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LA NUOVA ALLEANZA
JOSEPH CARD. RATZINGER
LA NUOVA ALLEANZA
Sulla teologia dell’Alleanza
nel Nuovo Testamento
1
L’ALLEANZA
NEL NUOVO TESTAMENTO
Il piccolo libro, che costituisce il fondamento della fede cristiana,
viene chiamato “Nuovo Testamento”. Questo libro però rimanda continuamente ad un altro, chiamato semplicemente “la Scrittura” o “le Scritture”, cioè alla Bibbia, che si è sviluppata nella storia del popolo ebraico
fino a Cristo e che presso i cristiani si chiama “Antico Testamento”. L’insieme delle Scritture, sulle quali poggia la fede cristiana, appare così
come un “Testamento” di Dio agli uomini costituito in due momenti,
come manifestazione della sua volontà al mondo. La parola “Testamento” non è stata imposta alle Scritture dall’esterno, ma ricavata dalle
medesime: il titolo, che i cristiani danno ai due libri, non vuole solo
descrivere il contenuto essenziale del libro, ma allo stesso tempo mettere
in luce il filo conduttore interno della Scrittura stessa ed esplicitare la
parola fondamentale, che costituisce la chiave dell’insieme. Da questo
punto di vista abbiamo in questa parola in qualche modo davanti a noi il
tentativo di esprimere in modo sintetico l’“essenza del Cristianesimo” in
un’espressione ricavata dalla sua stessa fonte fondamentale.
Ma la parola latina “testamentum” è veramente scelta bene? Traduce
bene i termini soggiacenti del testo ebraico e greco, o conduce su di una
falsa pista? La problematica della traduzione emerge nel contrasto fra la
versione della vetus latina e quella di san Girolamo. Mentre la prima traduce “Testamentum”, Girolamo si è deciso per “foedus” o “pactum”1.
Come titolo del libro si è imposta la designazione “Testamento”, ma se
noi parliamo di ciò che intendiamo dal punto di vista del contenuto,
seguiamo Girolamo e parliamo di Antica e Nuova Alleanza, nella teologia così come nella liturgia. Che cosa tuttavia è giusto? Di cosa parla in
realtà la Bibbia, quando usa questa parola? Sull’etimologia della parola
ebraica berît non è stata raggiunta unanimità fra gli studiosi; il significato
della parola inteso dagli autori biblici può essere determinato solo a
partire dal contesto. Un’importante indicazione per la comprensione
della parola resta il fatto che i traduttori greci della Bibbia ebraica in
1
M. WEINFELD, «berît», in G. J. BOTTERWECK - H. RINGGREN (edd.), Theologisches
Wörterbuch zum Alten Testament, W. Kohlhammer, Stuttgart-Berlin-Köln 1970-89,
I, 781-808; cf in particolare 785.
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267 dei 287 passi in cui compare la parola berît hanno tradotto con
diathêkê, quindi non con la parola spondê oppure con synthêkê, che in
greco sarebbe l’equivalente di patto o alleanza2: a partire dalla loro
conoscenza teologica del testo giunsero evidentemente alla conclusione
che dal punto di vista del contenuto non si trattava di una syn-thêkê - di
un’intesa bilaterale -, ma di una dia-thêkê, di una disposizione, nella
quale non si uniscono due volontà, ma una volontà stabilisce un ordine.
La ricerca esegetica è oggi - per quanto io possa vedere - unanimemente
della convinzione che gli autori della Settanta hanno in tal modo inteso
correttamente il testo biblico3. Ciò che noi chiamiamo “Alleanza” non è
inteso nella Bibbia come una relazione simmetrica di due partner, che
entrano in una relazione contrattuale accordandosi su impegni e sanzioni reciproci: questo concetto di un associarsi allo stesso livello è incompatibile con l’immagine biblica di Dio. Essi presuppongono piuttosto che
l’uomo da se stesso non sarebbe neppure in condizione di stabilire una
relazione con Dio, ancor meno potrebbe dargli qualcosa e ricevere da lui
in cambio, o addirittura imporgli degli impegni come corrispondente
alle stesse prestazioni assunte. Se si arriva ad una relazione fra Dio e
l’uomo, ciò può avvenire solo attraverso una libera disposizione di Dio,
la cui sovranità resta però intatta. Si tratta dunque di una relazione
totalmente asimmetrica, perché Dio, nella relazione con la creatura, è e
resta il totalmente altro: l’“Alleanza” non è un contratto di reciprocità,
ma un dono, un atto creativo dell’amore di Dio. Con questa ultima
espressione oltrepassiamo già la formulazione filologica della questione.
Sebbene la struttura dell’alleanza riprenda quella dei trattati ittiti ed assiri, in cui il feudatario impone al vassallo la sua legge, l’alleanza di Dio
con Israele è più di un trattato di vassallaggio: il re Dio non riceve niente dall’uomo, ma gli dà di fatto nel dono della sua legge la via della vita.
A questo punto emerge un problema. Il modello di alleanza anticotestamentario dal punto di vista formale corrisponde strettamente al
modello del trattato di vassallaggio con la sua struttura asimmetrica. Ma
nondimeno la dinamica del concetto di Dio muta dall’interno l’essenza
del processo, il senso della disposizione sovrana. Quando infatti l’essenza propria dell’evento viene considerata non più a partire dal contratto
statuale, ma viene descritta con l’immagine dell’amore sponsale, come
accade presso i profeti - nel modo più commovente in Ezechiele 16,
quando la celebrazione dell’alleanza si manifesta come una storia d’amore fra Dio ed il popolo eletto -, continua ancora a sussistere l’asimmetria
nella sua antica forma? Certo anche il matrimonio non è visto nell’antico Oriente come comunione paritetica, ma patriarcalmente a partire dall’uomo come signore. Nondimeno la presentazione profetica dell’amore
2
Ib.
