendere il suo posto in canonica!”
Tre anni più tardi il nonno è morto. Al suo funerale c’era
una gran folla e molti erano venuti dalle fattorie intorno…
qualcuno arrivava dall’Oltrepò.
Erano tutti in bicicletta.
Giacché il cimitero di Sartirana si trovava al di la della
ferrovia e del canalaccio, come era d’abitudine per ogni
funerale, si seguiva il feretro pedalando ognuno sulla sua
bicicletta. Seguire in moto non era dignitoso.
Una processione con tante bici che sciamavano silenziose
nella pianura era uno spettacolo mai visto!
Io pedalavo vicino al Parroco di Torreberetti che si era
messo in borghese. Il professore di Vercelli si era
incaricato di dire qualche parola di commiato sulla tomba
del nonno.
Una frase mi è rimasta viva nella memoria:
“Quando muore un contadino che sa della sua terra e della
storia degli uomini che lavorano; quando muore un saggio
che sa leggere la luna e il sole, i venti e il volo degli
Milano
268
uccelli, come sapeva il “Bristin”, non è solo un uomo che
muore… è un’intera biblioteca che brucia”.
Aspettando Picasso
Frequentavo il secondo anno dell’Accademia di Brera,
avevo scelto il corso di affresco con Achille Funi, uno
straordinario maestro. Ogni tanto teneva lezione anche
Carrà, un uomo d’incredibile simpatia e talento. In quel
dopoguerra tutte le regole e le convenzioni accademiche
erano saltate: ogni allevo, sempre con la dovuta
discrezione, poteva entrare in ogni aula e partecipare ad
una intera lezione senza rischiare di venirvi cacciato.
Perciò ogni tanto mi presentavo nel grande salone dove ad
insegnare scultura c’era Marino Marini. Un’altra volta
sono riuscito a farmi accettare nello studio del
“Bergamasco” come lo chiamavamo noi, cioè Piero
Manzù, anche per due o tre giorni di seguito impastando
creta sul tornio. Potevo assistere alle operazioni di stampo
in gesso e addirittura alla messa in fusione dei calchi. Non
c’era orario: era permesso fermarsi a lavorare anche dopo
le sei di sera… non in tutte le aule, s’intende, ma a
prospettiva, cioè alla scuola di scenografia, ci si poteva
entrare anche dopo cena fino a notte. Il direttore di questa
Milano
269
vera Accademia libera era Funi, tornato da poco in cattivo
stato dal lager di Mathausen. Si era sempre dimostrato un
uomo di straordinaria apertura culturale e civile, un vero
esempio di che significhi “libere idee”.
Fra i miei compagni d’Accademia c’erano Morlotti,
Peverelli, Alik Cavaliere, Bobo Piccoli, Aimone, Parzini,
Chighine, Dova, Crippa, e Sangiorgio che negli successivi
sarebbero diventati i più importanti artisti d’Italia.
Io non me ne rendevo conto, ma stavo vivendo un
momento davvero straordinario e irripetibile della nostra
storia, sia dal punto di vista politico che culturale. Nei bar
come il Giamaica, nelle varie latterie tipo “Le sorelle
Pirovini” o nelle trattorie di Via Fiori Chiari e Scuri si
incontravano in ogni momento personaggi di grande
valore: registi del Neorealismo come De Sica, Rossellini,
Germi, Lizzan o Gillo Pontecorvo. Con loro mi sono
ritrovato più di una volta seduto allo stesso tavolo di Fiori
Chiari a mangiare piatti di pasta mal cotta e pure mal
condita. Ma non ci si faceva gran caso. Li ascoltavo
parlare dei loro progetti, giocare con sfottò l’un l’altro a
proposito di sceneggiature e relativi film andati a monte.
Il giorno appresso mi capitava di starmene a piluccare da
un piatto di bietole amare in compagnia di Fernanda
Milano
270
Pivano e di Giuseppe Trevisani, i primi due grandi
traduttori degli autori americani come Dos Passos,
Hemingway e Steinbeck dei quali finalmente leggevamo
le traduzioni addirittura nelle bozze di stampa.
In quel tempo ero molto amico di Trevisani…con Alik
Cavaliere e Parzini formavamo un quartetto fisso. È stato
proprio grazie a Giuseppe che ho conosciuto Einaudi il
quale aveva commissionato a un gruppo di noi giovani
pittori le illustrazioni di una collana di importanti autori
stranieri e nostrani censurati dal regime fascista. Avevamo
pochi soldi, spesso si tirava la cinghia o si viveva di
accatto, ma di certo non ho mai vissuto una situazione di
festosità e spensieratezza come mi capitava in quel tempo
e a quel livello Ogni pretesto era buono per far festa.
Perfino quando, grazie ad una incredibile nevicata, Milano
si è trovata sommersa da metro e più di neve. Spazzaneve
ce ne erano pochi e mal ridotti, per cui il Comune ha
dovuto ricorrere a spalatori presi a giornata. Noi tutti ci
siamo offerti; pagavano abbastanza bene. Il nostro guaio
era la mancanza d’abitudine al lavoro manuale: dopo una
cinquantina di spalate avevamo i muscoli sballonati. Ma
non potevamo far la figura degli smidollati per cui
abbiamo tenuto duro. Il nostro spazio da liberare dalla
Milano
271
neve era Piazza del Duomo. Abbiamo cominciato ad
accumulare nel centro della piazza trasportando i mucchi
su carretti che spingevamo noi stessi. Poi, osservando dei
ragazzini che spingevano grosse palle di neve sulla coltre
e ad ogni rotolata riuscivano a produrre un lungo solco
netto, a nostra volta li abbiamo imitati riuscendo in una
strana gincana a raccogliere strisce enormi di neve. Tutti
gli spalatori sono accorsi divertiti ad aiutarci: sembravamo
un esercito di stercorari che spingono la loro gigantesca
boccia!
Alla fine il cumulo centrale era davvero maestoso, ma
mancava di qualcosa che lo rendesse importante. Sotto il
loggiato della piazza c’erano decine di biciclette dei
bancari che erano rimaste bloccate dalla nevicata.
Abbiamo recuperato le bici ed una ad una le abbiamo
issate sul grande cumulo. Dopo un po’, ecco apparire una
incredibile scultura tutta cerchi e triangoli: una specie di
macchina trionfale della meccanica. I passanti si
fermavano e restavano interdetti. Alcuni ridevano divertiti
e applaudivano. All’uscita degli impiegati bancari
abbiamo sentito esplodere un urlo sgomento:
“Le nostre biciclette!”
Milano
272
“Niente paura, sono tutte lì. Ve le abbiamo tenuti in
fresco!”
Per poco non ci linciano.
