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C`è il sigaro per i duri che durano
Cultura e Società l'Adige IL LIBRO Paolo Brinis domenica 11 agosto 2013 Definito il miglior amico dell’uomo, lo fumava però anche Caterina di Russia, senza sporcarsi i guanti DOCUFILM Guerra d’Etiopia la faccia bestiale del fascismo C’è il sigaro per i duri che durano GIUSEPPE CASAGRANDE I l miglior amico dell’uomo? Sorpresa: non è il cane, ma il sigaro. Lo ripeteva Hal Boyle, premio Pulitzer 1945, mentre stringeva tra le labbra il suo «Cohiba siglo VI gran riserva». Un sigaro raro e prezioso al pari dei mitici «Lanceros», i preferiti di Fidel Castro (il Lider Maximo ne regalò una scatola al cardinale Tarcisio Bertone) e ai «Belinda» amati dallo scrittore statunitense Groucho Marx (ne aveva sempre uno in bocca e a chi lo rimproverava rispondeva sarcastico: «Conosci forse un altro modo per fumarlo?»). Sono solo alcuni dei mille aneddoti raccontati dal giornalista televisivo Paolo Brinis nel volumetto «Il giro del mondo in 80 sigari». Un excursus piacevolissimo che si può gustare, capitolo dopo capitolo, sorseggiando magari un bicchiere di Porto, da abbinare (è il «mariage» ideale) con un buon sigaro cubano. Da sempre il sigaro vuol dire passione e trasgressione, fascino ed intrigo, sensualità ed eleganza, ironia e sottili piaceri della vita. Non a caso, lo fumano e lo hanno fumato, nel corso dei secoli, i più importanti protagonisti della politica e dello spettacolo, dell’arte e della letteratura (da Winston Churchill a Ernest Hemingway, da Orson Welles a Sigmund Freud, da Lord Brummel a Bill Clinton, da Mario Soldati a Fausto Bertinotti). Uomini, ma anche donne: Caterina di Russia per LA MOSTRA Dal 13 settembre Quello che fumava Clint Eastwood, nella foto, sugli schermi non era un sigaro cubano. Ma faceva comunque parte del personaggio: molti «duri» nella storia recente hanno fumato il sigaro: dal Che al primo ministro britannico Churchill. Non solo duri naturalmente: anche Gianni Brera, Mario Soldati e Groucho Marx. Da Fidel al Che, da Welles a Bertinotti «Amplifica il piacere quando con le dita accarezzi le foglie del tabacco» toscanelli, Mario Soldati, perennemente ripreso con gli occhiali sulla fronte e il mezzo sigaro pendulo tra le labbra: «Il mio primo toscanello l’ho fumato a 18 anni, me lo offrì un gesuita». L’ultimo a 92 poco prima di morire. Per Soldati fumare il sigaro è sempre stato un rito. «Il Toscano - diceva - bisogna auscultarlo. Premuto leggermente al centro, deve fare croc, ma un croc secco. Se fa crac oppure cric, non va: è troppo asciutto o troppo bagnato. Poi lo incidevo con una lametta e, prima di fumarlo, lo spezzavo in due». A lui hanno dedicato un sigaro a tiratura limitata dal gusto dolce e delicato. Analogo onore, negli anni Ottanta, era stato riservato a Giuseppe Garibaldi. Nella consapevolezza che comunque il fumo nuoce alla salute, è questo un libriccino, impreziosito dai disegni di Riccardo Dalisi, che non vuole avere nessuno scopo didattico. Non c’è nemmeno una trama vera e propria. È piuttosto un viaggio di fantasia, a bordo di una immaginaria mongolfiera, nella quale salgono di volta in volta, per parlare, ma non solo di sigari, una serie di personaggi illustri, del presente e del passato. Viene proposto anche un divertente dialogo con Sir Phileas Fogg, il protagonista di Jules Verne del «Giro del Mondo in 80 giorni». Interviste verosimili che fanno riferimento anche a dichiarazioni, episodi e circostanze reali, per scoprire un mondo, quello dei «puros» appunto, ricco di suggestioni, ma destinato comunque a trasformarsi in fumo e cenere. E per questo, da non prendere troppo sul serio. O forse proprio per questo, ciambella di salvataggio per difendersi dalle onde della vita. «Un combustibile sentimentale della vita» come ebbe a definirlo