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principio cooperativo e sistema delle autonomie
PRINCIPIO COOPERATIVO E SISTEMA DELLE AUTONOMIE:
ATTIVITÀ NORMATIVE E RAPPORTI ORGANICI
a cura di
Elena Malfatti e Paolo Passaglia
(Dottorato di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali, Università di Pisa)
La raccolta di contributi che segue è il frutto di uno studio svolto in seno al Dottorato
di Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa (coordinato dal Prof.
Alessandro Pizzorusso), da parte di quei dottorandi che in particolare seguono gli sviluppi
della giurisprudenza costituzionale in tema di autonomie territoriali.
Nella scelta dell’argomento da approfondire nell’anno 2005, ci si è rivolti al principio
cooperativo, in ragione dell’importanza che il medesimo viene sempre più assumendo nella
connotazione del regionalismo italiano, sia sul piano organico che nella dinamica dei
processi normativi.
In effetti, la cooperazione, già elemento imprescindibile per la ricostruzione del
sistema delle autonomie, ha avuto, nell’ultimo periodo, nuove estrinsecazioni, emergenti da
varie pronunce della Corte costituzionale, oltre che dall’attività di altri soggetti istituzionali,
ivi compresa la recente approvazione del progetto di riforma costituzionale.
I contributi che seguono approfondiscono alcuni di questi spunti, cercando di cogliere
i tratti salienti dell’evoluzione inveratasi.
INDICE
GIAN CARLO A. FERRO – ROSANNA SCORDO, INTERFERENZE DI COMPETENZE
NORMATIVE E PRINCIPIO DI LEALE COLLABORAZIONE: ALCUNE VARIAZIONI
SUL TEMA DA PARTE DEL GIUDICE COSTITUZIONALE
CIRO MASSIMO CONGA, Il principio di “leale cooperazione” tra stato e regioni in
ordine all’adempimento degli obblighi comunitari
FEDERICA SCARLATTI, LA COOPERAZIONE TRA REGIONE ED ENTI LOCALI: IL
RUOLO DEL CONSIGLIO DELLE AUTONOMIE LOCALI
NICOLA PIGNATELLI, LA CONFERENZA
AUTONOME:
PROFILI FUNZIONALI E PROCEDIMENTALI
STATO-REGIONI
CRISTINA NAPOLI, L’INTRODUZIONE DEL SENATO
RAFFORZAMENTO DELLA LEALE COOPERAZIONE?
E
PROVINCE
FEDERALE:
UN
2
INTERFERENZE DI COMPETENZE NORMATIVE E PRINCIPIO DI
LEALE COLLABORAZIONE: ALCUNE VARIAZIONI SUL TEMA DA
PARTE DEL GIUDICE COSTITUZIONALE∗
di
Gian Carlo A. Ferro e Rosanna Scordo
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La distribuzione delle competenze tra fonte statale e fonte
regionale nel previgente Titolo V Costituzione. – 3. Il Giudice costituzionale e la ricerca del
fondamento del principio della leale collaborazione prima della riforma del Titolo V Costituzione.
– 4. Riforma del Titolo V e riparto di competenze tra centro e periferia. – 5. Sussidiarietà e riparto
flessibile delle competenze. – 6. La leale collaborazione come criterio di distribuzione delle
competenze legislative.
1. Premessa
L’utilizzazione
della
leale
cooperazione
come
parametro
del
giudizio
di
costituzionalità non rappresenta affatto una novità. Tuttavia, dopo la riforma del Titolo V
della Costituzione, il giudice delle leggi, e dei conflitti, ha fatto sempre più spesso ricorso
nelle proprie decisioni al principio cooperativo. Ciò sembra avvalorare la tesi più volte
espressa in dottrina 1, secondo cui il riparto delle competenze legislative sembra oggi
inquadrarsi entro i moduli propri dell’integrazione tra fonti.
In recenti decisioni giurisprudenziali, il principio in parola è stato impiegato come
vera e propria «tecnica» per la risoluzione dei problemi connessi all’individuazione dei
soggetti competenti a disciplinare materie, ove più evidente appare l’intersecarsi di interessi
diversi.
Nei paragrafi seguenti, si cercherà di vagliare la lettura offerta dal giudice delle leggi,
cercando di comprendere se possa essere considerata soddisfacente.
Appare opportuno, in via preliminare, tracciare brevemente l’uso che della leale
cooperazione ha effettuato la Corte prima della riforma costituzionale del 2001, entro un
contesto normativo formalmente diverso.
2. La distribuzione delle competenze tra fonte statale e fonte regionale nel previgente
∗
Il lavoro è frutto di comuni riflessioni degli autori. Tuttavia, i paragrafi 1, 2 e 3 sono da attribuire a Rosanna
Scordo; i paragrafi 4, 5 e 6 a Gian Carlo A. Ferro.
1
Cfr., da ultimo, A. RUGGERI, Quale sistema delle fonti dopo la riforma del Titolo V?, in questa Rivista, 2,
2006, 24 ss.
Titolo V Costituzione
L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ha profondamente modificato il
tradizionale sistema delle fonti del diritto2. A tal proposito è stato sostenuto che l’esperienza
giuridica del primo periodo repubblicano non colse appieno le conseguenze che il nuovo
quadro costituzionale aveva provocato sull’intero sistema delle fonti, ivi compresi gli
strumenti di risoluzione delle antinomie3.
Accanto all’ingresso di nuove fonti, all’interno del nutrito quadro già esistente, ciò che
maggiormente caratterizzò il nuovo assetto costituzionale fu il tramonto del mito della
sovranità della legge, sancito dal nuovo sistema di rigidità costituzionale, che
conseguentemente portò a rivedere uno dei concetti cardine della teoria delle fonti, vale a dire,
il criterio della forza formale della legge e, per conseguenza, la sistematizzazione delle fonti
su scala gerarchica, basata sulla forza formale della fonte per antonomasia, la legge ordinaria4.
I problemi sulla sistemazione e classificazione delle nuove fonti furono affrontati
intorno agli anni ‘40 e ‘50, facendo ricorso alle tradizionali figure della parità reciproca e
della gerarchia. Tali metodi di inquadramento risultarono applicabili al caso della
Costituzione, delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale, in quanto sovraordinate
alle leggi ordinarie dello Stato. Problematiche diverse furono sollevate in relazione alle leggi
regionali e al loro rapporto con le leggi ordinarie statali.
In particolare, si comprese che il criterio gerarchico fosse di per sé insufficiente, per
una corretta lettura del sistema delle fonti.
La riflessione di V. Crisafulli5 risultò determinante al fine di un corretto
inquadramento dei rapporti intercorrenti tra fonti e dei rispettivi criteri ordinatori. L’Autore
sostenne che l’esperienza degli ordinamenti a costituzione rigida, dove era consentito un
sindacato giurisdizionale sulla validità delle leggi, ed in particolare l’esperienza dei sistemi
federali e plurilegislativi, indusse a “modificare e correggere” lo schema gerarchico,
2
G. CATALDI, Le cause che ostacolano la conoscenza delle norme giuridiche, in Nuova Rass., 1948, p. 905
ss., esaminando le cause che impedivano la completa conoscenza delle disposizioni vigenti, elencava una
quarantina di specie diverse. Nota L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, p. 80, che l’Autore,
in quello scritto, includeva alcuni tipi di provvedimenti amministrativi generali, mentre non considerava altri tipi
di atti o fatti che la successiva dottrina costituzionalistica ha pacificamente inserito nel quadro delle fonti stesse
ampliando ulteriormente il quadro esistente.
3
L. PALADIN, op. cit., 81 ss.
4
Così, V. CRISAFULLI, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Studi in memoria
di G. Zanobini, Milano, 1965, Vol. III, p. 208. Nello stesso senso, A. D’ATENA, L’impatto del policentrismo
legislativo sul sistema delle fonti, in Studi in onore di L. Elia, Milano, 1999, T. I, p. 383, il quale, in relazione
agli effetti scaturiti dalla regionalizzazione della Costituzione del 1947, sostiene che una delle maggiori novità
sia rappresentata dalla “rottura del monopolio legislativo del Parlamento, e dall’avvento di un regime di
policentrismo legislativo”.
5
V. CRISAFULLI, op. cit., passim.
4
collocando la Costituzione in un gradino superiore alla legge: «L’assolutezza della formula
con cui si esprimeva la forza formale di legge [è stata], allora, opportunamente temperata...Ma
[è stata] una rettifica, questa, che in realtà, [ha avuto] un valore decisivo sulla teoria delle
fonti, rivelandosi suscettibile di dissolvere dall’interno lo stesso sistema gerarchico
solitamente ripetuto ed insegnato»
La Costituzione, invero, configurava un vasto ed eterogeneo sistema di fonti – leggi
costituzionali e di revisione costituzionale, leggi dello Stato e leggi delle Regioni, atti con
forza di legge di competenza del Governo, atti con forza di legge di competenza del corpo
elettorale (il referendum abrogativo), ed ancora altre leggi statali disciplinanti certe materie
per le quali sono stati previsti particolari limiti di presupposti e di procedimento, ovvero di
contenuto – difficilmente classificabili tramite il solo criterio della gerarchia. Per tali ragioni
si iniziò a parlare di criterio della competenza.
Varie norme costituzionali sottraevano, infatti, certe materie o certi rapporti alle leggi
dello Stato, dando vita ad una serie di atti normativi che non potevano essere classificati né in
termini di inferiorità, né di parificazione, né di sovraordinazione, nel confronto con le leggi
stesse, ma si presentavano, al contrario, come differenziati per l’ambito di attività normativa
spettante a ciascuno di questi. In tale ambito si inserivano le leggi regionali. Le leggi statali,
tuttavia, non risultavano del tutto incompetenti nelle materie affidate alle Regioni. Sicchè i
problemi che scaturivano dal rapporto tra la legge statale e la legge regionale richiedevano
compositi criteri di risoluzione delle antinomie6.
Secondo l’elaborazione crisafulliana, nell’ambito di tale composito quadro di fonti
normative, i soli principi generali che potevano tenersi fermi erano quelli concernenti la
subordinazione delle leggi formali e degli atti equiparati alla Costituzione e alle leggi
costituzionali, nonché la subordinazione delle fonti regolamentari alle leggi statali e regionali.
Tuttavia, tali due generalissimi criteri, della “preferenza” di legge costituzionale e della
“preferenza” di legge formale non risultavano per sé soli sufficienti a risolvere tutti i possibili
conflitti di norme nel sistema. E’ sulla base di tali premesse che Crisafulli sostenne che il
criterio della competenza dovesse accompagnarsi, e talvolta persino sostituirsi, al criterio
della gerarchia7.
Il criterio della competenza è stato elaborato con riferimento agli ordinamenti federali,
6
Per un’analisi puntuale in tal senso, cfr. V. CRISAFULLI, op. cit., p. 185 ss.; L. PALADIN, op. cit., p. 82
ss.; A. MOSCARINI, Competenza e sussidiarietà nel sistema delle fonti. Contributo allo studio dei criteri
ordinatori delle fonti, Padova, 2003, p. 156 ss.
7
Come opportunamente precisato dall’Autore, ciò non vuol dire che la gerarchia debba essere, «sempre e
senza residui, assorbita dalla competenza».
5
per “giustificare” un coordinamento tra fonti normative diverse, a ciascuna delle quali è stata
assegnata una propria competenza, distinta e separata da quella assegnata ad ogni altra.
Il criterio in parola è stato talvolta adoperato dalla nostra dottrina come criterio di
risoluzione delle antinomie anche in regime di costituzione flessibile8.
Ancor più, nel sistema delineato dalla Costituzione repubblicana, nel quale la legge è
subordinata alla Costituzione, con relativo sindacato di costituzionalità, nel quale è altresì
previsto un decentramento della funzione normativa, il criterio della competenza assunse
maggior rilievo quale criterio di risoluzione delle antinomie.
Secondo l’elaborazione offerta dal Crisafulli, il concetto di competenza ricorre quando
c’è «libero concorso possibile di più fonti sulla stessa materia»9: affinché possa parlarsi di
competenza dovrebbe aversi differenziazione di atti e quindi di soggetti, di procedimenti e di
forme, e, corrispondentemente separazione di materie, in modo che una fonte escluda l’altra.
Mentre risultava agevole ricostruire in termini di competenza il rapporto che intercorre
tre legge statale e regolamenti parlamentari, più complessa si presentava, invece, la
sistematizzazione dei rapporti tra legge dello Stato e leggi delle Regioni.