Spesso, mentre stavamo al Giamaica, magari a farci uno
spuntino, gli amici mi sollecitavano a raccontar loro
qualche storia . e non potevo certi sfuggire, anche quando
non ne avevo voglia. Ormai mi ero fatto un repertorio
considerevole e soprattutto con riferimenti continui alla
attualità nonché caricature di nostri professori e grandi
maestri dei quali conoscevamo manie, generosità o
mitiche taccagnerie. Una delle satire più richieste era
quella di Carrà che, avendo difficoltà a dipingere un cane
collocato in un paesaggio, costringeva la moglie a mettersi
in posa a gattoni pretendendo oltretutto che la povera
signora atteggiasse un’espressione da fox-terrier festante e
menasse la coda.
naturalmente, in questo caso si trattava di paradossi che
poco avevano a che fare con la realtà, al contrario di altri,
come quello che metteva in satira il comportamento di De
Chirico. Il quella giullatara, la più gettonata da Emilio
Gadda e Joppolo, recitavo i dialoghi tra personaggi
diversi: il mercante che sollecitava il maestro a riprodurre
Milano
273
i suoi più famosi capolavori del periodo metafisico e De
Chirico che si scherniva e, dopo aver concordato il prezzo
si metteva all’opera assistito da un suo allievo. Ecco il
maestro della Metafisica preso dalla febbre creativa che
dipinge a gran velocità riproducendo lo stesso tema su
quattro tavole diverse. Come in un lavoro alla catena di
montaggio, travolto dal ritmo indemoniato, dipinge anche
il suo assistente e il mercante che aspetta bramoso la
“merce”.
A questo punto valutando il risultato, il maestro decide di
portare qualche variante alle quattro copie rispetto
all’originale, la famosa piazza di Mantova col castello, le
torri e la prospettiva esasperata che sbatte nel mare.
“Ecco, qui ci faccio una torre in più e al posto del mare ci
metto un campo infinito, anzi, una palude! Quest’altro lo
trucco infilandoci qualche piccola piramide sul fondo e
una vela nel mare. Qui, in primo piano, ci piazzo una
donna nuda: Didone abbandonata. Sul mare, una nave che
salpa!”
Il tutto naturalmente raccontato con gesti mimici che
alludevano al dipingere con foga.
Milano
274
“Qui ci dipingo in primo piano una testa di Giunone e in
quest’altro lo scheletro di un cavallo che caracolla come se
fosse vivo!”
Le tele sono troppo fresche per essere trasportate, De
Chirico spruzza allora su ognuna di esse una vernice che
favorisce l’essiccazione rapida e produce un effetto di
invecchiamento precoce. Nell’eseguire la spruzzata,
annaffia di vernice l’assistente, il mercante, il gatto e il
cane.
Tutto è pronto.
Ma avendo più volte spostate la sequenza dei dipinti, ora il
maestro non si ricorda più quale dia l’originale anche
perché nel trambusto ha ridipinto pure quello e non gli
riesce di rintracciarlo. Le varianti, anziché aiutarlo
nell’identificazione, ora lo confondono vieppiù. Alla fine,
sistema le tele una sull’alta e, come fossero un mazzo di
carte, fa scegliere il quadro originale al cane che la estrae
con i denti dal mazzo… bendato s’intende!
Ma non mi trovavo sempre da solo ad esibirmi. C’erano
ragazzi
come
Emilio
Tadini
che
cantava,
accompagnandosi con la chitarra, splendide canzoni del
repertorio napoletano antico, Businelli… un saltimbanco
Milano
275
nato, che eseguiva, lì all’istante sulla strada, salti mortali
incredibili a ripetizione. Appariva poi ogni tanto Di
Giacomo, un professionista del bel canto. Un grassone,
quasi obeso, del quale non avresti mai sospettato fosse in
grado di farti ascoltare romanze struggenti del ‘700 e ‘800
e poi, all’istante, spararti macchiette di Petrolini, De Vico
e Scarpetta.
Ma il massimo dello spasso si realizzava nelle grandi
quermesse come quella messa in opera per festeggiare
Pablo Picasso e la sua prima venuta a Milano. Un evento
davvero straordinario!
Un gruppo di noi, con Morlotti, Peverelli ed altri, era
riuscito a farsi ricevere dal grande maestro nel suo atelier
di Place Guarèr che l’aveva accolto con molta cordialità,
ma riguardo all’invito di scendere da Parigi a Milano, per
il momento, non se ne parlava:
“Verrò, se mi riesce… am non adesso!”
Qualche giornalista fanatico dello scopo, fregandosene di
verificare, ha pubblicato la notizia: “Pablo Picasso
prossimamente a Milano per un vernissage della mostra di
sue incisioni, acqueforti e disegni alla nuova Galleria
Manzoni”. La mostra si inaugurava davvero, ma la notizia
della sua venuta era falsa.
Milano
276
Altri giornali hanno allora ripreso il lancio dell’evento e,
come se non bastasse, un mercante mai identificato, aveva
confermato assicurando la visita del maestro.
A nostra volta abbiamo deciso di cavalcare la tigre del
immaginifico:
“Lo faremo arrivare qui per davvero! Picasso sarà a
Milano in carne ed ossa!”
La nostra chiave di volta era Otello il bidello della
Brianza, assistente al calco dell’atelier di Marini. Un uomo
sui cinquant’anni, di bassa statura, ben piazzato con il
cranio ornato di pochi capelli bianchi e la faccia identica a
quella del maestro malaguegno. Insomma, Picasso
sputato!
È deciso: convinciamo il bidello a prestersi al gioco. Per
colmo di fortuna, Otello aveva lavorato a Marsiglia per
dieci anni e parlava un francese quasi perfetto. Diamo la
conferma a radio e giornali: Picasso arriva con il treno
delle 11.30 in Centrale, via Mentone. Procuriamo un
trench bianco e lo facciamo indossare al nostro sosia
brianzolo. Siamo alla stazione Garibaldi un’ora prima e lo
facciamo salire accompagnato da Alik Cavaliere, Morlotti
e Bobo Piccoli sul treno che va a Rho. I quattro scendono
Milano
277
e attendono il rapido da Mentone che fermerà, come di
regola, a quello svincolo di quattro linee.
Alla stazione Centrale, binario dieci, c’è una gran folla di
gente: giornalisti, fotografi, cineoperatori, studenti, artisti,
intellettuali… c’è perfino una bandiera rossa.
Ecco il treno, la folla va incontro all’artista.
“Sarà sui primi vagoni o più in fondo?”
Scendono i viaggiatori.
“Avete visto Picasso in qualche vagone?”
Sono quasi scesi tutti. Picasso non si vede.
“Eccolo!”
Sì, è lui. Si è sporto da un finestrino, saluta e poi
scompare. È sceso sull’altro marciapiedi.
“Che originale!”
La gente sale sui vagoni per poi ridiscendere dall’alta
parte. È sparito.
“Di sicuro si è infilato in un sottopassaggio!”
I fotografi e i giornalisti si danno a rincorrerlo. Una voce
grida:
“Calma, non è fuggito! È che la folla gli crea panico. Se lo
volete incontrare, venite tutti questa sera al salone dei
Filodrammatici, a fianco della Scala. Ci sarà un rinfresco e
una tranquilla conferenza stampa.”
