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Inchiesta a Palermo
Inchiesta a Palermo
Salvatore Costantino
CULTURA E SOCIETA’
Introduzione
Già dai primi anni del suo arrivo in Sicilia, Danilo Dolci studiava il degrado palermitano, tanto
che nel ‘55 pubblica su Nuovi Argomenti la rivista diretta da Moravia e Carocci, che ospitava fra
l’altro il primo capitolo de La Ciociara, dei racconti autobiografici di ragazzi che vivevano negli
ambienti degradati di Palermo, in pratica il disegno della ricerca di Inchiesta a Palermo, per la
quale otterrà nel ‘58 il premio Viareggio.
L “atipica sociologia” di Dolci non poteva non incontrarsi così con il grande giornalismo
d’inchiesta e con l’azione modernizzatrice portata avanti da quel grande laboratorio sociologico,
fucina di grandi giornalisti e intellettuali che fu il giornale L’Ora. I metodi d’analisi e di ricerca si
incontravano nell’obiettivo di analizzare e intervenire in una Palermo da “aggredire” e “frugare”
come proponeva Giuliana Saladino, con un giornalismo ben diverso da quello “elegiaco”
dominante, “pigro e codino”, criticato da Roberto Ciuni. L’analisi di Inchiesta a Palermo, apparso
nel 1956 e che suscitò un grande dibattito tra scrittori, ricercatori e studiosi di livello nazionale e
internazionale, offre non pochi spunti per una riflessione più attenta sulla Sicilia e sulla Palermo di
oggi.
1.
La Sicilia degli anni Cinquanta: “una civiltà agraria smarrita”
Dal 27 al 29 aprile 1960 si tenne a Palma di Montechiaro il “Convegno sulle condizioni di vita e
di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale” e gli atti, furono ciclostilati a cura di Pasqualino
Marchese e Romano Trizzino, del Centro Studi e Iniziative per la piena Occupazione di Partinico,
diretto da Danilo Dolci. Vi parteciparono studiosi e personalità di livello nazionale e internazionale.
1 StrumentiRES - Rivista online della Fondazione RES
Anno VI - n° 3 - Novembre 2014
Fra gli altri: Giorgio Napolitano, Carlo Levi, Leonardo Sciascia, Salvinus Duynstee, Francesco
Renda, Ideale del Carpio, Ignazio Buttitta, Silvio Pampiglione. Del comitato d’onore del
convegno facevano parte tra gli altri: Paul Baran, Lamberto Borghi, Johan Galtung, Julian Huxley,
Carlo Levi, Pierre Martin, Silvio Milazzo, Ferruccio Parri, Paolo Sylos Labini, Elio Vittorini. Gli
atti del Convegno costituiscono un documento di eccezionale valore storico, sociologico e politico.
Essi forniscono uno spaccato a dir poco impressionante delle condizioni di arretratezza e di miseria
in cui versava, oltre quella di Palma, gran parte delle popolazioni della Sicilia, in particolare nella
parte occidentale, nelle campagne come nelle citta. Per molti versi si può dire, senza esagerare, che
queste condizioni erano medievali1 e c’è chi, nel corso del dibattito, faceva notare che alcune
situazioni erano anche peggiori dei più disastrati paesi del Terzo mondo. Il quadro risulta ancor più
negativo se si tiene conto che proprio il quel torno di tempo l’Italia stava vivendo il famoso
“miracolo economico”, che, pur con tutti i limiti e le distorsioni, collocherà il paese nel novero delle
nazioni economicamente più progredite e aumenterà considerevolmente il tenore di vita degli
italiani.
Lo scrittore Carlo Levi apriva il convegno di Palma Montechiaro qualche anno dopo la comparsa
della prima edizione del suo Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia2, in cui “la Sicilia è vista
nella sua sedentarietà feudale e nella sua illusoria aspirazione al mito dell’opulenza e della
ricchezza”3 richiamando quella che Sylos-Labini, allora giovane titolare della cattedra di Economia
Politica all'Università di Catania, chiamava “la fase iniziale di sviluppo di una area arretrata”:
Le colonie si liberano; le classi subalterne - notava Levi - si fanno autonome: centinaia di milioni
di uomini si affacciano all'esistenza e alla libertà. E gli aspetti sordidi dell'alienazione vanno
scomparendo insieme alle condizioni politiche e sociali che ne sono l'origine.
Perché questo avvenga è necessario non solo una modificazione di strutture, ma anzitutto un primo
passo, il maggiore possibile, il più difficile, quello che rompe la separazione e stabilisce il primo
rapporto: un atto di fiducia fondamentale ed elementare nell'uomo, in se stesso. La denuncia, la
1
2
Ancora nel secondo dopoguerra sostanzialmente feudali erano le condizioni socio-economiche delle campagne siciliane, sia dal
Carlo Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Einaudi, Torino, 1955.
3
Giuseppe Casarrubea, La Sicilia in Carlo Levi e in Danilo Dolci, in Verso i Sud del mondo. Carlo Levi a cento anni dalla nascita, a
cura di Gigliola De Donato, Donzelli, Roma, 2003:49.
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protesta sono già un passo: l'uscire dalla silenziosa vergogna o dalla rassegnazione. "Vogliamo li beddi
cessi, le bedde condutture" mi dicevano le donne di Bronte: anche questa primitiva esigenza è un
primo passo di cultura e di vita. Le grandi realizzazioni che portano alla luna, e più in là, sono l'ultimo
risultato di un progresso di coscienza dei contadini-servi, di quelli che erano "mugik" dalle barbe piene
di pidocchi.
Questo primo passo è il punto difficile. Perché Palma Montechiaro? Perché abbraccia un
esempio evidente di quella che Sylos-Labini chiama "la fase iniziale di sviluppo di una area
arretrata". Dove sono avvenute, come in Europa, in America e più recentemente in India e in Cina,
ed ora in Africa, grandi rivoluzioni, lunghi processi di guerre civili e di lotte, la fase iniziale è
superata e il movimento è sempre più rapido. Ma dove, per vari motivi, le condizioni strutturali
sono ferme e nessun processo generale in atto ha la forza di giungere direttamente fino in fondo,
fino agli schiavi secolari, il primo passo è più importante e difficile.
Qui siamo nella terra del Gattopardo: il cui pensiero amaro è che nulla può essere fatto, che la
realtà è immobile. (Il libro letterariamente è bellissimo: Aragon lo difende dalle accuse di libro
reazionario "di destra": ma certo descrive una situazione di rifiuto della storia e dubito che il suo
successo derivi da questo elemento negativo, dalla paura per la vita ed il mutamento). Ma il
Convegno è una specie di confutazione del Gattopardo, nella sua stessa terra, confutazione che è
necessario non sia velleitaria ne generica, ma concreta, precisa, legata alle cose minime e vere. Se
oggi si chiedono case, fogne, strade, o una diga per irrigare e lavoro per chi ha braccia, e scuole e
cure mediche, queste semplice, modeste, elementari richieste non sono troppo piccole per il grande
passo iniziale. Perché esse non nascano dalla pura agitazione, né dal paternalistico e schiavistico ed
astuto rimorso dei dirigenti: ma nascono da un primo semplice esame della propria natura di
uomini, fatto da chi fino a ieri non si considerava ancora uomo: da un primo fondamentale atto di
fiducia nella propria esistenza umana”4.
I problemi dell'economia siciliana – commentava Sylos Labini -
sono diversi per gradi
quantitativi, non qualitativi, dai problemi dell'India, per esempio, o da quelli della gran parte dei
4
Carlo Levi in Pasqualino Marchese, Romano Trizzino .(a cura di), 1960, Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone
arretrate della Sicilia occidentale. Palma di Montechiaro il 27, 28, 29 aprile 1960, testo ciclostilato.
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paesi arabi, o di molti paesi dell'America latina. Ci sono naturalmente, delle caratteristiche speciali,
uniche, ma ci sono molte caratteristiche comuni. La più ovvia caratteristica comune è il livello
basso del reddito, cioè la miseria5.
Come affermava René Dumont, ci si trovava di fronte ad una civiltà agraria smarrita nella doppia
impasse del sottolavoro e del sottoinvestimento6.
Scrive Renée Rochefort, una giovane studiosa di geografia sociale francese venuta in Sicilia tra il
1954 e il 1959, a proposito della mancanza di innovazione particolarmente nell’agrumicoltura:
Nel complesso l’agrumicoltura siciliana vive in una condizione analoga a quella della viticultura. Da
una parte si assiste ad una propagazione quasi frenetica degli agrumeti, e dall’altra ad una crisi seria,
strutturale e congiunturale assieme. I prezzi, dopo molti anni, tendono a crollare in seguito alla
concorrenza crescente della Spagna, del Nord Africa e di Israele, regioni nelle quali, sia pure in modi
diversi, l’agrumicoltura può beneficiare di tecniche più moderne, di sostegni più dinamici dello Stato, di
una manodopera a basso costo, di minori costi di produzione, quando non di tutti e tre insieme. Gli
aranceti siciliani sono vittime della loro storica precocità, ma anche di una cattiva organizzazione
commerciale7.
Bassissimo reddito e miseria dominano il settore primario:
L’agricoltura: caratteristica fondamentale è quella dell’arretratezza dei metodi che rimangono, o
addirittura sono rimasti per secoli, stazionari, immutati. Limitati sono gli investimenti agrari; e qui
occorre considerare chi fa o chi non fa questi investimenti agrari, cominciando con l’analisi della
distribuzione della proprietà e della struttura istituzionale che vige nell’agricoltura. La struttura è
caratterizzata da un piccolo gruppo di proprietà ampie, o addirittura amplissime, da un certo gruppo, non
ampio, di proprietà medie, e da un grandissimo numero di proprietà piccole, o addirittura microscopiche.
In queste ultime gli investimenti sono scarsi ed il motivo è evidente: il reddito è bassissimo, molto spesso
5
Ivi.
R. Dumont, Quelques problèmes agricoles siciliens, Federation Industries Belges, Bruxelles 1960.
7
R. Rochefort (1961), trad. it. Sicilia anni Cinquanta. Lavoro Cultura e Società, Sellerio, Palermo 2005: 200.
6
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si tratta di economie di sussistenza o di baratto, la famiglia in gran parte consuma quello che produce e
8
solo in piccola parte lo vende .
Per quanto riguarda lo sviluppo industriale non esiste alcun trend diretto all’innovazione diffusa.
Esistono soltanto piccole aziende artigianali con reddito bassissimo che non riescono a tenere il
passo con le grandi trasformazioni in corso:
Che cosa ne è dell’industria? Caratteristica comune delle economie arretrate è che l’industria moderna
è limitatissima; ci sono soltanto delle chiazze, delle isole di industria moderna: 1’“industria” in gran parte
è costituita da piccole aziende tradizionali e artigianali. Questo fatto è grave non soltanto da un punto di
vista fotografico, cioè osservando ad un certo momento la situazione, ma è grave anche dal punto di vista
del movimento. Le piccole aziende artigianali non sono in condizione di investire, il reddito spesso è
bassissimo, e d’altra parte investire nel senso moderno richiede fondi, mezzi e conoscenze tecniche che
sono rare presso i piccoli artigiani. Nello stesso tempo questi artigiani, in molte attività, si trovano a dover
concorrere coi prodotti fatti a macchina e lentamente vengono scalzati. È un processo graduale con un
ingranamento lentissimo; certe volte non si osserva nel breve periodo e occorre considerare periodi molto
lunghi per poterlo osservare con chiarezza. Le attività tessili tradizionali tendono a scomparire e in
diverse economie arretrate sono semiscomparse o scomparse del tutto. Le falegnamerie artigianali si
trovano di fronte ai mobili fatti a macchina, i carbonai si trovano di fronte alle bombole a gas, i produttori
di strumenti musicali si trovano di fronte alla radio e alla televisione, i carrettieri si trovano di fronte agli
autocarri. Nella maggior parte delle attività artigianali tradizionali si svolge questa crisi, alcune di queste
attività si mantengono e riescono a svilupparsi, ma si tratta di casi rari; si tratta di produzioni speciali,
artigianato del tipo artistico, ad esempio, e quindi non entrano in concorrenza con i prodotti fatti a
macchina. Vi sono invece altre aziende di tipo artigianale, che, malgrado siano molto piccole, riescono a
svilupparsi, o almeno a crescere di numero: alludo alle aziende che sono satelliti di grandi aziende
moderne ubicate altrove, come ad esempio le officine di riparazione; oppure si tratta di piccole aziende di
trasformazione in quelle isole in cui sono sorte aziende moderne nel senso proprio. Il commercio: anche il
quadro del commercio è grave. Un’ampia parte di questo commercio è rappresentato da piccole attività
precarie: commercio ambulante, che comprende, in gran parte, sottoccupati con redditi bassissimi; ci sono
d’altra parte grossi commercianti, che riescono ad ottenere profitti molto elevati. Naturalmente il
8
Paolo Sylos Labini in Pasqualino Marchese, Romano Trizzino .(a cura di), 1960, Convegno sulle condizioni di vita e di salute in
zone arretrate della Sicilia occidentale, cit..
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commercio è soprattutto quello dei prodotti agrari ed i grossi commerciali che riescono ad affermarsi
s’inseriscono come intermediari nella produzione agraria. E qui appare un altro aspetto, grave, di questa
economia: i produttori agrari, che per lo più non sono organizzati, non conoscono i mercati, e avendo
urgenza di vendere, molto spesso sono costretti a vendere i prodotti a prezzi molto bassi; e allora, in
questa economia, si nota una differenza notevole, nettamente più, ampia che nelle economie evolute, tra
prezzi al minuto e prezzi all’ingrosso; di tale differenza si avvantaggiano i grossi commercianti. Tale
situazione riduce le possibilità d’investimento, soprattutto per i piccoli proprietari, e quindi è un ostacolo
ulteriore allo sviluppo dell’economia9.
2.
L’opera di Danilo Dolci e del Centro Studi ed iniziative per la piena occupazione:
“immaginazione sociologica” e costruzione di società civile
Danilo Dolci, dal canto suo, nel convegno di Palma spiegava i contenuti fondamentali della sua
iniziativa in Sicilia che saranno definiti in Spreco10, consistenti in estrema sintesi: 1. nella critica
della politica meridionalistica dello Stato italiano, “paternalistica” e mai indirizzata ad aiutare
effettivamente la crescita economica, sociale e culturale puntando sullo sviluppo delle “risorse
potenziali”; 2. nella possibilità di iniziare uno sviluppo “dal basso” fondato sulla piena utilizzazione
delle risorse locali, male utilizzate per ignoranza e per disorganizzazione; 3. nell’attuare questo
progetto attraverso l’unione degli interessati nell’ambito locale (comuni), i quali prendano
collettivamente coscienza dei problemi e assieme elaborino delle soluzioni utilizzando anche le
competenze degli esperti e dei tecnici; 4. nell’attuare forme di pressione e di azione non violenta
che potessero stimolare la partecipazione, la formazione dell’opinione pubblica, la mobilitazione
collettiva per condizionare “dal basso” le politiche e l’attività legislativa dello Stato. Nella sua
relazione al convegno Dolci metteva l’accento sullo “spreco”, sull’immane spreco di risorse umane
innanzitutto e quindi sulla mafia e sulla violenza:
Allora spreco di cose che non vengono valorizzate, qualcosa che va direttamente sciupato e spreco
perché si spende soldi in cose che si potrebbe avere gratuitamente, ecc. Anche in questo campo potremmo
9
Ivi.
D. Dolci, Spreco. Documenti e inchieste su alcuni aspetti dello spreco nella Sicilia occidentale, Einaudi, Torino 1960.
10
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fare centinaia e centinaia di esempi. Ma tutto questo significa anche, tradotto in altre parole, basso livello
tecnico-culturale. Siamo di fronte ad una popolazione intelligente, ad una popolazione di buona volontà, è
chiarissimo (in tutti questi anni io non ho quasi trovato delle persone, non ho – posso dire – mai trovato
delle persone che non lavoravano avendo lavoro, avendo la possibilità di lavorare): ma difficoltà a capire
quali, effettivamente, in modo preciso, sono i problemi e come si potrebbero risolvere. Tra tutte queste
forme diverse, queste categorie diverse di sprechi, il più grande degli sprechi diventa quello dell’uomo, di
questo uomo intelligente e di buona volontà che viene a ridursi a lavorare, tanto sia piccolo proprietario
che bracciante, bracciante edile o bracciante agricolo, circa 100-110-120 giorni all’anno, rimanendo non
valorizzato per circa almeno 200 giorni 1’anno: e questo è il più grande degli sprechi, perché il lavoro non
è soltanto una forma per produrre, una forma di produzione e di arricchimento, ma – voi sapete – è un
mezzo fondamentale per la formazione della personalità degli uomini. Gli uomini difficilmente, senza il
lavoro, senza i soldi e senza il lavoro in sé, possono realizzarsi proprio come uomini; e questo è lo spreco
maggiore, lo spreco degli uomini, lo spreco delle donne che rimangono chiuse nelle loro case, lo spreco
dei bambini, non soltanto: dei bambini che muoiono (ieri s’è detto delle cifre: muoiono fino al 10, al
10,9% com’è capitato sei mesi anche qua, se non sbaglio) ma spreco di questi bambini che non riescono a
realizzarsi persone, valorizzando al massimo tutta la loro personalità, tutto quello che c’è di potenziale, di
possibile dentro di loro: questo veramente è il più grande e il più – ieri diceva Silvio – il più criminale
degli sprechi11.
L’iniziativa di Dolci e del gruppo di ricerca pluri -disciplinare di livello nazionale e
internazionale che collaborava col Centro Studi, parte dall’individuazione e valorizzazione dei
fermenti culturali e politici nella comunità partinicese, per costruire un progetto di programmazione
dal basso, di partecipazione e di intervento. Ciò, in una società caratterizzata dal peso della guerra
fredda, dal dominio delle ideologie, dalle prassi burocratizzate dei partiti, aveva contribuito ad
accendere i riflettori, nella Sicilia del dopoguerra, su un nuovo modo di intendere la politica, la
partecipazione, la democrazia, la formazione e l’attuazione delle politiche pubbliche, sulla scorta
del coinvolgimento di studiosi di livello nazionale ed internazionale e di esponenti della comunità
locale si realizzavano inedite esperienze di partecipazione e di programmazione dal basso che si
confermano nella realtà di oggi questioni centrali nello sviluppo della democrazia. L’esperienza
dolciana non è tutta riconducibile a schemi lineari, essa non è priva infatti di difficoltà – e a volte
11
D. Dolci in Pasqualino Marchese, Romano Trizzino .(a cura di), 1960, Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone
arretrate della Sicilia occidentale, cit..
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persino di rotture traumatiche o di frizioni – relative ai moduli organizzativi, ai contenuti e alla
lettura dei processi socio-economici e ai nodi del sottosviluppo. Ciò soprattutto alla svolta degli
anni ’60 che poneva agli scienziati sociali e alla politica la necessità di una rifondazione delle
categorie tradizionali di intendere lo sviluppo, la politica, la partecipazione e la costruzione della
democrazia. Costruire società civile, opinione e volontà collettive significava costruire processi
innovativi fondati sulla relazione comunicativa, e sulla reciprocità, sull’organizzazione e autoorganizzazione delle comunità.
Nell’organizzazione di queste attività, dal 1956, Dolci coinvolge un giovane ventenne, Lorenzo
Barbera, che lavorerà a con lui per tredici anni. Nel 1973, fonda il Cresm (Centro di ricerche
economiche e sociali per il Meridione), che ancora oggi continua a promuovere lo sviluppo
partecipato nella Valle del Belice, tra le province di Trapani e Palermo. Barbera, partinicese di umili
origini contadine, si rivelò presto grande animatore sociale e culturale della Valle del Belice. A
partire dal 1958 Dolci e Barbera studiano e promuovono iniziative concrete per la piena
occupazione in 10 Comuni della Sicilia Occidentale, sulla base delle potenzialità locali e sui saperi
e il saper fare degli abitanti. In quell’anno a Danilo fu assegnato il premio Lenin per la pace (16
milioni di lire) e nasce il Centro studi e iniziative per la piena occupazione, che aveva cinque sedi a
Partitico, Roccamena, Corleone, San Giovanni Gemini e Menfi. Nel 1968, dopo gravi
incomprensioni sulle forme di lotta da adottare nei confronti delle istituzioni, diversi collaboratori di
Dolci, tra cui Barbera, si allontanarono da Partitico per iniziare altre attività autonome; Barbera
fondò il Centro Studi e Iniziative della Valle del Belice con sede a Partanna che godette per anni di
sostegni finanziari provenienti dall’estero. Nel 1972, Barberà lasciò il Centro Studi e fondò il
CRESM (Centro di Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione) con sede a Gibellina12.