Tali ipotesi, infatti, definite «delicate e sfuggenti»10 rappresentavano una linea di
confine tra la competenza di determinate fonti a disciplinare una data materia e la conformità
del loro contenuto normativo a norme costituzionali. In tali casi, concluse l’Autore, solo in
senso “largo” poteva parlarsi di norme di competenza: nelle materie attribuite alla legge
regionale. Secondo quanto disposto dal vecchio art. 117 Cost, che contemplava quale potestà
legislativa “ordinaria” delle regioni quella “concorrente”, alla legge statale era demandato il
compito di porre i principi fondamentali della materia. L’atto normativo statale, pertanto, si
caratterizzava per una competenza circoscritta a determinati contenuti: i principi fondamentali
della materia. Questi ultimi condizionavano in varia misura, a seconda della loro maggiore o
minore puntualizzazione, la competenza della fonte regionale, deputata a porre norme di
dettaglio.
In questa ipotesi sulla stessa materia, si aveva un concorso possibile, anzi necessario,
di fonti: tale concorso, tuttavia, non poteva essere considerato libero, dal momento che a
ciascuna fonte era riservato un determinato tipo di normazione, di principio quanto alla fonte
statale e di dettaglio quanto a quella regionale. Quindi il concorso non avrebbe potuto
validamente porsi se non entro i limiti costituzionalmente imposti a ciascuna di queste. In tali
8
In proposito G. ZANOBINI, Gerarchia e parità tra le fonti, in Scritti in onore di Santi Romano, Padova,
1940, Vol. I, p. 603 ss.
9
Cfr.V. CRISAFULLI, op. cit., p. 202.
10
Cfr.V. CRISAFULLI, op. cit., 204.
6
casi tuttavia, sostenne l’Autore, sarebbe comunque rimasto un residuo di gerarchia, in quanto
i principi posti dal legislatore statale costituivano un vincolo a carico del legislatore regionale.
La ricostruzione crisafulliana, nonostante la precisazione che la gerarchia non possa
considerarsi assorbita dalla competenza, ha messo in ogni caso in crisi uno dei capisaldi della
costruzione gerarchica del sistema delle fonti, vale a dire quello attinente al nesso tra la forza
e la forma dell’atto: nel rapporto tra legge statale di principio e legge regionale di dettaglio, la
relazione gerarchica finiva per fondarsi su basi sostanziali, in funzione del contenuto
prescrittivo dell’atto e non del procedimento di formazione di questo. La gerarchia, cui tale
rapporto dava luogo, non era, dunque, una gerarchia formale, ovvero la “gerarchia delle
fonti”, ma una gerarchia relativa ai contenuti11.
Nel corso degli anni, tuttavia, si è determinata una profonda divaricazione tra il
modello costituzionale e la realtà della legislazione regionale. Lo spazio riservato al
legislatore regionale è stato occupato o compresso da innumerevoli disposizioni del
legislatore statale. Per contro, le leggi regionali sono state ridotte ad una serie di “leggine”,
caratterizzate dalla loro natura interstiziale, volte solamente ad integrare la fitta rete normativa
posta dal legislatore statale12.
Tali ragioni hanno condotto anche la dottrina più vicina all’idea di una rigorosa
separazione delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute allo Stato e alle Regioni a
riconoscere la “caduta di tono” della legislazione regionale13.
Il rapporto tra fonte legislativa statale e legge regionale nel precedente Titolo V Cost.
è stato caratterizzato, non solo dalla preminenza gerarchica delle clausole costituzionali, ma
anche dai condizionamenti della legislazione statale di principio14 che, sottoponendo la fonte
regionale a limitazioni più o meno stringenti, è giunta così a ridurre il margine di manovra
lasciato al legislatore locale.
Clausole ampie quali gli interessi nazionali (spesso sotto il nome di “esigenze
unitarie”), moltiplicavano i titoli giustificativi dell’intervento statale nei settori di competenza
regionale. Di conseguenza, il riparto delle competenze non poteva considerarsi rigido, non
valendo le attribuzioni regionali a precludere le interferenze statali.
11
Cfr. V. CRISAFULLI, op. cit., p. 205, che ha precisato che la «gerarchia che residua non è basata sulla
forza formale».
12
In tal senso L. PALADIN, op. cit., p. 301 ss.
13
L’espressione è di A. D’ATENA, Costituzione e Regioni, Milano, 1991, p. 222.
14
Cui sono state, in parte, equiprate le disposizioni legislative statali relative alle riforme economico-sociali.
Tale condizione di “asfissia” della legge regionale ha indotto taluno (cfr. L. PALADIN, op. cit., p. 336) a
definire “patetica” la stessa idea che le leggi locali potessero essere parificate o pariordinate alle leggi statali.
7
3. Il Giudice costituzionale e la ricerca del fondamento del principio della leale
collaborazione prima della riforma del Titolo V Costituzione
Il principio di leale collaborazione è stato elaborato e definito dalla Corte
costituzionale nel corso degli anni.
Esso non ha avuto un’evoluzione, per dir così, lineare, in quanto condizionato dalle
vicende legate al modello di regionalismo italiano. Com’è noto, infatti, il modello regionalista
delineato nella Costituzione del 1948 era ispirato ad una concezione garantista delle
autonomie regionali, caratterizzata dalla separazione e dalla concorrenza tra la sfera statale e
quella regionale15. Tale modello, tuttavia non venne mai applicato ma volse, nei fatti verso gli
schemi propri del regionalismo c.d. cooperativo, caratterizzato dalla cooperazionecollaborazione tra sfera statale e sfera regionale16.
Al fine di ricostruire brevemente le origini e l’evoluzione del principio in parola è
necessario analizzare la giurisprudenza costituzionale che ha svolto un ruolo chiave nella
“emersione” della leale collaborazione17 quale criterio guida dei rapporti tra lo Stato e le
Regioni. Nelle prime pronunce della Corte non si trovano spunti definitori del regionalismo
cooperativo, né del principio di leale collaborazione. Inizialmente, il Giudice costituzionale, si
limita ad un generico richiamo ad istanze di cooperazione e all’esigenza di ricercare un
accordo tra Stato e Regioni.
Una prima embrionale enunciazione di tale principio è stata fatta nella sentenza n. 49
del 195818 nella quale, per la prima volta, la Corte ha fatto riferimento alla collaborazione tra
lo Stato e la Regione, affermando che un rapporto di tipo cooperativo fosse del tutto normale
nel sistema delle nostre autonomie, sia che si trattasse di attività legislativa, sia che si trattasse
di attività amministrativa.
Le esigenze di un “accordo” sono state, infatti, ritenute imprescindibili in quanto
determinate attività amministrative, interferendo con funzioni proprie dell’Amministrazione
statale, necessariamente implicavano il consenso dell’amministrazione interessata. Il Giudice
15
In tal senso, V. CRISAFULLI, Vicende della “questione regionale”, in Le Regioni, 1982, 497 ss., il quale
scriveva che in Assemblea costituente “dominante e determinante risultò la concezione liberal-garantista delle
autonomie regionali”, infatti, continua, l’A., le autonomie regionali furono volute e pensate quale limite, freno al
potere statale.
16
In senso poco favorevole all’applicazione del modello cooperativo in assenza di un testo costituzionale che
garantisca la parità delle posizioni statali e regionali, M. LUCIANI, Un regionalismo senza modello, in Le
Regioni, 1994, 1313 ss. Sul processo di decentramento “normalmente” distinto in due fasi, A. Baldassarre,
Rapporti tra regioni e governo: i dilemmi del regionalismo, in Le regioni, 1983, 55 ss.
17
L’espressione è di A. GRATTERI, La faticosa emersione del principio costituzionale di leale
collaborazione, in Atti Convegno Pavia 2002, 416 ss.
18
Il caso riguardava un giudizio di costituzionalità su una legge regionale della Sardegna recante norme per
l’abolizione dei diritti esclusivi perpetui di pesca e per disciplinare l’esercizio della pesca nelle acque interne e
lagunari della regione.
8
costituzionale ha ritenuto che, laddove vi fossero competenze (amministrative) in parte
sovrapposte, dovesse esservi un accordo, una collaborazione, tra gli enti contitolari delle
medesime competenze o di competenze diverse ma tra loro fortemente collegate.
Solo a partire degli anni ‘70, con l’attuazione dell’ordinamento regionale nel suo
complesso, la Corte ha iniziato ad elaborare in maniera puntuale il principio e gli strumenti
della collaborazione. Il Giudice costituzionale inizialmente non è andato alla ricerca del
fondamento costituzionale del principio di leale collaborazione19, essendosi limitato a
tratteggiare ed indicare il percorso da seguire per l’attuazione dei moduli cooperativi 20.
Le indicazioni fornite dalla Corte hanno permesso, negli anni, di ricavare il “nucleo
duro” di siffatto principio, l’essenza di esso e le conseguenze che da questo scaturiscono: ben
chiaramente si è rilevata la valenza procedimentale della collaborazione.
In questa fase, la giurisprudenza costituzionale ha iniziato a precisare i contorni della
leale collaborazione, non pervenendo, tuttavia, al riconoscimento di un fondamento
costituzionale di tale principio. Solo con la giurisprudenza degli anni ‘80 la Corte ha operato
in tal senso.
Il leading case è stato costituito, in proposito, dalla sentenza n. 94 del 198521, in
materia di competenze legislative statali e regionali sulla tutela del paesaggio. Quest’ultima,
ha osservato il giudice delle leggi, presuppone normalmente la comparazione ed il
bilanciamento di interessi diversi, in particolare degli interessi pubblici rappresentati da una
pluralità di soggetti, la cui intesa è perciò necessario perseguire di volta in volta, se comune è
il fine costituzionalmente imposto. L’esigenza di dar tutela ad un valore costituzionale ha
indotto, pertanto, la Corte a giustificare il ricorso all’intesa, attraverso un richiamo diretto
all’art. 9 Cost. Secondo il Giudice costituzionale il termine “Repubblica” di cui all’art. 9 Cost.
deve essere inteso nel senso di Stato-ordinamento. Di conseguenza, tutti i soggetti che lo
costituiscono, principalmente Stato e Regioni, devono essere chiamati a tutelare tale bene
costituzionale.
Un ragionamento simile, è stato seguito nella sentenza n. 294 del 1986 in materia di
19
A questo proposito, A. ANZON, “Leale collaborazione” tra Stato e Regioni, modalità applicative e
controllo di costituzionalità, in Giur. cost., 1998, 3535, sottolinea come la iniziale giurisprudenza costituzionale
sul punto, abbia seguito un percorso affatto lineare, spesso “più che ben meditata appare dettata dal criterio della
decisione caso per caso e cons.iste in mere e sbrigative affermazioni apodittiche”.
20
Nella sentenza n. 175 del 1976 è stato, ad esempio, affermato semplicemente che competenza regionale e
competenza statale dovevano coordinarsi tra loro, di guisa che potesse realizzarsi un giusto contemperamento
delle finalità rispettive.
21
Per una puntuale analisi della giurisprudenza costituzionale cfr. A. GRATTERI, La faticosa emersione…,
cit, 423 ss.; cui adde, D. GALLIANI, Riflessioni sul principio e sugli strumenti della collaborazione
(costituzionale) tra Stato e Regioni, in Q. Reg., 2005, 94 ss.
9
tutela della salute di cui all’art. 32 Cost.. Trattandosi di un valore di rilievo costituzionale, il
ricorso a moduli collaborativi è stato, anche in tal caso, ritenuto il più idoneo al
perseguimento delle finalità ad esso sottese.
Nelle ipotesi da ultimo addotte, si comprende come la Corte abbia finito per ancorare
l’esigenza di ricerca di un fondamento costituzionale del principio di leale collaborazione ai
casi in concreto sottoposti al suo esame. Era mancata pertanto, sino ad allora, una copertura
costituzionale generalizzata del principio in esame.
Solo a partire dalla sentenza n. 177 del 1988 il giudice costituzionale ha riconosciuto
alla leale collaborazione tra Stato e Regioni, carattere di valore fondamentale «cui la
Costituzione informa i predetti rapporti». Tale ragionamento è stato, successivamente,
sviluppato nella sentenza n. 470 del 1988, ove la Corte ha espressamente sottolineato che i
rapporti tra lo Stato e la Regione dovevano essere letti in termini cooperativi, in virtù del
riconoscimento delle autonomie nell’ambito di un disegno unitario». Seguendo tali percorsi
argomentativi, il giudice costituzionale è giunto a riconoscere, quale fondamento del principio
collaborativo, l’art. 5 Cost., che espressamente collega tra loro il valore dell’unità e quello
dell’autonomia.