un diplomatico cubano. Miriam, libera pensatrice «E Tra le 150 opere in mostra per la retrospettiva promossa da Fondazione Fotografia sul fotografo americano Walter Chappell (1925-2000), che aprirà il 13 settembre all’ex ospedale Sant’Agostino di Modena, ci saranno anche alcune tra le opere più controverse dell’autore che durante la carriera si trovò a lottare contro la censura e a difendere la dignità artistica di alcuni suoi nudi. c’era il rischio di sporcare i guanti bianchi e immacolati. Anche per questo venne introdotta la fascetta di carta o di seta. Il mio amico Lord Byron compose anche un’ode in onore del sigaro e la dedicò agli ammutinati del Bounty. L’ode si chiudeva con una frase che non lasciava dubbi: datemi un sigaro! E Stendhal, che agli Avana preferiva i Toscani delle Manifatture Pontificie, un giorno - eravamo in pieno inverno - mi scrisse: «Un sigaro Toscano fortifica l’anima». Parere condiviso da un altro estimatore dei Serata | La figlia della Mafai domani presenterà a Comano il libro della madre DENISE ROCCA Modena, gli scatti di Walter Chappell avventura coloniale italiana in Africa - eufemismo per mascherare l’indicibile violenza e l’orrore di una guerra di conquista con decine di migliaia di deportazioni e fucilazioni arbitrarie, compresi i bambini, in Libia e l’uso senza risparmio del devastante gas iprite anche sulla popolazione civile in Etiopia - raccontata per immagini. È questo il taglio originale di «Pays Barbare» (Paese barbaro) dei milanesi di adozione Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, 65 minuti di docu-film di produzione francese, che porta un tema, conosciuto e foriero di polemiche fra gli storici, già trattato al Festival del cinema di Locarno. Una pellicola che concorre al Pardo d’oro e che mette il dito nella piaga ancora aperta del razzismo. E quindi - con un imponente e mai visto materiale di archivio fra cui lettere, cartoline, fotografie si può «leggere» la realtà e il modo di comunicare le «imprese» nell’epoca fascista. Immagine per immagine, la campagna imperiale si rivela per quello che è. Una farneticazione sulla superiorità della razza bianca e una guerra di rapina che con cooperazione e sviluppo nulla aveva a che fare. Ma negli scritti delle famiglie, dei soldati, delle coppie divise dalla ferocia della campagna militare appare anche un’Italia povera e onesta costretta dalle ristrettezze economiche a combattere o a emigrare. E lì nella purezza, questa sì, del pensiero e dell’amore si può vedere una prima incrinatura della dittatura. L’ I «CUBANI» citare la più famosa. La zarina, per evitare di macchiarsi le dita, incaricò il maestro cerimoniere di corte di procurarle una sottile strisciolina di seta. Accontentata. Scrittori, poeti, giornalisti, condottieri, statisti hanno sempre trovato e trovano nel sigaro un compagno fedele, sempre pronto ad interpretare il ruolo che, di volta in volta, gli viene richiesto poiché fumare il sigaro - amava ripetere Casanova - soddisfa l’olfatto, il gusto e amplifica il piacere fisico quando con le dita accarezzi le foglie di tabacco. È come accarezzare il seno di una bella donna. I rituali del fumo lento prevedono che il vero intenditore spogli delicatamente il proprio sigaro dell’«anilla» (la fascetta sulla quale è impresso il marchio di fabbrica dei sigari) e lo inumidisca delicatamente con la lingua. Ai miei tempi - racconta Lord Brummel - i sigari si fumavano umidi e quindi 7 ravamo una famiglia fuori dalle regole, a cominciare dal fatto che mio padre faceva il pittore e mia madre la scultrice, e noi bambine portavamo gli stivali di gomma». È un passaggio dolcissimo della biografia di Miriam Mafai, privato ma capace in pochi tratti di rievocare la mentalità dell’Italia d’inizio secolo. Altrettanto intimamente vissuti diventano i principali avvenimenti del