Ciò emerge con evidenza dal lungo articolo di Weinfeld; si veda anche G. QUELL - J.
BEHM, «Diathêkê», in ThWNT, II, 105-137.
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appassionato di Dio va al di là di ciò che è previsto nella semplice disposizione giuridica dell’Oriente. Da una parte il concetto di Dio, in considerazione della sua infinita alterità, deve apparire come la sottolineatura
più radicale dell’asimmetria, dall’altra la vera natura di questo Dio sembra di fatto creare un’inattesa bilateralità.
Qui si rende necessario un primo sguardo all’elaborazione filosofica
del tema dell’alleanza nella storia della teologia cristiana. All’alleanza
come immagine presa dalla sfera del diritto corrisponde filosoficamente
la categoria di relazione. Partendo da un punto di vista totalmente diverso e con segno quasi opposto era chiaro per il pensiero antico che la
relazione fra Dio e l’uomo potesse essere solo asimmetrica. A partire
dalla logica del pensiero metafisico nella filosofia greca si giunse alla
conclusione che l’immutabile Dio non possa instaurare relazioni mutabili, che la relazione sia da ascrivere all’uomo mutabile. Nel rapporto pertanto fra Dio e l’uomo si potrebbe parlare solo di una “relatio non
mutua”, di un rapportarsi senza reciprocità: l’uomo si relaziona a Dio,
ma non Dio all’uomo. La logica sembra ineludibile. L’eternità esige
immutabilità, l’immutabilità esclude relazioni situate o realizzantesi nel
tempo e rapportate al tempo. Ma il messaggio dell’alleanza non ci dice
proprio il contrario? Prima di approfondire questi problemi emersi dall’analisi del significato delle parole berît e diathêkê, dobbiamo esaminare
i più importanti testi sull’alleanza del Nuovo Testamento, che ci pongono di fronte ad un’ulteriore questione: Come si differenziano “Antica” e
“Nuova” Alleanza? In cosa consiste l’unità, in cosa consiste la diversità
del concetto di alleanza presente nei due Testamenti?
1.1 Alleanza e alleanze nell’apostolo Paolo
Naturalmente in questo contesto non posso tentare di presentare tutta
l’ampiezza della teologia dell’alleanza neotestamentaria. Vorrei solo a
titolo di esemplificazione analizzare un po’ più da vicino alcuni testi
delle Lettere paoline e il concetto di alleanza dei testi dell’ultima Cena.
In Paolo salta agli occhi innanzitutto la profonda diversità dell’Alleanza di Cristo rispetto a quella di Mosè, che per noi in genere designa semplicemente la differenza fra “antica” e “nuova” Alleanza. La più forte
contrapposizione dei due “Testamenti” la troviamo in Paolo in 2 Corinti
3,4-18 ed in Galati 4,21-31. Mentre il termine di Nuova Alleanza deriva
dalla promessa profetica (Ger 31,31) e unisce così insieme le due parti
della Bibbia, il termine “Antica Alleanza” appare solo in 2 Corinti 3,14;
la Lettera agli Ebrei parla invece di prima alleanza (9,15) e chiama la
nuova Alleanza - oltre a questa classica designazione - anche aiônios,
cioè eterna (13,20), il che è stato ripreso nel racconto dell’istituzione del
Canone romano della Messa nella successione di termini “nuova ed eterna alleanza”. Nella seconda lettera ai Corinti Paolo mette l’alleanza di
Cristo e l’alleanza di Mosè in forte antitesi l’una con l’altra, come la
transitoria e la permanente. La caratteristica dell’alleanza di Mosè appaJOSEPH RATZINGER
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re dunque essere la sua transitorietà, che Paolo vede rappresentata nelle
tavole di pietra della legge. La pietra è espressione di ciò che perisce, e
chi rimane solo nell’ambito della legge di pietra, rimane nel regno della
morte. Paolo qui ha certamente pensato alla promessa di Geremia,
secondo cui la legge nella Nuova Alleanza sarà scritta nel cuore, come
anche alle parole di Ezechiele: il cuore di pietra sarà sostituito da un
cuore di carne4. Se dapprima nel testo viene fortemente sottolineato il
carattere di realtà passata dell’alleanza mosaica, la sua caducità, nella
conclusione emerge una nuova e mutata prospettiva. A chi rivolge la faccia al Signore viene tolto il velo dal cuore ed egli vede lo splendore interiore, la luce spirituale nella legge, e così la può leggere in modo corretto. Il mutamento delle immagini, che in Paolo rileviamo qui come molte
altre volte, non rende del tutto chiaro il senso della sua espressione, ma
nell’immagine del velo tolto appare in ogni caso modificata la presentazione della transitorietà della legge: dove cade il velo dal cuore, emerge
ciò che è autentico e perenne della legge; essa diventa Spirito e così
diventa identica alla nuova economia della vita nello Spirito.
La forte antitesi fra le due Alleanze, l’Antica e la Nuova, che è sviluppata in Paolo nel terzo capitolo della Seconda Lettera ai Corinti, da allora ha sostanzialmente plasmato il pensiero cristiano, mentre poca attenzione fu data alla sottile correlazione fra lettera e spirito, che si adombra
nella metafora del velo. Soprattutto però ci si è anche dimenticati che in
altri testi paolini il dramma della storia di Dio con gli uomini è presentato in modo molto più articolato. Nella lode di Israele, che Paolo ha tracciato nel nono capitolo della Lettera ai Romani, fra i doni di Dio al suo
popolo appare anche questo: sue sono le “alleanze”. Secondo la tradizione sapienziale “Alleanza” appare qui al plurale5. E di fatto: l’Antico
Testamento conosce tre segni di alleanza - il sabato, l’arcobaleno, la circoncisione; essi corrispondono a tre tappe dell’alleanza o a tre alleanze.