Johan Galtung, ha invitato più volte alla riscoperta del lavoro di Danilo Dolci, ricordando in
particolare l’esperienza di Cortile Cascino. A questo proposito ha osservato : «Danilo suscitava
conflitti. Molte volte era difficile amarlo, anche perché spesso allontanava da sé quanti gli erano più
vicini»13. Ciò dimostra la vacuità di certi etichettamenti o di certe scorciatoie terminologicovalutative che appiattiscono l’originalità e la complessità di quella esperienza e che non
restituiscono l’anima viva dell’azione del sociologo triestino: valga per tutti la generalizzazione
12
Tra le opere di Lorenzo Barbera qui ricordiamo: La diga di Roccamena, Laterza, 1964; Belice stato fuorilegge, Feltrinelli, 1970; I
ministri dal cielo. I contadini del Belice raccontano, Feltrinelli 1980, e : Edizioni, Palermo 2011.
13
J. Galtung, I gradini della non-violenza, “Critica liberale”, n. 46, dicembre 1998.
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dello “stereotipo-gabbia” di Dolci come “il Gandhi della Sicilia”14. Certamente il pensiero e
l’azione non violenta costituiscono momenti centrali nell’iniziativa di Dolci, che fu, tuttavia,
soprattutto un innovatore, un artefice della possibile modernizzazione della Sicilia15.
Anche da
questo punto di vista la sociologia come azione sociale di Dolci è una sociologia atipica16. Parliamo
di “atipicità” nel senso del rigetto di metodologie astratte, libresche, avulse dalla pratica sociale e
dalla verifica sul campo, fondate su un sapere parcellizzato. Era straordinario interrogarsi sui
metodi delle scienze sociali e delle pratiche di intervento sociale nel crogiolo delle iniziative che
tenevano ben lontani da ogni indulgenza – come diceva in The sociological Imagination, un libro
molto caro a l sociologo triestino, Charles Wright Mills – verso forme di “inibizione metodologica”
e di “feticismo del metodo”17.
L’esperienza dolciana e delle comunità della Sicilia occidentale si collega, in questo modo, con
tanta parte della riflessione contemporanea. Il metodo dolciano, assai lontano – bisogna ammettere
– da una certa rappresentazione meramente apologetica o, al contrario, sbrigativamente negativa
che ne viene fornita, proprio nelle iniziative a Partinico e nelle zone vicine ha mostrato come una
sua declinazione conflittuale, intesa come generazione di “tensioni” e di “rotture”, non fosse altro
che l’unica strada alternativa percorribile per riuscire ad “immaginare” una Sicilia svincolata dallo
stereotipo dell’arretratezza, del sottosviluppo, della miseria, una Sicilia liberata da immagini
sclerotizzanti di terra rassegnata alla paralisi, immune alla modernità e al cambiamento18.
Il conflitto c’era anche, come ha sottolineato Galtung , non solo all’esterno ma anche all’interno
del Centro Studi.
14
Sul punto si veda S. Costantino e A. Trobia, La scomparsa di Danilo Dolci. Studio di un caso, in S. Costantino, G. Marrone e A.
Trobia, L’immagine della Sicilia nella stampa quotidiana. Risultati della ricerca, Fondazione Federico II, Centro Studi Pio la Torre,
Palermo 1999.
15
Sulla possibilità di un regolamento non violento dei conflitti, si veda W. Benjamin, trad. it. Angelus novus, Einaudi, Torino 1962.
16
Sul punto si vedano i saggi apparsi nel già citato Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la
costruzione della società civile e in particolare il saggio di Antonio La Spina, Danilo Dolci “imprenditore civile”.
17
Cfr. C. Wright Mills (1959), trad. it. L’immaginazione sociologica, il Saggiatore, Milano 1962.
“ Il principale compito politico e intellettuale del sociologo – scriveva Wright Mills nella premessa all’edizione italiana di The
sociological Imagination – (in questo caso i due aspetti coincidono) è oggi di individuare e definire gli elementi del disagio e
dell’indifferenza dell’uomo contemporaneo. È l’impegno principale che gli impongono altri lavoratori della mente, dai fisici agli
artisti, la comunità intellettuale in genere. Appunto questo compito e questo impegno stanno facendo, io credo, delle scienze
sociologiche la più necessaria delle nostre facoltà mentali”.
18
Sul punto sia consentito rinviare a S. Costantino (a cura di), Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica, il
sottosviluppo, la costruzione della società civile, Editori Riuniti, Roma 2003.
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Ha scritto Carola Susani19:
Danilo Dolci era un uomo carismatico, aveva la capacità di trascinare. Con gli strumenti della nonviolenza, dal dopoguerra agli anni Settanta, ha lavorato per trasformare la Sicilia occidentale, tentare uno
sviluppo, ma diverso, democratico; poi si è occupato di pedagogia, sperimentando quella che chiamava
maieutica reciproca. Parlando con chi l’ha conosciuto, si capisce che aveva qualcosa di potente e
ingombrante… Da quando nel ’52 si è disteso sul letto di morte di un bambino, a Trappeto, e ha
cominciato lo sciopero della fame, alla sua morte, nel 1997, ha suscitato passioni profondissime, conflitti,
violente rotture…. Mi sono fatta l’idea che il proprio carisma, la capacità e il desiderio di trascinare, il
proprio ingombro, fossero la bestia nera, il toro nella tauromachia privata di Dolci. Come se avesse intuito
che anche il suo potere nel gioco della comunicazione, finiva per trasformarsi in uno strumento di
sopraffazione. Che per tutta la vita abbia cercato, anche sbagliando, qualcosa di radicalissimo: un metodo
capace di permettere alla comunicazione di venir fuori dal campo della sopraffazione, di fondare la
democrazia, pensandola come il continuo, reciproco, rafforzamento delle potenzialità di ciascuno. Un
metodo che non possediamo già, ma che si impara. Certo non propongo la maieutica di Dolci come la
soluzione, ma mai come oggi la sopraffazione si gioca ovunque e in modo acutissimo nella
comunicazione, e allora forse andare a vedere che cosa Dolci ha da dirci è doveroso.
Il metodo di ricerca dolciano non si fonda soltanto sulla “narrazione” e sull’ ”incontro”, su uno
stile comunicativo originale, sulla capacità di suscitare consensi, ma anche su una visione positiva
dei conflitti all’interno e all’esterno delle organizzazioni. La scelta di Dolci si poneva come atto di
rottura sia sul piano etico- culturale, sia sul piano stesso del metodo sociologico. Ad una società
che si oppone alle identità individuali, che sovrastano l’individuo, tipiche delle ideologie degli anni
Cinquanta (il mondo diviso in blocchi), Dolci contrappone una società di individui, di soggettività
che producono eventi, ed interpretazioni di eventi, di storie ed interpretazioni di storie, di “mondi”
e di interpretazioni del mondo, produzioni di senso “uniche” e irripetibili, ma anche di grande
intensità emotiva. Così la mafia cessa di essere entità metafisica e astratta e viene riscoperta,
studiata e resa visibile come fatta da mafiosi in carne ed ossa, come oggetto di studio e di analisi
scientifica; la guerra è fatta da generali sulla base di determinati interessi; lo spreco è imputabile ad
19
Carola Susani, Non tutto è perduto: un ritratto di Danilo Dolci, “Gli altri”, novembre 2010. Si veda pure Nicola Giuliano Leone,
Tranne il lavoro, tutto scorre. Note sul Belice , in “Pianificazione”, 2 gennaio 2013.
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alcune classi sociali e a determinati gruppi politici etc. Così prendono corpo reale la lotta alla mafia,
i movimenti internazionali per la pace etc. La lotta contro lo spreco si traduce anche in iniziative
modernizzanti fondati sulla partecipazione come gli “scioperi alla rovescia” che diventavano
momenti di elaborazione e di indicazione politica.
L’immaginazione sociologica di Danilo e di collaboratori autorevolissimi come Johan Galtung,
travalica presto i confini nazionali proponendo, già allora la dimensione internazionale come quella
più idonea ad affrontare i problemi del sottosviluppo e della pace. Si può dire, da questo punto di
vista, che i metodi e le tecniche di Dolci hanno un respiro internazionale (“umanità mondiale”, i sud
del mondo, le povertà ecc.). Nei metodi e nelle tecniche vanno lette pure le trame dell’innovazione
politica che si esprimono non solo con una tensione ideale, carica di “immaginazione”, verso la
realizzazione degli obiettivi, ma anche con una grande capacità pratica di organizzare la visibilità, la
società civile. Questa spinta ad una partecipazione capace di guardare al mondo e di organizzare
una “visibilità” internazionale, non trascurava certamente i problemi del radicamento locale. Nella
teoria e nella pratica dolciana era presente un rapporto diverso, per molti versi inedito, col nostro
territorio, con l’esigenza di, pensarlo ed esprimerlo con occhi nuovi, di scoprirlo, di valorizzarlo
anche attraverso una nuova capacità di sapere collegare l’ambito locale a quello globale. Locale e
globale diventano aspetti fondamentali di inediti processi conoscitivi legati al territorio che
anticipano il dibattito attuale mettendo assieme un sapere territorializzato e un sapere globale
aperto ai mercati più vasti e alle culture diverse. Anche nella considerazione della, cultura, delle
culture, delle diversità, Danilo fu un anticipatore di teorie antropologiche contemporanee come
quelle di Clifford Geertz, per il quale non bisogna ridurre il rapporto tra culture “a modi di pensare
che riducono le cose a uniformità, omogeneità, concordanza di vedute e di consenso”20. “Dobbiamo
aprire il vocabolario della descrizione e dell’analisi culturale,- dice Geertz- affinché vi trovino
posto concetti quali divergenza, varietà e disaccordo”. E’ questo l’ambito in cui tracciare strategie
nuove e contestualizzate di sviluppo. Tutti questi aspetti coesistono nell’esperienza dolciana, non
congelati in una formula di “armonia prestabilita” ma anche in modo conflittuale, a volte con
strappi e rotture, facendo spesso emergere dalle “tensioni” la ricchezza delle “relazioni”. A questo
proposito, Galtung ha scritto: “Danilo suscitava conflitti. Molte volte era difficile amarlo, anche
20
Clifford Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo (1995), il Mulino, Bologna,
1999:53.
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perché spesso allontanava da sé quanti gli erano più vicini”. Ciò dimostra la vacuità di certi
etichettamenti o di certe scorciatoie valutative che appiattiscono l’originalità e la complessità di
quella esperienza e che non restituiscono l’anima viva dell’azione del sociologo triestino.
Certamente il pensiero e l’azione non violenta costituiscono momenti centrali nell’iniziativa di
Dolci, che fu soprattutto un innovatore, un’artefice della possibile modernizzazione della Sicilia.
Questa “atipica sociologia” di Dolci non poteva non incontrarsi, come vedremo più avanti, con il
grande giornalismo d’inchiesta e con l’azione modernizzatrice portata avanti da quel grande
laboratorio sociologico, fucina di grandi giornalisti e intellettuali che fu il giornale L’Ora.
L’immaginazione della Sicilia da reinventare nella pratica dolciana
non si è
limitata
all’astrazione, ma ad una serie di pratiche, di atti di responsabilità civili ( oggi si parlerebbe di best
practices ) che si sono tradotti costantemente in “azioni” ricche di potere trasformativo sul reale,
non soltanto sulla realtà sociale e politica ma anche sui comportamenti concreti, sui modi di vedere
e di fare le cose, sulla costruzione di società civile e di capitale sociale positivo, sulle biografie dei
soggetti e dei contesti. Altro aspetto fondamentale sul quale Dolci metteva l’accento era quello
della violenza diffusa che faceva leva anche sull’abissale vuoto conoscitivo sulle condizioni di
salute e di vita delle popolazioni siciliane e sulla prima violenza su di esse costituita dall’assenza di
pur minime politiche di risanamento igienico-sanitario:
In questa situazione, apriamo uno spiraglio sulla condizione di vita della popolazione, su quello che
pensa la popolazione, e guardiamolo pure a proposito di un argomento di cui si è parlato molto in questi
giorni, soprattutto dopo il bellissimo lavoro di Silvio, a proposito proprio dei vermi. Quando noi abbiamo
incominciato a domandare a Cammarata e anche a Palma, di questo, la gente era sorpresa della nostra
meraviglia, e ci diceva: ma come, tu non lo sai che senza i vermi non si può vivere, ma tu non lo sai che
sono i vermi che ci fanno campare?
Vi leggo qui quanto ho trascritto fedelmente dalla bocca di una persona della zona: voi mi direte se
corrisponde al pensiero della zona o non, o se vi corrisponde per gran parte. “I vermi travagliano,
vogliono mangiare. Tutti abbiamo i vermi. Mangiamo per noi e per i vermi. Tutti li abbiamo i vermi e non
ce ne accorgiamo... Ci servono, i vermi. Chi ne fa campare? ... Se uno non ha vermi, non può digerire,
muore. Il Signore lo vuole così il mondo; se non campano i vermi, nessuno può campare...”.
In una situazione del genere, come possiamo noi, piccolo gruppo di persone che lavoriamo
privatamente, con pochi mezzi, non su un piano di autorità, cercare di influire, come possiamo cercare di
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rompere la crosta? In un primo tempo, cerchiamo di individuare, di capire quali siano le zone omogenee,
cioè della stessa qualità, le zone omogenee da un punto di vista economico e da un punto di vista sociale,
cioè da un punto di vista dei rapporti degli uomini, dei problemi degli uomini. Cerchiamo di avere chiaro
quali sono le zone che hanno gli stessi problemi, per dirlo in parole semplici: allora voi vedete qua, c’é
una zona, per esempio di Partinico che è caratterizzata soprattutto dalla vite; la zona di Corleone,
montagnosa, con altri fenomeni; la zona di Roccamena, la zona soprattutto a frumento, frumentaria.
Capita la zona quale è, con i suoi problemi, in un secondo tempo cerchiamo di trovare quali sono i punti
nevralgici, quali sono i punti da cui si può iniziare un lavoro. Poi si cerca di penetrare come amici nella
vita della popolazione in modo che si pigli coscienza, con la popolazione, dei suoi problemi.
Ripubblicazione dei dati – si potrebbero chiamare le zone arretrate, oltre che sottosviluppate, anche “sotto
analizzate”: non si sa quasi niente di queste zone: ed è evidente come il sapere esattamente, il conoscere
esattamente i problemi se non è risolutivo, se non condizione sufficiente è certamente condizione
indispensabile21.
3.
Il cortile Cascino simbolo della povertà estrema, del degrado urbano e morale di
Palermo
Ma le condizioni socio-economiche e igienico-sanitarie di Palermo non erano certamente
migliori di quelle di Palma. Così Vincenzo Borruso, che fu collaboratore di Dolci, descrive il cortile
Cascino simbolo della povertà estrema, del degrado urbano e morale di Palermo:
Arrivammo a Cortile Cascino a bordo di una vecchia Moto Guzzi guidata da Danilo Dolci. Dopo le
presentazioni di rito il sociologo abbozzò un sorriso divertito. Lo avevano scambiato per un prete a causa
del suo giubbotto e del basco nero che indossava. Negli anni Cinquanta, Cortile Cascino era un ammasso
informale di casupole rabberciate che sorgevano tra via D' Ossuna e il Papireto. La gente che vi abitava
viveva raccogliendo ferro e cartone tra i rifiuti cittadini. Non c' erano fogne, né acqua corrente. Una città
invisibile che divenne presto una sorta di laboratorio di intervento sociale. Vi operarono, assieme a Dolci,
Alberto L' Abate e Goffredo Fofi22.
21
D. Dolci in Pasqualino Marchese, Romano Trizzino .(a cura di), 1960, Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone
arretrate della Sicilia occidentale, cit..
22
Vincenzo Borruso, Così Danilo insegnava a dare voce agli ultimi, la Repubblica 27 marzo, 2004
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Così il 18 dicembre 1956, il prefetto Migliore attaccava Danilo mettendo in discussione
l’autenticità dei digiuni che avevano visto impegnati, con Dolci, Lanza Del Vasto e altri «falsi
digiunatori» a Cortile Cascino e Cortile Scalilli al Capo e nei comuni di Partinico, Alia e
Bisacquino:
(…) il Dolci ha preso in affitto in questo Capoluogo per lire 5.000 mensili una casupola di un solo
vano, sito al n. 57 del Cortile Cascino, dove, unitamente ad un suo seguace, Fofi Goffredo (…), ha
iniziato uno di quei suoi presunti digiuni che non trovano credito nella popolazione, anche perché la porta
della casupola, dove in atto il Dolci alloggia, ogni sera viene chiusa per essere riaperta il mattino
successivo. Egli viene visitato da pochissime persone appartenenti tutte ai partiti di sinistra (…), mentre la
gente del rione (uno dei più poveri e malfamati) dimostra chiaramente di non gradire il suo non richiesto
sacrificio. Le donne lo canzonano arrecandogli cibo confezionato ed invitandolo a desistere23.
Su La voce della Sicilia del dicembre 1956 scriveva Francesco Renda:
Cosa sia il cortile Cascino non è facile a dire, ma più che di cortile, forse sarebbe più appropriato
parlare di quartiere, dove abitano centinaia di persone in ambienti del tutto simili a quello scelto da Dolci
come provvisoria residenza. Un quartiere situato a fianco del nuovo palazzo di giustizia, alle spalle della
cattedrale, del Palazzo di Normanni dove ha sede l’Assemblea regionale e del Palazzo d’Orleans dove ha
sede la Presidenza della Regione; dunque nel cuore di Palermo. L’orrido del cortile Cascino è così
completo, tanto nell’insieme che nei dettagli, ed il contrasto si presenta così stagliato tra il cortile e i
palazzi di nuova costruzione, da persone che la più abile scenografia cinematografica non avrebbe potuto
inventare qualcosa di più “perfetto” per una ripresa di esterno.
23
Citato da V. Schirripa, La costruzione narrativa del «caso Dolci» nei fascicoli del ministero dell’Interno, in Educazione
Democratica, n. 2 /2011, pp. 149-159. Scrive Schirripa:
“Lo strumento del digiuno, utilizzato in maniera poco conforme alle rigorose obiezioni metodologiche avanzate da Capitini5,
conferiva originalità e riconoscibilità alle iniziative di Dolci, le caratterizzava; ma poteva costituire anche un punto debole, al
momento in cui era percepito come un uso politico del proprio corpo estraneo alla sensibilità di molti dei suoi sostenitori potenziali o
effettivi, che lo accettavano con difficoltà; una stravaganza6, sulla cui credibilità era fin troppo facile, per gli avversari, ironizzare.
Qui, al netto della parzialità della fonte e delle relative distorsioni, la sensibilità della parte più diffidente e ostile della popolazione
dei rioni si incontrava con quella di una buona fetta dell’opinione pubblica locale, soprattutto di una borghesia del capoluogo che
trovò facilmente conforto nella convinzione che ci fosse sotto qualcosa di poco chiaro.
I rapporti prefettizi esprimevano pienamente quest’ultimo punto di vista” e si facevano portavoce di una rappresentazione della
realtà locale che si voleva più vera, alternativa a quella romanzata della stampa e degli intellettuali progressisti (V. Schirripa, La
costruzione narrativa del «caso Dolci», cit.