Le pronunce sopra richiamate non sono rimaste isolate nella copiosa giurisprudenza
sul principio in esame. A mero titolo paradigmatico, si può in questa sede richiamare la sent.
n. 242 del 1997
22
ove la Corte ha con precisione, da un lato, sottolineato che la leale
collaborazione «deve governare i rapporti fra lo Stato e le Regioni nelle materie e in relazione
alle attività in cui le rispettive competenze concorrano o si intersechino, imponendo un
contemperamento dei rispettivi interessi», dall’altro ne ha individuato il fondamento nel
«principio costituzionale fondamentale per cui Repubblica, nella salvaguardia dell’unità,
riconosce e promuove le autonomie locali». Nella stessa pronuncia, inoltre, è stato
sottolineato che tale regola deve operare «su tutto l’arco delle relazioni istituzionali fra Stato e
Regioni, senza che a tal proposito assuma rilievo diretto la distinzione fra competenze
legislative esclusive, ripartite e integrative o fra competenze amministrative proprie e
delegate».
Si può affermare che, vigente il vecchio Titolo V, attraverso il richiamo alla leale
cooperazione la Corte ha giustificato, in nome della tutela di esigenze unitarie, interventi
statali al di là del mero riparto costituzionale delle competenze per materia. E tali incursioni
del legislatore centrale erano ammesse, in questi casi, laddove potessero essere
22
Ma, in tal senso, cfr. pure la sent. n. 19 del 1997.
10
controbilanciate da strumenti idonei a garantire la rappresentazione degli interessi delle
autonomie.
E’ necessario chiedersi, a questo punto, se dopo la riforma del Titolo V della
Costituzione, un tal modo di argomentare possa essere considerato del tutto superato.
4. Riforma del Titolo V e riparto di competenze tra centro e periferia
La riforma del Titolo V della Costituzione, disposta dalla l. cost. n. 3 del 2001, ha
mutato profondamente il criterio di riparto delle attribuzioni tra Stato e Regioni.
La nuova formulazione dell’art. 117 Cost. ha imposto che l’accertamento
sull’eventuale invasione di competenza vada alla ricerca non di uno specifico titolo di
legittimazione dell’intervento regionale, quanto, al contrario, dell’esistenza di riserve
esclusive o parziali, di competenza statale 23.
Uno degli aspetti problematici sollevati dal nuovo Titolo V è rappresentato dalla
eliminazione del riferimento al limite degli interessi nazionali (e delle altre regioni), prima
contemplato agli articoli 117 e 127 Cost. e che aveva consentito, in passato, invasioni di
campo da parte dello Stato negli ambiti rimessi alla competenza legislativa regionale.
E’ scomparso il riferimento testuale, ma non per ciò solo sembra essere venuto meno il
limite degli interessi nazionali precedentemente previsto a carico della potestà legislativa
regionale
24
. Invero, si è rilevato in proposito
25
che il limite dell’interesse nazionale è
comunque presente in tutti gli Stati federali, quale esigenza logica di sistema. In primo luogo,
non è stato modificato l’art. 5 della Costituzione e la proclamazione di quel principio unitario
da cui dottrina e tratti taluni limiti all’autonomia regionale.
Inoltre, l’applicazione del principio di sussidiarietà verticale di cui al novellato art.
118, comma I, Cost. implica, quasi di necessità, un raffronto tra l’interesse nazionale e quello
regionale, dato che la scelta del livello di governo più adeguato non può che risolversi in una
23
La letteratura sviluppatasi sul punto è copiosa. Si vedano, a mero titolo esemplificativo, tra i tanti, P.
CARETTI, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo titolo V
della Costituzione: aspetti problematici, in Le Regioni, 2001, 1223 ss.; A. ANZON, I poteri delle regioni dopo
la riforma costituzionale. Il nuovo regime ed il modello originario a confronto, 2002, Torino, 73; nonché P.
CAVALERI, Diritto regionale, Padova, 2003,142.
24
Contra, in particolare C. PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale, in Foro it.,
2001, V, 200.
Sul punto deve essere richiamata la ben nota sentenza n. 303 del 2003 – su cui, vd. infra - in cui la Consulta
ha dichiarato (punto 2.2 del considerato in diritto) che l’interesse nazionale non costituirebbe più un limite né di
legittimità né di merito alla competenza legislativa regionale. L’economia di questo scritto non consente di
approfondire quanto, in concreto, l’assunto possa dirsi fondato. Semmai andava meglio specificato che
l’interesse nazionale come inteso in passato non potrebbe trovare più ingresso nel nostro ordinamento.
25
cfr. A. BALDASSARRE, Audizione innanzi alla Commissione affari costituzionali del Senato in data 24
ottobre 2001, il cui testo è reperibile sul sito web www.senato.it.
11
ponderazione di interessi coinvolti 26.
Atteso che la individuazione di molti settori materiali fa riferimento al livello
d’interesse, un intervento legislativo statale in materie che sembrerebbero attribuite alle
regioni sarebbe comunque tuttora possibile, se necessario per realizzare le finalità imposte
allo Stato dall’art. 117, comma 2, Cost., che pare far assumere all’interesse nazionale veste di
limite di legittimità
Si rileva spesso, ad esempio, che accanto a materie in senso tecnico, dotate cioè di
un’unitaria identità oggettiva (quali, ad esempio, il sistema valutario o la legislazione
elettorale), l’elenco delle materie di competenza esclusiva statale contiene voci che si
configurano come «titoli di legittimazione trasversale»
27
, tali cioè da abilitare il legislatore
statale ad intervenire in tutti i campi materiali, senza che per questo possa dirsi violata la
regola di competenza (si pensi a materie quali la politica estera e i rapporti internazionali dello
Stato, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, e soprattutto, infine, la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale) 28.
Nell’esercizio di quelle che sono state efficacemente definite «competenze senza
oggetto»29, il legislatore statale potrebbe operare notevoli delimitazioni della sfera di
26
cfr. R. BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della
giurisprudenza costituzionale, in www.forumcostituzionale.it. Del medesimo avviso è A. BARBERA, Scompare
l’interesse nazionale, in www.forumcostituzionale.it, secondo il quale il limite dell’interesse nazionale
«permane…quale espressione dell’unità stessa della Repubblica. E’ un limite che appartiene alla categoria dei
limiti impliciti, ma che c’è, trova il proprio aggancio testuale nell’art. 5 della Costituzione e di cui v’è traccia
indiretta nell’art. 120, laddove prevede i poteri sostitutivi del Governo a tutela dell’unità giuridica ed
economica». Richiamando le osservazioni del Barbera, R. TOSI, A proposito dell’interesse nazionale, in
www.forumcostituzionale.it, cit. afferma che «la scomparsa del nome non ha determinato la scomparsa della
cosa»; L. TORCHIA, In principio sono le funzioni (amministrative): la legislazione seguirà, in www.giustiziaamministrativa.it
27
Così G. D. FALCON, Il nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, in Le regioni, 2001, 5.
28
cfr. A. ANZON, I poteri delle regioni dopo la riforma costituzionale. Il nuovo regime ed il modello
originario a confronto, cit., 89 ss. secondo la quale una delle novità introdotte con la l. cost. 3 del 2001, risiede
proprio nella disomogeneità delle tecniche adoperate dal legislatore costituzionale nel formulare le diverse voci
elencate nell’art. 117. L’obiettivo che in tal modo si intendeva realizzare era, verosimilmente, quello di
introdurre degli strumenti di flessibilità all’interno di un sistema di ripartizione, tendenzialmente rigido e
garantistico.
29
Ossia competenze chiamate a definire il rispettivo ambito di incidenza mediante il proprio esercizio. Cfr.
A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competenze, in Forum, cit. Prima della riforma, come
osservato da F. S. MARINI, La Corte costituzionale nel labirinto delle materie “trasversali”: dalla sent. n. 282
alla n. 407 del 2002, in Giur.cost., 2002, 2951, le materie si caratterizzavano prevalentemente per la presenza di
un «oggetto» che poteva consistere in un bene, in un ente o in un istituto. Diversamente, nei nuovi elenchi
costituzionali, oltre alle «materie oggetto», possono ravvisarsi, le «materie scopo» che sono, appunto, trasversali,
in quanto possono incidere su diversi oggetti con l’obiettivo di raggiungere la finalità costituzionalmente fissata.
Si tratta, in sostanza, di materie che, ad un attento esame, possono essere individuate solo in termini finalistici,
avendo riguardo non alle classi di fattispecie che devono costituirne l’oggetto, ma agli scopi che sono chiamate a
perseguire. Sul punto, si vedano pure le osservazioni di G. SCACCIA, Le competenze legislative sussidiarie e
trasversali, in Dir. Pubbl., 2004, 461 ss.
12
competenza legislativa regionale. Ne deriva che quest’ultima può essere condizionata, non
solo nella sua ampiezza sul piano orizzontale, ma anche nella sua estensione in verticale. Le
materie-scopo
30
sono caratterizzate, infatti, da una trasversalità tale da renderle idonee a
tradursi, non tanto in un mero ritaglio della competenza regionale a favore del potere centrale,
quanto, piuttosto, in limiti interni alla stessa competenza regionale 31.
Appare, forse, problematica l’individuazione del modello di distribuzione delle
competenze accolto nel novellato titolo V.
Com’è noto, la Costituzione del 1948 individuò un sistema di separazione delle
competenze, nel quale sfera statale e sfere regionali erano delineate come mondi dai confini
tendenzialmente predeterminati e piuttosto rigidi32.
Tale modello di regionalismo «vetero garantista» non è stato, di fatto, mai applicato.
Anzi, negli anni, si è sviluppato uno schema di regionalismo c.d. cooperativo, che ha inteso
poggiarsi «sulla base della necessaria integrazione delle competenze e, dunque, sull’idea per
cui Stato e regioni possono, in spirito di leale cooperazione, concorrere a vicenda all’esercizio
delle rispettive funzioni» 33.
Invero, tale modello ha sottinteso la valorizzazione dei diversi interessi in gioco e,
conseguentemente, l’individuazione dei livelli di governo più adeguati alla cura di questi
30
Cfr. F. S. MARINI, op. cit., 2952.
La giurisprudenza costituzionale sulle materie contenute nel novellato art. 117 della Cost. è stata
inaugurata dalla sentenza n. 282 del 2002 in cui sono venuti in rilievo i problemi relativi all’ordinamento civile,
alla tutela della salute e alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali.
In particolare, in riferimento a questi ultimi, la Corte, confermando in qualche modo quanto già rilevato in
dottrina (cfr. A. D’ATENA, Materie legislative…, op. cit.) ha chiarito che «non si tratta di una materia in senso
stretto», ossia di un insieme di fattispecie predeterminabili in via interpretativa attraverso il riferimento ad un
oggetto. Si tratterebbe, invece, di «una competenza del legislatore statale, idonea ad investire tutte le materie,
rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per garantire a tutti, sull’intero
territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la
legislazione regionale possa limitarle o condizionarle». Sul punto, cfr. anche sent. n. 407 del 2002
32
Nell’amplissima letteratura sul tema, L. PALADIN, La potestà legislativa regionale, Padova, 1958,
passim; S. BARTOLE, Supremazia e collaborazione nei rapporti tra Stato e Regioni, in Riv. trim. dir. pubbl.,
1971, 84 ss.; A. D’ATENA, Osservazioni sulla ripartizione delle competenze tra Stato e regioni (e sul collaudo
dell’autonomia ordinaria), in Giur. cost., 1972, 2011 ss; A. BALDASSARRE, Rapporti tra regioni e Governo: i
dilemmi del regionalismo, in L’autonomia regionale nel rapporto con il Parlamento e il Governo, suppl. 5 al
Boll. leg. doc .reg., 1983, 38; M. LUCIANI, Un regionalismo senza modello, in Le regioni, 1983, 1313 ss. P.
CARROZZA, Principio di collaborazione e sistema delle garanzie procedurali (La via italiana al regionalismo
cooperativo), in Le Regioni, 1989, 473 ss. Per un inquadramento storico, cfr. L. PALADIN, Per una storia
costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004, 250 ss. Si vedano, sul punto, le osservazioni di V.