L’Antico Testamento conosce l’alleanza con Noè, l’alleanza con Abramo,
quella con Israele-Giacobbe, l’alleanza del Sinai, l’alleanza di Dio con
Davide. Tutte queste alleanze hanno la loro caratteristica specifica, sulla
quale dovremo ritornare nel seguito. Paolo sa pertanto che, a partire
dalla storia della salvezza precristiana, la parola alleanza deve essere
pensata e detta al plurale; tra le diverse alleanze ne ha scelte due in particolare, confrontandole fra di loro e riferendole ciascuna a suo modo
all’alleanza di Cristo: l’alleanza con Abramo e quella con Mosè. Egli
considera l’alleanza di Abramo come quella vera, fondamentale e permanente; l’alleanza di Mosè invece per lui è “sopraggiunta” (Rm 5,20) 430
anni dopo l’alleanza di Abramo (Gal 3,17), ma non poteva invalidare
l’alleanza di Abramo, bensì solo essere una tappa intermedia nel piano di
Cf R. BULTMANN, Der zweite Brief an die Korinther, Vandenhoeck und Ruprecht,
Göttingen 1976, 76.
4
5
Rm 9,4. Cf H. SCHLIER, Der Römerbrief, Herder, Freiburg 1977, 287.
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Dio e una modalità della pedagogia di Dio nei confronti dell’umanità, i
cui singoli segmenti divengono caduchi, quando lo scopo della educazione viene raggiunto. Gli itinerari vengono abbandonati, il senso rimane.
L’alleanza di Mosè si inserisce nell’alleanza di Abramo, la legge diventa
uno strumento della promessa. Paolo ha così distinto molto fortemente
l’una dall’altra due forme dell’alleanza, che di fatto incontriamo nell’Antico Testamento: l’alleanza, che è un ordinamento legislativo, e l’alleanza, che è essenzialmente promessa, dono dell’amicizia, che viene donata
senza condizioni6. Nel Pentateuco di fatto la parola berît ha spesso semplicemente lo stesso significato di legge e comandamento. Una berît
viene comandata; l’alleanza del Sinai appare essenzialmente in Esodo 24
come “un’imposizione di leggi e di obblighi per il popolo”7. Una tale
alleanza può anche essere infranta; la storia d’Israele appare continuamente nello stesso Antico Testamento come una storia dell’alleanza
infranta. L’alleanza con i patriarchi invece vige come eternamente valida.
Mentre l’alleanza degli ordinamenti legislativi ha ripreso lo schema del
trattato di vassallaggio, l’alleanza della promessa ha come modello la
donazione regale8. Da questo punto di vista Paolo con la sua distinzione
di alleanza di Abramo e alleanza di Mosè ha interpretato in modo del
tutto corretto il testo della Bibbia. Con questa distinzione tuttavia è
anche superata la rigida contrapposizione di Antica e Nuova Alleanza ed
è espressa una unità carica di tensione che riguarda tutta la storia, nella
quale l’unica alleanza si realizza nelle alleanze. Se così stanno le cose,
non si può in nessun modo contrapporre l’uno all’altro Antico e Nuovo
Testamento come due religioni diverse; nei confronti dell’umanità vi è
solamente una volontà di Dio, un solo agire storico di Dio nei confronti
degli uomini, che certamente si compie in interventi diversi ed in parte
anche contrastanti, ma in verità coerenti.
1.2 Il concetto di alleanza nei testi dell’ultima cena
Con la correlazione fra molteplicità delle alleanze ed unità dell’alleanza siamo giunti nel centro del nostro tema. Dobbiamo procedere
qui con particolare circospezione, perché vi sono implicate abitudini di
pensiero, sia ebraiche che cristiane, profondamente radicate che devono
essere illuminate, in parte anche corrette, a partire dalle espressioni
bibliche originarie. Decisive per la determinazione corretta del concetto
neotestamentario di alleanza sono le narrazioni dell’ultima cena. Esse
rappresentano per così dire il corrispettivo neotestamentario del racconto della stipulazione dell’alleanza del Sinai (Es 24) e fondano così la
convinzione cristiana della Nuova Alleanza, che fu conclusa in Cristo.
6
M. WEINFELD, cit., 799s.
7
Ib., 784.
8
Ib., 799.
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Non è necessario qui riferire le complicate discussioni esegetiche, sempre controverse nei loro risultati, sulla relazione fra testo ed evento, sul
divenire del testo e sul suo reciproco rapporto cronologico, ma solo
ricercare cosa dicono i testi, così come sono, per i nostri problemi. Convergenza vi è sul fatto che i quattro racconti dell’istituzione (Mt 26,2629; Mc 14,22-25; Lc 22,15-20; 1Cor 11,23-26) a partire dalla loro configurazione testuale e della teologia ivi espressa si possono dividere in
due gruppi: la tradizione marciano-matteana e quella che troviamo in
Paolo e Luca. La differenza fondamentale fra tali due tradizioni si trova
nelle parole sul calice. In Matteo e Marco a proposito del contenuto del
calice viene detto: «questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato
per molti»; Matteo aggiunge inoltre: «in remissione dei peccati». In
Luca e Paolo invece il contenuto del calice viene così espresso: «questo
calice è la nuova alleanza nel mio sangue»; Luca aggiunge: «che è versato per voi». “Alleanza” e “sangue” sono correlati dal punto di vista
grammaticale in forma contrapposta. In Matteo-Marco il dono del calice viene chiamato “sangue”, di cui poi si precisa essere “sangue dell’alleanza”. In Paolo-Luca il calice è “la nuova alleanza”, della quale viene
detto che è fondata “nel mio sangue”. Come seconda differenza possiamo rilevare che solo Luca e Paolo parlano della nuova alleanza. Come
terza differenza importante sarebbe da menzionare che solo Matteo e
Marco hanno la parola “per molti”. Entrambi i filoni di tradizione si
appoggiano su tradizioni di alleanza anticotestamentarie, scegliendo tuttavia ciascuno un diverso approccio. Così nell’insieme delle parole dell’ultima cena confluiscono, fondendosi in una nuova unità, tutte le idee
essenziali dell’alleanza.