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Già da anni Dolci studiava il degrado palermitano, tanto che nel ‘55 pubblica su Nuovi
Argomenti24, la rivista diretta da Moravia e Carocci, che ospitava fra l’altro il primo capitolo de La
Ciociara, dei racconti autobiografici di ragazzi che vivevano negli ambienti degradati di Palermo,
in pratica il disegno della ricerca di Inchiesta a Palermo, per la quale otterrà nel ‘58 il premio
Viareggio. Dolci subisce dal Ministero degli Interni, presieduto da Tambroni, il ritiro del
passaporto, con l'assurda motivazione di avere con le sue opere diffamato l'Italia all'estero, e un
processo a porte chiuse, più che mai immotivato, per pornografia. Sotto accusa erano alcune parti
del racconto di un giovane borseggiatore, Gino O.:
Tante volte per far “lavorare” bene i picciotteddi, gli promettevano che li avrebbero portati ai casini.
Una volta ci hanno portato in quattro in camera da una donna che dedicava le sue opere particolarmente a
questi bambini: essa si getto nel letto supina […] Lasciamo stare queste cose che ripugnano, che
altrimenti dovrei dire che certe volte a chi faceva la spia li inculavo per sfregio, ecc.ecc. …
Una volta, in una città, eravamo in tre, abbiamo incontrato una donna che poi portammo all’albergo. Io
avevo un quattordici anni, gli altri erano maturi. Prima ci andarono gli altri, per ultimo io ci passai la notte
e questa mi ha fatto raccontare cosa facevamo. La mattina dopo, questa è sparita senza farsi pagare. E ci
siamo accorti, quando la polizia ci ha arrestato, che la polizia sapeva quanto io avevo raccontato alla
donna25.
In difesa di Dolci e Carocci intervengono personalità del livello di Ferruccio Parri, Giulio
Argan, Vasco Pratolini, Lucio Lombardo Radice, Alberto Mondadori. I. Silone, V. Arangio-Ruiz,,
C Antoni e G. Calogero nel volume Italia a porte chiuse. Inchiesta sociale od oltraggio al pudore?,
spiegavano il valore scientifico di Inchiesta a Palermo, della libertà di ricerca26 e il conseguente
significato profondo della protesta che Ignazio Silone motivava così:
24
Fascicolo del novembre 1955- febbraio 1956.
Da Danilo Dolci, Racconti Siciliani, Einaudi, Toriino, 1963: pp-99-100. In difesa di Dolci cfr. I. Silone, V. Arangio-Ruiz,, C
Antoni e G. Calogero Italia a porte chiuse. Inchiesta sociale od oltraggio al pudore? In merito al processo Dolci Carocci,
Associazione italiana per la libertà della cultura, Roma 1956.
25
26
Sui temi della ricerca sociale e del rapporto tra sociologia e narrazione popolare, sia consentito rinviare a Salvatore
Costantino (a cura di), Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la costruzione della
società civile, Editori Riuniti, Roma, 2003, e a Salvatore Costantino e Aldo Zanca prefazione a Una sicilia
“senza”.Gli atti del Convegno di Palma Montechiaro del 27-29 aprile 1960 sulle condizioni di vita e di salute in zone
arretrate della Sicilia occidentale,curati da Pasqualino Marchese e Romano Trizzino, a cura di Salvatore Costantino e
Aldo, Franco Angeli 2014. Si veda inoltre Giacomo Parrinello, Chi gioca solo e chi no. Ricerca sociale e azione
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Protestiamo perché la condanna di Dolci e Carocci getta un’ombra sulla nostra libertà di scrittori,
specialmente di quelli fra noi che hanno consacrato la loro vita all’indagine della società in cui vivono e
che a nessun costo sono disposti a rinunziare a questo loro diritto, come non vi rinunziarono sotto il
fascismo, preferendo alla rinunzia, il carcere o l’esilio27.
In appello queste alte motivazioni a difesa di Dolci e Carocci vennero riconosciute e Inchiesta a
Palermo otterrà nel ‘58 il premio Viareggio e, nello stesso anno, il Premio Lenin per la pace, i
proventi del quale verranno utilizzati nella fondazione del Centro Studi e Iniziative a Partinico.
Nel novembre del 1957 si svolge a Palermo il "Congresso per la piena occupazione"28, cui
partecipano Alfred Sauvy, Bruno Zevi, Giorgio Napolitano, Paolo Sylos Labini, per affrontare il
problema della gravissima situazione occupazionale e Dolci attua l'altro significativo, drammatico
digiuno con Franco Alasia a Cortile Cascino.
4.
L’incontro con L’Ora
Era inevitabile che l’“atipica sociologia” di Danilo Dolci si incontrasse con il grande giornalismo
d’inchiesta e con l’azione modernizzatrice portata avanti dal giornale L’Ora che lanciava
quotidianamente la sua sfida al sistema di potere siciliano. Come spiega Roberto Ciuni :
Il monolite di potere che dominava l’isola da dopoguerra s’avviava a sbriciolarsi nell’indignazione
generale. Fatto di industriali dello zolfo in via di fallimento, di latifondisti derubati dai sovrastanti
mafiosi, di parlamentari arroganti a casa e ascari a Roma, della Chiesa cieca e muta del cardinale Ernesto
Ruffini, non reggeva più. Nella Dc, i cosiddetti “giovani turchi” di Fanfani – Nino Gullotti, Giovanni
Gioia, Salvo Lima – si muovevano contro i notabili Bernardo Mattarella, Franco Restivo e Mario Scelba
sbandierando il rinnovamento. Escluso, però, qualche idealista ben presto accantonato, erano animati solo
democratica in Sicilia, 1952-1968, in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea. Dossier: Luoghi e non luoghi della
Sicilia contemporanea: istituzioni, culture politiche e potere mafioso, N. 3, 2|2010.
27
Intervento di I. Silone, V. Arangio-Ruiz,, C Antoni e G. Calogero Italia a porte chiuse, cit.:21.
Cfr. Una Politica per la piena occupazione. A cura di D. Dolci. [Papers read at the congress organized by D. Dolci at Palermo, 13 nov. 1957,Einaudi, Torino.
28
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dall’avidità. Tutto si prestava, giornalisticamente parlando, ad “aggredire la città, frugare tra le sue
piaghe” (Giuliana Saladino). E L’Ora di Nisticò aggredì e frugò…29
Da quel
“palazzotto” di Piazzale Ungheria nel quale arriva Vittorio Nisticò nel 1954, si
cominciò sul serio a fare un giornalismo ben diverso da quello “elegiaco” dominante, “pigro e
codino”, così ben descritto da Ciuni :
Nel 1954, all’arrivo di Nisticò, la città leggeva ancora mafia con due effe alla maniera ottocentesca –
maffia – e, nel caso della fine sanguinosa del ras criminale Gaspare Ponente, titoli tipo: “Commerciante
ucciso a fucilate all’interno di un’automobile”. Dalla prosa dei cronisti, sembrava sempre che la violenza
rompesse atmosfere elegiache: “Una scarica di fucile caricato a lupara echeggiava ieri sera nel silenzio
della via Filippo Corazza…”. Si faceva finta di non vedere le realtà più evidenti. Nell’immediato
dopoguerra s’era dovuto attendere uno scrittore di gialli americano, Mike Stern, per scalare le quattro
balze di Montelepre e intervistare il bandito separatista Salvatore Giuliano. Poi nel 1950, c’era voluto il
milanese Tommaso Besozzi per mettere in dubbio la dubitabilissima versione ufficiale della sua fine (“Di
sicuro c’è solo ch’è morto…”). E c’erano voluti due ragazzi assunti da Alfio Russo a La Sicilia di
Catania appena fondata, Salvatore Nicolosi e Giuseppe Gennaro per testimoniare de visu i conflitti tra le
bande che scorazzavano per l’isola e i reparti d’esercito che le inseguivano.Il giornalismo palermitano
non intendeva muoversi, nemmeno per andare ad assistere alla guerriglia dietro casa: pigro e codino,
continuava a parlare di “onorata società”, metteva un ruffiano S.E. da vanti ai nomi di, ambasciatori.:
ministri, prefetti, sottosegretari, magistrati, generali. Raccontava un’isola lontanissima dalla realtà vissuta
della gente – fatta di miseria, ribellioni sociali, delinquenza, catastrofi, emigrazione verso le miniere del
Belgio – trattando indicibili tragedie collettive alla stregua di incidenti30.
29
Roberto Ciuni, Il maestro di piazzale Ungheria, in Era L’Ora, il giornale che fece storia e scuola, X, 2011:47-48
Ivi:43-44. A proposito del termine maffia con due effe scrive Mario Genco:
. «Alla fine dell'Ottocento l'analisi sulla mafia registrò una svolta: la Maffia perdette una effe. Poca cosa, si dirà: ma l'esile
consonante caduta scrostò dalla parola l'indefinibile e tenace patina di ambiguità semantica che induceva ad assegnare il fenomeno
più al mito che alla realtà. Da allora in poi, e tranne poco significative nostalgie, si disse e si scrisse mafia. La sospetta tenacia con
cui Pitrè disquisiva della parola invece che del fenomeno, fruttò se non altro un sostanziale risultato linguistico.
Anche i libri di Alongi e Cutrera perdettero la effe, tra un'edizione e l'altra. Per il resto, la situazione rimase qual era stata: cioè di
grande confusione. Che cos'era la mafia? Chi insisteva sui "fattori" antropologici, chi su quelli razziali e perfino metereologici, chi
metteva in risalto cause storiche o economico-sociali. Era un'associazione unica con articolazioni territoriali, o non piuttosto una costellazione di cosche — la parola si usava anche allora — indipendenti? C'erano veramente l'alta mafia "in guanti gialli" e la bassa
mafia? Era una setta con regole consacrate e spietate; o un modo di interpretare la vita alla siciliana, senza preoccuparsi troppo delle
leggi vigenti nel resto del paese? I rapporti tra mafia e politica: come definirli? Esistevano poi? [...]
Alongi che era scrittore più fine, socio-criminologo più acuto, poliziotto più accorto, se la cavò con l'uso dell'imperfetto e del passato
prossimo: il governo di cui scriveva era sempre il ' ' passato governo " e le sue non frequenti incursioni nell' attualità avevano un
obiettivo preciso: il malgoverno comunale, cioè il gradino più basso del malaffare politico. Cutrera era scrittore più rozzo,
criminologo più istintivo che riflessivo, poliziotto abile ma assolutamente incauto: anche lui partiva con il passato prossimo o remoto
30
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Con la crisi del governo Milazzo e con la successiva “normalizzazione” della Regione L’Ora
non ebbe più l’esclusività degli anni precedenti, ma, con la guida di Nisticò seppe conquistarsi un
ruolo di grande prestigio anche sul piano internazionale:
Il palazzetto di via Stabile e piazzale Ungheria fini per assumere il ruolo di centro di documentazione
della Sicilia: vi si incontravano inviati speciali dei maggiori giornali del mondo, grandi viaggiatori venuti
a sondare la “specialità” di un’isola trasgressiva, contemporaneamente mafiosa e antimafia, unitaria e
autonomistica, che sapeva produrre Il Gattopardo e Luciano Liggio, Leonardo Sciascia e delinquenti
cosmici31.
5.
Dolci, Nisticò, Sciascia
Danilo Dolci inizia a collaborare con L’Ora nel 1955, mentre qualche mese prima, il 23 marzo
del ’55 era apparso il primo articolo di Leonardo Sciascia, ancora poco conosciuto (Le parrocchie
di Regalpetra uscirà nel ’56): una nota su un libro di Vittorio fiore: Ero nato sui mari del tonno.
Nisticò, “magro come un chiodo”, che “nascondeva la ritrosia dietro occhiali da sole così grandi che
il volto giovanile, minuto, pallido, barba rada mal rasata, sembrava per buona metà scomparso”32,
come lo descrive Roberto Ciuni, non manca di sottolineare la diversità di presenza e carattere dei
due scrittori:
Pochi mesi dopo Sciascia, iniziava la collaborazione anche Danilo Dolci, intellettuale apostolo,
radicalmente diverso da Leonardo, che da illuminista siciliano e antipopulista per vocazione qual era, non
ne sopportava né la “filosofia” né la predicazione. Inoltre, per quanto Sciascia era sobrio e riservato, quasi
timoroso di infastidire, Dolci era di un attivismo spesso ingombrante, e non solo per le notevoli
dimensioni del suo fisico. Poiché la sua collaborazione si protrasse per l’intero periodo della mia
direzione, sia pure con lunghe parentesi dovute ai suoi frequenti viaggi all’estero ebbi occasione di non
e immancabilmente finiva con l'usare il presente, trascinato dall'urgenza della "notizia", dal gusto — diciamolo pure — della verità»
(Mario Genco, Il Delegato, Palermo, Sellerio, 1991: 22-23).
31
32
Ivi, pp. 50-51.
Roberto Ciuni, Il maestro di piazzale Ungheria, cit. 45.
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pochi incontri con lui. Arrivava puntualmente con una grande borsa gonfia di carte, estraeva la sua brava
agenda, e punto per punto, sviluppava con veloce eloquio ma dettagliatamente quanto aveva da riferire sul
tema che lo interessava e sulle singole puntate che pensava di scrivere. Da seguace di quella divinità che a
quei tempi era la Pianificazione, stella polare dei paesi socialisti, Dolci era un accanito pianificatore anche
con se stesso. Sebbene ne avessi stima e rispetto, finì che non riuscivo e non avevo neppure il tempo di
seguirlo. Come si accorse lui stesso, e una volta annotò nel suo diario, lo guardavo ma senza ascoltarlo.
Mentre da molti parti si osannava il cosiddetto miracolo economico profonde trasformazioni
negative stavano travolgendo la Sicilia:
La Sicilia s’era placata. Priva di passione politica, la piccola (e una volta timorata) borghesia
sicilianista – il bacino milazziano era stato li – fu taciuta con piogge di denaro della Regione, tonnellate di
cemento tacitarono i benestanti, i contadini si tacquero da soli salendo sui treni diretti al Nord. Resto da
scrivere nella storia della nostra stampa, che insieme a Il Giorno, L’Europeo e L’Espresso. L’Ora di
Nisticò era stata una delle testate protagoniste dell’ammodernamento professionale del giornalismo
italiano. Chissà se qualcuno lo farà mai. Pensando di non avere bisogno di giornali collaterali quanto
prima, il Pci strinse i cordoni della borsa. La speranza di Enrico Mattei, editore dell’Ora, di esaltare il
petrolio trovato a Gagliano, morì, insieme a lui nell’aereo caduto a Bascapè. E arrivò, in un contesto di
veleni, il caso De Mauro33.
Eppure da questo grande intreccio di idee e di progetti, la Sicilia dell’azione non-violenta, delle
lotte per lo sviluppo era riuscita ad assumere respiro culturale e visibilità nazionale e internazionale.
Come recita un bel verso di un grande poeta siciliano, Lucio Piccolo, la speranza sembrò allora
“diventare suono d’ogni voce”.
6.
Johan Galtung parla di Danilo Dolci come “inventore sociale”
Johan Galtung, il grande sociologo e matematico norvegese, principale fondatore delle discipline
sulla pace e sul conflitto, che per tanti anni collaborò col Centro Studi e iniziative, parla di Dolci
33
Ibidem, pp. 51-52.
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come “inventore sociale” e insiste su quattro aspetti della sua azione che possono essere assunti
come punti di riferimento dell’intera azione del Centro. Il primo è la formazione della coscienza:
E qui vi è Danilo maestro maieutico. Colui che lancia il dialogo, un dialogo intorno al quale egli ha
naturalmente delle idee, un po’ di conclusione personale, ma nel quale egli è pure molto preparato a
lasciare che essa non condizioni ed entri invece con naturalezza nelle conclusioni degli altri, nel metododialogo che impone di non predicare ma piuttosto di ascoltare34.
Nella situazione ostile e difficile della realtà siciliana, Dolci avrebbe concepito e realizzato un
laboratorio e avrebbe fatto dell’espressione di Colin Ward uno degli orientamenti della propria
pratica a forte valenza territoriale. “Tutto dev’essere reinventato”, era stato infatti il monito
caratterizzante il movimento inglese intorno alla rivista Freedom. Questo, insieme ai contatti con il
movimento italiano di “Comunità” di Adriano Olivetti, aveva permesso la collaborazione con Carlo
Doglio e Giancarlo De Carlo per ricercare ed esperire quella prassi del territorio come proposta di
intervento “ecologico” riproponendolo come casa dell’uomo che avrebbe caratterizzato la
straordinaria vicenda de “La fionda sicula”.
Il secondo è l’organizzazione: Danilo era maestro d’organizzazione e di strategie operative.
Straordinaria era la già ricordata capacità di suscitare i conflitti, di risolvere i problemi e di tessere
dal punto di vista organizzativo una rete internazionale.
Il terzo è il confronto: analizzare, selezionare i conflitti e scegliere le strategie d’azione. La
ricerca di forme efficaci di organizzazione attraverso processi orizzontali di influenza, mediante la
valorizzazione di voci di dissenso creativo, hanno permesso all’esperienza di Dolci di coniugare in
modo originale il problema ecologico come costruzione conflittuale di spazi per vivere. Da qui
nasce lo “sciopero alla rovescia” con il quale Dolci conquista un ruolo importante nella storia della
non-violenza.
Non si tratta di marciare in duemila persone, bandiere al vento – dice Galtung –: questo è forse
bello, ma non porta a cambiamenti reali. Si tratta invece di costruire, utilizzando lotte che
costruiscono, come protesta35.
34
35
J. Galtung, I gradini della nonviolenza, cit.
Ibidem.
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Il quarto è la lotta non violenta per la costruzione della società civile. L’azione non violenta,
anche come scandalo, è stata da Dolci concepita come ricerca-azione mirata a cogliere gli spazi di
possibilità all’interno di situazioni anche anguste ed estreme. Ricerca e azione sono state però, per
Dolci, non soltanto un espediente strumentale e metodologico, ma un modo per praticare esperienze
di vita ricche e improntate al dialogo all’agire comunicativo.
Un modo per cercare le condizioni dell’arricchimento dei mondi vitali con una costante
attenzione a recuperare il mito, il linguaggio, le esperienze reali delle persone con la loro sofferenza
e il loro desiderio, con le loro paure e le loro passioni nelle situazioni quotidiane, anche attraverso
l’ascolto delle “storie di vita” divenuto, in anni successivi, un metodo di ricerca sociale incentrato
sulla comprensione del cambiamento e, soprattutto, della rappresentazione fenomenologia del
cambiamento, dando quindi rilievo non ai “fatti” astrattamente intesi, ma ai loro nessi e ai
“processi” non sterilizzati da analisi sociologiche meramente quantitative ma tese a cogliere la
“costruzione degli eventi” attraverso la selezione che opera il ricordo, la memoria, il “racconto”
stesso.
La costruzione della società civile, l’arricchimento dei mondi vitali e l’organizzazione di reali
circuiti e relazioni comunicative si lega in questo modo a quella che Charles Taylor definisce36
“promozione di una politica del potenziamento della democrazia”.
7.
L’inchiesta a Palermo
La situazione abitativa nelle città spesso era peggiore di quella dei più arretrati centri agricoli.
Dice Simone Gatto, deputato socialista, nella sua relazione al convegno di Palma:
interesse presenta anzitutto Palermo, sul cui capoluogo pesa la persistenza di grosse zone cittadine in
condizioni ancora peggiori dei paesi dell’interno, mentre tale inversione dai dati si presenta in misura
minore per Messina dove parte della popolazione vive ancora nei baraccamenti del 1908 e dove le
distruzioni belliche hanno particolarmente infierito; Trapani dove ancora nel ’56 migliaia di abitanti
vivevano in alloggiamenti di fortuna spaventosamente antigienici; Enna, capoluogo di recente
36
C. Taylor (1992), trad. it. Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994.
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costituzione, le cui caratteristiche sono ancora in gran parte quelle del grosso ed abnorme borgo rurale,
che incontriamo in tutta la zona del feudo. […]
Vivere in alcuni quartieri di Palermo è, per la prima infanzia, almeno altrettanto difficile che in paesi
della zona interna della provincia di Caltanissetta; vivere nel capoluogo di quest’ultima è meno difficile
che vivere alla Kalsa.