CRISAFULLI, Vicende della “questione regionale”, in Le regioni, 1982, 497, il quale osservava che «alla
Costituente, dominante e determinante risultò la concezione liberal garantista delle autonomie regionali: le
regioni come limite al potere (dello Stato), e pertanto garanzia di libertà contro ogni avventura autoritaria. Il
ruolo primario assegnato alle regioni fu, dunque, di massima, un ruolo frenante», nonchè T. MARTINES - A.
RUGGERI – C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale, 87 s.
33
Così, ancora, T. MARTINES - A. RUGGERI – C .SALAZAR, cit., 88.
31
13
interessi34. Le competenze sarebbero potute apparire, in tal modo, funzionalmente bilanciate e
distribuite con riguardo, appunto, agli interessi in concreto coinvolti, senza escludere un loro
eventuale intreccio.
Tale modello avrebbe inteso «in fondo limitare sotto il profilo procedimentale, lo
spazio di intervento dello Stato, il quale» avrebbe dovuto in tal modo «motivare e giustificare
le ragioni della sua azione nello spazio affidato alla regione, proporzionando la misura
dell’intervento medesimo alle esigenze rilevate»35.
Nell’esperienza italiana, è tuttavia innegabile che il «bilanciamento» si sia spesso
mutato in «sbilanciamento» a favore dello Stato, quale tutore delle istanze unitarie. Facendo
valere l’esigenza di difendere interessi insuscettibili di frazionamento, lo Stato è riuscito a
penetrare in settori attribuiti alle regioni, finendo esso stesso per determinare la corretta
dimensione degli interessi.
Il disegno attuato dal legislatore costituzionale del 2001 con la riforma del Titolo V
sembra inquadrarsi in questa logica integrativa tra i diversi livelli di governo, piuttosto che in
uno schema di netta separazione, come pure sostenuto in alcuni studi 36.
Diversi dati sembrano avvalorare questa lettura. In primo luogo viene in
considerazione l’art. 114 Cost, ove sono indicati gli elementi costitutivi della Repubblica.
L’ordine seguito dal legislatore di riforma sembra quasi ricalcare un percorso ascendente di
interessi tra loro fittamente collegati e tali da dar vita all’interesse della Repubblica,
configurata come l’ente, che si nutre e vive grazie alla linfa fornita dall’attività dei singoli enti
che la costituiscono 37.
Significativa, altresì, la sottoposizione di Stato e Regioni ai medesimi limiti
nell’esercizio delle proprie potestà legislative (art. 117, comma primo, Cost.). Appare
evidente, innanzitutto, l’accoglimento di un modello d’integrazione verso l’alto: il richiamo al
diritto comunitario ed
agli
obblighi
internazionali
implica, infatti,
l’inserimento
dell’ordinamento interno entro processi di integrazione sopranazionali, che non possono non
34
Sul punto si veda P. CAPOTOSTI, Venti anni di esperienza regionalista in Italia: un’ipotesi di riforma
elettorale, in Quaderni regionali, 1993, 1189.
35
In questi termini, A. CARIOLA, Il trasferimento di funzioni alle province e ai comuni nella legge regionale
siciliana n. 10 del 15 maggio 2000, in Nuove autonomie, 2002, 59, il quale osservava che il criterio della
dimensione degli interessi appare legato alla storia del potere sostitutivo nei rapporti tra Stato, regioni ed enti
locali, in quanto l’eventuale inerzia o, comunque, l’insufficienza di azione dei poteri locali finirebbe per mettere
in rilievo e pregiudicare interessi nazionali che non possono certo rimanere senza tutela.
36
In questo senso vedi, per tutti, A. ANZON, I poteri delle regioni nella transizione dal modello originario
al nuovo assetto costituzionale,Torino, 2003, 253 ss., nonché R. BIFULCO, Le regioni. La via italiana al
federalismo, Bologna, 2004, 32 ss. Contra, R. BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei
problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, in Le regioni, 2001, 1213 ss. nonchè G. ROLLA, Il
principio unitario nei sistemi costituzionali a più livelli, in Le regioni, 2003, 706 ss.
37
Sul punto G. ROLLA, Il principio unitario nei sistemi costituzionali a più livelli, cit. 708 s.
14
ripercuotersi sugli stessi rapporti interni tra il centro e la periferia. I limiti di cui all’art. 117,
comma primo, Cost. potrebbero essere considerati, quindi, il quadro unificante di due livelli
normogenetici fittamente correlati tra di loro e che trovano in questo quadro il punto forte di
convergenza.
Altro elemento di non poco momento è la previsione entro l’elenco dell’art. 117,
comma 2, Cost. delle materie trasversali, previsione volta ad evitare cesure nette tra la
legislazione statale e quella regionale 38. Quest’ultima, sebbene delineata in termini generali o
residuali, si trova ad essere strettamente legata con la legge statale contenente la disciplina di
materie-funzioni e finisce per costituirne, in qualche modo, il necessario completamento 39.
In definitiva, istanze unitarie, di cui lo Stato sarebbe il legittimo tutore, e interessi
regionali si non si muovono distanti gli uni dagli altri. Al contrario, la logica sottesa al
disegno costituzionale sembra essere quella della loro convivenza ragionevole anche entro
materie formalmente attribuite alla competenza dell’uno o dell’altro ente.
5. Sussidiarietà e riparto flessibile delle competenze
Il criterio di ripartizione delle funzioni secondo gli interessi coinvolti sembra essere
per sua natura un criterio mobile ed aprioristicamente indeterminabile, prestandosi a
sistemazioni di volta in volta diverse, epperò fornite di duttilità ed adattabilità storica. Lo
stesso criterio della competenza, storicamente utilizzato per regolare i rapporti tra fonti
legislative statali e regionali, e ne riceve un certo vulnus.
La conseguente pluristratificazione delle norme impone l’individuazione di «strumenti
di risoluzione delle antinomie che non possono essere più fondati su un’idea di rigida
gerarchia né sul criterio della competenza rigidamente intesa» 40.
In quest’ ottica acquista sempre maggiore rilevanza la sussidiarietà, che può
considerarsi il criterio più appropriato per regolare i rapporti tra fonti, avendo riguardo,
appunto, agli interessi coinvolti e, soprattutto, all’adeguatezza del livello di governo alla cura
degli interessi stessi.
Sul punto, ha assunto particolare rilievo la ormai “storica” sent. n. 303 del 2003
41
,
38
Sul punto cfr. R.TOSI, La l. cost. n. 3 del 2001 note sparse in tema di potestà legislativa ed
amministrativa, in Le regioni, 2001, 1340.
39
Se si guarda ai livelli essenziali delle prestazioni di cui alla lettera m) art. 117, comma 2, Cost. appare
evidente che lo Stato può fissare, con propria legge, i principi e le regole relativi a tale materia ma nulla
impedirebbe alle regioni di partire da tali livelli essenziali e di regolarli, per dir così, al rialzo.
40
G. ROLLA, Relazioni tra ordinamenti e sistema delle fonti. Considerazioni alla luce della legge
costituzionale n. 3 del 2001, in Le regioni, 2001, 321 ss.,
41
La sentenza è stata oggetto di numerosi commenti da parte della dottrina. In particolare, cfr. A. ANZON,
15
nella quale il Giudice costituzionale, com’è noto, ha individuato nel principio di sussidiarietà
il criterio attraverso cui pervenire ad una rimodulazione delle competenze, nell’ottica di
un’integrazione tra i diversi livelli di governo e, di conseguenza, tra gli atti normativi statali e
regionali.
Nella lettura offerta dalla Corte, l’operatività del principio sussidiario, declinata in
chiave amministrativa e legislativa, è correlata con modelli di distribuzione delle competenze
fondati sulla logica degli interessi coinvolti 42.
Secondo tale raffinata elaborazione giurisprudenziale, le funzioni amministrative,
attribuite in linea di principio ai Comuni, possono essere allocate al livello di governo più
elevato, qualora questo risulti più adeguato rispetto alla cura degli interessi in gioco. Per il
principio di legalità, che richiede una base legislativa per l’esercizio delle funzioni
amministrative, questo aspetto dinamico ed ascensionale della sussidiarietà finisce per
riverberarsi anche sulla sfera legislativa 43.
Tuttavia, come ha precisato la Consulta, il principio di sussidiarietà, unitamente a
quello di adeguatezza, può consentire un’attrazione verso l’alto di competenze regionali, solo
laddove «la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali
da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di
uno stretto scrutinio di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione
interessata».
In quest’ottica, le esigenze unitarie, che giustificherebbero l’attrazione allo Stato e
della funzione amministrativa e della funzione legislativa, devono diventare oggetto di una
concertazione tra i livelli di governo coinvolti, attraverso l’attivazione di meccanismi
collaborativi, tra i quali assume valenza particolare l’intesa.
Si comprende, pertanto, che l’attivazione dei meccanismi di attrazione delle funzioni
da parte dell’ente sovraordinato debba essere accompagnata dal rispetto delle regole
Flessibilità dell’ordine delle competenze legislative e collaborazione tra Stato e regioni, in Giur. Cost., 2003,
2782 ss.; A. MOSCARINI, Sussidiarietà e Supremacy clause sono davvero perfettamente speculari?, ibidem,
2003, 2791 ss.; A. GENTILINI, Dalla sussidiarietà amministrativa alla sussidiarietà legislativa, a cavallo del
principio di legalità, ibidem., 2003, 2805 ss.; A. D’ATENA, L’allocazione delle funzioni amministrative in una
sentenza ortopedica della Corte costituzionale, ibidem, 2776 ss.; S. BARTOLE, Collaborazione e sussidiarietà
nel nuovo ordine regionale, reperibile sul forum del sito web di Quaderni costituzionali; A. RUGGERI, Il
parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà legislativa (ma non regolamentare…) in una storica (e, però, solo in
parte soddisfacente) pronunzia, ibidem.
42
In dottrina, peraltro, era stato già rilevato che «la sussidiarietà ex art. 118 Cost. orienta la lettura del riparto
di potestà legislative fissato all’art. 117 Cost., offrendo un criterio di ridefinizione concettuale del canone di
competenza: canone che ora troverebbe la sua traduzione principale in dispositivi di tipo dinamico, anziché in
dispositivi statici» .Cfr. O. CHESSA, La sussidiarietà (verticale) come precetto di ottimizzazione e come criterio
ordinatore, in Dir. Pubbl. Compar. Eur., 2002, 1442 ss.
43
Si veda, quanto, sul punto, ha osservato L. TORCHIA, In principio sono le funzioni (amministrative): la
legislazione seguirà, cit.
16
cooperative. Invero, la leale collaborazione costituisce una sorta di «prius strumentale» degli
interventi sussidiari.
Da questa prospettiva sembrerebbe, dunque, emergere un’ottica fortemente
procedimentalizzata non soltanto della sussidiarietà 44 ma, ancor prima, del principio stesso di
leale collaborazione.
Sembra evidente, pertanto, la tendenza della Corte a demolire ogni barriera di
«incomunicabilità» tra Stato e Regioni, cercando di inverare meccanismi di vera e propria
«codecisione».
Infatti, se la sussidiarietà può mettere in moto meccanismi di attrazione verso l’alto
delle funzioni legislative, la leale collaborazione è la chiave d’accesso alla sussidiarietà,
costituendo il fondamento della (operatività in concreto della) stessa.
Dalle pronunce della Corte 45 si evince che la leale collaborazione «non può avere una
propria rilevanza autonoma, svincolata dalla sussidiarietà, perché in realtà rappresenta solo il
profilo organizzativo-procedurale della sussidiarietà»46.
Sembrerebbe che in tal modo il giudice costituzionale abbia voluto realizzare in
concreto quel contemperamento – e, potrebbe dirsi, la necessaria coesistenza - tra unità ed
autonomia, espressamente previsto dall’art. 5 Cost.
6. La leale collaborazione come possibile criterio di distribuzione delle competenze
legislative
Come anticipato, il sistema delineato dal legislatore costituzionale del 2001 ha posto
talune incertezze circa l’esatta definizione delle materie che rientrano nella previsione della
clausola di residualità di cui all’art. 117, comma IV, Cost.
Per la loro specifica individuazione la Corte ha fatto espresso richiamo ad un criterio
fondato sulla logica degli interessi coinvolti, giustificando l’eventuale normativa statale che si
curi di tutelare esigenze unitarie. E ciò anche in ambiti che potrebbero sembrare assegnati in
via esclusiva alle regioni.