Di quali tradizioni si tratta? Le parole sul calice di Matteo e Marco
sono desunte immediatamente dal racconto della stipulazione dell’alleanza del Sinai. Mosè asperge con il sangue del sacrificio dapprima l’altare, che rappresenta il Dio nascosto, poi il popolo dicendo: «questo è il
sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di
tutte queste parole» (Es 24,8). Istituzioni antichissime vengono qui
riprese ed elevate ad un piano più alto. G. Quell ha definito così l’idea
arcaica di alleanza, come appare nelle storie dei patriarchi: “...stabilire
un’alleanza significa tanto entrare in un’unione di sangue straniera come
introdurre un socio nella propria unione e così entrare in comunione
giuridica con lui”. La parentela di sangue fittizia così creata “rende i partecipanti fratelli della stessa carne e delle stesse ossa”. “L’alleanza produce una totalità, che è pace”9, Šalôm. Il rito di sangue al Sinai significa
che, con questi uomini in cammino nel deserto, Dio fa la medesima
cosa, che finora solo diverse tribù avevano fatto fra di loro: Egli entra in
una misteriosa parentela di sangue con gli uomini, così che ora egli
appartiene a loro ed essi a lui. Questa parentela qui creata, che nasce ora
9
G. QUELL - J. BEHM, cit., 115s.
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paradossalmente fra Dio e l’uomo, dal punto di vista del contenuto è
caratterizzata dalla parola letta, dal libro dell’alleanza. Attraverso l’appropriazione di questa parola, la vita che viene da lui e che è con lui,
nasce la parentela rappresentata cultualmente nel rituale del sangue.
Quando Gesù, porgendo il calice, dice ai discepoli: «Questo è il mio
sangue dell’alleanza», le parole del Sinai sono innalzate ad un incredibile
realismo e nello stesso tempo si dischiude una profondità prima inimmaginabile. Ciò che qui accade è allo stesso tempo spiritualizzazione e fortissimo realismo. Infatti la comunione di sangue sacramentale, che ora
diviene possibilità, unisce i partecipanti con questo uomo Gesù in carne
ed ossa e così allo stesso tempo con il suo mistero divino, in una comunione estremamente concreta, che coinvolge anche la corporeità. Così
Paolo, con un paragone audace e drastico, ha descritto questa nuova
“parentela di sangue” con Dio, che nasce dalla comunione con Cristo:
«Non sapete che chi si unisce ad una prostituta, diventa con essa un
corpo solo? Infatti è detto: i due diverranno una sola carne [Gen 2,24].
Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor 6,16). In
queste parole diviene chiara anche la modalità totalmente diversa della
parentela: la comunione sacramentale con Cristo e quindi con Dio sottrae l’uomo al suo proprio mondo, materiale e transitorio e lo innalza
inserendolo nell’essere di Dio, che l’apostolo descrive con la parola
pneuma (Spirito). Il Dio, che è disceso, attira l’uomo nella sua realtà
propria e nuova. Parentela con Dio significa per la persona umana un
livello di esistenza nuovo e profondamente trasformato.
Ma come è possibile questa comunicazione agli uomini di ciò che è
proprio di Gesù? Abbiamo visto che per l’alleanza del Sinai è nell’accoglienza della parola, della legge di Dio che si realizza l’inserimento nel
suo modo di essere. Di ciò non si fa parola direttamente nei testi dell’ultima cena. Troviamo invece qui l’espressione: “che sarà sparso per
molti”, che riecheggia Isaia 53, il carme del Servo di Yhwh. Così la tradizione profetica si unisce alla tradizione del Sinai e la interpreta. Gesù
assume il destino degli altri come suo proprio, vive per loro e muore per
loro. Possiamo qui tranquillamente con i Padri della Chiesa andare oltre
ciò che è offerto immediatamente dal testo, senza perderne il senso
profondo. Nella morte di Cristo viene a compimento ciò che ha avuto
inizio nell’incarnazione. Il Figlio ha assunto in se stesso l’essere umano e
lo riporta ora a Dio: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un
corpo invece mi hai preparato... Ecco, io vengo” (Eb 10,5-7; Sal 40,7-9).
A partire da questo consegnarsi a Dio il suo “sangue” ritorna ora agli
uomini come sangue dell’alleanza. Il corpo è diventato parola e la parola
corpo nell’atto dell’amore, che è il vero e proprio modo di essere divino
ed ora a partire dalla partecipazione al sacramento deve diventare il
modo d’essere dell’uomo. Per la nostra questione sull’essenza dell’alleanza ciò è importante: l’ultima cena si autocomprende come stipulazione
di un’alleanza, e quindi nel prolungamento dell’alleanza del Sinai, che
qui non appare annullata, ma rinnovata. Il rinnovamento dell’alleanza,
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che è stato fin dai primissimi tempi un elemento essenziale nella liturgia
d’Israele10, raggiunge qui la più alta forma possibile. L’ultima cena sarebbe divenuta da questo momento un rinnovamento dell’alleanza nuovamente adempiuto, nel quale ciò che finora era stato fatto regolarmente
in modo rituale, sperimenta per la potenza di Gesù una profondità ed
uno spessore finora non prevedibili. Questo spiega anche perché tanto la
lettera agli Ebrei come il vangelo di Giovanni (nella preghiera sacerdotale di Gesù), andando oltre il tradizionale collegamento tra ultima cena e
Pasqua, mettano in connessione l’eucaristia con il giorno dell’espiazione
e vedano la sua istituzione come il giorno dell’espiazione cosmica - un
concetto che riecheggia anche nella lettera ai Romani (3,24s)11.