E aggiunge che a Palermo chi è qualificato come operaio vive nel più dei casi in condizioni
ancora peggiori del bracciante agricolo.
Nella sua relazione dice Ludovico Consagra:
La popolazione dei miseri e dei disagiati rappresenta [a Palermo] il 47%, circa e abita in quartieri
popolari tradizionali: dal Cortile Cascino alla Kalsa, dal Capo a San Pietro, da Ballarò ai Danisinni, dalla
Zisa all’Albergheria a Fondo D’Anna, in un super affollamento, in una promiscuità, in catoi o in
bindoville che fanno mostra al largo Macello o dietro l’Università o lungo la Circonvallazione ed
ovunque ci sia un terreno abbandonato o in macerie dell’ultima guerra come in via del Porto».
Di alcuni quartieri di Palermo, come la Kalsa e il Cortile Cascino, solo con difficoltà si può
immaginare l’effettiva realtà. Certi pur magistrali tentativi di rappresentarla, come il famoso “Children of
fate”, ribattezzato “Un destin sicilien”, il film documentario, girato nell’arco di trent’anni da Robert
Young e poi dal figlio e dalla nuora, sulla vita di Angela, una donna del Cortile Cascino, forse per un
senso di pudore e di dignità da parte degli autori e della protagonista, danno un’idea solo approssimativa
dell’abiezione in cui si viveva in questo ghetto urbano.
Il Cortile Cascino era una vasta area che si estendeva tra il Corso Alberto Amedeo, Via D’Ossuna e
l’attuale Via Imera ed era attraversata dalla ferrovia, oggi sotto galleria, che andava dalla Stazione
centrale alla Stazione Lolli, ormai dismessa. Solo piazza Indipendenza separava la zona dalla magnifica
sede dell’Assemblea Regionale, l’ex Palazzo Reale. Dall’altro lato del Corso Alberto Amedeo c’è ancora
un’enorme caserma dei Carabinieri e, a due passi, la Cattedrale. Si sentiva lacerante lo stridore di questo
contrasto tra lo splendore e la magnificenza dei luoghi del potere e questa corte dei miracoli.
Duecentoquaranta famiglie vi vivevano in case peggiori di quelle di Palma di Montechiaro, non
c’erano fogne e due, tre fontanelle dovevano servire per tutti. Si guadagnava qualcosa vendendo ferro,
cartone e cenci raccolti dai rifiuti cittadini o anche raccattando i mozziconi di sigarette e vendendone il
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tabacco esposto per terra a mucchi su un foglio di giornale. La promiscuità, non solo abitativa, era
impressionante.
Un’altra fonte di guadagno era la prostituzione che veniva praticata la sera all’aperto con qualunque
tempo. Lo spazio destinato era una spianata adiacente al Corso Alberto Amedeo. La tariffa era di 300 lire.
Dalla strada si vedeva tutto. Questo è un aspetto che stranamente non viene riportato nelle varie
testimonianze o addirittura negato.
Ecco la testimonianza di Carlo Levi:
Al numero 50 di corso Alberto Amedeo, tra il Cortile Cascino e il Cortile Lo Cicero, questa
indescrivibile spelonca, sull’imbocco seminascosto di una scala che scende verso tuguri miserabili, c’è
scritto come il nome grazioso di un quartiere o di una villa «Pozzo della morte». E sul muro, in calce
rossa (perché i tutori dell’ordine non possano portarla via, come farebbero con dei cartelli), in caratteri
stampatelli, si legge «Oltraggiati da chi comanda, ci impongono di stare in silenzio. Facciamo un appello
al popolo che venga in nostro aiuto… Abbiamo sentito parlare di Siberia: qui altro che Siberia, qui ci
fanno morire». […]
Scendiamo tra le sordide baracche del Cortile Cascino, fra quella popolazione di senza lavoro, di
cenciaiuoli, di gente che non si sa come possa vivere. […]
Mostrano le loro case, se così possono chiamarsi quegli antri, dove in pochi metri quadrati stanno
insieme 2, 3 famiglie, 8, 10, 15 persone, con i bambini, i malati; inventando, per potere giacere nel letto
tutta un’arte di incastro e di sovrapposizioni, dove diventa un problema lo spazio stesso dei corpi […].
Raccontano le loro attività (la raccolta dei cenci e delle immondizie, il lavoro saltuario nel Cantiere
[navale], con le ditte appaltatrici, o come panettieri, o muratori, con salati ridotti, senza provvidenze,
assicurazioni, né assegni familiari, né Mutua, né assistenza); raccontano i soprusi del collocamento, le
attese (anni e anni pei marinai per l’imbarco), l’opera dei «mangiatari», la mancanza totale di sicurezza
dell’esistenza; raccontano i ripieghi a cui sono costretti per vivere37.
Ormai da tempo è stato tutto spianato e lì ci sono palazzi, una scuola, un campo di calcio e
attività commerciali. La palazzina sul Corso Alberto Amedeo dove c’era l’ingresso del “Pozzo della
morte” è stata ristrutturata. La taverna Riccobono, che dal 1949 al civico 43 di via D’Ossuna aveva
37
C. Levi, Il dovere dei tempi: prose politiche e civili, Donzelli, Roma 2004, p. 175.
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ospitato gli uomini del Cortile che lì passavano le ore giocando al “tocco”, è oggi un’accogliente
trattoria orgogliosamente denominata “I cascinari”.
Il Cortile Cascino ha goduto di notorietà per via dell’attenzione che gli hanno dedicato molti
osservatori e operatori sociali, a cominciare da Danilo Dolci, ma questa condizione esistenziale era
largamente diffusa negli “intermundia” della parte “normale” e “civile” della città di Palermo, ma
del tutto all’interno del tessuto urbano.
Sotto molti aspetti le condizioni erano peggiori di quelle dei centri nelle zone rurali, dove magari
non si registravano quei fenomeni di degrado morale che invece erano presenti in città: qui
l’estrema difficoltà di guadagnarsi da vivere poteva spingere verso soluzioni come la prostituzione e
la criminalità.
Punto di riferimento obbligato sull’argomento è Inchiesta a Palermo di Danilo Dolci38, da cui
citiamo:
Qui sono stati accertati, dalle autorità igienico-sanitarie, 40 casi di tifo petecchiale nel 1945. Da allora
niente è cambiato.
I nudi, sudici bambini che giocano sulla ferrovia e nel fango, è quanto più impressiona a prima vista.
Cinque costruzioni scalcinate di due o tre piani, e baracche a sud; tre fabbricati a due o tre piani a nord:
tutti con umide mura brulicanti di cimici, scorpioni e scarafaggi.
Diverse donne per la strada, intente, spidocchiano la testa di un parente o di un vicino. Due o tre
fontane. Qualche «maaría» sulla porta.
Gli scoli, nel cortile Cascino propriamente detto, si raccolgono in uno spiazzo fetido. Se d’estate
grande è sempre il pericolo del tifo, d’inverno nelle case più basse c’è da morire annegati. Una decina di
locali, i più sottoposti, hanno porte, e talvolta finestre, protette da ripari in muratura alti circa settanta,
ottanta centimetri, perché la fogna, quando piove, non inondi le case.
Tutte le costruzioni sono assolutamente inabitabili; in alcune, dai muri sfatti, è troppo pericoloso
starci. […]
Essendoci un gabinetto in una sola famiglia («gli uomini puliti vanno sulla ferrovia»), in ogni stanza
preparano da mangiare, mangiano, «fanno tutti i bisogni corporali», di media, persone 4,2339.
38
39
D. Dolci, Inchiesta a Palermo, Einaudi, Torino 1956.
Ibidem, pp. 233 e 235.
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Antonia R. dice:
Me cugnatu e me ziu nésciunu matina matina, e vanno fora sulla ferrovia; per fare i bisogni, c’è la
ferrovia. Invece noi sei, nel rinale tutte cose. E poi buttiamo fora»40. Una donna e Francesco M. dicono:
«Ci sono surciuni, topi, che non ponno finire. Rosicano quello che trovano, pane, mutande, camicie. A
una picciridda ci rusicaru la testa e muríu. Oggi all’anno, ne morsero assai, picciriddi. Per la puzzura. Una
ventina ne morsero in un mese. Ora ora muríu u picciriddu di me cumare. Figlio meo come faceva so
patri!? Da la puzzura vennu le malattie. La vede chissa?: ha la bronchite sempre41.
Non diversamente andava al Capo, dove:
100 famiglie (576 persone) stanno in 80 abitazioni, di complessivi 91 locali. Media delle persone per
locale: 6,33. […]
Una famiglia sola ha un vero gabinetto: le altre scaricano da una fogna che spesso s’apre sotto la
cucina; 14 hanno l’acqua ma […] d’estate questa acqua patronale tocca alle piante42, non ai «cristiani».
49 hanno luce elettrica regolarmente; 2 i pavimenti di terra, 79 pavimenti di piastrelle rotte, 1 di
cemento: gli altri, buoni.
Tutte case da demolire e da rifare43.
Nei Racconti siciliani Danilo Dolci così descrive la misera vicenda quotidiana degli abitanti del
cortile Cascino44 con le parole di Ignazio:
Qui nel cortile cascino (via D’Ossuna, cortile Grotta), non abbiamo mai lavorato nessuno nei cantieri
perché non abbiamo avuto mai lavoro. Siamo tutti cenciaioli in generale, i maschi; le donne lavandaie.
Qualche giovane ha trovato lavoro per qualche tempo, qualche cantiere: ma quando, dopo poco, lo
lasciavano a spasso tornava a fare il cenciaiolo che almeno era quasi continuo.
40
Ibidem, p. 238.
Ibidem, pp. 243-244.
42
All’epoca all’interno della città esistevano numerosissimi orti, frutteti, agrumeti e anche stalle.
43
D. Dolci, Inchiesta a Palermo, cit., p. 195.
44
In seguito al “Congresso per la piena occupazione” (1957), cui partecipano Alfred Sauvy, Bruno Zevi, Giorgio Napolitano, Paolo
Sylos Labini, si verifica l’altro significativo, drammatico digiuno di Danilo e Franco Alasia a Cortile Cascino (è da ricordare in
questa occasione la visita del già citato celebre giornalista e scrittore Robert Young), per denunciare lo stato di miseria (da lui
illustrato anche in Inchiesta a Palermo) in cui gli abitanti erano costretti a vivere, e per chiedere una politica della casa più
coraggiosa. In seguito a questo digiuno ed al lavoro fatto in uno dei cortili più famigerati, il già citato Cortile Cascino, questo verrà
risanato.
41
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Circa sett’anni fa, circa dieci persone morirono qui di tifo: come infatti siamo stati esiliati nel cortile
dai carabinieri, che il cortile era infettivo: nessuno doveva uscire. C’era la sporchezza, fango, rifiuto di
pozzi neri; ci sono le donne che al mattino i rifiuti corporali li buttano sulla ferrovia vicina, ma certe
donne buttano lì davanti nello spiazzo che fa il posto di concentramento dell’acqua morta. (A tempo
d’inverno vengono i pompieri, tanto si alza l’acqua e il fango: ma i pompieri dicono che non c’è niente da
fare: tirano solo fuori un po’ d’acqua, la succhiano dal fondo delle case e vanno via). Questo tifo
pidocchiale che è venuto, è venuto più di una volta: un’altra volta sono morte due persone, di tifo, e
ammalate diverse decine di bambini. Soprattutto i bambini morivano di tifo.
Quando ci hanno esiliati i carabinieri, che nessuno poteva uscire fuori, ci portavano da mangiare,
sonavano la tromba. E ci venivano centinaia di persone con le latte, queste che ci mettono la conserva,
pentole e così, e ci mettevano in coda, in riga come i militari. Ci davano da mangiare perché non
potevamo uscire e andare a lavorare. Per i bisogni corporali andavamo sempre, per forza, nel cortile o, se
c’era qualche carabiniere buono, ci lasciava andare sulla ferrovia. Nel mangiare, poi, c’era una specie di
medicinale per disinfettarci i corpi: e doveva essere purgativo perché tutti i millecinquecento, maschi e
donne, avevano il corpo sciolto [diarrea].
Il tifo, per forza doveva venire: perché le sporchezze erano troppe, le case sono strette, senza acqua, e
ci stanno otto, dieci, dodici persone per stanza: piccole celle, la maggioranza con pavimento di terra, e
certe sono grotte, In certe case per sedersi usano pietre o latte di conserva. Pidocchi a quintali. Quando
sono morti quelli là, erano pieni di pidocchi che facevano paura. Sono venuti a portare delle polveri
disinfettanti e le buttavano dentro le abitazioni, sulle strade, e anche andavano gli uomini e le donne così
vestiti, e ci aprivano la camicia e quelli ci buttavano la polvere dentro. Anche quest’inverno passato c’è
stato la pioggia potente e si sono riempite parecchie case e sono venute delle autorità a guardare e se ne
sono andate via. La gente mettevano sui carrettini materassi, cuscini, quei pochi stracci che avevano, e
andavano in giro a cercare abitazione, con gente di altri quartieri, presentandosi alla legge. Tutti questi
fuori di casa, l’hanno riuniti tutti e l’hanno portati nelle stanze vuote del mercato, Centinaia di persone
messe tutte assieme: come si mettono i cavalli in scuderia. Gli uomini in un posto, le donne dall’altro.
Dormivano a terra, con soltanto qualche coperta. Sono stati qualche quattro o cinque giorni. Insistevano
per avere qualche abitazione. Gli regalavano 1500, 2000 lire ogni famiglia e li rimandavano da dove
erano venuti. Perché dice che case non ce n’erano.
Noi uomini alla mattina, tutte le mattine, chissà quando (mi ricordo, anche la buonanima di mio
padre), andiamo a fare i nostri bisogni corporali sulla ferrovia. Certe volte vengono i metropoli di servizi
e ci danno la multa: 2500 lire. Dobbiamo pagare a caro prezzo pure fare i servizi corporali. Le donne
fanno a casa sua nella stanzetta. I bambini fanno o in giro o sulla ferrovia: sei mesi fa c’è andato sotto il
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treno un piccolo di cinque anni di alcune case più sotto. Anche uno che dormiva nella galleria è andato
sotto il treno.
A duecento metri della Cattedrale, dal centro di Palermo.
Oltre i cenciaioli e le lavandaie, alcuni non fanno nulla, alcuni fanno le bandierine con l’immagine di
Santa Rosalia, alcune fanno le prostitute ma in altra parte di Palermo, perché lì siamo troppo stretti per
non essere viste dal vicino di casa.
La maggioranza dei bambini non va a scuola. Giocano nel cortile, nella puzza. Quando hanno dodici,
tredici anni, le ragazze si cercano subito di sposare. Si sposano tra noi stessi del cortile, tra cenciaioli e
cenciaioli, tra piccoli cenciaioli e piccole lavandaie45.
Lo scrittore Aldous Huxley, col quale Dolci intrattenne una intensa corrispondenza, in uno
scritto del 1959, riproposto in occasione della ristampa di Inchiesta a Palermo , dopo aver ricordato
la Palermo “di oltre mezzo milione di abitanti, oltre centomila dei quali vivono in condizioni che
debbono essere definite di povertà asiatica”, scrive:
Nel cuore stesso della città, alle spalle degli eleganti edifici allineati lungo le sue arterie principali, si
trovano acri e acri di ‘slum’che rivaleggiano quanto a squallore con quelli del Cairo o di Calcutta (uno dei
peggiori slum si trova proprio nell’area compresa tra la Cattedrale e il Palazzo di Giustizia). Nel suo
Inchiesta a Palermo Dolci fornisce le statistiche di questa gigantesca miseria e testimonia, adoperando le
loro stesse parole, del modo in cui gli abitanti dei bassifondi della città trascorrono le loro vite distorte,
ciò che fanno, pensano e provano. Il libro è appassionante e al contempo assai deprimente: deprimente,
vien quasi fatto di dire, su scala cosmica.
Nel cuore stesso della città, alle spalle degli eleganti edifici allineati lungo le sue arterie principali, si
trovano acri e acri di ‘slum’che rivaleggiano quanto a squallore con quelli del Cairo o di Calcutta (uno dei
peggiori slum si trova proprio nell’area compresa tra la Cattedrale e il Palazzo di Giustizia).
45
D. Dolci, Ignazio, in Racconti siciliani, Torino, Einaudi 1963, pp.129-131.
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8.
Partinico: fame e malattie
Dolci, racconta Carlo Levi ne Le parole sono pietre, gli aveva mostrato le “condizioni terribili”
di Trappeto e di Partinico «che egli conosce casa per casa, famiglia per famiglia, le malattie,
l’analfabetismo, la delinquenza, la prostituzione, gli effetti mortali di una antichissima miseria»46.
Quello che segue è il racconto di Partinico nel quale emerge la sostanza del metodo dolciano
fondato sulla narrazione, sul racconto, sulle storie di vita per molti versi vicino a quello di Levi:
Ci mostrò le sue statistiche sulle famiglie dei banditi, dove la fame, l’analfabetismo e la
disoccupazione sono caratteristiche costanti, in paesi dove la maggior parte della popolazione sono, come
qui si usa chiamarli, “industriali”, uomini cioè che si industriano, senza terra né mestiere, né la possibilità
di avere terra o mestiere per campare e non morire. Queste cose sono conosciute da chi le vuole
conoscere, e Danilo volle mostrarcele sul vero: le cose reali hanno un linguaggio assai più chiaro che le
parole e le statistiche. Scendemmo con lui al Vallone, per le strade miserabili e puzzolenti; entrammo
nelle case senza pavimento, piene di mosche e di acque putride, rivedemmo, ancora una volta, come in
tanti altri villaggi e paesi del Sud, la grigia faccia della miseria; gli uomini senza lavoro, “disfiziati”,
senza volontà e desideri, le madri senza latte, i bambini denutriti e ridotti a scheletri. In via Silvio Pellico,
una specie di burrone scosceso tra catapecchie cadenti, in faccia alla casa dove era stato nascosto, negli
anni scorsi, un famoso bandito, vidi la stanza, simile, come le altre, a una tana senza luce, dove vive uno
dei giovani attirati qui dall’esempio di Dolci, un musicista di Ginevra che fa il pescatore con i pescatori,
su questo mare risotto sterile e senza pesci dalla pirateria dei pescatori di frodo, tollerata benevolmente
dalle autorità. Poco più su, un uomo ancora giovane, dal viso smunto, infreddolito per la tubercolosi,
cercava, avvolto in uno scialle di lana, di scaldarsi al sole. In quella totale destituzione gli occhi
guardavano tuttavia Danilo con un lume di speranza, e una certa vaga speranza anche in se stessi mi
pareva leggervi di riflesso. Lo stesso accenno di speranza nascente in un’ombra serrata trovammo sui visi
dei poveri di Partinico, dove Danilo volle accompagnarci. Era ancora il solito, tragicamente monotono
spettacolo della miseria, forse più triste perché questa era una miseria di città e perciò con un senso
maggiore di solitudine e di abbandono; singolarmente differente nei vari quartieri a pochi passi di
distanza l’uno dall’altro. C’è una zona che si chiama Madonna, dietro il vecchio municipio, con la sua
grande piazza vuota, che è la zona dei banditi, dove gran parte degli uomini sono nelle carceri, e la
diffidenza e l’orgoglio e la feroce protesta si leggono nell’aria, nei visi chiusi delle donne, nelle porte
46
C. Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino 2010, p. 122.