Nel caso specifico della sent. n. 303 del 2003 si trattava della materia dei lavori
pubblici che rappresenta uno di quegli ambiti di legislazione che non «integrano una vera e
propria materia ma si qualificano a seconda dell’oggetto a cui afferiscono e pertanto possono
essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà
44
Cfr. A. D’ATENA, La sussidiarietà: tra valori e regole, in Dir. giur. agr. amb., 2004, I, p. 71.
Cfr. inoltre, sentt. n. 6 e 233 del 2004.
46
La notazione si deve a F. LEOTTA, La competenza normativa in un assetto pluralista, Catania, 2005, in
corso di pubblicazione
45
17
legislative concorrenti» (punto 2.3 del considerato in diritto).
Pur dopo la riforma del Titolo V, lo Stato continua a porsi, pertanto, quale il
necessario tutore delle istanze unitarie. Nella pronuncia richiamata la Corte ha sottolineato,
infatti, che, anche in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale,
possono emergere esigenze unitarie tali da giustificare, a determinate condizioni, una deroga
alla normale ripartizione di competenze. Anche nel nostro sistema costituzionale, infatti,
«sono previsti congegni volti a rendere più flessibile un disegno che, in ambiti nei quali
coesistono intrecciate, attribuzioni e funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l’ampia
articolazione delle competenze, istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di
vita».
La notazione finale non è affatto di poco momento. Ed infatti, si comprende che la
necessità di rintracciare soluzioni alternative rispetto a concezioni rigide del riparto
competenziale è strettamente correlata all’esistenza di settori materiali, ove appaiono evidenti
interessi passibili di tutela unitaria ed uniforme su tutto il territorio nazionale. Interessi unitari
che si intrecciano con interessi strettamente locali.
Sembra, infatti, che l’utilizzazione in questi termini del principio di sussidiarietà, in
uno con il principio di leale collaborazione, finisca, da ultimo, per essere utilizzato come
tecnica per garantire, ancora, allo Stato spazi di intervento in tutti quegli ambiti materiali,
caratterizzati da labili confini con competenze regionali.
Il giudice delle leggi ha espressamente chiarito che, di fronte a settori disciplinari ove
sembrano coesistere ed intrecciarsi, competenze esclusive dello Stato e delle Regioni, o
competenze esclusive dello Stato e competenze concorrenti, non sia corretto parlare di
«competenze concorrenti o ripartite» ma di «concorrenza di competenze».
Si tratta, insomma, dell’ipotesi ove più evidente si presenta la difficoltà di pervenire ad
una esatta delimitazione della linea di confine tra spazi di intervento statale e spazi di
intervento regionale, in quanto più chiara risulta l’interferenza tra le competenze.
Orbene, secondo il giudice delle leggi, poichè «per la composizione di siffatte
interferenze la Costituzione non prevede espressamente un criterio … è quindi necessaria
l’adozione di principi diversi: quello di leale collaborazione, che per la sua elasticità consente
di aver riguardo alle peculiarità delle singole situazioni, ma anche quello della prevalenza, …
qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad
una materia piuttosto che ad altre»47.
47
Cfr. sent. n. 50 del 2005, che ha avuto ad oggetto numerose disposizioni della c. d. “legge Biagi” (l. n. 30
del 2003 – Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro), nonché del d. lgs. n. 276 del 2003
18
Si tratta, come è evidente, di prospettive ermeneutiche profondamente legate ad una
lettura del riparto di competenze secondo una logica funzionale, strettamente correlata alla
considerazione degli interessi in concreto coinvolti 48.
In particolare, la prevalenza rappresenta l’immediato corollario di tale logica
funzionale. Invero, la ricerca dell’afferenza del «nucleo essenziale di un complesso normativo
ad una materia piuttosto che ad un’altra», implica l’attenzione dell’interprete proprio ai
diversi interessi sottesi ad una determinata disciplina e consente, in tal modo, di individuare la
fonte più adeguata a disciplinare siffatto settore materiale. Il che vuol dire, tuttavia, ammettere
un’ampia discrezionalità del giudice costituzionale, che si troverà a valutare, caso per caso,
materia per materia, il prevalere di determinati interessi su altri 49.
Ove, tuttavia, il criterio della prevalenza non sia interamente satisfattivo per tracciare
la linea di confine tra le competenze, o meglio, della sfera di interesse, appunto, prevalente la
Consulta ha fatto ricorso al principio di leale collaborazione.
Invero, attraverso il richiamo al rispetto dei moduli collaborativi, la Corte riconosce
l’impossibilità di pervenire essa stessa al contemperamento di interessi tra di loro fortemente
collegati (come, di contro, fa attraverso il ricorso al criterio della prevalenza). Alla luce di ciò,
il giudice costituzionale rimette alla parti portatrici dei diversi interessi in questione la
predisposizione (e l’attuazione) dei congegni cooperativi.
Sotto questo profilo è illuminante la sent. n. 231 del 2005, in cui l’interferenza tra
ambiti materiali ricompresi entro la potestà esclusiva dello Stato (in tema di ordinamento
civile) e settori, invece, passibili di essere ascritti alla potestà concorrente (tutela del lavoro),
rendeva alquanto difficoltosa la risoluzione della questione prospettata.
Sicché il giudice costituzionale ha utilizzato quale parametro del giudizio - in via,
potrebbe dirsi, residuale - la leale collaborazione. Infatti, lo strumento volto a contemperare
gli interessi in gioco dovrebbe essere, secondo questa lettura, la predisposizione da parte del
legislatore statale, di strumenti collaborativi volti a coinvolgere le Regioni nella fase di
determinazione della disciplina in ambiti, per così dire, liminari.
L’invito all’attuazione di meccanismi collaborativi per il raggiungimento di
(Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla l. n. 30 del 2003.
Stessa lettura è stata adottata dalla Corte nelle sentt. 219 e 231 del 2005.
48
In proposito, si vedano le recenti riflessioni di A. RUGGERI, Quale sistema delle fonti dopo la riforma del
Titolo V?, cit., 25 s., secondo cui la necessità di attivare strumenti di collaborazione è in linea con l’idea di
attivare un sistema integrato di competenze.
49
Secondo A. RUGGERI, op. ult. cit., 24, il ricorso al criterio di prevalenza comporterebbe un sacrificio
costituzionalemente inspiegabile per l’ente titolare della minor “porzione” di campo.
Sul criterio della prevalenza degli interessi, sembra fondarsi anche la sent. n. 370 del 2003 (in tema di asili
nido).
19
determinate finalità o, se si vuole, di specifici risultati, non costituisce una semplice tecnica di
flessibilità, quanto, piuttosto, il presupposto per il concreto inveramento della interazione tra
livelli di governo (e tra fonti normative), interazione che discende, appunto, dall’applicazione
degli strumenti della leale cooperazione (accordi, intese, etc..). Tuttavia, non si può non
rilevare che l’anima della leale collaborazione è di carattere organizzativo-procedimentale e
coinvolge più i soggetti-agenti che gli oggetti-azioni (atti), ossia il legislatore, non la legge. Si
comprende, pertanto, che la leale collaborazione è più un modus operandi, una tecnica di
azione, che un criterio di ripartizione delle competenze.
Sicché appare quantomeno arduo il ricorso alla leale collaborazione, quale criterio di
risoluzione delle antinomie (come tradizionalmente si intendono i criteri ordinatori del
sistema delle fonti).
Semmai, parlare di leale collaborazione potrebbe indurre a costruire, in via
preliminare, il rapporto tra legge statale e legge regionale in termini di “concertazione” di
risultati finali e non di costruzione congiunta di competenze. In definitiva, il principio in
parola non sostituisce il criterio di competenza nell’allocazione delle funzioni. E’, semmai,
uno strumento volto a prevenire conflitti di competenza, ma non può rappresentare la tecnica
per dirimere conflitti eventualmente già insorti 50.
Quel che si vuole, insomma, sostenere è che la collaborazione tra diversi livelli di
governo, in sede legislativa, non determina un venir meno delle competenze specifiche,
peculiari di ciascun ente, ma, appunto, il loro incontro, la loro osmosi al fine del
raggiungimento di obiettivi comuni.
Se si guarda, infatti, ai campi ove più spesso è stato fatto richiamo al principio di leale
collaborazione, è evidente che si tratta di settori, lato sensu, trasversali, espressione di valori
che necessitano l’operare congiunto dei soggetti coinvolti.
Il proteiforme principio di leale collaborazione, in astratto, non potrebbe affatto
rientrare tra gli strumenti ermeneutici volti a districare l’intreccio di competenze esistente in
specifici settori. Semmai, la leale collaborazione va intesa quale strumento organizzativo e
procedurale i cui destinatari sono, nel caso qui in esame, Stato e Regioni: uno strumento,
insomma, di «smussamento» delle competenze, operazione necessaria all’«incastonamento
finale» tra le singole competenze 51 .
50
Cfr., ancora, F. LEOTTA, op. ult. cit,
Cfr., L. ARCIDIACONO, Organizzazione pluralistica e strumenti di collegamento. Profili dogmatici,
Milano, 1974, spec. 158, n.143, il quale osserva, pur in una prospettiva diversa, che la collaborazione è chiamata
a «realizzare, attraverso la mutua interferenza degli interessi coinvolti, una concentrazione o una soddisfazione
simultanea di essi» .
5151
20
L’individuazione delle competenze non può avvenire solo attraverso strumenti di puro
formalismo giuridico (le “materie” non sono etichette…ma “contenitori”), ma deve avere
riguardo agli interessi coinvolti. Perciò non sembra del tutto peregrino parlare di leale
collaborazione quale tecnica di rimessione alle parti del bilanciamento degli interessi stessi.
Certo, possono manifestarsi dubbi sull’uso eccessivo di un principio dai contorni – per
così dire – “cedevoli” e tale da poter essere utilizzato nei modi più svariati.
Ed infatti, come già osservato, il principio in parola appare poco adeguato a risolvere
eventuali conflitti di competenze: semmai sembra più corretto parlare di un principio che fa
da sfondo alla lettura dei rapporti tra fonti. Invero, l’istanza collaborativa, volta alla
promozione della concertazione di disciplina, costituisce il contesto di lettura del rapporto tra
competenze che appaiono inestricabilmente collegate. Essa attiene più ai metodi di
legislazione, che ai rapporti tra legislazioni.
Il presupposto della leale collaborazione rimane pur sempre costituito dalle
competenze dettate dalla Costituzione. Invero, attraverso il richiamo al rispetto del principio
in parola, il giudice delle leggi non intende (rectius: non può) “costruire” competenze, quanto
piuttosto segnalare le modalità secondo cui realizzare, in determinati settori, obiettivi
(necessariamente) comuni e complessi, in quanto strutturalmente caratterizzati da elementi,
allo stesso tempo, unitari e differenziati52.
52
Non si può non rilevare, inoltre, che la predisposizione dei moduli collaborativi è pur sempre riservata al
legislatore statale, alla sua discrezionalità. Invero, la legge statale rappresenta il presupposto per l’attività di
concertazione tra Stato e Regione. Il giudizio della Corte sul rispetto del principio – o, meglio, della tecnica - in
parola non potrà avere ad oggetto il solo accertamento della previsione, nella legge statale, di una clausola di
collaborazione. Al contempo, il giudice delle leggi si troverà, infatti, a dover valutare l’adeguatezza degli
strumenti collaborativi alla realizzazione di un ragionevole contemperamento degli interessi coinvolti.
21
IL PRINCIPIO DI “LEALE COOPERAZIONE” TRA STATO E
REGIONI IN ORDINE ALL’ADEMPIMENTO DEGLI OBBLIGHI
COMUNITARI
di
Ciro Massimo Conga
SOMMARIO: 1. Quadro normativo di riferimento: progressiva erosione della sovranità
statale, affermazione di meccanismi decisionali “cooperativi”, costituzionalizzazione attraverso la
Riforma del Titolo V della Costituzione di ampi “spazi di cultura giuridica europea”, linee
metodologiche di indagine. – 2. Poliedriche concretizzazioni del principio di “leale cooperazione”:
dovere di informazione reciproca, parere ed intesa. – 3. Analisi della “leale cooperazione” tra Stato
e Regioni nell’adempimento degli obblighi comunitari: a) la leale cooperazione nella “fase
ascendente indiretta” come delineata nella legge 4 febbraio 2005, n. 11. – 4. (segue:) b) la leale
cooperazione nella “fase ascendente diretta”. – 5. (segue:) c) la leale cooperazione nella “fase
discendente” e l’esercizio del potere sostitutivo ex. art. 117 V co. Cost.