secolo scorso raccontati da una figura che ne fu protagonista, da donna pergiunta. «Una vita, quasi due» (Rizzoli) è la biografia curata postuma che la figlia Sara Scalia presenterà domani alle 17 alle Terme di Comano. «Sono nata sotto il segno felice del disordine» è un incipit folgorante. Quali sono l’origine e il valore di questo disordine nella vita di sua madre? «Mia madre era figlia di una coppia di artisti: il padre era il pittore Mario Mafai, la madre Antonietta Raphaël, scultrice litua- na fuggita dalla rivoluzione del 1905 e approdata in italia sulle orme del Grand Tour. Era una donna molto peculiare: non imparò mai bene italiano, si cuciva da sola dei vestiti che definire originali è un eufemismo. Ebbero tre figlie prima del matrimonio, s’immagini lo scandalo. A loro diedero un’educazione religiosa molto bizzarra: rudimenti di ebraismo mescolati ad un po’ di cattolicesimo. Cambiarono casa molto spesso, anche in seguito alle persecuzioni razziali, e per finire poi in case molto particolari: erano in realtà atelier di artisti, frequentati da poeti, scrittori. Una vita famigliare che non assomiglia a nulla di ordinato e regolare, ma determinò una totale assenza di pregiudizi, una disponibilità assoluta nei confronti di persone e culture di ogni tipo e specie. La libertà di pensiero fu il frutto essenziale di questo disordine». Al cospetto di personalità come fu sua madre che visse una vita ricchissima, anche di tragedie, si dice che sono senza eredi. «Il fascino del libro e la ragione per la quale abbiamo tanto insistito perché lo scrivesse, è proprio che la sua vita si sia intrecciata in modo straordinario con gli eventi del ‘900. Arriva solo fino ai trent’anni di mia madre ma sono successe gia talmente tante cose a questo punto da riempire almeno due esistenze. La passione non mancò mai nella sua vita, dall’impegno politico a quello giornalistico. È questo che penso manchi ai contemporanei rispetto alle “passioni tristi”, chiave di volta dell’esistenza di quella generazione. Credevano in qualcosa che prescindeva dalle loro esistenze personali, la politica pure era questo. Oggi non è più così». Sua madre fu fortemente impegnata politicamente, ma professionalmente si svincolò dal giornalismo militante. «Elemento centrale della sua vita fu la libertà di pensiero: troppo libera e autonoma per poter essere in pieno una giornalista militante. Tanto che uno degli elementi di crisi del suo rapporto col giornale di partito fu un episodio che accadde a Roma a metà anni ‘70: fu appiccato il fuo- Miriam Mafai, figlia di artisti «liberi» e donna libera essa stessa co nella casa di una famiglia fascista della periferia romana. Fu una tragedia, morirono un paio di ragazzini, ci furono scene orrende. Mia madre lavorava in un giornale di sinistra, “Paese Sera”, che sposò la tesi di una faida interna ai fascisti, mentre venne volutamente accantonata l’ipotesi dell’azione di militanti di Potere operaio, che si rivelò poi vera. Mia madre capì che il giornale aveva preso posizione a prescindere dall’accertamento dei fatti e questo fu un momento di crisi terribile come giornalista. Non a caso appena ebbe la possibilità di entrare in contatto con Scalfari che stava fondando Repubblica, pur scon- sigliata da tutti, se ne andò». Miriam Mafai è anche un’icona di femminismo. Come giudicava il risultato delle battaglie femministe sul mondo di oggi? «Credo fosse un po’ amareggiata, si rendeva conto di una serie di passaggi all’indietro. Era incuriosita e infastidita dal “velinismo”, molto turbata dalla condizione delle giovani precarie a cui non viene riconosciuto nessuno dei diritti, a partire dalla maternità, che almeno nel lavoro erano stati ottenuti. L’amareggiava un clima culturale nel quale mancava un certo coraggio, segnato dall’indifferenza e dalla pigrizia intellettuale».