Dobbiamo adesso dare ancora brevemente uno sguardo alla tradizione lucano-paolina delle parole sul calice. Qui, come vedemmo, viene
indicato come contenuto del calice “la nuova alleanza nel mio sangue”.
In tal modo viene ripresa molto chiaramente la linea convergente di tradizione profetica presente in Ger 31,31-34, il cui punto di partenza
dice: “essi hanno violato la mia alleanza” (31,32). Al posto dell’alleanza
del Sinai infranta Dio istituirà - così promette il profeta - una nuova
alleanza, che non potrà più venir infranta, perché non si colloca più
davanti all’uomo come libro o come tavola di pietra, ma gli è iscritta nel
cuore. L’alleanza condizionata, che dipendeva dalla fedeltà degli uomini
alla legge e fu così violata, viene sostituita dall’alleanza incondizionata,
nella quale Dio vincola se stesso irrevocabilmente. È evidente che ci
muoviamo qui nello stesso ambito di idee, che abbiamo trovato precedentemente nella seconda Lettera ai Corinti con la sua contrapposizione
delle due alleanze. Certamente nelle parole dell’ultima cena diventa più
chiaramente visibile il fatto che Antico e Nuovo Testamento non sono
semplicemente come due mondi separati e che l’idea dell’alleanza violata
e dell’altra, nuova, creata da Dio, era invece presente nella fede di Israele stesso. Sotto il richiamo dei profeti, nella sospensione del culto del
tempio durante le generazioni dell’esilio così come nelle sempre nuove
avversità che seguirono, Israele sapeva molto bene che più volte aveva
violato l’alleanza. Le tavole infrante ai piedi del Sinai erano la prima
espressione drammatica dell’alleanza infranta; quando le tavole rinnovate furono perse per sempre dopo l’esilio, divenne solo più evidente che
la sventura di quell’ora aveva assunto forma permanente12. Israele sapeva
Mowinckel nella ricerca del “Sitz im Leben” del racconto dell’alleanza del Sinai
aveva perfino avanzato la tesi che esso rispecchiasse una festa annuale con teofania e
proclamazione della legge. Cf M. WEINFELD, cit., 793s.
10
11
Il legame fra Gv 17 e la Liturgia dello Yom Kippur è fortemente sottolineato da A.
FEUILLET, Le sacerdoce du Christ et ses ministres, Éd. de Paris 1972, soprattutto 3963. È importante anche H. GESE, «Die Sühne», in ID., Zur biblischen Theologie,
Mohr, Tübingen 1977, 85-106, cf in particolare 105s.
Cf al riguardo E. ZENGER (ed.), Der Neue Bund im Alten. Zur Bundestheologie der
beiden Testamente (QD 146), Herder, Freiburg 1993, in particolare i contributi di C.
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anche che il rinnovamento dell’alleanza celebrato periodicamente non
poteva restituire le tavole, che solo Dio era in potere di dare e di riempire con la sua scrittura. Ma sapeva anche che Dio non aveva annullato il
suo amore per Israele; sapeva che Dio stesso rinnovava l’alleanza e che
la promessa della nuova alleanza non era solo per il futuro, ma a partire
dalla incrollabilità dell’amore di Dio portava sempre in sé già qualcosa
di presente. Viceversa i Cristiani dovrebbero sapere che la definitività
della Nuova Alleanza, che per noi è indistruttibilmente fondata sulla
carne e sul sangue del Cristo risorto, non rende irrilevante il loro comportamento di violazione dell’alleanza. Il rinnovamento dell’alleanza
non è divenuto superfluo neanche nella Nuova Alleanza, ma è anzi
caratteristico di essa. Il comando di ripetizione delle parole dell’ultima
cena, che sono appunto espressione della stipulazione dell’alleanza,
significa che la Nuova Alleanza si presenta continuamente nella sua
novità davanti all’umanità, che essa rimane sempre nuova e come nuova
è sempre la stessa e unica alleanza13.
2
RIFLESSIONI SISTEMATICHE
Dopo questo tentativo di desumere dalla teologia paolina dell’alleanza e dalle parole dell’ultima cena gli elementi fondamentali dell’idea
neotestamentaria di alleanza, dobbiamo in un’ultima parte chiarire - sintetizzando il tutto - quali risposte si danno ora ai due interrogativi principali, che si erano posti mentre analizzavamo i testi: come stanno in
rapporto fra di loro le singole alleanze? In particolare: come si colloca la
Nuova Alleanza nei confronti delle alleanze che troviamo nella Bibbia
d’Israele? E: come si presenta ora definitivamente la relazione fra testamento e alleanza, come rispondere alla questione sulla unilateralità e
bilateralità dell’evento?