1. Quadro normativo di riferimento: progressiva erosione della sovranità statale,
affermazione di meccanismi decisionali “cooperativi”, costituzionalizzazione attraverso la
Riforma del Titolo V della Costituzione di ampi “spazi di cultura giuridica europea”, linee
metodologiche di indagine.
Il diritto comunitario, la definitiva approvazione di una vera e propria “Costituzione
europea” e l’inesauribile processo di globalizzazione inducono il moderno giurista a riflettere
sull’ordinamento giuridico, sui rapporti tra i vari poteri e sul diritto più in generale in termini
metodologici fortemente innovativi.
Caduta definitivamente l’idea hegeliana, enunciata da Fichte e poi proseguita dagli
idealisti fino in Italia a Giovanni Gentile, della “reductio ad unum” del diritto al diritto
statale1, uno degli elementi più caratteristici del moderno costituzionalismo è l’esistenza (de
facto e de iuris) di una pluralità di ordinamenti giuridici2 nonché la “polverizzazione” del
potere non più concentrato nelle mani di un unico onnipotente legislatore ma diffuso e mutato
nel funzionamento in una moltitudine di poteri separati ed un rapporto di reciproco controllo e
bilanciamento. L’attuale “multi level costitutionalism” nel cui ambito operano almeno tre (se
non cinque) livelli ordinamentali su basi non gerarchiche ma interattive e cooperative3, è
1
G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, prefaz. trad. it. G. Marini, Bari, 1987, p. 10.
A. PIZZORUSSO, Pluralità degli ordinamenti giuridici e sistema delle fonti del diritto, in corso di
pubblicazione in “Raccolta di studi per il 60° anniversario dell’ Assemblea costituente”.
3
MACCORMICK , La sovranità in discussione, Diritto, stato e nazione nel “Commonwealth” europeo,
Bologna, 2003, p. 195. Vedi inoltre l’interessantissimo lavoro (al quale espressamente si rinvia) di E.
SCODITTI, Il sistema multilivello di responsabilità dello Stato per mancata attuazione di direttiva comunitaria.
2
caratterizzato dall’esistenza di “una autorità” che pur essendo autonoma (cioè non derivata o
dipendente) da altre autorità, non è “esclusiva”, condividendo con altre l’esercizio del potere,
concretizzando ciò che è stata definita “una sovranità condivisa o non esclusiva”4. Ma accanto
a questo processo di erosione della sovranità sia verso l’alto a favore di entità sopranazionali,
sia verso il basso derivante da una crescita delle rivendicazioni identitarie locali, il
cambiamento riguarda anche il funzionamento del potere stesso, i meccanismi attraverso cui il
potere giunge alla formazione di una “decisione”.
La globalizzazione ha accelerato e sviluppato queste metodologie rilevando come i
processi decisionali siano sempre più saldamente improntati su logiche di tipo
“cooperativo/collaborativo”, su logiche che tendono a distendere i propri meccanismi su piani
orizzontali piuttosto che verticali5.
Pertanto gli elementi sui quali è interessante soffermarsi sono costituiti da un mutato
rapporto CE-Stato-Regioni nonché sull’affermazione sempre maggiore di principi cooperativi
nella formazione delle decisioni.
In questo senso la l. cost. 18 Ottobre 2001, n. 3 di riforma del Titolo V della
Costituzione, che ha introdotto una disciplina specifica quanto ai rapporti Stato-Regioni-CE
ed i rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, costituisce una vera novità essendo il
fenomeno della integrazione europea del tutto estraneo al costituente. È da evidenziare la
singolare circostanza che di ordinamento comunitario la nostra Carta costituzionale se ne
occupa solo con riferimento a “Regioni, province e comuni”, dovuta probabilmente alla
impossibilità dell’allora maggioranza politica di procedere ad una riforma organica,
confermando quindi implicitamente l’attualità delle norme presenti nei principi fondamentali
e nel Titolo I. Tale intervento di riforma si pone quasi in un hegeliano aufhenburg tra
l’armonico adeguamento al testo previgente della Costituzione (elemento di continuità) e
l’ampia apertura verso i principi comunitari (elemento innovativo).
L’elemento innovativo presente in questo processo di revisione costituzionale
Su “Seminario Permanente di Teoria Politica e diritto” in www.unipr.it/arpa/asps/enrico_scoditti, il quale riporta
il pensiero di LAUDER, Towards a Legal Theory of Supranationality – The Viabilità of Network Concept, in
European Law Journal, III, 1997, p. 48, rilevando “che le interconnessioni tra ordinamenti vanno lette non
seguendo la metafora kelseniana della piramide, cioè di una struttura a gradi basata sul criterio della validità, ma
attraverso quella della rete nella quale, dato il rapporto interattivo fra sistemi giuridici, la figura del nodo prende
il posto di quella del gradino”.
44
Il riferimento è sempre a E. SCODITTI, Il sistema multilivello, cit., il quale riporta WALKER, The idea of
costitutional pluralism, EUI Working Paper Law, 2001/1, MACCORMICK, La sovranità in discussione, cit., p.
210
5
P. CARROZZA, Sistema delle fonti e forma di governo europea, in corso di pubblicazione su “Diritto
Pubblico Comparato”, Torino, Giappichelli.
23
“incrementale”6 è rappresentato dal fenomeno di un sistema normativo dinamico che ha
risentito delle innovazioni prodotte a livello comunitario sia sul piano della produzione
legislativa che sul piano della interpretazione giurisprudenziale.
Questa crescente costituzionalizzazione di istituti giuridici di taglio europeo, ma
sarebbe più corretto parlare di “cultura giuridica comunitaria” è testimoniata da tutta una serie
di istituti, principi e vere e proprie “parole nuove” introdotte nella nostra costituzione,
dall’ampia rilevanza conferita dall’art. 117 I co. Cost. ai “vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario..”, dalla costituzionalizzazione della partecipazione delle Regioni (e delle
province autonome) alla fase ascendente e discendente del processo di integrazione europea
nell’art. 117 V co. Cost., nonché dal riferimento al principio di “leale cooperazione” tra Stato
e Regioni nel rispetto del quale è esercitabile il potere sostitutivo da parte del governo ex art.
120 II co. Cost7.
Oggetto di questa breve indagine sarà pertanto l’analisi e la portata del principio di
leale cooperazione tra Stato e Regioni in relazione all’adempimento degli obblighi comunitari
nella duplice dimensione ascendete e discendente così come recentemente disciplinato dalla
legge 11/2005, nonché le modalità operative del potere sostitutivo ex. art. 117 V co. Cost.
2. Poliedriche concretizzazioni del principio di leale cooperazione: dovere di
informazione reciproca, parere ed intesa
Il principio di leale cooperazione ha una definizione incredibilmente ampia venendo
ad impregnare di sè non solo ogni fase del segmento dei rapporti Stato-Regione, ma anche dei
rapporti intercorrenti tra tutti i livelli di governo (statale, regionale, comunale, ecc.)8. La sua
dimensione è tipicamente procedurale/procedimentale essendo una vera e propria metodologia
di decisione, un procedimento di consultazione modulato variamente per intensità e forme9.
Corollario immediato della cooperazione è l’abbandono definitivo da parte di ciascun
soggetto dell’idea di esercitare in modo del tutto autonomo il proprio potere in una data
materia da regolare e la ricerca attraverso ogni “leale sforzo” di giungere ad una vera e
propria codecisione con l’altro soggetto coinvolto.
6
FLORIDIA, Federalismo e riforma amministrativa: un passo per volta. Aspetti della revisione del 2001 in
rete su www.paramond.it.
7
G. ARRIGO, Ordinamento comunitario e modifiche al Titolo V- II Parte della Costituzione – Contributo
scritto al convegno “Diritto del lavoro e federalismo”, Ancona 14 aprile 2003, in rete su
www.cgil.it/giuridico/politichedeldiritto/archivio/riformeistituzionali/ordinamento_comunitario_e_modif.html.
L’espressione “parole nuove” è di C. DI ANDREA, Le parole nuove dopo l’entrata in vigore delle modifiche al
Titolo V Parte II, in Nomos, 2001, 1, p. 163-171
8
V. già Corte cost. sent. 49/1958.
9
V. Corte cost. sent. 88/2003, sent. 228/2003, sent. 308/2003 nonchè sent. 329/2003
24
Parafrasando una celebre affermazione di Hart, potremmo dire che ogni attore
interessato dovrebbe porsi “dal punto di vista interno” dell’altro soggetto coinvolto per
facilitare il raggiungimento della codeterminazione.
La stessa Corte costituzionale in tal senso ha affermato l’importanza delle attività
concertative e di coordinamento orizzontale, ovvero delle intese che devono essere condotte
in base al principio di lealtà10.
Il range applicativo del principio, come del resto emerge facilmente dalla evoluzione
giurisprudenziale, è notevolmente esteso: esso troverà applicazione in tutte quelle ipotesi in
cui esistono “competenze instricabilmente connesse” o quando “per la loro stessa connessione
funzionale non sia possibile una netta separazione delle rispettive funzioni”11.
Gli strumenti attraverso i quali la cooperazione si concretizza sono i più svariati12.
Differenziando nell’ambito delle forme di raccordo quelle di tipo organizzativo, nelle
quali rientra ad esempio la istituzione di organi a composizione mista per una equa
rappresentazione degli interessi in gioco, nelle forme di raccordo di tipo procedimentale è
possibile individuare il dovere di informazione reciproca, il parere e soprattutto l’intesa.
Dalle indicazioni che provengono dalla legislazione positiva nonché dalla stessa
giurisprudenza costituzionale è possibile ritenere che proprio le “intese” rappresentano lo
strumento principe attraverso cui concretizzare applicativamente la cooperazione13.
L’intesa rappresenta tuttavia un istituto particolarmente sfumato nei toni: quanto al
contenuto vi saranno ampi margini di libertà in carenza di espresse norme che poco
stabiliranno circa le forme che dovranno essere garantite per il rispetto della cooperazione; ma
anche quando ricorreranno disposizioni legislative che disciplineranno in modo più esaustivo
le forme per la cooperazione, sempre esisterà un certo margine di liberà per completare la
disciplina legislativa tramite intese, con il solo limite del non aggravamento del procedimento.
L’istituto della intesa ha anche una modulazione variabile. La giurisprudenza
costituzionale ha individuato due diverse tipologie (gradazioni) di intese: le cd “intese in
senso forte” caratterizzate da una forma di coordinamento e partecipazione paritaria essendo
tutti i soggetti coinvolti posti sullo stesso piano in relazione alla decisione da adottare (si
10
V. Corte cost. sent. 303/2003 e in precededenza sent. 219/1984.
V. Corte cost. sent. 27/2004 nonché sent. 308/2003
12
C. DESIDERI – L. TORCHIA, I raccordi tra Stato e Regione. Un’indagine su organi e procedimenti,
Milano, 1986
13
V. il documentato lavoro (al quale espressamente ci si rifà) di S. AGOSTA, Dall’intesa in senso debole
alla leale cooperazione in senso forte? Spunti per una riflessione alla luce della più recente giurisprudenza della
costituzionale tra (molte) conferme e (qualche) novità. Su federalismi.it n. 6/2004. Sull’intesa V. Corte cost.
sent. 94/85 e sent. 187/85. Sul Sistema delle “conferenze” V. Corte cost. sent. 116/94 nonché sent. 408/98. La
disciplina positiva dell’intesa è data dall’art. 3 del D.lgs. 28 agosto 1997 n. 281.
11
25
potrebbe dire che tutti i soggetti godono di un identico bargainig power) e forme di “intese in
senso debole” consistenti in forme di partecipazione e/o coordinamento variamente articolate
tra Enti (consultazioni, pareri) prescindendo da un concorde assenso14.
Sotto il profilo teleologico, quanto alla configurazione della intesa come presupposto
necessario all’ingerenza dello Stato in materie di spettanza regionale, l’atteggiamento della
Corte costituzionale è stato alquanto altalenante tra orientamenti volti a riconoscere
l’importanza di tali strumenti bilaterali Stato-Regioni ed altro volto ad ascrivere all’intesa una
funzione riduttiva relegandola al quomodo dell’intervento statale15.
Tuttavia tale altalenante atteggiamento della Corte costituzionale muta a partire dalla
sent. 303/2003, ritenendo i giudici di palazzo della Consulta ammissibile l’esercizio statale di
funzioni amministrative regionali (e connesse funzioni legislative) in vista della realizzazione
di un interesse unitario solo a condizione che ciò si realizzi nell’ambito di un iter
procedimentale nel quale vi sia stata attività concertativa e di coordinamento orizzontale
(pertanto raggiungimento di una intesa)16.