Milano
278
Il salone di Filodrammatici era una specie di hangar che
serviva da sala prove. Stavano restaurandolo, perciò era
ingombro di tralicci e centine di sostegno per la cupola in
tardo stile Liberty. Ma quelle strutture in ferro
funzionavano a meraviglia per sostenere un decor
scenografico davvero sconvolgente. A questo scopo
avevamo coinvolto gli allievi di scenografia e decorazione
i quali avevano a loro volta chiesto aiuto e materiale agli
scenografi del Piccolo Teatro. Con un camion hanno
portato in quel salone scene di spettacoli fuori repertorio e
dal vecchio magazzino della Scala hanno recuperato
enormi statue in cartapesta e perfino un drago e due cavalli
rampanti. Il montaggio è stato laborioso, ma eccitante. Si è
brigato tutta una notte.
Con un gruppo di attori e qualche sceneggiatore di film si
è poi messa giù una scaletta delle situazioni da
rappresentare.
La sera, i primi ad arrivare sono stati i musicisti del Santa
Tecla e la Lambro Jazz band. Si sono sistemati su una
specie di palco mentre ancora si stavano approntando le
luci. Tutti commentavano dell’arrivo di Picasso alla
stazione… erano in molti a non immaginare si trattasse di
una beffa!
Milano
279
Gli scenografi e i decoratori, fra di loro mi par di ricordare
di fosse anche Enrico Baj, stavano intanto pitturando i
calli, il drago e le statue con colori vivaci, perfino in oro e
argento. c’erano inoltre delle ragazze di non so quale
corpo di ballo che sgambettavano di qua e di là ed
eseguivano figure classiche per il riscaldamento.
Finalmente comincia ad arrivare la gente. Noi si metteva a
posto le sedie in un ordine davvero caotico. La Lambro
Jazz Band comincia con un pezzo famoso: “All God’s
sons have shoes”, “Tutti i figli di Dio hanno le scarpe”.
In ritardo stanno entrando anche i camerieri per il
rinfresco.
“Ma chi paga tutta ‘sta roba?” chiedo io.
Mi fanno il nome di due grossi collezionisti.
“Hanno coinvolto anche la Pirelli!”
Non ci credo. Me lo giurano.
C’è più gente del previsto… belle signore in gran pompa.
In molti hanno disertato la prima del Lirico. Ecco
Ghiringhelli il direttore della Scala ridotta ad un rudere e
Schwarz, il principe dei mercanti d’arte con tutta la sua
corte.
Il pubblico non ha ancora preso posto, che hanno inizio le
entrate comiche: lassù appeso ai tralicci un imbianchino in
Milano
280
tuta grida, chiede aiuto. È il Businelli clown… si lascia
scivolare giù per un cavo e comincia ad oscillare in modo
sconnesso. Precipita!
No, si è abbrancato ad una centina. Dei pompieri, fra i
quali riconosco giovani attori del gruppo di Piccoli,
montano su una scala. Obbligano tutto il pubblico a
sgombrare verso il centro del salone:
“Tutti contro le pareti. Ammassatevi intorno, c’è
pericolo!”
Infatti una scala precipita, ma non si schianta al suolo.
Rimane appesa ad una corda. Uno dei cavalli rampanti su
ruote viene avanti buttandosi contro al pubblico.
Ora anche la band del Santa Tecla s’è unita alla Lambro
Jazz in un sound frenetico. Perfino il Drago e l’altro
cavallo rampante si muovono piazzati s ruote… qualcuno
da dentro li manovra.
Le giravolte, gli scontri e le sctentrate dei tre animali
creano scompiglio e qualche signora manda grida acute…
intonatissime con lo spernacchiare di sax e trombe.
Suona una sirena e si spalanca un portale: dal fondo entra
un vigile in moto che impone silenzio:
Milano
281
“Cos’è ‘sto bordello? Siamo pazzi? Avete il permesso per
lo spettacolo? Chi è il capocomico, l’impresario? Si può
sapere cosa ci fate qui?”
“Aspettiamo Pablo Picasso!”
“Pablo viene qua?!” nitrisce il vigile motociclista. Emette
un urlo e fa ruggire il motore, quindi si lancia in un
carosello a gran velocità evitando per poco di travolgere
una signora e sette ballerine che in quell’istante stanno
attraversano con saltelli il centro del salone.
“Pablo! Pablo!” urla il ghisa centauro.
L’orchestra improvvisa un canto sostenuto da un coro
possente sul mascherone di Heaven, come Jesus to me”.
“Arriva Pablo cavalcando
un cammello di rame
per lancia impugna una poma per il verde rame
tinge il cielo d’azzurro e giallo
Pablo è l’angelo di questo gran bordello!”
L’orchestra sta andando su di giri. Entrano in scena cinque
imbianchini che pretendono di ultimare il loro lavoro.
Anch’io faccio parte della squadra di quei clown.
Andiamo trascinando un enorme telone sotto il quale
costringiamo il pubblico ad infilarsi come si fa coi mobili
in caso di sbiancamento dei locali.
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282
Ognuno di noi regge sballontolandolo un secchio ricolmo
di vivaci colori. Montiamo con agilità inaspettata sulle
scale che danzano oscillando in modo spaventoso. Ora gli
imbianchini si lanciano i secchi l’un l’altro annaffiandosi
con sbroffate di pittura. Spaventato dalle grida e dai tonfi,
il pubblico tira di qua e di là il gran telone finché , strappo
dopo strappo, non viene ridotto a brandelli. Cade un
secchio in mezzo all’orchestra i cui fiati emettono gemiti
strazianti. Subito, seppur imbiancati di un bell’azzurro,
riprendono
imperterriti
intonando
un
forsennato
charleston. Le ballerine eseguono il ballo sgambettando e
dimenando fianchi e glutei. Molte ragazze e qualche
signora si lasciano coinvolgere in quella frenetica danza;
anche gli imbianchini lassù si agitano impugnando lunghe
canne sulle quali hanno issato grandi pennelli. nessuno
bada più alle spruzzate di colore. Qualche imbianchino
fingendosi maldestro esegue vare e proprie volé con la sua
asta impennellata colorando ad ogni passata schiene e
frontali di belle signore.
Esplodono petardi.
Un potente tricke-e-track produce botti a non finire più
qualche fiammata e un gran fumo.
Grida, risate e fuggi fuggi.
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283
“Attenzione, arriva Picasso!”
L’orchestra suona una marcia trionfale, le trombe
spernacchiano uno strepitoso inizio da circo massimo.
Eccolo là: in mezzo al fumo appare la sagoma di Otello,
sempre con il suo trench bianco.
Applausi.
“Ma è proprio lui!”
Otello sta per parlare: “Mes amis, je suisi ravì d’etre
ici…”, ma si trova avvolto da uno sfumazzo denso e
puzzolente, tossisce.
Uno dei clown pompieri si è appeso ad un tubo trasversale
e una grossa canna dell’acqua si stacca e si spezza.
Disastro! Viene giù un getti da Apocalisse. Siamo tutti
bagnati fradici.