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chiuse, nelle strade vuote. È un quartiere di vaccai, uomini pieni di energia, spinti quindi dalla loro stessa
virtù a rispondere con la violenza all’offesa delle cose, a resistere nella maniera più elementare, a andare
con Giuliano per vivere. Spine Sante è più squallido; sono poche strade più in là, a pochi passi dalla
chiesa e dal caffè dove ci eravamo fermati al mattino. Nuvole di bambini, scarni e bellissimi,
accoglievano Danilo al passaggio chiamandolo per nome: – Danine, Danine, – felici di dire quel nome
come se pronunciassero una formula magica. Entravamo con lui in tutte le case e dappertutto
inciampavamo nei problemi più elementari di un mondo schiavo dei limiti della fame e della malattia; e,
ancora una volta, come tanti anni prima, fui costretto, senza volerlo, a richiamare alla mente vecchie,
quasi dimenticate, nozioni di medicina. A Spine Sante la risposta all’offesa del mondo non è il banditismo
ma, più debole e straziante, la malattia e la follia. Le strade sono, anche qui, polverose e sporche, ma nella
sporcizia non ci sono residui di cibo, né bucce d’aranci, né foglie, né torsi di cavolo, né scatole, né ossa: i
cani magri annusano con aria delusa. In poche case vivono diciassette malati di mente dichiarati, e chissà
quanti altri meno evidenti e clamorosi. Un giovane stava seduto immobile sulla sua sedia, la vecchia
madre ce lo mostrò e provò invano a stimolarlo a parlare; quell’apatico silenzio schizofrenico durava da
anni. Davanti a una porta, con le braccia penzoloni, stava una giovane col viso asciutto e gli occhi spenti,
tranquilla ora, ma, ci dissero i vicini, quando è assalita dalla fame è invasa dalla furia. Entrammo in
un’altra casa dove vedemmo un uomo chiuso in una gabbia. La piccola stanza dove viveva tutta la
famiglia era stata divisa con delle sbarre di ferro come quelle degli animali feroci, e nella gabbia
camminava avanti e indietro un giovane dal viso bestiale, dai neri occhi terribili. Nella casa vicina il capo
della famiglia stava in letto, senza muoversi da mesi, chiuso al mondo, pieno di una sua angoscia nera,
negativo. Lasciò che ci avvicinassimo al letto e si coprì come un morto il viso col lenzuolo47.
9.
Inchiesta a Palermo, l’ ”atipica” sociologia dolciana e la mancanza di una vera classe
dirigente
Levi con grande acutezza descrive “ancora il solito, tragicamente monotono spettacolo della
miseria”, uno spettacolo ancora più triste perché questa miseria era colta in una grande città come
Palermo nella quale si presentava “con un senso maggiore di solitudine e di abbandono”.
Spinge a fondo l’analisi critica Giuseppe Giarrizzo inserendo Inchiesta a Palermo nel contesto
più ampio della società siciliana e della mancanza di una vera classe dirigente :
47
Ibidem, pp. 122-125.
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Con Inchiesta a Palermo Dolci ha consolidato il suo ruolo di voce autentica della Sicilia profonda: ma
è questa “autenticità” a far problema .. Non era facile cogliere la “fisionomia assai particolare” della
società siciliana sotto la coltre dei tenaci pregiudizi che oltre lo Stretto si erano consolidati: “ma
pregiudizi erano anche le apologie degli uomini dell’isola”, che alle indagini più costruttive reagivano
gridando alla lesa dignità patria. La società siciliana, invero facendo muro contro il riformismo borbonico,
era rimasta feudale; la stessa audacia baronale del 1812 era servita a conservare la sostanza lasciando
cadere la forma (Il Gattopardo non era stato ancora pubblicato!) “La nobiltà insulare introduceva così un
cavallo di Troia nella società moderna ottenendo per effetto della Costituzione, che la preminenza sociale
del proprio ceto poggiasse su una base politico-istituzionale non più anacronistica”: ma non divenne
classe dirigente della società siciliana, travagliata da sussulti rivoluzionari, e si limitò a difendere privilegi
e rendite, consumate fuori dell’isola. E i “nuovi ricchi” contagiò del suo male, “l’assenza di sentimento
civico e di coscienza sociale, l’egoismo miope e la considerazione della vita pubblica come sfruttamento
di una situazione privilegiata”: “Una classe media culturalmente autonoma dai nobili e dal clero, non
riuscì a formarsi”, e “la struttura sociale dell’isola non subì alcun sostanziale mutamento”
…Cultura, beneficio ecclesiastico, mafia sono cosí le tre vie di ascesa sociale: la quarta via, lasciata ai
poveri, è l’emigrazione transoceanica.
Una società siffatta genera inevitabilmente, nel contesto della nuova Italia, una “questione siciliana”:
ma è la mafia a interpretarla, la mafia “spina dorsale della tipica società siciliana”, che assorbe ogni
sforzo di cambiamento esogeno o endogeno, dagli anni ’70 dell’Ottocento fino al movimento contadino
del secondo dopoguerra. Qui compare, a Trappeto, Dolci: ma il suo lavoro è come “gocce piovute
accidentalmente su un terreno ricco di forze in contrasto e proprio per ciò incapace di ogni equilibrio e di
ogni sviluppo”. E tuttavia egli è sfuggito al duplice pericolo di restare estraneo all’”ambiente” o di
esserne assorbito: a salvarlo fu la scoperta del banditismo attraverso le famiglie dei banditi, il banditismo
come “condizione permanente di una società, il tono congelato della vita di un popolo”. Ma con
l’Inchiesta a Palermo, si è già su un terreno più solido che apre ad una istanza politica, il pieno impiego, e
però insieme a due richieste di “generica filantropia”, dignità civile e rispetto dell’uomo. Ma “si può
davvero pensare che una borghesia, storicamente incapace di creare gli strumenti politici della propria
egemonia di classe, posa convertirsi ad una tesi di spiritualità laica?” Il dubbio del meridionalista è come
confortato dallo scetticismo della mafia che assassina i sindacalisti, da Panepinto a Carnevale, ma
risparmia Dolci e la sua denuncia dello “spreco”48 .
48
Giuseppe Giarrizzo, Sicilia Oggi 1950-86, in Giuseppe Giarrizzo, Maurice Aymard (a cura di), Storia d'Italia, Le regioni dall'Unità
ad oggi, La Sicilia, Torino, Einaudi, 1987: 628-630.
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Nella nuova edizione in forma ridotta di Inchiesta a Palermo, Dolci ne parla come di un
“sondaggio statistico psicologico” limitato alle singole 500 persone, (fra i 18 e i 50 anni),
incontrate. A ciascuno è stato sottoposto il seguente questionario:
1. Hai un mestiere?
2. Quante giornate lavori in un anno?
3. Che classe hai frequentato?
4. Quando non lavori, come cerchi d’arrangiarti?
5. Perché sei disoccupato?
6. Dio vuole che tu sia disoccupato?
7. Di chi è la colpa se tu sei disoccupato?
8. Come, cosa dovrebbero fare i partiti in Italia?
9. Il voto è segreto?
10. Quando cerchi lavoro, guardano di che partito sei?
11. Cosa credi che uno, ciascuno debba fare per eliminare la disoccupazione?
Non si voleva – scrive Dolci nella premessa – esaminare, giudicare: ma riuscire a sentire, come
attorno un grande tavolo, le notizie e le opinioni di ciascuno, uno per uno, per schiarirci l’uno con
l’altro. Se nell’aritmetica 10 + 10 fa 20, quando sono uomini che si mettono insieme, si sa, può
succedere che queste somme diano molto, molto di più49.
Alla realizzazione dell’inchiesta collaborarono Carola Gugino, Gino Orlando, Michele e Angelo
Pantaleone, Nino Sorgi, Adriano Alloisio, Enzo De Negri, Sandro Di Meo, Goffredo Fofi, Grazia
Fresco, Emilio Honneger, Alberto L’Abate, Giovanni Mottura, Giorgio Mugnaini.
Situazioni analoghe si riscontravano alla Kalsa, a Ballarò e in tanti altri siti, sia pure più ridotti
per dimensione.
Nel 1952 apparve sull’Unità un’intervista a Sibilla Aleramo di ritorno da un suo viaggio in
Sicilia. La scrittrice si dice felice per avere incontrato a Bagheria Ignazio Buttitta, ma sconfortata
dopo il suo giro per Palermo e di aver rivisto
49
D. Dolci, Inchiesta a Palermo, cit., p. 10.
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“i monumenti, il duomo, la cappella palatina, Monreale, le ville, tutto un superbo passato, ma «un
mattino ho voluto visitare almeno uno dei rioni poveri, quello dei Tribunali, detto Kalsa. Ho girato il
quartiere atroce per tre ore, vicoli, vicoletti, piazzole. Conosco un poco i bassi di Napoli, conosco le
borgate di Roma, non credevo potessero esistere condizioni peggiori, e invece! Nel centro della città, in
interrati di pochi metri (talora non più di due metri per quattro) vivono fino a quattordici persone, senza
acqua, senza luce, proprio come vermi. C’era il sole quel mattino, stavano fuori, lungo le viuzze,
accosciati. I bambini che non muoiono sono di tempra rara. Qualche ragazza appare persino bella. Poco
più in là c’era il Palazzo Trabia, cento stanze vuote»”.
Queste osservazioni di Sibilla Aleramo saranno riprese nel fascicolo speciale del Natale 1952 de
L’illustrazione italiana dedicato alla Sicilia che si proponeva di “mostrare la Sicilia che si avviava
verso la modernizzazione dell’economia e il progresso sociale” con una serie di interventi di
scrittori italiani che l’avevano in quell’anno visitata. Il fascicolo speciale de L’illustrazione italiana
del Natale 1952, dedicato alla Sicilia, così viene ricordato50:
La copertina del prestigioso e diffuso mensile ritraeva gli operai dei cantieri navali di Palermo
impegnati a lavorare alla costruzione di un bacino galleggiante e i servizi della rivista si aprivano
all’insegna dell’ottimismo, con un editoriale affidato a Luigi Sturzo, che veniva titolato Rinascita siciliana
e che decantava l’avvio di un processo di industrializzazione nell’isola, accompagnato da un piano di
riforma economica e dall’istituzione della scuola professionale che avrebbe creato tecnici e operai
specializzati per le moderne aziende e piccole imprese che stavano nascendo, sostenute dalla Regione.
Poi, nei successivi articoli, viene dipinto un mosaico variopinto, problematico ma positivo delle diverse
realtà dell’isola: il romanziere catanese Ercole Patti, racconta di uno dei suoi tanti rientri nell’isola, dalla
Capitale, e descrive il breve passaggio in traghetto, da Punta San Giovanni a Messina, con il ‘curioso
odore di Oriente’ che si respira nei sottopassaggi dell’imbarcazione affollati di gente (‘donne con grandi
ceste di frutta, di verdura, sacchetti, canestri, involti, panieri’), tutta intenta ad un effervescente
commercio; poi, incantato dal mare azzurro e dalle verdi campagne che sono il paesaggio che ‘deliziano il
passeggero che in treno prosegue per Catania’, lo scrittore, celebre per i suoi romanzi dalle trame siciliane
e sensuali, informa sull’importante introito che all’economia dell’isola stanno procurando i rinomati
centri turistici di Taormina e Acitrezza.
50
Scrittori italiani in viaggio nella Sicilia degli anni ’50, in La freccia verde. it. La voce del mondo rurale, del 25 ottobre 2011.
32 StrumentiRES - Rivista online della Fondazione RES
Anno VI - n° 3 - Novembre 2014
Qualche pagina dopo, Carlo Levi dà conto del suo viaggio ‘attorno all’Etna’: è uno dei pezzi che verrà
poi raccolto nel famoso volume Le parole sono pietre: e Levi racconta del vulcano e delle sue eruzioni,
con gli effetti disastrosi che hanno avuto per le terre e i paesi colpiti dalla lava e per i loro abitanti che
sembrano avere con il maestoso e terribile monte un rapporto di odio e amore. E se chiara emerge, nello
scritto di Levi, la condizione dei paesi etnei e interni dell’isola, caratterizzata in buona parte dal feudo e
dalla sua angusta economia, le foto che accompagnano l’articolo, scattate dallo stesso Levi, ritraggono
una ridente e speranzosa Sicilia di vendemmiatori (di Linguaglossa) alle prese con ‘una lieta colazione
durante la sosta di mezzogiorno’; di contadini (di Mascalucia) che per divertirsi ‘duellano con i bastoni’;
di bambini che giocano (a Milo) in un campo di calcio e che dimostrano che ‘la passione per gli dei della
domenica è arrivata in ogni parte del paese’. Proseguendo nei reportage, di Catania, Alfredo Mezio fa
emergere i tratti del gallismo brancatiano descrivendo luoghi e personaggi della centralissima via Etnea,
‘la via dei dandy’ e Giovanni Comisso celebra ‘i templi e le vestigia greche’ recandosi da Agrigento a
Siracusa e da Selinunte a Segesta per ammirare e scrivere dei templi e dei teatri, della loro maestosità e
bellezza, immersi in un Sicilia dorata nei campi e dal travolgente azzurro del cielo.
E se la Sicilia pare isola del sole e degli affari, anche ‘I siciliani di New York’ di cui tratta in un altro
articolo della rivista, Giuseppe Prezzolini, hanno fatto fortuna: ‘si recano con lussuose macchine nei loro
‘social club’ di emigranti, hanno conquistato importanti cariche pubbliche e anche fama, come l’oculista
La Rocca, uno di migliori della città o lo scrittore Jerry Mangione, autore di romanzi che parlano della
Sicilia e dell’emigrazione, molto letti e apprezzati in America.
Ancora, le pagine dell’Illustrazione Italiana davano dell’isola ragguagli sulle belle artistiche,
presentando i tesori artistici di Monreale e la preziosità delle numerose statue, delle Madonne e dei santi,
portate in processione nelle sontuose feste siciliane; infine documentava i risultati positivi raggiunti nelle
tecniche di lavorazione agricola (prendendo a modello la conduzione moderna dell’antica masseria del
barone siracusano Morso) e nella produzione della giovane industria siciliana (con un articolo di Italo
Pietra)…
Qualche anno dopo il poeta Piero Bigongiari visita in un lungo tour l’isola e annota nel suo diario le
sensazioni piacevoli che gli suscitano le testimonianze monumentali antiche ma tratteggia anche con
decisi rilievi critici le drammatiche condizioni di paesi come Palma di Montechiaro dove ‘le porte delle
case che s’affacciano sulla strada lasciano indovinare una tavola in attesa, su cui un lume balzella
poverissimo’ e dove ‘la strada non ha fognature: invece che a schiena d’asino, è affossata al centro e i
rigagnoli la percorrono, tutta in discesa com’è’, rendendo il senso di una povertà fatta di ‘odore di orina e
di una felicità primitiva impastata nella miseria che ha trasformato i volti in maschere impassibili’, di ‘una
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Anno VI - n° 3 - Novembre 2014
felicità senza sorriso, piena di ritegno, tutta ritorni e partenze, da comperare come un oggetto, a forza di
ardore e di solitari elucubrazioni, come il pane e il poc’altro che ingombra quelle mense’.
E ancora di ‘vicoli pervasi da puzza d’orina’ parla Elio Bartolini nel suo Quadernetto Siciliano
pubblicato su Il caffè politico-letterario nel numero del Gennaio 1956, riferendosi alla montana e interna
Troina, che gli appare, in stridente contrasto con la sua illustre storia di prima capitale normanna, abitata
da gente presa da forzato e ‘cupo ozio’, così come di Catania, Bartolini avverte la profonda differenza tra
le vie del centro con le sue eleganti dimori e ‘le case del ghetto, basse, immerse direttamente sulle strade e
tappezzate da foglietti di morte (per il mio caro marito, per l’amato padre) che nessuno strappa mai’.
L’entusiasmo che si intravedeva nelle pagine dell’Illustrazione Italiana andava via via sfumando, nella
narrazione che dell’Isola, nel corso di quegli anni ’50, andavano facendo altri scrittori-viaggiatori, per i
quali l’osannata trasformazione dell’isola in una realtà moderna e industriale era ancora lontana dal
prendere forma compiutamente.
10.
Le due Palermo di Mario Farinella
La miseria e l’arretratezza dei ghetti urbani e dei centri rurali, magistralmente descritte
rispettivamente da Inchiesta a Palermo e Spreco di Danilo Dolci, se erano del tutto analoghe sul
piano delle condizioni esistenziali della gente, mostrano una radicale differenza dal punto di vista
delle possibili ipotesi di sviluppo economico e sociale. Il sottoproletariato urbano non rappresentava
una forza produttiva su cui potere fare leva per una politica di riscatto civile e democratico delle
città; era, al contrario, una realtà da eliminare nel quadro di una pianificazione territoriale, cosa che
poi di fatto avvenne ma in maniera selvaggia e senza alcun punto di riferimento che non fosse la
speculazione edilizia.
Nel gennaio del 1960 appare un articolo significativamente intitolato Le due Palermo. Ne è
autore Mario Farinella, poeta e illustre giornalista del piccolo-grande quotidiano L’Ora:
a Palermo vivono due città, una indipendente dall’altra, una straniera all’altra: la felice cittadella di via
Ruggero Settimo, suggestiva e signorile, e la città segreta che si stende, per vicoli, cortili e piazze,
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all’Albergheria, al Capo, alla Kalsa, al Borgo. Le due città di Palermo: vicinissime, incastrate anzi l’una
dentro l’altra, non si incontrano mai, non si sfiorano51.
La seconda Palermo di cui parla Farinella, la città più vecchia,
si dipana quindi nei meandri dei suoi quattro mandamenti storici, al Borgo Vecchio, ma anche nelle
baraccopoli sorte a ridosso delle antiche mura a seguito degli sventramenti, delle devastazioni belliche,
dei crolli causati dall’incuria, della disoccupazione seguito degli sventramenti, delle devastazioni belliche,
dei crolli causati dall’incuria, della disoccupazione dilagante che rende impossibile a tanti rimanere in
affitto nelle loro vecchie case. È una città nella città che le istituzioni locali e nazionali, il mondo della
cultura, buona parte degli stessi nuovi Palermitani tendono ad ignorare. Sono centinaia di migliaia di
persone di cui ci si ricorda solo pochi mesi prima delle elezioni o quando serve una foto a effetto per
riempire la pagina di un quotidiano52.
Inchiesta a Palermo e Spreco di Danilo Dolci intervengono a sollevare questo pietoso velo. In
particolare è Inchiesta a Palermo nel 1956 a gettare luce sulla misera vita di famiglie che vivevano
nelle grotte e nei catoi, nei cortili e nei vicoli del centro, miserabile oggetto di rappresentazioni
folkloristiche o di strumentalizzazioni elettorali ad opera di fotografi e giornalisti.
Tre anni dopo, nel 1959 il settimanale l’Espresso dedicherà un’inchiesta sul Sud Italia (Sicilia,
Lucania, Calabria, Campania, Sardegna) significativamente titolata L’Africa in casa. Nel maggio
del ’59, a poco meno di un secolo della pubblicazione delle inchieste di Sidney Sonnino e Leopoldo
Franchetti53, appare il reportage sui quattro storici rioni del centro, che, in sintonia col passato arabo
e il disastroso stato attuale, e titolato Le quattro casbah di Palermo54.
51
M. Farinella, Le due Palermo, L’Ora della Domenica, 30-31 gennaio 1960.
F. Pedone, Palermo nel secondo dopoguerra. Le due città, in “Intrasformazione, Rivista di Storia delle Idee”, 2 gennaio 2013, p.
161. Si vedano pure di Teresa Cannarozzo, “Palermo: le trasformazioni di mezzo secolo”, Archivio di Studi Urbani e Regionali n. 67,
2000, pp. 101-139, e Palermo: mezzo secolo di trasformazioni, in “Archivio di studi urbani e regionali”, a cura di Teresa
Cannarozzo, Franco Angeli, Milano, 2000.
53
Lo storico Massimo L. Salvadori, riflettendo sulla Questione Meridionale, e in particolare sulla Campania e sulla Sicilia, ha
sostenuto che a distanza di quasi un secolo e mezzo da quando Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti pubblicarono le loro celebri
inchieste sulle condizioni sociali, politiche e morali delle province napoletane e della Sicilia che gettarono luce sulle drammatiche
condizioni del Mezzogiorno d’Italia (e sono considerate non solo un importante punto di riferimento per l’analisi sociale, ma anche
une essenziale “luogo d’origine” delle due fondamentali “questioni” che hanno segnato e segnano a tutt’oggi il dibattito attuale: la
questione meridionale e la questione mafiosa), che a leggere le conclusioni di quelle inchieste si rimane sbalorditi “tanto appare che
per aspetti decisivi la situazione è rimasta quella di allora” (M.L. Salvadori, La sinistra e la questione Meridionale, “la Repubblica”,
8 febbraio 2008.