In questo modo il problema si incentra sui casi in cui l’intesa legislativamente prevista
non dovesse essere raggiunta: in questa ipotesi qualora dovesse accedersi all’idea di intesa in
senso forte è evidente che il mancato raggiungimento della stessa provocherà l’arresto
dell’attività statale con la conseguenza che un eventuale superamento unilaterale del dissenso
da parte dello Stato provocherebbe la reazione della regione interessata che potrebbe
impugnare l’atto per violazione del principio di leale cooperazione; situazione decisamente
diversa nell’ipotesi in cui dovesse accogliersi l’accezione di intesa in senso debole nel cui
caso lo Stato potrebbe tranquillamente proseguire la propria attività e nessun rimedio sarebbe
posto per la regione17.
Ulteriori forme di raccordo procedimentale attraverso cui la cooperazione può
concretizzarsi sono il dovere di informazione reciproca ed il parere attraverso il quali i
soggetti coinvolti in una cotitolarità di poteri inerenti una stesse materia si scambiano in modo
biunivoco e con obiettività, completezza e tempestività i dati e le informazioni di cui sono in
14
S. AGOSTA, Dall’intesa in senso debole alla leale cooperazione in senso forte?, cit. p. 10
IBIDEM, p. 5, il quale riconduce alla primo insieme, ad esempio, le sent. 37/2003, 88/2003, 186/2003 ed
ancora 313/2003 precisando che elemento “accomunante” le sentt. nn. 88 e 313 è quello secondo cui “non solo la
previsione di procedure partecipative risulta indispensabile ai fini dell’intervento statale, ma altresì appare la
predisposizione di esse con legge”.
16
V. anche Corte cost. sent. 6/2004 e sent. 27/2004. Sembrerebbe pertanto oramai introdotto un vero e
proprio “principio dell’intesa”
Per un commento a Corte cost. sent. 6/2004 V. S. AGOSTA, “La Corte costituzionale dà finalmente
la…”scossa” alla materia delle intese tra Stato e Regioni?” (Brevi note a margine di una recente pronuncia sul
sistema elettrico nazionale), consultabile in rete su www.unife.it/progetti/forumcostituzionale
17
S. AGOSTA, op. ult. cit. p. 9-10.
15
26
possesso18.
La sostanza di tali atti può essere la più varia e può includere qualsiasi elemento o
valutazione ritenuto idoneo dal proprio autore alla tutela delle proprie competenze ed in vista
della miglior cura dell’interesse pubblico.
3. Analisi della “leale cooperazione” tra Stato e Regioni nell’adempimento degli
obblighi comunitari: a) la leale cooperazione nella fase “ascendente indiretta” come
delineata nella legge 4 febbraio 2005 n. 11
Le Regioni sono coinvolte nel complesso sistema europeo sotto molteplici aspetti: sia
come soggetti tenuti a garantire l’esecuzione-attuazione del diritto comunitario europeo, sia in
quanto soggetti coinvolti con diversa intensità nella determinazione degli stessi atti
comunitari.
A tal riguardo il testo dell’art. 117 V cost. non sembra risultare particolarmente ricco
sotto il profilo noetico: il legislatore costituzionale optando per una disciplina a maglie larghe,
ha attribuito al legislatore ordinario il compito di delineare concretamente il contenuto in fase
di attuazione19.
Attualmente la disciplina attuativa dell’art. 117 V co. è data dalla legge “La Loggia” e
dalla più recente legge 4 febbraio 2005, n. 1120.
Metodologicamente si procederà con la verifica dei raccordi organici e procedimentali
e delle intensità che questi assumeranno anche in base a quanto visto in precedenza, previsti
nell’ambito della “fase ascendente (indiretta e diretta) e discendente”.
Iniziamo dalla fase ascendente indiretta, la cui disciplina positiva è contenuta nella
legge 4 febbraio 2005, n. 11
Una prima forma di raccordo Stato-Regione si ha con la previsione ex art. 2, II co., L.
11/05 di una partecipazione regionale in seno al cosiddetto CIACE qualora “oggetto delle
18
V. Corte cost. sent. 341/96 e sent. 88/03.
Per un panorama sull’analisi della effettiva portata della nuova formulazione dell’art. 117 V co. Cost. V. S.
TRIPODI, La fase indiretta della partecipazione delle Regioni alla formazione degli atti comunitari: alcune
osservazioni sul DLL di riforma della legge “La Pergola”, in rete su federalismi.it, numero 1/2004. F.
PIZZETTI, Le nuove Regioni italiana tra Unione Europea e rapporti esteri nel quadro nel quadro delle riforme
costituzionali della XIII legislatura. Nuovi problemi, compiti ed opportunità per il potere statutario delle
Regioni e per il ruolo del legislatore statale e regionale, in Le Regioni, 5, 2001.
F. PATERNITI, Nuove prospettive nella partecipazione “interna” delle Regioni alla fase ascendente dei
processi
decisionali
comunitari
alla
luce
della
legge
11/2005,
in
rete
su
www.giustamm.it/new_2005/art_2145.htm.
20
La legge 4 febbraio 2005, n. 11 recante “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo
normativo dell’Unione Europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, ha espressamente
abrogato gli artt. 11 e 20 della legge 16 aprile 1987 n. 183, nonché la legge 9 marzo 1989, n. 86 e successive
modificazioni.
19
27
riunioni siano questioni che interessano le Regioni e le province autonome”21.
Tale forma di partecipazione regionale risulta assolutamente insoddisfacente per
ragioni legate non solo alla rappresentatività delle Regioni in seno a tale nuovo organo, ma
anche per problematiche relative alla possibilità stessa della partecipazione delle Regioni22.
La partecipazione regionale risulta, invece, non senza qualche problema più garantita
nell’ambito del CTP (comitato tecnico permanente) istituito dal IV co. art. 2 con funzioni
strettamente preparatorie rispetto alle riunioni del CIACE.
I raccordi, o meglio gli strumenti privilegiati dal legislatore del 2005 volti a
determinare o, quanto meno, a facilitare una posizione condivisa tra Stato e Regioni e rendere
pertanto massimamente effettivo il principio di leale cooperazione, sono individuati
essenzialmente nelle “osservazioni” ed in modo molto più intenso nelle “intese”.
L’art. 5 III co. prevede la possibilità per le Regioni e le province autonome “nelle
materie di loro competenza, entro venti giorni dalla data del ricevimento degli atti di cui ai co.
1 e 2 dell’art. 3 di trasmettere osservazioni […]”, mentre il VI co. dello stesso art. prevede che
“qualora le osservazioni delle Regioni e delle province autonome non siano pervenute al
governo entro la data indicata […]o in mancanza […] il governo può procedere comunque
alle attività dirette alla formazione dei relativi atti comunitari.
Come si può facilmente intuire si tratta di una strumento di partecipazione e
collaborazione delle regioni particolarmente blando e pressocchè ininfluente sulle scelte del
Governo, trattandosi nella realtà applicativa, come del resto suggerisce la stessa etimologia
del termine, di meri suggerimenti da parte delle Regioni23.
Strumento alternativo a tale forma di partecipazione regionale, e certamente più
idoneo ad incidere concretamente sulla forma degli atti comunitari circa le materie regionali, è
previsto dal IV co. dell’art. 5.
I soggetti legittimati attivamente sono individuati esclusivamente nelle Regioni (una o
più regioni): pertanto spetterà a queste ultime, riscontrata la scarsa incisività delle
osservazioni, provocare la richiesta di convocazione della Conferenza Stato Regioni e optare
pertanto per una procedura certamente più intensa quanto a condizionamento delle scelte
governative.
21
Il CIACE (Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei) è stato istituito dall’art. 2 I co. l.
11/05 al fine di concordare le linee politiche del Governo nel processo di formazione della posizione italiana
nella fase di predisposizione degli atti comunitari e dell’Unione Europea.
22
La presenza in seno a tale organo del solo Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle
province autonome o di un Presidente di regione o di provincia autonoma da lui delegato costituisce un elemento
meramente rappresentativo in seno ad un organo formato da più ministri. V. F. PATERNITI, Nuove prospettive,
cit.
23
F. PATERNITI, Nuove prospettive, cit.
28
L’estensione materiale dell’oggetto della convocazione della Conferenza StatoRegioni, individuata nei “progetti di atti normativi comunitari riguardanti le materie attribuite
alla competenza legislativa regionale”, risulta essere maggiormente contratta rispetto quella
individuata dall’art. 3 co. I e II relativamente agli “obblighi di informazione” che reca la
formula di “progetti di atti comunitari” e “atti preordinati alla loro formazione”.
Tuttavia l’intesa che qui si viene a configurare appare uno strumento più intenso
rispetto al modello generale delineato dall’art. 3 del Dlgs n. 281/1997 soprattutto alla luce di
due dati: il termine entro il quale giungere all’intesa e le eventuali deroghe a tale iter da parte
del Governo24.
Interessante ed innovativo appare l’istituto della “riserva di esame” introdotta dall’art.
5 V co. Tale istituto a garanzia delle istanze regionali tende a favorire il congelamento
temporaneo della posizione italiana nei consessi decisionali europei affinché possano
raggiungersi posizioni condivise anche a livello delle autonomie regionali25.
L’ambito di applicazione di tale istituto è particolarmente ampio e si ritiene tale
strumento come una procedura ulteriore rispetto a quella delineata dal IV co. dell’art. 5.
Come visto in precedenza, una delle più elementari esplicazioni del principio di leale
cooperazione è costituito dal mutuo e “leale” scambio di informazioni tra i vari soggetti
coinvolti nel processo decisionale.
Sotto tale profilo, relativamente alla fase ascendente, gli obblighi di informazione
posti a carico del governo sembrano essere complessivamente rafforzati e rimarcati dall’art. 5
I co. che ha previsto la trasmissione di una serie particolare di atti, contestualmente alla loro
ricezione da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri o del Ministero delle Politiche
Comunitarie, alla Conferenza dei Presidenti delle Regioni, ai fini dell’inoltro alle Giunte e ai
Consigli regionali.
Tale disposto è completato dal II co. dell’art. 5 che costituisce una previsione
particolarmente forte, la quale garantisce non solo la trasmissione ma anche una informazione
qualificata e tempestiva eliminando ogni forma di discrezionalità governativa in ordine agli
atti da trasmettere.
Vi sono ulteriori ipotesi di informazione dal Governo alle Regioni particolarmente
equivoche nell’ambito dei commi IX e X dell’art. 5.
È assolutamente singolare come nei commi precedentemente richiamati manchi
24
Rispetto la generale procedura prevista dall’art. 3 del D.lgs 281/97, il termine entro cui addivenire
all’intesa risulta essere ridotto a 20 giorni e l’ipotesi di deroga da parte del Governo è costituita oltre che dalla
scadenza infruttuosa del termine anche dai casi di urgenza motivata e “sopravvenuta”.
25
F PATERNITI, Nuove prospettive, cit.
29
qualsiasi riferimento alla possibilità da parte delle Regioni di poter fornire un proprio
contributo, pertanto l’analisi congiunta delle due disposizioni induce a ritenere certamente
mortificate le possibilità partecipative delle Regioni.
Volendo concludere, a prescindere dagli ampi spazi di intervento riconosciuti alla
Conferenza Stato-Regioni e all’intenso istituto della intesa e della riserva di esame, affievolito
appare il principio di leale cooperazione tra Stato e Regioni in ordine alla fase ascendente,
inoltre debole risulta la partecipazione regionale lì dove si consente al Governo stesso di
illustrare semplicemente la propria posizione nelle istituzioni comunitarie lasciando ben pochi
spazi di intervento alle autonomie regionali.
Inoltre risulta certamente prevalente il coinvolgimento degli esecutivi regionali a
discapito delle assemblee elettive regionali in ordine alle procedure di partecipazione
complessivamente descritte.26
4. (segue:) b) la leale cooperazione nella fase “ascendente diretta”
Accanto alla fase ascendente “interna” diretta al coordinamento-cooperazione dei
soggetti coinvolti nella elaborazione degli atti comunitari, è prevista una ulteriore forma di
partecipazione nella fase ascendente per così dire “diretta” in cui le regioni si relazionano vis
a vi con le Istituzioni e con gli organi della Comunità europea.
Tale forma di partecipazione regionale diretta trova la sua fonte positiva nell’ambito
dell’art. 5 della legge “La Loggia” che prevede complessivamente la partecipazione delle
Regioni alle attività dei gruppi di lavoro, dei comitati, del Consiglio e della Commissione in
base a modalità da concordarsi in sede di conferenza Stato-regioni.