Fuggi fuggi generale… qualche imprecazione, la molte
risate. Una splendida signora inzuppata, come uscisse
dalle onde dopo un naufragio, commenta divertita:
“Una festa così me la ricorderò finché campo! Ma Picasso
poi, c’era davvero?”
A Parigi
Ognuno di noi a Brera sognava di poter fare il suo viaggio
a Parigi, la capitale della pittura moderna. Come per i
Milano
284
cristiani del Medioevo, Parigi era per tutti noi la Terra
Santa, la mecca d’ogni artista -pittore, scrittore o poeta apprendista.
A mia volta sognavo quel viaggio… potermi incontrare
con i grandi del Cubismo, del movimento Fauves, del
Surrealismo e del Dadà.
Alla fine ce l’ho fatta, ma è da non crederci come sia
riuscito a procurarmi il denaro per quel viaggio e per
potermi mantenere per almeno un mese in quella città.
De Sica stava girando “Miracolo a Milano” e aveva
ingaggiato De Gregorio e Alik Cavaliere perché
eseguissero un gran numero di maschere. Servivano a
creare pupazzi mobili che riproducessero i vari barboni
che, nel finale del film, si levavo volando sopra il duomo.
Alki manda a chiamare me e Bobo Piccoli perché dessimo
una mano. Andiamo sui navigli, alla I.C.E.T., dove
giravano gli interni. Lo stesso studio, dove dieci anni
dopo, con Franca e Lizzani avremmo effettuato le riprese
de “Lo Svitato”.
I
nostri
amici
avevano
letteralmente
invaso
un
mastodontico atelier. Avevano già realizzato i calchi in
una plastica gommosa molto sottile. Nello stesso materiale
avevano riprodotto anche gli arti, i busti e le mani. Si
Milano
285
trattava adesso di ridipingere ogni maschera cercando di
farla somigliare il più possibile al suo originale.
In qualche pausa di quel lavoro ho avuto l’occasione
davvero unica di assistere a qualche ripresa del film. Era
davvero uno spettacolo veder dirigere De Sica e
soprattutto scoprire che tutta la troupe, dall’operatore ai
datori di luce, collaboravano alla realizzazione del film
con
grandissimo
impegno.
Sembravano
del
tutto
consapevoli del fatto che stessero realizzando un autentica
opera d’arte.
De Sica, sempre così bonario e gentile anche nei rapporti
con l’ultima comparsa, in certe occasioni scattava
all’improvviso con vere bordate d’improperi anche
piuttosto pesanti. Ho assistito sgomento proprio ad una di
queste aggressioni verbali quasi gratuite della quale la
vittima era un interprete, quasi un ragazzo, accusato di non
saper proiettare con sufficiente potenza l’indignazione di
fronte al commendatore arrogante e arrafattutto.
“Reciti senza cogliono! - Gli urlava De Sica - per la sola
ragione che non credi a quello che dici. Ma la colpa è mia
che mi sono illuso tu possedessi talento da vendere e
invece sei ‘na fetenzia! basta, io butto tutto all’aria… non
posso rischiare un fiasco! Ti cambio con un altro attore,
Milano
286
rigiro tutto da capo. vattene e non capitarmi più tra i
piedi!”
Il ragazzo è rimasto lì per un attimo come annichilito, poi
inaspettatamente e con tono molto calmo ha tirato fuori
tutto quello che aveva sullo stomaco da giorni:
“Dottor De Sica, lei per me è stato l’unico vero maestro
che io abbia mai incontrato e mi dicevo che era
straordinaria l’umanità che dimostrava in ogni momento
con ognuno di noi. Ma da un po' di tempo capisco di non
essere all’altezza del ruolo e del valore di questa sua
opera. devo aggiungere però che il mio dolore non sta
nell’essermi reso conto del mio fallimento, ma del suo,
mastro De Sica, come persona civile e generosa.? lei
all’istante mi è apparso come il calco in serie di altri
registi sbroffatori d’insulti e cafonerie. Questa scoperta mi
procura più tristezza, anzi disperazione dello scoprirmi
fallito. E se lei, caro maestro, ci pensa un attimo e si
spoglia dell’idea che ha di sé e della sia inarrivabile
grandezza, forse tornerà ad essere uno straordinario artista,
un comune cinematografaro stronzo!”
Si è fatto un silenzio di ghiaccio, tutti trattenevano il
respiro.
Milano
287
De Sica si rivolge ai due operatori, entrambi incollati alle
rispettive macchine da presa.
“Stop! Bene così, avete girato tutto? Bravi, stampate!”
Scoppiando in una gran risata si dirige verso il ragazzo e
lo abbraccia:
“Lo sapevo, lo sapevo che avresti sbottato giusto!”
“Ma come - balbetta il giovane - mi avete provocato per
farmi dire tutta quella sbragata?”
“Sì ed ha funzionato. Mi basterà farti doppiare ogni parola
col testo originale ed è fatta! Ma impara la lezione: se non
vesti quel che reciti con emozione vera, strappandotela
fuori con le mani dallo stomaco, non sarai mai credibile. Il
cinema, come tutte le arti, è finzione… ma sublime e per
ottenere una finzione degna ogni espediente , anche il più
spietato, è concesso!”
Quella è stata la mia prima grande lezione sulla messa in
scena nel gioco della verità rifabbricata. Una filosofia, un
metodo che mi ha spesso visto in opposizione, anzi in
conflitto CON CHE COSA???? NON È CHIARO
“Ma se non hai un contrario, come puoi scoprire il tuo
punto d’equilibrio?” Diceva Socrate.
Ma torniamo alla vicenda che mi avrebbe offerto la
possibilità di raggiungere Parigi. Quel lavoro sul set di
Milano
288
“Miracolo a Milano” ci aveva permesso di scoprire fra di
noi affinità e analogie che ci legavano bene insieme. Così
da quel momento ogni volta che ad uno di noi veniva
proposto un lavoro, si tirava dentro tutto il gruppo. Il
primo ingaggio importante l’ha trovato Alik. Si trattava di
lavorare in una tomba… sì, proprio una tomba, un
sepolcro al Cimitero Monumentale di Milano. Un amico
architetto aveva progettato e realizzato una cappella a
chiave ottagonale con cupola in rame e con pilastri in
porfido rosso. Una specie di piccolo mausoleo che avrebbe
ospitato i membri di una facoltosa famiglia della
Brianza… Brustello o Bustelli, non ricordo bene. I
committenti erano molto soddisfatti della loro ultima
dimora, ma avevano trovato l’interno molto spoglio: tutto
bianco… un po' troppo sepolcrale.
“Vurarìa quaicòs de un po' più alègher!” aveva insistito il
primo probabile ospite del mausoleo, il pater familia ultraottuagenario.
E allora ecco che entriamo in scena noi della “Pitturamosaico e morte allegra”. IN un paio di settimane
prepariamo i cartoni per un affresco che camperà su tutte
le sette pareti (l’ottava era quello d’ingresso). Le tombe
sono sistemate sotto il pavimento. Ci ispiriamo a quello
Milano
289
del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna con accenni a
tralci di viti stilizzati e labirinti di forme geometriche che
si inseguono e all’istante scoprono un cerchio a mosaico.