54
Le quattro casbah di Palermo, in “L’Espresso”, 3 maggio 1959.
52
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L’Espresso fornisce dati impressionanti: un indice di affollamento di 6,6 per tutto il centro, una
inabitabilità di 36.131 sui 102.115 alloggi, 5000 famiglie senza luce, il 12% di tubercolotici.
Ancora più approfondita è l’analisi di Inchiesta a Palermo:
Aldilà delle statistiche, seguendo Dolci, si scopre un mondo che ruota intorno all’ossessiva ricerca di
cibo e di una casa, e, ovviamente, del lavoro necessario a procurarsi entrambi. Cosa non facile in una città
la cui vocazione amministrativa, unita al declino dei ceti nobiliari e protoindustriali, committenti
principali delle botteghe artigiane e datori di lavoro nelle tenute agricole che circondavano la città, ha
ormai scardinato l’antica economia di palazzo. Assistiamo così a un lento declino degli antichi mestieri e
a un generale impauperamento della popolazione. È il caso di Rosario, figlio di un maestro d’ascia
costretto a fare il ladro di appartamenti, di Salvatore R. “operaio agrumaio” ridotto a vivere in una grotta
a causa della disoccupazione, di Peppino, scarparo (ciabattino) che produce scarpe solo quattro mesi
l’anno, prima della festa dei Morti (per i bambini) e prima di Pasqua (per gli adulti), di un anonimo
contrabbandiere al minuto di sigarette figlio di un operaio dei cantieri navali dei Florio, o di Gino O.,
figlio di un impiegato comunale, instradato sin da piccolo al borseggio. In mancanza di occupazioni
stabili i Palermitani, nel dopoguerra, si dedicano ad attività che sarebbero considerate marginali (o che
addirittura non esistono) nel resto del mondo, ma che qui impegnano buona parte della popolazione. […]
Dai sondaggi svolti da Dolci sulle condizioni abitative e lavorative alla Kalsa, al Capo, a Cortile
Cascino, a Cortile Lo Cicero emerge che circa un quarto delle donne abili è composto da lavoratrici,
principalmente lavandaie, cameriere e lava scale. Qualcuna, più fortunata, come Concetta e le sue cento
colleghe (trenta in regola e settanta stagionali e in nero) nell’industria conserviera del pesce. Un dato
impressionante se consideriamo che dallo stesso sondaggio si evince come i nuclei familiari siano
composti da una media di 6-7 persone con punte di 14-15 elementi, e quindi con parecchi figli o anziani a
carico. Al punto che quando Dolci lo domanda loro, «spesso, per sapere quanti sono, fanno “i conti sulle
dita” o “vanno a cercare nel cassetto lo stato di famiglia”». I Palermitani combattono, anche se divisi e
spesso in competizione, lo stesso nemico, la disoccupazione, la povertà, la fame. In questa guerra senza
quartiere ci sono nemici naturali e nemici in carne ed ossa. Malattie come il tifo e la tubercolosi flagellano
adulti e bambini. L’altro grande nemico naturale è la pioggia. La maggior parte dei mestieri si pratica
all’aria aperta, per le strade della città, un giorno di maltempo vuol dire per molti un giorno di mancati
guadagni, una settimana la fame, un inverno particolarmente piovoso per alcuni, soprattutto bambini, la
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morte. Il nemico in carne ed ossa sono invece le istituzioni, soprattutto nello svolgimento della loro
funzione di controllo e repressione55.
Ha ricordato Goffredo Fofi che, quando nell’estate del ’55 appena diciottenne, lasciatesi alle
spalle le mura antiche della sua Gubbio, si trasferì a Partinico per combattere a fianco di Danilo
Dolci, “venni in contatto con la malattia, la morte, il dolore”:
Girammo in lungo e in largo tutta l’Isola per parlare con centinaia di persone: contadini, disoccupati.
C’era una povertà disperante e noi stavamo come la gente del luogo, condividendo la stessa vita56.
11.
Galante Garrone, Inchiesta a Palermo un libro “allucinante e terribile”
Carlo Galante Garrone sulle colonne de La stampa sosterrà all’indomani della sua apparizione,
che l’Inchiesta a Palermo non è «una mera raccolta di dati statistici» e neppure «il pamphlet di un
agitatore o l’utopia del filantropo, del visionario che ha “scoperto”, la Sicilia, la questione
55
F. Pedone, Palermo nel secondo dopoguerra. Le due città, in “Intrasformazione”, cit., pp. 162-163.
Intervenendo nel merito dei dissensi che si verificarono con Dolci, Fofi ha sostenuto che
alla fine degli anni ’60 ci fu un
contrasto, “una rottura che durò fino a un mese e mezzo fa, quando lo incontrai di nuovo. E parlammo, tanto”. Sulle ragioni del
contrasto afferma che riguardavano “su come affrontare le grandi trasformazioni dell’Italia di allora, lo sviluppo repentino,
l’emigrazione. Io andai a Torino, a lavorare con gli operai del Sud, lui restò in Sicilia, come prima”. Quanto a chi avesse ragione:
“Non si può dire: i cambiamenti furono un turbine che ci travolse tutti. E la società mutò così rapidamente che adesso è impossibile
dire di chi fu il merito, o la colpa”. Goffredo Fofi è il primo firmatario di una lettera datata Roma, 25/11/1959, che si presume
indirizzata al Centro Studi e a Danilo Dolci. La lettera fa parte di un gruppo di dieci lettere (conservate dall’Istituto Gramsci Siciliano
di cui due costituiscono risposte di Dolci ad alcuni deputati regionali in cui prende le distanze da un articolo di Bruno Zevi (10 aprile
1962) e una indirizzata sullo stesso argomento, a Vittorio Nisticò come direttore de L’Ora. Di seguito riportiamo di seguito la parte
finale delle critiche: «Dall’ambiguità tra denuncia e azione, entrambe enunciate da Danilo, nasce un lavoro pratico paternalistico che
serve solamente di facciata per la continuazione di ricerche viziate da quanto detto sopra. Questo tipo di lavoro tende a dare alla
popolazione unicamente la sensazione di essere assistita. L’esigenza di fare qualcosa sul luogo che serva almeno a giustificare le
ricerche che si compiono; l’esigenza di impostare di continuo inchieste-choc che tengano vivo l’interesse all’esterno e rendano più
facile il reperimento di fondi per sostenere l’onere finanziario del lavoro, che tende ad acquistare sempre maggior ampiezza;
l’esigenza infine di continui rapporti con i comitati esteri, creano in Danilo una continua istabilità (sic) e incertezza che si riflettono
sul lavoro e che lo inducono a cercare appoggi e sostegni là dove volta per volta li può trovare, a seconda del caso e della
convenienza. Perciò quei collaboratori, che avendo vissuto da lungo tempo l’esperienza promossa da Danilo nella Sicilia Occidentale
chiedono per il loro lavoro un minimo di chiarezza, una garanzia di continuità nei rapporti con la popolazione e di inchieste esatte e
realistiche, si allontanano o vengono allontanati […] Critica e programmi sono in un primo tempo accettati da Danilo. Seppure non
d’accordo con il tipo di organizzazione definita nel seminario, basata su un‘apparente democrazia ma di fatto fondata sulla
personalità di Danilo e sulla sua influenza sui singoli. […]
Vista l’insufficienza dell’organizzazione emersa dal seminario alcuni dei firmatari di questa lettera hanno chiesto che fosse
formato un comitato italiano inteso come gruppo di personalità che hanno seguito e appoggiato da tempo l’azione di Danilo, di
esperti dei vari settori di lavoro, di vecchi collaboratori, di rappresentanti dei sostenitori. Questo comitato sarebbe stato garante
dell’attuazione dei programmi stabiliti.
Essendosi Danilo rifiutato di prendere in considerazione le considerazioni poste dal gruppo per la collaborazione al lavoro, il
gruppo ha deciso di allontanarsi. Allontanamento che è stato subito accettato da Danilo».
56
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meridionale». Norberto Bobbio aveva già notato, nella bella prefazione a Banditi a Partinico,
quanto del missionario mostrava l’atteggiamento di Danilo.
Più che un’inchiesta, è una testimonianza [...] – scrive Galante Garrone – sono dei testimoni che
gridano allo scandalo e lo scandalo è lì in quelle cifre, in quei fatti, in quelle persone che raccontano
vite che nessun romanziere vorrebbe aver inventato. Il sorprendente dell’ultimo libro (frutto di
scrupolose indagini da parte di Danilo e dei suoi giovani amici) è proprio qui, in questa
testimonianza diretta, di una ingrata nudità, senza trasfigurazioni letterarie o infingimenti retorici o
veli pudici e pietosi.
Così è nato questo libro, “allucinante e terribile”. Quelle di Danilo Dolci sono pagine di “una
esemplare umiltà”, protagonista ne sono l’anonimo, oscuro popolo dei rioni della più misera
Palermo, i pastori e i braccianti della provincia. È come se queste persone si fossero “scosse da un
letargo di secoli e secoli”, da un cupo silenzio per denunziare un’“esistenza inumana”. Galante
Garrone preferisce dare ancora a loro la parola:
È, per molti ragazzi abbandonati, la precoce iniziazione al borseggio, nelle sue più raffinate varianti.
Sapete, per es., cosa è l’«appiccico»? «Io fìngevo di essere un bambino scappato di casa e l’altro, con una
cinta in mano, fìngeva di cercarmi da tre giorni: mi vedeva, fingeva di volermi cinghiare, io mi riparavo
abbracciando i ginocchi di uno che prima ci eravamo assicurati che avesse “u surci” ne “la culatta”. Quello si impietosiva, si chinava cercando di proteggermi dalle busse, e intanto l’altro gli sfilava il
portafoglio».
Sullo sfondo, i ricorrenti, eterni motivi della fame, della malattia, della follia, della morte. «Se non c’è
da lavorare, uno mangia erba. La fame fa fare qualunque cosa». In un antro del Cortile Cascino, i bambini
piangono: «Papà, u pane, voglio u pane». Il padre esce, «tanto per svariare il cervello», rincasa, e la
madre dice: «Chissi stannu piangendo: come facemu?» La morte, è un fatto quotidiano, di cui si discorre
con naturalezza, e si mescola a ogni avvenimento anche gioioso. La vigilia dei Morti è la grande festa dei
bambini. I «picciriddi sanno che quando uno muore torna ogni anno per portare le cose»; e vanno a letto
buoni buoni. E i grandi gli dicono: «Zittuti, che vennu i Morti e t’arraspano i pedi cu la grattacacio».
Anche i rari momenti di felicità sembrano tingersi d’una ferale cupezza.
Ma non è gente che si accascia nell’ozio inerte. È anzi mossa e sospinta da una disperata febbre di
lavoro, e s’ingegna e si arrabatta per trovarne, con una fantasia inventiva che avrebbe del prodigioso se
non la sapessimo sollecitata dalle più crude necessità. L’arretratezza feudale, i privilegi dei ricchi, la
mafia (che dalla secolare difesa del feudo va trapassando nel vasto mondo degli affari e della politica),
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l’analfabetismo, e tanti altri mali che tutti sanno – e nel libro si rivelano come una maledizione di natura –
hanno bloccato in partenza, per tanti, troppi esseri umani, la possibilità stessa di un lavoro vero e degno.
Questa gente fa ogni sorta di mestieri. («Solo il morto non ho fatto», uno dice). Raccoglie legna.
funghi,verdura, asparagi selvatici (che «stracciano gli abiti e insanguinano le mani, così che uno pare un
Gesù Cristo»), lumache, rane. Ecco gli «spigaroli», che si levano prima dell’alba, al canto del gallo, i
mietitori, i cavatori di pietra (anche fanciulli, dalle schiene ormai deformi), le «conserviere», che
«scapuzzano» le alici in un fetore orrendo, gli «zavorrieri» che pescano la sabbia dal fondo del mare. E,
nella grande città, i cenciaioli, e quelli che frugano nelle immondizie dei signori, sempre alle prese con le
guardie, che rovesciano i loro miserabili carretti, i «trafficanti», gli «spicciafaccende», i rivenduglioli
(«accatta e vinni»), i facchini, i «portantini», i «panerara» (che sanno gli orari e gli indirizzi dei clienti, e
li aspettano con una cesta per portargli la roba della spesa e li vezzeggiano: «Baruneddu... s’abbenedica
cavaliere...») gli «arriffatori», il «tamburinaru» con i suoi lazzi buffoneschi, i suonatori di organetto. Sono
tutti quelli che nel Palermitano sono detti gli «industriali» perché «si industriano» di trovar lavoro: e
nell’epiteto è un’involontaria, atroce ironia. Il sogno di uno di questi «industriali», un giocatore di carte è
di avere un “bugigattolo” di generi alimentari con un bancone e una bilancia e di far credito, ogni tanto, ai
bisognosi. Il sogno dei braccianti è “un pizzuddu di terra”. Ma la realtà si incarica di disperdere questi
sogni. Fra le tante confidenze di questi “industriali”, quella che mi viene in mente è quella degli animali:
«Siamo lo stesso... Anche la vita degli animali è trafficosa... Io quando pelo queste rane mi fanno una
pietà perché penso che devo ucciderle per forza. Quando la rana vede a me, certo pensa che è l’ora della
morte... Qualsiasi animale che si vede prendere dall’uomo, incomincia a tremare... Se tu tagli la testa alla
rana e la metti sul tavolo e ci guardi gli occhi, sembrano sempre vivi: come quando guardi un quadro,
sembra che guardino sempre a te... Chi lascia morire i cristiani, per tenersi la roba, i feudi, tutto per loro,
non pensare per noialtri, si dovesse sognare a cambio di un cesto di teste di rane, si sognasse un cesto di
teste di occhi delle persone che muoiono per colpa sua».
In questo chiuso mondo di superstizioni ancestrali, di nera ignoranza, di fame, di soffocati rancori, si
comprende perché sia cosi radicata la sfiducia nello Stato (“una mala galera in mano ai prepotenti”), nella
politica dei partiti (“tutto trucco”), nelle leggi che si beffano dei poveri. È proprio questa la maledizione
d’Italia, diceva Calamandrei al processo di Palermo: le leggi per gli umili non contano. Più d’uno di
questi derelitti risponde: Dio non voleva tutto questo, Dio amava i poveri e voleva il mondo tutto eguale,
Dio era socialista; ma poi i ricchi lo hanno tradito, lo hanno ammazzato e ora è morto. Non resta che
piegarsi ai potenti della terra «fare scappellate», dare il voto a chi ti offre un tozzo di pane. “Chi mi dà il
pane lo chiamo padre”; «Se c’è tramontana, andiamo con la tramontana; se c’è scirocco, con lo scirocco».
È uno scetticismo totale, desolato. «Semo schiavi», “Siamo come la pietra in fondo al pozzo”.
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Ma in questa stessa confessione amara, è già un primo sussulto di coscienza, un barlume di speranza:
la speranza che Carlo Levi aveva vista sul volto del poveri di Partinico, e balenare nelle stupende parole
della madre di Turiddu Carnevale, assassinato dalla mafia. Ciò che più colpisce nell’Inchiesta a Palermo,
è il doloroso e pieno risvegliarsi dell’umana coscienza. Uno dice: «Ora qualcuno comincia a capire che la
pasta bisognerebbe gettargliela in faccia». Un altro ammonisce: «Prima di tutto osservare bene la
Costituzione, perché è fatta di leggi tutte sante ». E un bracciante, che ha sofferto angherie e persecuzioni,
conclude: «È il prezzo che paghiamo per essere uomini».
In un articolo intitolato Inchiesta a Palermo, apparso su L’Ora, del 27 febbraio 1957, Leonardo
Sciascia inizia con dei rilievi critici nei confronti di Dolci.
Le sue proteste, “espresse attraverso il digiuno o in altre forme passive” apparivano alquanto
paradossali, una “forma di protesta mistica e irrazionale” con la quale “vuol costringere alla ragione
gli altri, cioè i responsabili, i complici e gli indifferenti”. A Sciascia ciò sembrava contraddittorio
un “controsenso”, un usare “mezzi irrazionali per giungere a razionali fini.
12.
Sciascia a Dolci e Vittorini: “La Sicilia non è l’India”
Una volta Napoleone, non so dove, capitò a visitare una sinagoga: vide uomini acculati sul pavimento
e chiese cosa mai facessero, gli spiegarono che stavano a pregare e a sognare per i1 loro stato d’Israele; e
Napoleone disse agli ebrei:
«Spiacente per voi, signori: ma così nessuno ha mai fondato uno Stato».
«Va bene – direbbe Danilo – ma col digiuno Gandhi ha fondato uno Stato». Verissimo: ma questo
Stato è l’India: e la Sicilia, mi spiace non essere d’accordo con i1 siciliano Vittorini, non è l’India; a meno
che non si parli di «Sicilia come India» appunto nell’astrazione tipicamente vittoriniana della Conversazione in Sicilia; il che non è da ritenersi valido su un concreto piano di lotta politica. Insomma a me
pare che il pericolo, per l’opera che Danilo Dolci svolge, sia questo: che la sua azione finisca con
l'’inserirsi più nella storia delle eresie cattoliche che nella effettuale storia della emancipazione umana.
Perciò non trovo del tutto gratuito che negli ambienti del cattolicesimo più retrivo il caso Dolci sia
affrontato nel termini dell’ortodossia e dell’eresia; e che dai cattolici più sensibili ed aperti la azione di
Dolci venga accettata appunto nel suo rischio d’eresia: nel senso, cioè, per cui ogni ritorno alle fonti
evangeliche ha rischiato, nella storia della Chiesa, di essere respinto nell’eresia.
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Queste riserve, si capisce, non pregiudicano la simpatia, l’ammirazione, l’affetto profondo che io sento
per Danilo Dolci. In fondo, senza voler giuocare alla psicanalisi, può darsi che tali riserve nascano come
alibi di una personale incapacità: incapace di essere come lui, di fare quello che lui fa. Io cerco a me
stesso le più logiche giustificazioni. Ma se ciò è vero, ecco sorgere la definitiva obbiezione a Dolci, la sua
stessa
eccezionalità
umana
inva-
lida, sul piano della storia, la sua azione. Validissima in quanto dolcismo, in quanto scelta e modo di
attuarsi di un individuo o di una comunità di individui, una tale azione non può assolutamente elevarsi a
scelta ed attuazione di masse umane nella storia57.
Sciascia si riferisce qui all’intervento di Elio Vittorini nel dibattito processuale (24-l 30 marzo
1956), per fatti del 2 febbraio 1956 a Partinico, durante lo “sciopero alla rovescia” presso la
Trazzera vecchia: Dolci è arrestato e traferito in carcere all’Ucciardone insieme ad alcuni
collaboratori. Nel dibattito processuale (24-30 marzo 1956), pubblicato nello stesso 1956 da
Einaudi. Dice Vittorini:
… Conosco Danilo Dolci da due anni. E’ stato un religioso dell’ordine dei servi di Maria a
presentarmelo. Io ero in principio diffidente. Inclino sempre a diffidare delle attività in cui si mescolano
le manifestazioni religiose e le rivendicazioni sociali. Ma appena ho conosciuto Danilo le mie riserve
sono cadute. Quanto alle sue idee, quanto ai suoi propositi, quanto soprattutto ai suoi metodi (i suoi
metodi di tipo indiano che molti trovano così sconcertanti), debbo dire che li giudico i più adatti per la
Sicilia. Nell’Italia settentrionale non sarebbero forse pertinenti. I digiuni e le altre forme di protesta
passiva cui Danilo ricorre potrebbero anzi riuscire, nell’Italia settentrionale, addirittura ridicole. Ma la
Sicilia somiglia molto all’India. Io sono siciliano, signor Presidente, e lo so fin dalla mia infanzia. Esiste
in Sicilia la stessa profonda separazione tra le classi, la stessa segregazione classista, che esiste tuttora in
gran parte dell’India. Inoltre le masse contadine siciliane hanno una sensibilità a fondo religioso non
diversa da quella delle masse popolari indiane. In una situazione di tipo indiano è proprio con l’azione di
tipo indiano svolta da Danilo che si anno le maggiori probabilità di portare le masse a inserirsi nello Stato
e a rendervi lo Stato presente in senso moderno. In India vi sono decine di uomini come Danilo che vanno
promuovendo, e in sostanza preparando, nelle zone meno progredite della società, l’intervento riformatore
dello Stato, e il governo non li ostacola affatto, anzi li aiuta58.