2.1 Unità dell’alleanza e pluralità delle alleanze
La tradizione cristiana a partire sia dalla teologia paolina che dalle
parole dell’ultima cena ha in generale pensato secondo lo schema delle
DOHMEN, “Der Sinaibund als Neuer Bund nach Ex 19-34” (ib., 51-83) e A. SCHENKER,
“Der nie aufgehobene Bund” (ib., 85-11); E. ZENGER, Das Erste Testament. Die jüdische Bibel und die Christen, Patmos, Düsseldorf 19944; si veda anche la recensione di
H. SEEBASS e la risposta di E. ZENGER in Theol. Revue 90 (1994) 265-278. Come dice
bene H. SCHLIER, cit., 340, “su ciascuno, che è uno “Israelítes”, si posa lo splendore
pieno di speranza della salvezza e del ritorno escatologico...”.
A me sembra che si intenda questo quando Eb 3,13 applica ai cristiani l’“oggi” del
Sal 95 e il suo richiamo contro la durezza del cuore, che può condurre alla perdita
della “terra del riposo”.
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due alleanze, l’Antica e la Nuova Alleanza. Questa contrapposizione è
contrassegnata da una serie di antitesi. L’Antica Alleanza è particolare,
legata alla discendenza “carnale” di Abramo. La Nuova Alleanza è universale, rivolta a tutti i popoli. L’Antica Alleanza si basa su di un principio di discendenza fisica, la Nuova invece su di una parentela spirituale,
fondata nel sacramento e nella fede. L’Antica Alleanza è alleanza condizionata: perché si fonda sull’osservanza della legge e quindi è legata
essenzialmente al comportamento dell’uomo, può essere infranta ed è
stata infranta. Poiché il suo contenuto essenziale è la legge, essa sta sotto
la formula: se voi fate tutto questo... Questo “Se” inserisce la mutabile
volontà umana nell’essenza dell’alleanza stessa e la rende in tal modo
transitoria. Viceversa l’alleanza siglata nell’ultima cena per la sua natura
interna appare nuova nel senso della promessa profetica: non è un contratto condizionato, ma dono dell’amicizia, che viene donato irrevocabilmente. Al posto della legge subentra la grazia. La riscoperta della teologia paolina nella Riforma ha sottolineato proprio questa accentuazione
con particolare enfasi: non opere, ma fede, non prestazione dell’uomo,
ma libera disposizione della bontà di Dio. Essa quindi ha anche sottolineato con forza che non si tratta dell’“alleanza”, ma del “testamento”, di
una pura disposizione di Dio14. La sottolineatura dell’efficacia esclusiva
di Dio, e in generale le espressioni con solus (solus Deus, solus Christus)
devono essere comprese in questo contesto.
Cosa dobbiamo dire in proposito alla luce di quanto finora osservato?
A me sembra che due dati di fatto siano divenuti evidenti: essi completano l’unilateralità di queste antitesi e rendono visibile l’interiore unità
della storia di Dio con l’umanità, così come essa è presentata nell’insieme della Bibbia costituita da Antico e Nuovo Testamento. Innanzitutto si
deve ricordare che l’alleanza fondamentale - quella con Abramo - mostra
decisamente un orientamento universalistico e guarda anticipatamente ai
molti, che devono essere dati ad Abramo in figli. Paolo ha certamente
visto bene quando rileva che l’alleanza di Abramo unisce in sé i due elementi dell’intenzionale universalità e del dono libero. Da questo punto
di vista la promessa fatta ad Abramo garantisce fin dall’inizio la continuità interiore della storia della salvezza a partire dai Padri d’Israele fino
al Cristo e alla Chiesa fatta di Giudei e Gentili. Per quel che riguarda
l’alleanza del Sinai, si deve fare ancora una distinzione. Essa è strettamente relativa al popolo d’Israele; essa dà a questo popolo un ordinamento giuridico e cultuale (le due realtà sono inseparabili), che come
tale non può essere semplicemente esteso a tutti i popoli. Poiché per essa
questo ordinamento giuridico è costitutivo, il “Se” della legge osservata
appartiene alla sua essenza profonda ed in questo senso è condizionale,
cioè anche: temporale, una tappa dei disegni di Dio, che ha il suo
tempo. Tutto questo Paolo lo ha evidenziato chiaramente, e nessun cri-
Così molto chiaramente nell’articolo del ThWNT di QUELL-BEHM. Cf anche l’articolo «Alleanza» (Bund) di HEMPEL-GOPPELT-JACOB-WIESNER, in RGG 1 (1957) 15121523.
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stiano può revocarlo; la storia stessa conferma questa visione. Ma con
ciò non è detto tutto sull’alleanza di Mosè e sull’“Israele secondo la
carne”. Infatti la legge non è solo - come noi pensiamo in un’unilaterale
accentuazione delle antitesi paoline - un peso imposto. Nella visione del
fedele anticotestamentario la legge stessa è la forma concreta della grazia. È grazia infatti conoscere la volontà di Dio. Conoscere la volontà di
Dio significa: conoscere se stessi; significa: comprendere il mondo;
significa: sapere dove si va. Ciò significa che siamo liberati dall’oscurità
di una nostra ricerca senza fine, che è giunta la luce senza della quale
non possiamo né vedere né camminare. “A nessun altro popolo tu hai
fatto conoscere la tua volontà”: per Israele, almeno nei suoi rappresentanti migliori, la legge è la manifestazione della verità, la manifestazione
del volto di Dio e quindi la possibilità di vivere rettamente. Infatti questa
è la domanda di tutti noi: chi sono io? dove vado? cosa devo fare perché
la mia vita divenga giusta? L’inno alla parola di Dio, che troviamo nel
Salmo 119 in sempre nuove variazioni, è espressione di questa gioia dell’essere liberati, della gioia di conoscere la volontà di Dio, che è la nostra
verità e quindi la nostra via, ciò cui tutti gli esseri umani anelano.