Segue un grande rettangolo che allude ad uno spaccato di
cielo a sua volta mosaicato.
Devo dire la verità: faceva un certo effetto trovarci a
vivete per quasi un mese fra le tombe. Oltretutto appena ci
si stava distraendo, ecco che sentivamo litanie di preti,
chierici, suore e quant’altro che accompagnavano qualche
defunto fresco in processione… spesso anche più di due o
tre al giorno. Essendo in ritardo per la consegna, ci toccava
oltretutto lavorare fino a sera tardi. Il guardiano ci veniva a
prelevare che era già notte con le lampade votive accese a
centinaia… quel percorso con défilé di angeli piangenti,
donne addolorate, santi e sante dalle braccia spalancate
non era certo un piacevole attraversamento. Diciamo pure
che si risolveva in una passeggiata da incubo. Ma
finalmente avevamo terminato l’opera. I committenti
erano molto soddisfatti:
“Varda, l’è ‘gnü fœra propri un bel postesiìn – ha
esclamato la nobildonna madre – vorarìa farmen fa’ ün
propri inscì al post del bersò nel parco per stag con le me’
amise a sparlascià intant che càtum el tè!”
Milano
290
Adesso avevo abbastanza quattrini per la Mecca (come
ormai chiamavamo Parigi). Quell’anno inoltre avevo vinto
il premio “Bergamo”, un’esposizione collettiva alla quale
partecipavano i giovani pittori della Lombardia a dintorni.
Un premio davvero prestigioso che mi aveva procurato
anche una certa quantità di denaro che mi ero tenuto in
serbo sempre per finanziarmi il viaggio.
Con me veniva anche Emilio Tadini che a quei tempi non
si era ancora messo a dipingere, ma in compenso scriveva
splendide poesie così intense e sottili che mi facevano
venire in mente incisioni su rame o a punta secca.
Viaggio in treno, naturalmente… una volta raggiunta la
nostra meta, non avevamo ancora depositato i bagagli
all’hotel che già si stava per strada alla ricerca dei musei.
Dentro una settimana eravamo come due pugili suonati:
fuori da una pinacoteca , dentro ad un’altra!
“Une saucisse avec des frittes, s’il vous plait.” – “Una
salsiccia con patatine fritte, per favore” – e presto che c’è
da vedere Cézanne al “Jeu de Paume”… Madonna, che
botta! Una pittura netta come un mosaico, leggibile in ogni
pennellata e così vibrante, assoluta!
Ma non c’è tempo per sciacquarsi il cervello e gli occhi: il
museo d’Arte Moderna ci attende con i suoi saloni
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291
dedicati a Mantet, Monet, Renoir e gli altri mostri
dell’Impressionismo. Ci si dovrebbe entrare con un letto
portatile e provviste in abbondanza per starci dentro
almeno una settimana!
Via scattare, bisogna traslocare! Visita ai Cubisti e ai
Fauves: Picasso ci lascia allocchiti… ma Braques, Leger e
Matisse dove li metti?
Ad un certo punto mi vengono crampi allo stomaco…
probabilmente devono essere le saucisse avec des frittes,
pranzo e cena. Ho urti di vomito a causa di tutte le
stressate per quel bombardamento d’emozioni a raffica.
Anche ad Emilio gira la testa.
Usciamo, sul piazzale incocciamo nei soliti “batleur” che
ti offrono depliant di locali notturni, ti sbolognano qualche
foto di spettacolo osé, strip-tease e besà à gogol. Uno mi
mette sotto il naso l’immagine di una donna nuda con
gambe spalancate e sesso al vento. Proprio in quel
momento sento una strizza allo stomaco con contrazione a
getto. Volto la faccia e vomito a spruzzo… una sbroffata
degna di un dannato dipinto da Bosh. Il batleur della foto
porno esclama stupito:
“Scusi, non immaginavo che le facessero tanto schifo le
donne!”
Milano
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Avevamo qualche appoggio a Parigi. Una sera ci invitano
a teatro a “La pomme rouge”, un cabaret rivoluzionario.
Ci sono in scena sei ragazze splendide che si spogliano
con molta eleganza fino a restare completamente nude o
quasi. Stanno per togliersi il perizoma e OLPA!, sei
pindorloni con tanto di conglioncelli decorativi! Alla risata
un po’ sgomenta, anzi, mugugnante degli spettatori, le
streepteuse si guardano con stupore quei loro orpelli
spuntati all’improvviso e mandano un grido sgomento.
Giuro, né io né Emilio abbiamo capito se quei falli fossero
finti, se si trattasse di incantevoli travestiti o addirittura di
un sestetto di ermafroditi di prima scelta!
Nel numero appresso, appariva un’altra ragazza nuda, tutta
presa a depilarsi con strappi di ceretta e pinzette… ad ogni
sradicata si lasciava sfuggire gemiti e incomprensibili
bestemmie. Quindi si dava alla strizzata di impercettibili
punti neri e contemporaneamente ci confidava come stesse
nel suo camerino problemi molto intimi legati alla sua
professione di spogliarellista. Aveva un gran mal di testa
ed era veramente scocciata di dover vivere eccitando
quegli assatanati degli spettatori che oltretutto non si
preoccupavano nemmeno di mascherare le loro orrende
manovre manuali durante il suo numero… nel frattempo si
Milano
293
spalmava una crema sul ventre e sui glutei controllando
l’effetto allo specchio. Continuava sfogandosi sulla sua
situazione sentimentale: aveva un amante medio-ricco, ma
che disprezzava… altra spalmata di crema sui seni, poi si
tingeva i capezzoli di un rosa accesso. Ogni tanto lui le
faceva qualche regalo, ma non si era mai degnato di
portarla in giro… lei allora gli rubava i soldi dal
portafogli. Ad un certo punto ci svelava il suo grande
amore: un bastardo, momentaneamente in galera, che la
sfruttava, la picchiava…
ecco che nel frattempo si limava i calli dei talloni.
Piangeva, non ne poteva più di stare senza di lui… era un
conducente di tram e ogni volta che sentiva lo sferragliare
di un mezzo del Comune le veniva il magone, si sentiva
morire. Canticchiava con bella voce:
“Sa suffì qu’il me tousche doucemnet… il me revolte la
peau et je tombe de la Tour Eifell sans parachutte” “Basta che mi tocchi dolcemente… mi rivolta la pelle e io
precipito dalla Torre Eifell senza paracadute”
Faceva poi scorrere una tenda dietro la quale appariva un
water: ci si sedeva e faceva la pipì… sospirava,
singhiozzava. Tirava lo sciacquone.
Milano
294
All’istante si sentiva una voce dall’altoparlante che
avvertiva:
“Prepararsi per il terzo numero!”
La ragazza si levava allora di scatto:
“Mon Dieux, c’est pour moi!” - Mio Dio, è per me! Sono
in ritardo…
S’infilava una collana, calzava un paio di scarpe dal tacco
spropositato
e
usciva
di
scena.