57
58
L. Sciascia, Inchiesta a Palermo, “L’Ora”, 27 febbraio 1957.
Elio Vittorini, in Processo all’articolo 4, (1956) ora ripubblicato da Sellerio, 2011:199-200.
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Intervenendo a Palma Montechiaro (1960) Sylos Labini osservava sul rapporto tra Sicilia e India:
I problemi dell'economia siciliana pur diversi per gradi quantitativi, non qualitativi, dai problemi
dell'India, per esempio, o da quelli della gran parte dei paesi arabi, o di molti paesi dell'America latina. Ci
sono naturalmente, delle caratteristiche speciali, uniche, ma ci sono molte caratteristiche comuni. La più
ovvia caratteristica comune è il livello basso del reddito, cioè la miseria.
Ma questi rilievi critici all’azione di Dolci, precisa Sciascia, non riguardano l’Inchiesta a
Palermo che definisce “scientifico ed impersonale” e in cui l’autore evita “ogni riferimento alle sue
teorie, credenze ed esperienze”. Naturalmente, aggiunge Sciascia, in “questa raccolta ed
organizzazione di materia statistica ed umana, c’è il cuore e il sacrificio di un uomo come Dolci”.
13.
Sciascia, anche Palermo ha i suoi imprenditori: gli “industriali della miseria” descritti
da Dolci
Anche dal punto di vista estetico, – prosegue l’articolo di Sciascia – nel senso della verità e della
forza che certe autobiografie assumono, mi si permetta di dire (e forse questa mia constatazione
spiacerà a Danilo) che soltanto lui poteva riuscire a far parlare così la gente, a suscitare nel narratore
tanta religiosa forza di verità. Già nel libro Processo all’articolo 4 (edito pure da Einaudi) c’era una
anticipazione di questa Inchiesta a Palermo: nel racconto di un giovane pastore, incontrato da
Danilo nel carcere dell’Ucciardone; un racconto che io terrei tra le cose più belle (più vere) che la
carta stampata ci ha portato in questi ultimi anni59. Ora, in questo libro su Palermo, una cinquantina
di persone raccontano la loro vita e la loro miseria: borsaioli, spicciafaccende, ruffiani, prostitute: e
contadini, operai, garzoni.
Ci sono uomini che sanno portare il racconto della loro vita (che cioè hanno ordine e stile); e
altri che arruffano e confondono il tempo del racconto; e non sappiamo infine quali riescano più
59
Sciascia si riferisce al racconto di Vincenzo ventitreenne, cresciuto nelle montagne di Castellammare del Golfo. Il racconto, che
poi sarà inserito in Racconti siciliani del 1963, ha il ben noto e intenso incipit: «Tre notti fa sognai porci. E vacche pure, macchie
d’erba. Io ogni notte mi sogno sempre vacche e montagne, capre, pecore e agnelli. Combattevo sempre con questi animali e sempre li
penso».
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Anno VI - n° 3 - Novembre 2014
suggestivi. Ma tutti ci portano alla scoperta di un mondo finora difeso da cortine di omertà e di
malinteso pudore. Se davvero in Italia ci sono uomini responsabili che ignorano questo irredento
mondo di miseria, dovrebbero sentire dalla lettura di questo libro l’imperioso dovere di agire. E se
ci sono uomini responsabili che conoscono queste cose e non curano di sanarle, da questo libro
sentiranno almeno il disprezzo degli uomini onesti di tutto il mondo pesare sulla loro sciocca e
meschina felicità, sulla loro ricchezza, sul loro egoismo.
L’inchiesta riguarda quella categoria di persone, vastissima in una città come Palermo che vive
di espedienti, che s’industria. Da questo verbo – industriarsi – Dolci cava il sostantivo industriale;
che in verità, per quanto io so non è mai usato. Comunque, designare queste persone come
“industriali della miseria”, è trovata di significativa ed amara ironia. Tra questi personaggi veri e
quella dei romanzi della fame, i picari della letteratura spagnola, c’è una sconcertante identità.
Sconcertante dal punto di vista letterario: poiché vuol dire che i racconti picareschi nascevano da un
diretta e precisa osservazione di una realtà; e dal punto di vista sociale: che nel 1957 ci siano
persone che vivano la vita di un picaro del seicento (e forse con minore libertà).
Quartieri e zone di Palermo come il Capo, il Cortile Cascino, la Kalsa, sono pieni di questi
industriali della miseria. In un paese non mancano di questi esemplari umani: babaluciari
(raccoglitori e venditori di lumache), cicoriari (di cicoria e altre verdure di campo), scopari (di
scope); e quelli che portano per le fiere il giuoco delle tre carte o dei dadi; e gli scrivani, che per un
compenso di venti o trenta lire scrivono domande ed istanze.
Ma in una città di seicentomila abitanti la categoria si ingrossa, diventa una sorta di
corporazione: e viene respinta nella eterna quarantena del vecchi e malsani quartieri, dando luogo
ad agglomerati in cui lo Stato entra solo col passo del pattuglione e per l’esecuzione della cattura o
del pignoramento.
Nella vita militare, quando ad un soldato viene a mancare il cappello o la coperta o qualche altra
cosa, se ricorre all’ufficiale per denunciare la perdita, si sente invariabilmente rispondere –
arrangiatevi. Allo stesso modo lo Stato ha finora risposto a questi uomini – arrangiatevi. E questi
uomini si arrangiano borseggiando intrallazzando prostituendo. Ad un certo punto lo Stato li coglie
mentre si arrangiano e li manda all’Ucciardone. Ed è quanto di meglio, finora, ha potuto fare: ha
offerto loro un tetto e una minestra, ed anche una scuola, per alcuni. Nel primo congresso di
anarchici che, dopo la liberazione, si è tenuto in un capoluogo della Sicilia, mi stupì il fatto che in
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teatro si trovassero accolti tutti i babaluciari della città: ora capisco come gli industriali sono
portati, dal loro picaresco modo di vita, ad avere fede nell’anarchia. Ma bisogna aggiungere che
forse, in tutta la loro vita, i loro buoni incontri umani si riducono a quegli anarchici che grazie alla
generosità dello Stato, hanno incontrato nei frequenti soggiorni carcerari60.
14.
Il contesto attuale e la “Panormus urbs ferox”
Questi sono i contesti reali con cui fare i conti e che continuano ad alimentare la violenza e la
Panormus urbs ferox di Marcello Benfante. Questi contesti sembrano produrre e riprodurre una
stagnante instabilità, un’inefficacia cinica della politiche per la legalità e lo sviluppo che non sono
in grado cambiare la realtà socioeconomica e al tempo stesso di modificare in positivo i
comportamenti. E ancora: spirale della sfiducia, sostanziale tenuta delle reti dell’illegalità e della
corruzione, permanenza sostanziale, della subcultura di derivazione mafiosa fondata sulla cultura
della violenza, della prevaricazione, su ciò che Gaetano Mosca definiva “spirito di mafia”61. A
ragione, dunque, si può ancora parlare “di una normalità mafiosa complessa, adattiva che si nutre di
infinite emergenze nella ampia fascia di confine con la normalità sociale”, così come questa ultima
si alimenta talvolta anche di cultura mafiosa, mentre i mediatori della comunicazione sociale
attingono, influenzano e sono influenzati da entrambe le dimensioni”62 Sia che si abbia a che fare
con un codice culturale o subculturale, è fuori discussione che i modelli antropologici e stili
d’azione e di vita plasmati dallo “spirito di mafia”, dal “sentire mafioso” o addirittura, come
sostengono, a torto o a ragione alcuni psicologi, dalla “psiche mafiosa”, vengono introiettati già in
fase di socializzazione primaria soprattutto nelle aree più coinvolte dal fenomeno. Di ciò aveva
consapevolezza Gaetano Mosca quando sosteneva che il solo sapere leggere e scrivere non cambia
sostanzialmente la maniera di pensare e di sentire di un uomo e tanto meno di una collettività e che
purtroppo il “disimparare” è una cosa molto più difficile dell’“imparare”. La diffusione di
comportamenti configgenti con le regole del diritto e dello Stato, di ciò che Mosca definiva “spirito
60
61
L. Sciascia Inchiesta a Palermo, cit. G. Mosca (1901-1908), Uomini e cose di Sicilia, Sellerio, Palermo 1980.
62
G. De Leo, Premessa a G. De Leo, M. Strano, G. Pezzuto, G.L.C. De Lisi, Evoluzione mafiosa e tecnologie criminali, Giuffrè,
Milano, 1995: 18.
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di mafia”, si intrecciava con il sovversivismo delle classi dirigenti locali protese attraverso il monopolio della violenza alla conquista del monopolio del consenso. Cutrera, Mosca e lo stesso
Napoleone Colajanni, pur ammettendo che non pochi rappresentanti dell’aristocrazia siciliana erano
coinvolti in associazioni mafiose, delimitavano tuttavia questa partecipazione all’ambito di una
fenomenologia di una nobiltà rozza e incolta, perdipiù legata a vecchie forme di potere. Quando nel
1888 apparve Corruzione politica, presso l’editore Tropea di Catania, Napoleone Colajanni a poco
più di quarant’anni, era già un intellettuale di livello nazionale apprezzato come docente
universitario, come deputato al parlamento, come acuto pubblicista e polemista. Nei suoi discorsi
alla camera dei deputati Colajanni denunciava e condannava il malcostume, lo strapotere e la
corruzione dei potenti come nel caso dello scandalo della Banca Romana:
Primo e supremo fattore della moralità pubblica e privata è l’educazione nel senso ampio della parola;
l’educazione della famiglia e soprattutto quella che viene dall’ambiente sociale.
Gli effetti di una data educazione non si rendono manifesti che dopo una lunga serie di anni. Avviene,
di conseguenza, che caduto un regime, trasformate certe istituzioni, si hanno manifestazioni diverse da
quelle sperate dal nuovo regime e dalle istituzioni trasformate in bene o in male. La meraviglia e la
sorpresa non possono attecchire che negli animi volgari e nelle menti superficiali”63.
E così Alessandro Tasca nella accondiscendenza dei signori alla criminalità associata o
individuale vedeva in parte convenienza e in parte una tendenza che lui stesso definisce chic.
Vi è della convenienza – scriveva – perché incapaci come sono a tutelare i loro interessi in mancanza
di quella cultura moderna indispensabile oramai nella società contemporanea, essi trovano più comodo
affidare la sicurezza delle loro persone e dei loro averi a codesti bravi coi quali si legano siffattamente che
il giorno in cui capitano sotto le grinfie della giustizia sono poi costretti a difenderli con tutti i mezzi. V’è
anche dello chic a causa di quel rispetto quasi feticista che la maffia prepotente, utilitaria e duttile porta
agli antichi signori ai quali la lega un patto di complicità indissolubile64.
63
Napoleone Colajanni, Corruzione politica, Tropea, Catania 1888. Citiamo dall’edizione de La zisa , 1988:7-8
64
A. Tasca, Il processone, in “La battaglia”, 12 maggio 1902, n. 23, citato da F. Renda, Socialisti e cattolici, cit., p. 399.
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E’ chiaro che questa situazione di stallo permanente, rende permanentemente fragile il tessuto
democratico e dissipa gli stessi progressi, nonostante i successi dello Stato nell’azione di contrasto
delle cosche. La mancanza di efficaci politiche multidimensionali integrate nel territorio e di
adeguate strategie di sviluppo anche di medio periodo, influisce anche sullo sviluppo della
coscienza antimafia che è sottoposta così ad uno stress continuo: flusso/riflusso, fiducia/sfiducia,
mantenimento del capitale sociale negativo come quello di derivazione mafiosa, e mancato
investimento-costruzione in quello positivo.
Questi contesti sono destinati a rimanere, ancora per larga parte pre-moderni o a fare un salto in
una postmodernità che prescinde dalla legalità e dalla costruzione dello sviluppo. Giustamente Ilvo
Diamanti ricorre ad una associazione perversa tra un “ipersviluppo distorto” e una
“modernizzazione incompiuta”65
Alfred Schutz66 direbbe che non si è formato un “senso comune” della legalità e della
costruzione dello sviluppo con comportamenti conseguenti degli attori individuali e collettivi.
Siamo ancora ben lontani, direbbe Antonio Gramsci67 da quella saldezza e da quella imperatività
che, sostenendo l’azione degli uomini è in grado di agire, sulla cultura (cioè sui modi concreti di
vedere e fare le cose), sui comportamenti, di produrre norme di condotta. Ciò significa che il senso
comune non è ancora diventato, uno schema efficace di azione, un “presupposto culturale”
consolidatosi nel tempo, col quale ci accostiamo alla realtà e la affrontiamo quotidianamente.
Lo stesso vice presidente di Confindustria Ivan Lo Bello, pur evidenziando i progressi della
società siciliana dal 1991, anno dell’assassinio mafioso dell’imprenditore Libero Grassi68, ammette
che non si è trattato di cambiamenti rilevanti, di “grandi cambiamenti” in grado di determinare
mutamenti profondi nell’economia, nella politica, nella società, che permane, a suo avviso, un’area
molto ampia della società che rimane nel mezzo tra la vecchia e la nuova Sicilia:
E’ questa la componente più ampia, la Sicilia silenziosa, in mezzo al guado, in larga parte indifferente
ai cambiamenti, sfiduciata da decenni di promesse, una Sicilia che ha paura del futuro. E’ questo pezzo di
società che può fare la differenza, chiudere per sempre la lunga stagione delle clientele, delle
65
Ilvo Diamanti, Quel viaggio di Visetti nel paese smarrito, la Repubblica, 28 maggio 2009.
Cfr. Alfred Schutz, Saggi sociologici, trad. it. UTET, Torino, 1979
67
Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975.
66
68
Ivan Lo Bello, La lezione di Libero e chi non la ha imparata, la Repubblica Palermo, 29 agosto 2014
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compiacenze con la mafia, della spesa pubblica improduttiva, del circuito clientelare tra politica e società.
Purtroppo ancora oggi la sua inerzia rafforza la mafia, ne perpetua il ruolo “sociale e politico”, ostacola i
cambiamenti necessari. Questo pezzo di società è il cuore della “questione siciliana”, della sua
arretratezza sociale ed economica, ma anche delle possibilità di cambiamento… E’ qui che si cementa da
decenni il rapporto tra mafia, politica e imprenditoria. La questione economica e politica è cruciale nelle
vicende siciliane: senza grandi cambiamenti la Sicilia rischia di rimanere la regione del sottosviluppo,
come strumento funzionale ad impedire qualunque forma di innovazione sociale ed economica69
Nell’analisi di Lo Bello, per molti aspetti condivisibile, manca un approfondimento delle cause
che non hanno reso possibile quei “grandi cambiamenti” realmente in grado di trasformare
profondamente, radicalmente Palermo e la Sicilia, di mettere in movimento processi realmente
innovativi e quella schumpeteriana “distruzione creatrice” che significa: capacità di tutela del
territorio, delle sue ricchezze naturali
delle sue specificità ambientali e artistiche, della sua
“tipicità”, non solo risorsa, fattore produttivo, ma elemento fondamentale di un sistema sinergico
di collegamento concreto e possibile tra economia, natura e cultura. Le grandi trasformazioni
possono essere analizzate alla luce di un’analisi che prende in considerazione le formazioni
economico-sociali determinate anche alla luce della qualità dei processi di modernizzazione e delle
classi dirigenti all’interno dei quali va considerato anche il ruolo storico dei ceti imprenditoriali.
Converrà soffermarsi, pur brevemente, su questo rilevante aspetto.
15.
Classi dirigenti e processi di modernizzazione
Avvalendosi della dicotomia modernizzazione attiva/ modernizzazione passiva, Luciano
Cafagna, in un saggio apparso nel 198870, analizzava i “modi di mutamento caratteristici” dell’area
meridionale chiedendosi se si debba parlare di ritardo o non piuttosto di diversità.
Il tema della «modernizzazione attiva» viene inquadrato nell’ambito dei processi identitari nei
quali le collettività si riconoscono identificandosi in una determinata cultura, in interessi e valori.
69
70
Ivan Lo Bello, La lezione di Libero, cit.
L. Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, in “Meridiana”, n. 1, 1987.
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Ma può un’organizzazione sociale di questo tipo sopravvivere, si chiede Cafagna, senza uniformarsi
“ad alcune basilari modalità di organizzazione sociale di tipo «moderno»”?
La risposta alla domanda – osserva Cafagna – è, però, pressoché ovvia: no, una collettività non
può sopravvivere, salvo che non riesca a isolarsi drasticamente. Ma l’isolamento stesso, in quanto
comporta una capacità di difesa da eventuali tentativi esterni di romperlo, vuole un adeguamento
«moderno» di quelle capacità di difesa. Quindi, la modernizzazione, cosi intesa, appare
inevitabile71.
La modernità delle collettività concrete sembra avere un fondamento relazionale dal quale trae la
forza e il dinamismo competitivo e relazionale. Il concetto di modernizzazione attiva è legato allo
sviluppo e all’adozione di tecnologie moderne nelle attività economiche, alla crescita della loro
tutela,
connessione
e
organizzazione.
Come
è
del
tutto
evidente
ciò
implica
la
“proceduralizzazione” dei modi di negoziare e di aggregazione del potere72.
I casi classici, per i quali dai quali Cafagna mutua il concetto di modernizzazione attiva, sono
caratterizzati dalla presenza attiva di ciò che Antonio Gramsci definiva come «blocco storico»,
“fatto di vertice statale dotato di iniziativa e organizzazione”, sono la monarchia prussiana, il
Piemonte cavouriano, il governo Meiji, la burocrazia zarista. Si tratta di “gruppi sociali dominanti o
ascendenti di sostegno, di una cultura/ideologia a mistura tradizional-innovativa (ovvero articolata
in più facce con ampia intersezione cooperante”73.
Da questo punto di vista la modernizzazione attiva si inquadra nei processi idealtipici weberiani
di razionalizzazione, centralizzazione e burocratizzazione. Cafagna insiste particolarmente sullo
Stato-nazione come presenza attiva e trainante dei processi di modernizzazione e titolare dei
requisiti che invece mancherebbero alle aree regionali. Non va trascurato tuttavia, al fine di un
aggiornamento del concetto di modernizzazione il fatto che già nella seconda metà del Novecento
diventa progressivamente più significativo, il ruolo delle istituzioni locali (Regioni) e di quelle
sovranazionali (Unione Europea) che, come è stato osservato, “lasciano pensare alla possibilità di
71
72
Ivi, p.230. Cafagna individua altre tre fondamentali funzioni statuali, essenziali nel la situazione di diffusa adozione di tecnologie moderne
nelle attività economiche: «a) quella di garante della disciplina sociale, nelle sue strumentazioni di sorveglianza come in quelle di
consolidamento del consenso, b) quella di promozione e organizzazione (ancorché non esclusiva) di una istruzione conforme allo
sviluppo economico e al vivere altamente comunicativo e e), last but not least, quella di offesa/difesa verso l’esterno. Se non si vuol
peccare gravemente di omissione, non si dovrà tacere, infatti, che uno degli essenziali, ancorché sgradevoli, ingredienti della
modernizzazione di una collettività indipendente è l’armamento tecnologico moderno» (L. Cafagna, Modernizzazione attiva e
modernizzazione passiva, cit., p. 233).
73
L. Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, cit., p. 234.
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una modernizzazione attiva anche al di fuori dello stato-nazione, cioè alla presenza di determinati
requisiti politici anche nell’ambito regionale e locale”74.