A partire di qui si deve comprendere ciò che Paolo, in Galati 6,2 seguendo la speranza giudaico messianica - dice della Tôrâ (della legge)
del Messia, della Tôrâ di Cristo: anche secondo Paolo il Messia, Cristo,
non costituisce gli uomini senza legge e senza diritto. Caratteristico per
il Messia, quale più grande Mosè, è piuttosto portare l’interpretazione
definitiva della Tôrâ, nella quale la Tôrâ stessa viene rinnovata, perché
ora la sua vera essenza appare nella sua purezza ed il suo carattere di
grazia diviene realtà evidente. H. Schlier, nel suo commento alla lettera
ai Galati, dice in proposito: “La Tôrâ del Messia Gesù è di fatto una
“interpretazione” della legge mosaica... una “interpretazione” per mezzo
della croce del Messia Gesù”. La sua potenza “fa venire alla luce la legge
nel suo contenuto essenziale, come parola di colui che l’ha adempiuta, e
quindi originaria, suscitatrice di vita”15. La Tôrâ del Messia è il Messia
stesso, Gesù stesso. A lui si riferisce ora il comando “lui voi dovete
ascoltare”. Così la “legge” diviene universale, così essa è grazia, così edifica un popolo, che diventa popolo attraverso l’ascolto e la conversione.
In questa Tôrâ, che è Gesù stesso, appare ora iscritta nella carne viva
l’essenza permanente delle tavole di pietra del Sinai: il duplice comandamento dell’amore, che trova la sua realizzazione nel sentire di Gesù (Fil
2,5). Imitare lui, seguire lui, è pertanto osservanza della Tôrâ, che in lui
stesso si è adempiuta irrevocabilmente.
È vero che così l’alleanza del Sinai viene di fatto superata, ma nel
momento in cui la sua transitorietà viene abbandonata, appare la sua
vera definitività, viene portato alla luce ciò che in lei è definitivo. Perciò
H. SCHLIER, Der Brief an die Galater, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1962,
273.
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l’attesa della Nuova Alleanza, che emerge con crescente chiarezza nella
storia d’Israele, non è contro l’alleanza del Sinai, ma corrisponde alla
dinamica dell’attesa, che in essa stessa è inclusa. Legge e profeti, considerati a partire da Gesù, non si trovano reciprocamente in un contrasto,
ma Mosè stesso - come lo presenta il Deuteronomio - è profeta ed è
compreso rettamente, solo se è compreso profeticamente.
2.2 “Testamento” e alleanza
La questione se si tratta di alleanza o di testamento, di un evento bilaterale o di una disposizione unilaterale, dipende strettamente dalla questione della differenza tra l’alleanza di Cristo e quella di Mosè. Nella
struttura fondamentale tutti i tipi di alleanza, che incontriamo nell’Antico come nel Nuovo Testamento, ci appaiono dapprima come asimmetrici - come disposizioni del Sovrano, non come contratto tra due partner
con eguali diritti. La legge è una disposizione, con la quale il re vincola i
vassalli, anzi li costituisce come tali; la grazia è una disposizione, che
viene donata liberamente senza meriti precedenti. Questa idea dell’unilateralità del testamento corrisponde senza dubbio alla concezione della
grandezza e della sovranità di Dio; essa è anche certamente condizionata
a partire da una struttura sociale. I dominatori dell’antico Oriente agiscono solo unilateralmente, sovranamente; nessuno può stare con loro
sullo stesso piano. Ma proprio questo retroterra sociologico dello schema asimmetrico viene disfatto e rifiutato nella Bibbia; così anche l’immagine di Dio acquista una nuova configurazione. Dio dispone, ma di
fatto esiste - praticamente sin dal principio - un autovincolamento di
Dio, a partire dal quale nasce qualcosa come una comunione paritetica.
Agostino ha sottolineato in modo molto bello questo aspetto, quando
dice: “Fedele è Dio, che si è fatto nostro debitore, non come se egli
avesse ricevuto qualcosa da noi, ma in quanto egli ci ha promesso così
tanto. Troppo poco era per lui la promessa; anche per iscritto egli volle
vincolarsi, allorché in certo qual modo egli ci diede una redazione
manoscritta delle sue promesse...”16. Quando leggiamo i profeti, troviamo che questo non è inteso come atto semplicemente esterno, giuridicamente posto, ma che la fede d’Israele riconosce in questo autovincolarsi
l’essenza di Dio, che è diversa da come si sarebbe dovuta rappresentare a
partire dall’immagine del monarca orientale. “Quando Israele era giovinetto io l’ho amato”, dice Dio in Osea a proposito della modalità del
suo autovincolamento al popolo. Da ciò si ricava che egli, anche se l’alleanza venisse mai infranta, non può, proprio per la sua natura, lasciarla
cadere. “Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri,
Israele?... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme
di compassione” (Os 11,1.8). Ciò che qui viene tratteggiato con brevi
16
En. in ps. 109, 1 CChr XL, 1601.
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cenni, compare in modo più sviluppato come una grande storia di vano,
ma indistruttibile e quindi alla fin fine in realtà non vano, amore in Ezechiele 16. Tutto il dramma della fedeltà tradita da parte del popolo termina con le parole: “perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato tutto quello che
hai fatto” (Ez 16,63).
Antecedentemente a tutti questi testi si colloca la misteriosa storia
della stipulazione dell’alleanza con Abramo, nel corso della quale secondo l’uso orientale il patriarca divise a metà gli animali del sacrificio. I
contraenti dell’alleanza usualmente passano in mezzo agli animali squartati a metà, ciò che significa una automaledizione condizionata: come a
questi animali deve capitarmi, se io infrango l’alleanza. In una visione
Abramo vede come un forno fumante ed una fiaccola ardente - entrambi
immagini della teofania - passare in mezzo agli animali squartati. Dio
sigla l’alleanza, rendendosi garante egli stesso della fedeltà con un inequivocabile simbolo di morte. Può dunque Dio morire? punire se stesso?