Rientrava
quindi
velocissima:
“Sono impazzita! Uscivo completamente nuda!”
Da un bicchiere estraeva una piccola rosa e se la infilava
sul pube… poi se ne andava!
Non vi sto a raccontare di tutti gli altri spettacoli… questo
era solo un assaggio, tanto per farvi immaginare quanto
due provveduti provinciali come eravamo noi si sentissero
ogni volta come storditi e allo stesso tempo affascinati da
quel nuovo modo di esprimersi con ironia.
Ma la nostra vera sbarellata dovevamo provarla in albergo.
Eravamo alloggiati all’Hotel de Malte et de Colmar. Ce
l’aveva consigliato un amico italiano che lavorava nel giro
degli affittacamere. Infatti era riuscito ad ottenere per noi
due stanze discrete a basso prezzo. C’era solo una
clausola: ogni sabato sera dovevamo sloggiare e trasferirci
Milano
295
in due altre camere nel sottotetto, due buchi squallidi con
piccole finestre? Ma perché quel trasloco?
È semplice: il Colmar dava camere ad ore e al sabato
faceva il pieno: coppie di amanti, fidanzati che venivano a
concludere la serata danzante, ragazze e ragazzi travolti da
improvviso colpo di fulmine avvenuto sul metrò, perfino
marito e moglie che volevano vivere un’avventura… c’era
di tutto. Del resto è risaputo: il sabato sera Parigi impazza!
L’albergo era a cinque
piani, strutturato su pianta
quadrata con uno stretto cortile-sfiatatoio nel mezzo. Le
finestre d’ogni facciata distavano da quelle di fronte non
più di tre metri. Eravamo d’estate e per non soffocare
dovevamo forzatamente tenerle spalancate. Quindi, di ogni
dirimpettaio si coglievano persino i respiri. se poi i
dirimpettai diventavano dieci, venti per di più accoppiati
che facevano l’amore, ridevano, litigavano, piangevano, si
rappacificavano e riprendevano ad amarsi con maggior
passione, era un vero inferno, travolti come ci sentivamo
nel vortice dei dannati della copula! Per fortuna nostra,
dopo un paio d’ore la sbollicata del “stra-foutre universal”
scemava e finalmente regnava la pace. Una pace talvolta
interrotta da qualche timido gemito e sa un paio di
sciacquoni.
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296
Ma anche nelle serate normali non si scherzava. Ad ogni
replica ecco un nuovo spettacolo d’arte varia: amanti
sorpresi dal marito di lei, urla, minacce e cazzottaggi. In
una delle scenegiate perfino un tentativo di buttare giù la
fedifraga dalla finestra e in un’altra soirée addirittura un
colpo di pistola con arrivo dell’autoambulanza. Un giovedì
scoppia un gran trambusto: gente nuda che fugge nei
corridoi . c’è una retata di Polizia. Entrano anche da noi, ci
buttano all’aria ogni cosa e se ne vanno senza neanche
dire: “Pardon!”.
Un’altra notte, dopo la solita sequenza di gemiti, ululati da
coyote a commento degli orgasmi multipli, sentiamo uno
dei dirimpettai e la sua partner che nel silenzio riprendono
ad ansimare a ritmo sostenuto con contrappunto di
espressioni lussuriose da parte di lei. Lui esausto, la prega
di ridargli fiato:
“Charlotte, je t’emprì, arrête-toi. Couche toi, Charlotte!”,
ma lei non molla la preda. Adesso stanno ululando da
duetto lirico con acuti e controcanti oltretutto stanno
copulando su un letto che cigola come un segnavento
impazzito. Siamo al gran finale:
“Mon Dieux, je meure! No… c’est trop! O quel joir…
j’eclatte! Ah, eh... Ohhhh!”
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Tutto il dormitorio è ormai sveglio. Una folla s’affaccia
dalle finestre e applaude:
“Bravò! Formidable, Compliments!”
I due campioni di affrettano a richiudere le imposte; si
sente l’uomo che bofonchia:
“Regarde -toi Charlotte dans quelle situation merdeuse tu
m’à enfilé!”
Charlotte ride divertita.
Si spengono le luci delle abajours. Finalmente ritorna il
silenzio… ma è per poco. Ecco di nuovo l’ansimare
eccitato di lei che tampina la sua vittima sacrificale.
‘Je t’emprì Charlotte, couche-toi. Soit sage Charlotte… sa
suffì!”
All’unisono si riaccendono le luci di tutte le camere. Come
a comando tutti si affacciano urlando in coro:
“Arrête-toi Charlotte! Sa suffì Charlotte!”
Non si può dire che di giorno Emilio ed io avessimo due
facce riposate? Un amico incontrandoci ci aveva
amorevolmente consigliato:
“Capisco che a Parigi si combini facile, ma dovreste darvi
una calmata. A furia di strullar femmine tutte le notte va a
finire che vi ricoverano d’urgenza all’ospedale!”
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Se pur sempre un po' rintronato, mi davo a dipingere,
buttar giù disegni e schizzi di continuo, come un
assatanato. Sollecitato da tanta abbondanza di capolavori
che mi sfilavano ogni giorno davanti agli occhi, m’era
presa una vera e propria febbre del metter giù segni, colori
e immagini. Stavo sempre a schizzare volti di gente che
passava, paesaggi, rifacevo a memoria sintesi si opere che
mi avevano turbato.
Emilio diceva che era una esibizione. Secondo lui io
volevo attirare l’attenzione di qualche ragazza di
passaggio.
Era vero.
Ancor oggi, ogni tanto, mi capitano fra le mani grossi
album che a quel tempo avevo riempito do ritratti appena
abbozzati: figure in movimento, corpi sdraiati sui prati del
lungo Senna… quasi tutte ragazze con tondi glutei, petti
gonfi e sinuose forme. Sempre donne.
Ogni tanto mi capitava di inquadrare un ragazzo o un
uomo maturo.
Mi ricordo che al Bois de Bulogne, su una panchina stava
seduto un arabo, con due donne della sua stessa razza. Lui
pareva un satrapo in cattività per quanto appariva
imponente, quasi maestoso. Ho abbozzato subito un
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299
ritratto. Non avevo ancora terminato che il satrapo si è
alzato, è venuto verso di me con aria incuriosita e, senza
chiedermene il permesso, ha afferrato l’album su cui stavo
disegnando. L’ha guardato e in un francese essenziale si è
complimentato:
“Molto assomigliante, grazie. Ma purtroppo la mia
religione non concede che la nostra immagine sia
riprodotta!” e così dicendo, ha staccato il foglio
dall’album e l’ha stracciato in mille pezzi. Quindi con lo
stesso incedere solenne se ne è andato con le sue donne
che gli zampettavano appresso come galline faraone.
Tornato a Milano, mi sono buttato a sviluppare quegli
appunti. Dipingevo ad olio su grandi tele.
Poi, all’istante, mi sono bloccato.
Sono entrato in una sorta di crisi da rigetto verso la pittura.