La modernizzazione passiva si caratterizzerà, al contrario di quella attiva, per l’assenza di un
“blocco storico” con ruolo guida e di strategie competitive. La passività implica il subire,
subalternità, rinunzia alla competitività attiva, con le parole di Emanuele Felice, “un approccio
adattivo, subottimale in quanto a risultati”75. Cafagna comunque precisa due aspetti sulla scorta dei
quali distinguere la modernizzazione attiva da quella passiva. Innanzitutto nella modernizzazione
attiva è essenziale “l’identificazione fra collettività ed élite modernizzante (postulata da questa e più
o meno accettata dalla collettività)”76.
Mentre nella modernizzazione attiva prevarranno “unità e coordinazione strategica, “nel caso
della modernizzazione «passiva» prevarranno elementi di sollecitazione esterna diretta, di
spontaneità e molecolarità dei mutamenti con scarsa o nulla coordinazione politica, di mancanza di
identificazione fra settori modernizzantisi e collettività nel suo insieme. Qualcosa avviene, ma non
si tratta di una risposta strategica, mancando a questa il presupposto di attori protagonisti, con
relative intenzioni, e di un percorso di mutamento in qualche modo gestito politicamente77.
Caratteristica distintiva della «modernizzazione attiva» è, dunque, la prospettiva progettuale,
costruita da un’adeguata classe dirigente e da un blocco di forze che la sostengono.
Una riflessione, per diversi aspetti nuova sui processi di modernizzazione, è proposta da
Emanuele Felice sulla scorta delle analisi neo-istituzionaliste di Daron Acemoglu78 e James.
Robins79 i quali distinguono istituzioni “inclusive” ed “estrattive”. La scelta della modernizzazione
passiva è propria delle istituzioni economiche e politiche di tipo “estrattivo” che piegano e
concentrano il potere, anche non legittimo, nelle mani dell’élite, “ponendo vincoli formali e
74
E. Felice, E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, il Mulino, Bologna 2014: 96..
Ivi, p.97. 76
L. Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, cit., p. 235. Scrive Felice:
«Dobbiamo invece assumere che la modernizzazione attiva possa prodursi anche in ambito nazionale, quanto nella sfera locale: in
questo secondo caso le élite locali partecipano attivamente al processo modernizzante, condividendo i valori e implementando le
strategie del blocco storico nazionale. Va da sé che la modernizzazione attiva sul piano locale è cruciale nella misura in cui vi sono
politiche che ricadono in parte o interamente sulle istituzioni periferiche» (E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, cit., p. 96).
77
Ivi, cit., pp.235-236.
78
D. Acemoglu, Oligarchie versus democratic societies, in “Journal of European Association”, 6, 2008, n. 1.
79
D. Acemoglu e J. Robins Why Nations, Fail. The Origins of Power, Prosperity, and Powerty, London, 2012, trad. it. Perché le
nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità, e povertà, il Saggiatore, Milano 2013.
75
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informali all’effettiva partecipazione dei cittadini” ed estraendo “reddito e ricchezza da una parte
larga della società, a beneficio di una frazione privilegiata”80.
Delle istituzioni di tipo estrattivo si avvalgono le élites le quali concepiscono la modernizzazione
solo nella misura in cui non confligga con i propri interessi e i cui effetti positivi non intacchino il
loro potere e non ricadano sulle classi subalterne che potrebbero servirsene al fine del cambiamento.
Modernizzazione passiva ed istituzioni politiche ed economiche di tipo estrattivo hanno
determinato l’isolamento del Mezzogiorno, diffusa sfiducia, protagonismo dei mafiosi.
Mafia, ’ndrangheta e camorra nascono, dunque, già prima nella prima metà dell’Ottocento,
durante il Regno delle Due Sicilie, come afferma Felice, «figlie proprio di quella situazione di
profonda diseguaglianza e di assenza dello Stato, di predominio della nobiltà e di debolezza della
borghesia […] una “borghesia abortita”, come ebbe a scrivere Emilio Sereni, che si assimila alla
proprietà di origine feudale, assume aspetti ed adotta forme di comportamento semifeudale»81.
Le mafie si sviluppano dunque in mancanza di processi attivi di modernizzazione guidati da
classe dirigenti in grado di guidarli efficacemente. A questo proposito Carlo Trigilia ha parlato di
una cultura delle classi dirigenti “densa di elementi di scetticismo e di autodistruttività”, incapace di
innescare uno sviluppo economico e civile e che ha incentivato la formazione del potere mafioso
come “sistema politico locale alternativo”. In questo modo il sistema mafioso sviluppa una sua
politicità che “regola”, per così dire, il rapporto con lo Stato, ibrida i processi economici, politici e
culturali e la stessa struttura della legalità.
Sulla cattiva qualità delle classi dirigenti meridionali, d’altra parte, influisce un altro importante
fattore: le politiche di sviluppo nel Mezzogiorno più che essere finalizzate nella prospettiva della
crescita e della modernizzazione sono state trasformate in politiche distributive da ceti politico
amministrativi “controinteressate” a promuovere lo sviluppo e finalizzate unicamente
all’ottenimento del consenso82.
Processi di modernizzazione questo tipo cercavano di portare avanti quanti lavorarono con Dolci
e si impegnarono "Centro studi e iniziative per la piena occupazione" fondato da Danilo Dolci.
80
E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, cit., p. 97. Ivi, p.61.
82
A. La Spina, La politica per il Mezzogiorno nell’Italia repubblicana, in A. La Spina e C. Riolo, Il Mezzogiorno nel sistema
politico italiano. Classi dirigenti, criminalità organizzata, politiche pubbliche, Franco Angeli, Milano 2012. Scrive La Spina: «In
definitiva, una politica di sviluppo che incappa nella deriva distributiva diviene essa stessa un potente fattore di aggravamento del
sottosviluppo. Il che è appunto quanto è avvenuto e continua ad avvenire nel caso italiano» (p.175).
81
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Questi temi furono dibattuti nel convegno di Palma di Montechiaro (27-28-29 aprile 1960)83. Erano
gli anni del boom economico, di progetti mancati e di speranze deluse. Il clima era quello delle
grandi aspettative. Furono avviate politiche costose che però si rivelarono fallimentari per rompere
il dualismo nord-sud e avviare un modello di sviluppo unitario, malgrado il convegno mettesse in
guardia contro ipotesi di industrializzazione non in grado di costruire e organizzare innovazione e
sviluppo o che consideravano come realtà separare industria e agricoltura. Nel suo intervento al
convegno, Giorgio Napolitano, allora dirigente del Pci, disse che «la politica di incentivi ha portato
alla creazione soltanto di alcune isole, alla creazione di un certo numero di industrie ad alta intensità
di capitale e con uno scarso numero di lavoratori che vi hanno trovato l’occupazione e senza che
questo sviluppo si sia diffuso, senza che i benefici dell’industrializzazione si siano diffusi». E
aggiunse: «sta per avviarsi uno sviluppo industriale, in cui sono sorte delle grandi industrie moderne
che si pongono all’avanguardia della tecnica, ma da questo sviluppo industriale non è derivato
nessun miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni delle zone circostanti». A distanza
di oltre cinquant’anni quella realtà non esiste più ma la Sicilia e il Meridione si trovano ancora allo
stesso livello di certi paesi arretrati, entrati da poco a far parte dell’Unione Europea e collocati a
grande distanza dai paesi avanzati. Il sud d’Italia continua ad appartenere al sud dell’Europa e del
mondo.
16.
Una città e un’isola “senza”
Questa, dunque la Palermo della metà degli anni Cinquanta descritta da Dolci e dagli autorevoli
intellettuali citati. Di lì a poco i sottili fili di speranza si andranno progressivamente spezzando con
la sanguinosa repressione della miseria e della disperazione dell’8 luglio 196084, con il dominio del
potere politico mafioso, con il sacco di Palermo, con l’intreccio diffuso tra corruzione e mafia che
83
Il convegno si svolse dal 27 al 29 aprile 1960 e gli atti, a cura di Pasqualino Marchese e Romano Trizzino, del Centro Studi e
Iniziative per la piena Occupazione di Partinico, furono pubblicati in un testo ciclostilato. Vi parteciparono studiosi e personalità di
livello nazionale e internazionale. Fra gli altri: Giorgio Napolitano, Carlo Levi, Leonardo Sciascia, Paolo Sylos Labini, Salvinus
Duynstee, Francesco Renda, Ideale del Carpio, Ignazio Buttitta, Silvio Pampiglione. Del comitato d’onore del convegno facevano
parte tra gli altri: Paul Baran, Lamberto Borghi, Johan Galtung, Julian Huxley, Carlo Levi, Pierre Martin, Silvio Milazzo, Ferruccio
Parri, Elio Vittorini.
84
Per una ricostruzione si veda Franco Padrut, 8 Luglio 60. Franco Padrut rievoca le barricate di Palermo, la Repubblica,8 luglio
2010
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disperdono i sussulti di una primavera palermitana che pure aveva riannodato i fili della speranza.
La città della primavera, dissipa i tentativi di costruzione di società civile nella lotta contro la mafia
per la legalità e lo sviluppo e si trasforma nella sepulcral city, animata dalla danza macabra a due
tra mafie e antimafie e, a volte a tre, per la partecipazione di quella che Pietrangelo Buttafuoco
definisce “la mafia dell’antimafia”85.
Il lettore che ha avuto la pazienza di seguirci fin qui ha, crediamo, sufficienti elementi per un
confronto critico tra la Palermo e la Sicilia analizzata da Dolci86 e la Palermo e la Sicilia nelle quali
viviamo.
A conclusione gli proporremo soltanto una rassegna delle definizioni di Palermo e della Sicilia
che ci sembrano tra le più significative.
Da più parti, si sottolinea la permanenza di una sostanziale somiglianza della Palermo odierna
alla rappresentazione lumpen fattane da Cinico Tv di Ciprì e Maresco. La Panormus urbs ferox di
Marcello Benfante, è molto vicina alla Palermo irredimibile di Sciascia, e a quella “fetida e infetta”
come in un ”luglio fervido” apparve a Vincenzo Consolo: la Palermo “dei morti che camminano”
come Libero Grassi.
Ritorna la rappresentazione vittoriniana della “Sicilia di sempre” di Elio Vittorini : “fertile e
desolata, isola felice e terra di fame”; in (felix) secondo la lettura di Piero Violante; mera “entità
talattica” secondo Manlio Sgalambro; Buttanissima come la Sicilia di Buttafuoco; “silenziosa”
come quella parte ampia della società siciliana che secondo Ivan Lo Bello, continua a difendere la
vecchia Sicilia; schiava, secondo Sebastiano Aglianò, “delle forze occulte in cui le classi dirigenti
lo hanno collocato e che egli continua a costruirsi” , “città incompleta” come la definiscono G. De
Spuches, V . Guarrasi ed M. Picone. Una città e un’isola a cui mancava e continua a mancare
sempre l’essenziale, una città e un’isola “senza,” per riprendere il titolo del noto libro di Alberto
Arbasino Un paese senza del 1980. La preposizione privativa riferita alla Sicilia, e perfettamente
calzante per la città di Palermo ricorrerà, quasi ossessivamente, negli scritti di sociologi, storici,
economisti, antropologi etc. E così: Augusto Graziani userà l’espressione “benessere senza
85
Pietrangelo Buttafuoco, Buttanissima Sicilia. Dall’autonomia a Crocetta, tutta una rovina, Bompiani, Milano:61.
Riccardo Musatti, nella seconda edizione (1958) di La via del Sud, un libro apparso nel 1955 per le Edizioni di Comunità (La via
del Sud è stato ripubblicato nel 2013 da Donzelli a cura della Fondazione con il Sud), esprimeva la sua “incondizionata
ammirazione” per la sua capacità di “maneggiare, senza bruciarsi, una massa incandescente di vita” (La via del Sud: 145).
86
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sviluppo”, di Sviluppo senza autonomia parlerà Carlo Trigilia; di Mezzogiorno senza
meridionalismo Giuseppe Giarrizzo; di “Industrializzazione senza sviluppo” parleranno Eyvind
Hytten e Marco Marchioni; di “processo di modernizzazione in assenza di un reale sviluppo”, Jane
e Peter Schneider, e, infine, di “modernizzazione senza cambiamento sociale” parlerà Emanuele
Felice. Continuano a dominare i comportamenti, violenti fino alla ferocia, descritti da Roberto
Alajmo in E’ stato il figlio, ridicolizzati magistralmente da Benigni in Johnny
Stecchino e
raccontati con superba ironia ed efficacia comunicativa nel film La mafia uccide solo d'estate di Pif
Da ultimo, il Belluscone di Maresco tratteggia una Palermo disperatamente “senza” speranza” in
cui:
L’addolorato ma implacabile overlook di Maresco, concentrato più che mai a ribadire lucidamente la
caduta di qualunque illusione di emancipazione dallo sfascio, finisce con l’apparire ormai come il
trasparente, realistico documento della nostra depressa, fatiscente (e forse irredimibile) condizione
presente.
E comunque non tuona più la Palermo degli istituzionali salottini rabbiosamente “civili” che, durante
la giusta foia della primavera conquistata, opponeva all’irriguardoso nichilismo di Maresco e Ciprì il
cinema ben più edificante e speziato di Tornatore e Grimaldi87
Ritornano alla mente le parole di un altro grande scrittore siciliano, Gesualdo Bufalino, il quale
parlava della Sicilia “istrice, coi suoi vini truci, le confetture soavi, i gelsomini d’arabia, i coltelli,
le lupare”. E’ la stessa Sicilia che per Bufalino continua a inventarsi “i giorni come momenti di
perpetuo teatro, farsa, tragedia o melodramma”88.
Sono amarissime considerazioni che sembrano dare ragione al pessimismo dell’ultimo Sciascia.
“Ancora una volta – scriveva - voglio scandagliare le possibilità che forse ancora restano alla
giustizia”. Con le angosciate parole di Dürrenmatt si apre Una storia semplice, l’ultimo racconto
breve di Leonardo Sciascia, che sviluppa la ricerca su verità e giustizia in un contesto cruciale di
mafia e droga. Nella narrazione sciasciana verità e giustizia si dissolvono nella forma primordiale in
87
Umberto Cantone, Dalla censura al premio la rivincità di Maresco regista che visse due volte, la Repubblica-Palermo, 10
settembre 2014.
88
Gesualdo Bufalino, L’isola plurale, in G. Bufalino, N. Zago, Cento Sicilie. Testimonianze per un ritratto, La Nuova Italia,
Firenze,1993.
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cui il tempo si consuma freneticamente bruciando le possibilità della pausa, della riflessione, della
ragione: verità e giustizia affogano nella spirale del nulla tutto europeo del siciliano Sgalambro. Gli
spiragli aperti da attimi fugaci, senza il tempo di ricongiungersi in un filo di speranza, si
ricompongono nella temporalità perenne della falsità, dell’impossibilità della metamorfosi, del
predominio della sfiducia, della paura e della subcultura mafiosa. E alla fine cede il brigadiere,
l'unico personaggio che nel romanzo cerca la verità e che sembra voglia rompere con le tradizionali
pratiche di occultamento della verità. Uscito di scena quello che poteva essere il protagonista di
un'altra storia, il tempo e lo spazio vengono rioccupati prepotentemente dalla menzogna: “
"Incidente" disse il magistrato. "Incidente" disse il questore. "Incidente" disse il colonnello.
E perciò sui giornali: Brigadiere uccide incidentalmente, mentre pulisce la pistola, il
commissario capo della polizia giudiziaria.".
L'epilogo è fulmineo, si consuma in poche frazioni di secondo. Verità e giustizia prendono a
danzarci davanti, ci catturano, ci seducono. Sembrano ritrovare corposa esistenza spazio-temporale
nella coscienza dell'uomo della Volvo che riconosce nel prete il falso capostazione. Il filo tenue
della speranza è ora in quel suo stupore, nella comprensione della verità: basterebbe una parola, un
atto liberatorio, per imprimere una svolta alla storia di mafia. Ma non ci sono, alla fine, parole e atti,
rotture col passato. Solo silenzio. Verità e giustizia si allontanano dai noi come in una agghiacciante
sequenza da film dell'orrore.
La conclusione è di quelle che approfondiscono il solco tra noi, la verità e la giustizia,
lasciandoci in un vuoto abissale inconfessabile, incomunicabile che si nutre soltanto di silenzio.
L'utopia di un attimo, l'ebbrezza volatile di una radicale esperienza interiore protesa verso
l’intersoggettività e il sociale, si consumano nell'atto di un mero immagazzinamento di una
sensazione psicologica contingente che forse riaffiorirà
forse un giorno dal magazzino della
memoria. E così la Storia semplice sciasciana, diventa la solita storia e resta soltanto la fulminea
meraviglia e il disperante monologo dell'uomo della Volvo:
Uscì dalla città cantando. Ma ad un certo punto fermò di colpo la macchina, tornò ad incupirsi, ad
angosciarsi. "Quel prete," si disse "...quel prete...L'avrei riconosciuto subito, se non fosse stato vestito da
prete: era il capostazione, quello che avevo creduto fosse il capostazione".
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Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: "E che, vado di nuovo a cacciarmi in
un guaio, e più grosso ancora?".
Riprese cantando la strada verso casa.
Così mafia e antimafia tornano a danzarci davanti ancora una danza macabra.
Sarà possibile nella Palermo e nella Sicilia odierne costruire realmente una nuova “inclusiva”
classe dirigente in grado di avviare a superamento lo “stallo”, la crisi determinata, ormai da decenni,
nella quale come direbbe Gramsci “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”?
Dopo aver scandagliato rigorosamente e impietosamente tutte le difficoltà del nostro
Mezzogiorno e dell’intero paese, Carlo Borgomeo, ne L’equivoco del Sud, invita le possibili classi
dirigenti a ripartire prendendo atto responsabilmente della gravità della situazione:
Ci stiamo abituando troppo facilmente a considerare ineluttabile il degrado delle nostre città; a
scambiare la memoria delle nostre tradizioni positive con la nostalgia di tempi irripetibili, a considerare le
cose che funzionano come casuali e non replicabili eccezioni; a ritenere ovvio che la tradizionale
solidarietà dei meridionali si appanni progressivamente; a vivere confondendo illusioni e speranze.
Per farcela, per innescare un circolo virtuoso, pur tra mille e mille difficoltà, dovremmo soprattutto
come classi dirigenti, vivere una stagione di grande discontinuità psicologica, culturale, politica: avere
piena consapevolezza della gravità della situazione; decidere radicali cambiamenti nei comportamenti
individuali e collettivi, ripartire dalle nostre responsabilità89.
Ma è ancora davvero possibile che anche in una situazione in cui la crisi sembra aggravarsi, e
ben poco o nulla sembra cambiare nell’economia, nella politica e nella società, possano cambiare i
comportamenti individuali? Solo con lo sviluppo di responsabilità individuale e collettiva e la
discontinuità di politiche pubbliche davvero incisive e integrate nel territorio si potrà determinare
una svolta e costruire realmente una nuova classe dirigente.
Tutto ciò richiede una metamorfosi, una svolta profonda per segnare realmente l’inizio di
un’altra storia come quella di cui ci parla un grande filosofo, Peter Sloterdijk:
89
C. Borgomeo, L’equivoco del Sud, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 176-177.
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Nei nostri istanti migliori, quando davanti allo splendore perseverante della buona riuscita, il fare, il
più energico, fa luogo al lasciar stare, e il ritmo vitale ci sostiene spontaneamente, allora può annunciarsi
all’improvviso il coraggio, come una chiarezza euforica oppure come una serietà mirabile e serena. In noi
si risveglia il presente. L’attimo vigile si eleva con un balzo all’altitudine dell’essere. Freddo e chiaro,
ogni istante entra nel tuo spazio, né tu differisci da quella chiarezza, da quella freddezza, da quella
esultanza. Le cattive esperienze recedono davanti a nuove opportunità. Non vi è storia che ti invecchi. Il
disamore di ieri non costringe a nulla. Nella luminosa presenza di spirito l’incantesimo di un continuo
ripetersi è rotto. Ogni secondo consapevole estingue il disperante “già stato” e diventa il primo di un’altra
storia90.
90
Peter Sloterdijk, (1983), trad.it. Critica della ragione cinica, Garzanti, Milano, 1992.
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