L’interpretazione cristiana doveva vedere in questo testo un segno misterioso e prima non facilmente interpretabile della croce di Cristo, nella
quale Dio con la morte del suo Figlio si fa garante dell’indistruttibilità
dell’alleanza e si consegna così radicalmente all’umanità (Gen 15,12-21).
L’amore per la creatura appartiene all’essenza di Dio, e da questa essenza
deriva quell’autovincolamento, che arriva fino alla croce. Così secondo
la visione della Bibbia proprio dall’assolutezza dell’agire di Dio nasce
ora una vera bilateralità; il testamento diventa alleanza. I Padri della
Chiesa hanno descritto questa nuova bilateralità, che emerge dalla fede
in Cristo come colui che adempie le promesse, nella coppia concettuale
Incarnazione di Dio e Divinizzazione dell’uomo. L’autovincolamento di
Dio va oltre quindi il dono della Scrittura come espressione di promessa
vincolante, fino al punto che Dio si lega nella sua propria esistenza alla
creatura uomo, assumendo la natura umana. Questo significa per altro
verso che il sogno originario dell’umanità trova adempimento e l’uomo
diventa “come Dio”: in questo scambio delle nature, che costituisce la
figura cristologica fondamentale, l’assolutezza dell’alleanza divina è
divenuta definitiva bilateralità.
2.3 L’immagine di Dio e dell’uomo nell’idea di alleanza
La cristologia appare così come la sintesi della teologia dell’alleanza
del Nuovo Testamento, che si fonda sempre sull’unità dell’intera Bibbia.
Questa concentrazione cristologica conduce però necessariamente oltre
una semplice interpretazione dei testi biblici; si apre qui il problema dell’essenza dell’uomo e di Dio; diventa necessaria la fatica di una comprensione all’interno di un pensiero organico. Ciò significa: la teologia
deve interrogarsi su di una filosofia ad essa adeguata. Svolgere questo
non attiene qui al mio compito. Vorrei solo ancora ritornare molto brevemente alla categoria, che avevamo già incontrato come corrispondenJOSEPH RATZINGER
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te filosofico al tema dell’alleanza: la “relatio”. Infatti interrogarsi sull’alleanza significa appunto chiedersi se e quale relazione di conseguenza
possa darsi fra Dio e l’uomo. Avevamo rilevato che secondo un’antica
concezione l’uomo può relazionarsi con Dio nella conoscenza e nell’amore, mentre invece una relazione dell’eterno Dio con l’uomo temporale era considerata come contraddittoria e quindi impossibile. Il monoteismo filosofico del mondo antico aveva aperto l’accesso alla fede biblica
in Dio ed al suo monoteismo religioso, che sembrava rendere nuovamente possibile l’armonia perduta fra ragione e religione. I Padri, che
partivano da questa corrispondenza fra filosofia e rivelazione biblica,
dovevano però ora vedere che l’unico Dio della Bibbia era esprimibile
nella sua identità essenzialmente per mezzo di due predicati: creazione e
rivelazione, creazione e redenzione. Entrambi però sono concetti relazionali. Il Dio biblico è dunque un Dio-in-relazione, ed in questo senso,
proprio a partire dall’essenziale della sua identità, opposto al Dio filosofico in sé chiuso. Non è qui il caso di seguire il complicato processo del
dibattito culturale, nel quale si dovette cercare di rafforzare l’armonia
tra ragione e religione, che era nata dalla concezione dell’unicità di Dio,
ma ora era praticamente di nuovo in questione. Soltanto questo vorrei
dire, nel contesto del mio tema: in questo dibattito è stata coniata una
categoria filosofica totalmente nuova, che per noi rappresenta il concetto fondamentale dell’analogia fra Dio e l’uomo, il centro del pensiero
filosofico: il concetto di persona17. Una categoria già esistente, quella
della relazione, fu modificata nel suo significato in modo fondamentale.
Nella tavola aristotelica delle categorie la relazione sta nel gruppo degli
accidenti, che rinviano alla sostanza ed a questa sono ordinati; in Dio
pertanto non vi sono accidenti. Con la dottrina cristiana della Trinità la
“relatio” esce dallo schema sostanza-accidenti. Dio stesso viene ora definito come struttura relazionale trinitaria, come “relatio subsistens”18. Se
dell’uomo si dice che egli è immagine di Dio, allora questo significa che
egli è l’essenza fondata sulla relazione; che egli attraverso tutte le sue
relazioni ed in esse cerca quella relazione, che è il fondamento della sua
esistenza. Allora l’alleanza sarebbe la risposta alla somiglianza dell’uomo
con Dio; in essa risplenderebbe chi e che cosa noi stessi siamo e chi è
Dio; per lui, che è totalmente relazione, l’alleanza non sarebbe quindi
qualcosa che sta esternamente nella storia lontano dalla sua essenza, ma
la manifestazione di ciò che è lui stesso, “lo splendore del suo volto”.
Questo appare molto chiaramente in C. SCHÖNBORN, L’icône du Christ. Fondements théologiques, Éd. Universitaires, Fribourg 1976, 30-45.
17
18
Anche se tutta la portata del processo non è ancora evidente, la rifusione delle categorie tradizionali appare molto chiaramente in sant’Agostino, De Trin. V, V 6 (PL 42,
914): “Quamobrem nihil in eo (= in Deo) per accidens dicitur, quia nihil ei accidit;
nec tamen omne quod dicitur, secundum substantiam dicitur... hoc non secundum
substantiam dicitur, sed secundum relativum; quod tamen relativum non est accidens,
quia non est mutabile”.
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