Al contrario continuavo a pensare agli spettacoli ai quali
avevo assistito e ho cominciato a frequentare il teatro.
Ogni sera andavo a vedermi uno spettacolo non solo di
prosa, ma anche di rivista, avanspettacolo e balletti. Avevo
cominciato anche a leggere testi di opere classiche, fra le
quali delle farse divertentissime di Dostoevskij, Labische e
Feydeau.
Milano
300
Stavo forse cambiando pelle?
Quando, venticinque anni dopo, ho debuttato alla famosa
Salle Guèmier del Théâtre National du Palais de Chaillot
recitando “Mistero Buffo”, mi è capitato di incontrare e
conoscere un sacco di grandi personaggi dell’arte e della
cultura.
E una sera in platea m’è sembrato di scorgere perfino
Sartre; nell’intervallo ho chiesto al direttore che a quel
tempo era Vitése se avevo preso un abbaglio o meno.
“Anche il caposala, come te, ha avuto la stessa
impressione, - mi risponde - ma nessun altro l’ha veduto.”
Ad ogni modo, incredibile, due giorni dopo viene a
trovarmi in camerino un giovane scrittore algerino. Mi fa i
complimenti per lo spettacolo e mi fa sapere che Jean Paul
Sartre avrebbe il piacere di incontrarmi.
“Non è uno scherzo?” chiedo io.
“Nient’affatto, io sono un suo collaboratore. Stiamo
lavorando ad un progetto nel quale Monsieur le Maître
vorrebbe coinvolgerla.”
L’indomani sono da Sartre. Il filosofo è nel suo studio, un
camerone completamente disadorno: qualche tavolo e una
macchina da scrivere. Mi saluta e mi offre da bere. Quindi
espone subito il suo programma: mi chiede di collaborare
Milano
301
alla realizzazione di venti puntate televisive sulla storia dei
fatti più salienti del dopoguerra in Europa. A me
toccherebbe sceneggiare e raccontare in forma sarcastica,
ma documentata alcuni episodi fra i più straordinari che
hanno segnato la storia del mio Paese
Sartre mi descrive con molta precisione la progressione e
l’impianto dei vari capitoli espressi in puntate. Mentre
parla, io mi chiedo se sia tutto vero quello che mi sta
capitando. Ho studiato per anni decine di testi di questo
grande filosofo, di certo il più importante e significativo di
tutto il nostro secolo. Ho assistito a spettacoli tratti da suoi
scritti, tragedie e drammi storici. Ma l’ho sempre
considerato,
visto
come
qualcosa
di
mitico,
irraggiungibile… e adesso lui è qui davanti a me che mi
offre addirittura di scrivere, montare un’intera puntata da
inserire in questo suo colossale documento storico.
“Vuoi vedere che è tutta una messa in scena, un bidone
tipo quello che noi vent’anni fa avevamo giocato ai
boccaloni snob di Milano? E se quello che è davanti a me
fosse un doppione come Otello, il bidello sosia di Pablo
Picasso?”
Milano
302
Guardo Sartre e gli sorrido quasi ironico. Lui non ci fa
caso e conclude il suo discorso, chiede cosa ne penso
dandomi del voi e in italiano, per giunta!
Ho le mani sudate e la gola asciutta. Domando dell’acqua.
Poi comincio a parlare a gran velocità:
“Sono più che lusingato, disposto anche a bloccare tutti i
miei impegni… fin da adesso, pur di lavorare con voi!”
Il giovane scrittore algerino sorride soddisfatto, poi
aggiunge:
“Da questo momento non ci resta che attendere il
benestare definitivo del Ministero per voce di Pompidur,
ma credo che non ci saranno problemi. Si tratta solo di
definire il budget.”
Torno in hotel e racconto a Franca del dialogo e della
proposta di Sartre. Franca mi abbraccia ridendo come una
pazza e ripetendo:
“È straordinario, incredibile!” e a sua volta mi blocca
chiedendo
“Ma sei sicuro che fosse proprio lui?”
“Non ti resta altro che sincerartene di persona. Ci
incontriamo con lui fra un mese a Roma: scende apposta
per definire la sceneggiatura.”
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303
L’incontro avviene puntuale… tutto marcia che è una
meraviglia. Gli ho espongo forma di canovaccio delle
sequenze su certi episodi scelti nel nostro primo incontro a
Parigi. Sartre è soddisfatto.
Dopo dieci giorni arriva una notizia dalla Francia:
Pomipidur ha bloccato il progetto. La ragione, un pretesto
a dir poco ipocrita e meschino: il budget è troppo alto. In
verità, il Premier ha ricevuto pressioni da ogni parte
d’Europa perché soprassedesse a quel programma. È
evidente che una esposizione della nostra storia più
recente, raccontata nel linguaggio dissacrante, ma veritiero
e spietato che Sartre avrebbe partorito e messo a
disposizione di milioni di giovani e non più giovani
puntualmente turlupinati da una storia arrangiata e distorta
nell’interesse di quelli che da sempre stanno sul carro, non
poteva essere assolutamente digerita e tanto meno
accettata.
“Così va il mondo…” mi ha scritto su un biglietto Sartre,
ma bisogna andare avanti testardi e convinti che il mondo
possa girare anche in un altro senso.
Il funerale di mio padre
Milano
304
Mio padre è morto alla bella età di 90 anni, nei primi mesi
del 1987. Se n’è andato leggero e sereno, quasi
all’improvviso, ma aveva disposto ogni cosa in anticipo
per il suo funerale, a cominciare dalla banda che avrebbe
dovuto accompagnare la sua salma al cimitero di Luino. Il
direttore degli “ottoni comunali” era un suo amico di
vecchia data… una sera, qualche mese prima, il papà era
stato da lui e aveva concordato che pezzi preparare. E
s’era dato da fare per procurargli i vari spartiti delle marce
da eseguire. Era un elenco con tutti i canti partigiani delle
valli dove s’erano svolti gli scontri più cruenti contro i
tedeschi e le brigate nere riscritti a tempo di marcia. Il
primo pezzo del programma doveva essere “Val Sesia”, un
canto largo, possente... come il suo fiume. Poi doveva
seguire la marcia dei partigiani di Val Comeggia che
pareva più un valzerone da balera che un inno
patriottico… appresso il famoso “Se non ci ammazza i
crucchi, se non ci ammazza i bricchi…” della Val Vigezzo
e così avanti fino all’immancabile “Bella ciao”, per
chiudere con “Addio Lugano bella!”.
Mezz’ora prima dell’orario convenuto, la piazzetta sul
costone dove abitavamo noi Fo era gremita di gente. Erano
arrivate delegazioni di anarchici da un po' dappertutto coi
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305
loro stendardi neri e rossi, c’erano quelli del sindacato, i
socialisti e i comunisti con le bandiere e un gruppo di
familiari di quegli ebrei che mio padre era riuscito a far
fuggire in Canton Ticino. I ferrovieri erano i più numerosi,
ma c’erano anche le guardie del confine e un po' più in la
una rappresentanza dei vecchi contrabbandieri di Pino.
Al momento in cui il feretro è sceso dalla casa, la gente si
era accalcata fin nelle strade intorno alla piazza… altre
bandiere rosse spuntavano da ogni dove.
Ci si doveva sbrigare: il percorso per giungere al cimitero
era piuttosto lungo. La banda s’era posta subito in testa e
ha iniziato ad intonare il “Val Sesia”. Subito s’è mosso il
feretro seguito da noi tutti figli e nipoti, zie e zii, quindi
bandiere e stendardi a volontà… proprio una selva di
drappi. Niente preti ne suore. La banda aveva già percorso
un chilometro, ma la coda del corteo non s’era ancora
mossa dal luogo del raduno.
Si può ben dire che la maggior parte dei luinesi fosse tutta
lì.
Abbiamo costeggiato il lungo lago e raggiunto il curvone
che sale verso la collina. Laggiù in fondo, arroccata su un
balzone di granito, spuntava la pieve romanica con
l’altissimo campanile… in quel momento la banda
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306
suonava la marcia a valzerone e il corteo traballava un po’.
Davanti
i
suonatori
allungavano
il
passo
e
accompagnavano col torcere fianchi e spalle l’andamento
allegro con brio del pezzo che stavano eseguendo. In molti
del corteo si erano quasi dimenticati di trovarsi ad un
“mesto rito” e saltellavano accennando passi di danza…
ma poi si ricomponevano.
Io ho immaginato mio padre, affacciato da non so dove,
che si divertiva sghignazzando… felice (Felice era poi il
suo nome!)
Stavamo attraversando la piazza del vecchio Municipio: la
banda parte sparata col “Bella ciao”, eseguita con un
tempo da corsa campestre. Con l’accelerare del feretro,
tutto il corteo si è visto costretto ad allungare il passo. Via
con la marcetta saltellata: ormai siamo alla carica dei
bersaglieri! E poi sbattere di bandiere!
Gruppi di curiosi che stavano ai lati della strada hanno
applaudito e chiesto:
“Ma cos’è ‘sto andare di corsa? Chi andate a seppellire?”
“”Un ferroviere e ‘sta volta vuole arrivare in orario!”
Eccoci all’altezza della pieve romanica: sulla piazzetta
pensile, davanti al portico s’è riunita molta gente… ma
non è lì per il funerale di mio padre. Quelle persone stanno
Milano
307
aspettando il feretro di Piero Chiara, il famoso autore di
romanzi satirici, tutti ambientati proprio a Luino. La salma
doveva arrivare da Varese dove era deceduto ed era in
ritardo. Ma ecco che quella folla, vedendo sopraggiungere
un imponente corteo brulicante di bandiere rosse con
contrappunto di drappi anarchici, subito ha esclamato: “E
di sicuro lui! Figurati, mangia preti com’era… mica
poteva tirarsi appresso una processione di chierici e
monsignori. Rosso era e rosso muore!”
Ed ecco che senza altro aggiungere, tutti scendono dalle
due scalinate e si accodano alla folla imbandierata che
marcia a ritmo di fanfara. Qualcuno ha accennato anche
alle parole della prima strofa:
“La mia mamma la mi diceva
non andare sulle montagne
mangerai sol polenta e castagne
ti verrà l’acidità”
Ancora trecento metri ed ecco che ‘sta valanga di gente ha
cominciato a varcar l’arcone del camposanto. Laggiù,
davanti alla pieve, intanto giungeva il feretro con la salma
di Piero Chiara. Non c’era nessuno ad aspettare, solo il
sacrestano della pieve osservava tutta la scena quasi
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ridendo: “C’era qui un sacco di gente ma sono andati tutti
appresso al funerale del Capostazione, il Fo!”
L’autista del carro funebre con gli inservienti ha raggiunto
allora i cordoglianti del loro defunto prima che
scomparissero dentro il cimitero: “Ehi! Avete sbagliato
funerale… il vostro defunto è laggiù, davanti alla pieve!”
“Oh che svarione! Presto, torniamo indietro!”
Giravolte, qualche imprecazione, molte risate… di nuovo
la gente che corre, che si sbraccia e chiama.
Il tutto a ritmo di marcetta:
“La mia morosa la mi diceva
non andare coi ribelli
Non avrai più i miei biondi capelli
sul cuscino a riposar!”
Se voi pensate che questo folle qui pro quo, quasi da
pochade, sia frutto di una mia insana fantasticheria, non
fate altro che procurarvi una copia del Corriere della Sera,
di Repubblica o di altri quotidiani di quell’epoca: il 4
gennaio 1987. Lassù ritroverete la cronaca di questa
impossibile avventura la cui regia è senz’altro da attribuire
alla buonanima burlante di mio padre Felice.
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PARTE ELIMINATA
Quando, venticinque anni dopo, sono arrivato alla famosa
Salle Guèmier del Théâtre National du Palais de Chaillot
per recitare “Mistero Buffo” mi è capitato di incontrare e
conoscere un sacco di grandi personaggi dell’arte e della
cultura francese a cominciare da Jean-Paul Sartre e
Simone de Bovoir a De Maire, Vitesse e Lang, entrambi
direttori della Salle Guèmier.
E una sera in platea ho visto proprio Pablo Picasso. Era
insieme a **** il grande scienziato francese che si era
rifiutato di collaborare alla costruzione della bomba
atomica francese. Ho saputo in seguito che era stato lui ad
aver trascinato Pablo al mio spettacolo. Al termine
entrambi sono saliti in camerino a salutarmi. Per fortuna
ero già fradicio di sudore per l’esibizione, altrimenti si
sarebbe notato l’ulteriore gocciolamento da emozione
fulminante!
Con Picasso ci siamo incontrati un’altra volta a casa di
Sartre. Il filosofo mi voleva proporre una collaborazione
alle venti puntate televisive sulla storia dei fatti più salienti
del dopoguerra in Europa. A me sarebbe toccato
raccontare i fatti d’Italia. Pablo Picaso era già nel suo
studio, quasi in ombra… sembrava assopito. Ho accennato
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appena ad un saluto. Lui mi ha chiamato presso di sé.
Dopo un lungo silenzio, mi ha chiesto del mio lavoro:
voleva sapere dei giullari. MI parlava della tradizione dei
jangleur di Malaga… ricordi legati ai contastorie del suo
Paese.
Ad un certo punto siamo venuti a parlare dell’Italia e della
sua voglia di farci un gran viaggio. Ed ecco che a ‘sto
punto mi è venuto in mente di raccontargli della sua falsa
visita a Milano: la quermesse alla stazione Centrale e del
bidello sosia.
Picasso scoppia a ridere quasi col singhiozzo. Si
avvicinano anche Sartre ed altri ospiti. Alla fine Picasso
commenta:
“Me ne avevano appena accennato di quella beffa con il
mio doppio. Mi sarebbe piaciuto assisterci di nascosto.
Ma, a pensarci bene, non avrei avuto l’occasione tanto
spassosa di sentirmelo raccontare!”
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