Si tratta di una innovazione di forte impatto politico ma gravida di perplessità sia sotto
il profilo della reale incidenza del Capo delegazione, quanto sulla procedura di designazione
occorrendo una intesa legata ad un accordo di cooperazione tra Governo e regioni27.
A tal riguardo è stato proposto nello schema di accordo generale tra Governo-regioniprovince autonome per la partecipazione alla formazione di atti comunitari, con riferimento
alla figura del capo delegazione, la possibilità che tale incarico sia svolto nelle materie di
competenza concorrente dal rappresentante del Governo o delle regioni a seconda
dell’interesse prevalente e per quelle di competenza esclusiva regionale dal rappresentante
26
P. GAMBALE, “Prima lettura” del Parlamento per le modifiche alla legge “La Pergola”: una nuova
cornice normativa per definire la partecipazione del “sistema Italia” nelle politiche UE?, in www.filodiritto.it
27
R. CAFARI PANICO, Il ruolo delle autonomie locali nel progetto di Costituzione europea, in rete su
www.sioi.org/sioi/testo.cdeverona.doc.
30
indicato dalla conferenza dei presidenti regionali; della delegazione del Consiglio dei Ministri
farebbe parte il presidente della Conferenza o un suo delegato oltre ad altri rappresentanti a
vario titolo delle regioni unitamente al Ministro competente28.
Per i gruppi di lavoro verrebbe riportato lo stesso schema.
Quanto alla designazione dei rappresentati provvederebbe la stessa Conferenza.
Alla luce di tutto ciò il coinvolgimento delle regioni nella fase ascendente diretta
potrebbe essere riletto in una ottica di partnerariato29.
5. (segue:) c) la leale cooperazione nella “fase discendente” e l’esercizio del potere
sostitutivo ex art. 117 V co. Cost.
In ordine alla cd. “fase discendente” – quindi dell’attuazione/esecuzione da parte degli
enti regionali del diritto comunitario – in considerazione del rovesciamento del criterio di
distribuzione delle competenze tra Stato e regioni e di conseguenza ad un aumento delle
materie in cui sarà possibile ottenere un “prodotto legislativo regionale”, il legislatore del
2005 si è massimamente preoccupato di modificare la disciplina prevista dall’art. 9 della
legge La Pergola per adeguare la normativa al mutato quadro costituzionale30.
L’art. 8 I co. della legge 4 febbraio 2005, n. 11 stabilisce che “Lo Stato, Regioni e le
province autonome ciascuna per le materie di propria competenza legislativa, danno
tempestiva attuazione alle direttive comunitarie”.
Nelle materie di competenza legislativa regionale esclusiva/residuale, le regioni danno
diretta attuazione del diritto comunitario a prescindere dalla legge annuale comunitaria,
mentre in quelle di competenza concorrente permane la legislazione statale di principio,
pertanto la legge comunitaria individuerà i principi fondamentali non derogabili dalla legge
regionale e prevalenti su contrarie disposizioni già emanate dalla regioni31.
Sul versante dell’attuazione in via regolamentare ed amministrativa degli atti
comunitari, è prevista la possibilità dell’attuazione delle direttive attraverso regolamenti
governativi solo nelle materie ex art. 117 II co. Cost. nel presupposto che la legge comunitaria
abbia preventivamente autorizzato l’attuazione in via regolamentare e che la materia sulla
quale si interviene non sia coperta da riserva assoluta di legge32.
28
IBIDEM
IBIDEM
30
L. CALIFANO, Stato, regioni e diritto comunitario nella legge n. 11/200: una tabella comparativa con la
legge “La Pergola”, consultabile in rete su www.forumcostituzionale.it/contributi/cost-eu.htm
31
Art. 16 I co. legge 4 febbraio 2005, n. 11 e Art. 9 lett. f) legge 4 febbraio 2005, n. 11 relativamente ai
contenuti della legge comunitaria.
32
Art. 11 I e II co. legge 4 febbraio 2005, n. 11
29
31
È da rilevare che sempre nelle materie ex art. 117 II co. Cost. non coperte da riserva
anche relativa di legge e che non siano state già disciplinate da leggi o regolamenti
governativi, sono previsti in aggiunta ai precedenti, anche regolamenti ministeriali ed
interministeriali.
Dopo aver analizzato sinteticamente le modalità attuative/esecutive del diritto
comunitario, è possibile compiere qualche valutazione sulla qualità della cooperazionepartecipazione delle Regioni e dello Stato in ordine alla fase discendente.
Una prima importante forma di raccordo Stato-regioni è costituita dalla previsione ex
art. 17 l. 11/05 della sessione comunitaria della conferenza Stato-Regioni.
Tale conferenza convocata “almeno ogni sei mesi” dal Presidente del Consiglio dei
Ministri o su richiesta delle regioni e delle province autonome sarà dedicata alla “trattazione
degli aspetti delle politiche comunitarie di interesse regionale”.
Inoltre la Conferenza potrà esprimere “pareri” sugli indirizzi generali circa
l’elaborazione/attuazione degli atti comunitari che riguardano la regione, sui criteri e modalità
per conformare l’esercizio delle funzioni regionali all’osservanza e all’adempimento degli
obblighi comunitari derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla UE, nonché sullo schema di
legge comunitaria.
Ulteriore ipotesi di informazione e cooperazione sono previste nei commi II e III
dell’art. 8 l. 11/05. Dopo aver stabilito una informazione da parte del Presidente del Consiglio
dei Ministri o del Ministro delle politiche comunitarie alle regioni e province autonome “degli
atti normativi e di indirizzo emanati dagli organi della UE e della CEE”, è previsto che le
regioni e province autonome, nelle materie di loro competenza verifichino lo stato di
conformità dei propri ordinamenti in relazione ai suddetti atti e ne trasmettano le risultanze
alla Presidenza del Consiglio dei Ministri/Dipartimento politiche comunitarie in riferimento
alle misure che intendono intraprendere.
L’art. 117 V co. Cost. nell’affermare che “Le regioni e le province autonome
[..]provvedono all’attuazione/esecuzione [..]nel rispetto delle norme di procedura stabilite
dalla legge dello Stato che disciplina le modalità dell’esercizio del potere sostitutivo in caso di
inadempienza”, configura una particolare ipotesi di esercizio del “potere sostitutivo”.
Strutturalmente dalla lettura dell’ultimo inciso di detta disposizione, emergono con
immediata evidenza alcune peculiarità.
Tale disposizione fa riferimento ad un potere sostitutivo “innominato”, in quanto non
specificamente attribuito ad alcun soggetto (tantomeno ad alcun organo), individua “nei casi
di inadempienza regionale” rispetto l’attuazione/esecuzione di accordi internazionali ed atti
32
comunitari, una precipua causa legittimante l’esercizio di detto potere e inoltre rinvia ad una
legge dello Stato il compito di disciplinare compiutamente le modalità di esercizio di tale
potere sostitutivo33.
La scelta di non individuare l’organo ed il soggetto abilitato al concreto esercizio del
potere sostitutivo è stata giustificata con il dato secondo cui l’art. 117 V co. Cost. farebbe
riferimento essenzialmente agli eventuali inadempimenti da parte del potere normativo
regionale (ed essenzialmente atti del legislatore regionale), inoltre tale scelta di
“innominatività”, nonché di non condizionamento dei criteri ai quali la normativa di
attuazione si sarebbe dovuta ispirare avrebbe, consentito alla legge statale la massima
elasticità nell’individuare le soluzioni più opportune34.
Di notevole interesse è la causa che ex art. 117 V co. Cost. legittimerebbe l’esercizio
del potere sostitutivo cioè, “l’inadempienza regionale”.
È stato rilevato che il legislatore costituzionale della riforma del 2001, pur eliminando
la formula “interessi nazionali”, abbia comunque inserito sia nell’art. 117 V co. che nell’art.
120 II co. Cost. ipotesi di intervento dello Stato a compressione delle autonomie regionali35.
Tali ipotesi fanno riferimento ad esigenze unitarie che devono essere tutelate e che
corrispondono a “velate” declinazioni dello scomparso “interesse nazionale”36.
Infatti una delle ipotesi previste dal II co. art. 120 Cost., “in caso di mancato rispetto di
norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria”, è sotto certi profili simile
all’ipotesi dei “inadempimento regionale” ex. art. 117 V co. Cost., coerente anche con la
giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui il mancato intervento dei livelli decentrati
di governo – e per tanto il venir meno agli obblighi che derivano agli Stati dalla loro
appartenenza alla UE – giustifica l’intervento del livello superiore37.
33
Interessante è notare come l’art. 120 II co. Cost. nel configurare il potere sostitutivo, individui
espressamente un soggetto abilitato all’esercizio di tale potere (il Governo) nonché specifiche ipotesi di
legittimazione di tale esercizio.
34
F. PIZZETTI, Evoluzione del sistema italiano tra “prove tecniche di governance” e nuovi elementi
unificatori. Le interconnessioni con la riforma dell’ Unione Europea. Consultabile in rete su
www.giurcost.org/studi/pizzetti3.htm., il quale pone in evidenza le differenze e le problematiche relative al
potere sostitutivo ex art. 117 V co. ed ex 120 II co. Cost.
V. anche G. VERONESI, Il regime dei poteri sostitutivi alla luce del nuovo art. 120 co. II Cost. in Le
istituzioni del federalismo, 5.2002, p. 742 ss.
35
G. VERONESI, op. ult. cit, p. 741
36
C. PINELLI, Audizione del presidente dell’AIC al Senato sulla revisione del Titolo V, Parte II della
Costituzione. Risposte dei soci dell’AIC ai quesiti. Consultabile in rete su www.
http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/speciali/senato/pinelli.html, il quale ritiene che le
fattispecie previste nell’art. 120 II co. Cost. configurano una sorta di tipizzazione dei casi in cui può ricorrere
l’interesse nazionale.
37
G. ARRIGO, Ordinamento comunitario e modifiche al Titolo V, Parte II della Costituzione – Contributo
scritto al convegno “Diritto del lavoro e federalismo”, cit. il quale ritiene “il mancato rispetto di norme e trattati
internazionali o delle normativa comunitaria” certamente una specificazione dell’interesse nazionale. E tale
33
Pertanto l’interesse fondamentale è proprio quello di evitare una forma di
responsabilità statale a livello comunitario, essendo lo Stato nel suo complesso, nella sua
qualità di interlocutore della C.E. e degli altri Stati membri, il soggetto responsabile
dell’adempimento degli obblighi comunitari.
Da ciò deriva che fermo restante la competenza in prima istanza delle Regioni e
Province autonome, allo Stato competono tutti gli strumenti necessari per non trovarsi
impotente di fronte a violazioni di norme comunitarie.
L’art. 117 V co. Cost. demanda ad una legge ordinaria il compito di disciplinare le
modalità di esercizio di tale potere sostitutivo.
Tale disciplina è attualmente contenuta nella recente legge 4 febbraio 2005, n. 1138.
Essa riprende le linee tracciate dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato espresse
nel parere n. 2 del 25 febbraio 2002, in cui la suprema magistratura amministrativa ha
affermato che lo Stato può intervenire con norme cedevoli39 legislative/regolamentari in
materie regionali, anche preventivamente, pertanto anche prima all’acclaramento di una
inadempienza regionale, ma a condizione che tali norme, qualora emanate anteriormente
all’inadempimento, produrranno effetto solo alla scadenza dell’obbligo comunitario di
attuazione della direttiva e che l’atto normativo statale contenga una clausola espressa di
cedevolezza40.
La legge 4 febbraio 2005, n. 11 prevede la disciplina del potere sostitutivo ex. art. 117
ricostruzione sarebbe avvalorata da una lettura coordinata sia degli artt. 117 e 120 Cost., sia delle ipotesi che
legittimano il potere sostitutivo dello Stato. Pertanto “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica” se
correlata all’interesse nazionale ad evitare l’insorgenza della responsabilità statale sul piano comunitario può
essere giudicata idonea a ripristinare vecchi limiti alla potestà regionale come i principi generali
dell’ordinamento giuridico o le norme fondamentali delle riforme economico sociali.
38
Per un primo commento si rinvia a T. GROPPI, Regioni e diritto comunitario: il disegno di legge di
modifica della legge “La Pergola”, Le Istituzioni del federalismo, 2.2002, pp.259-266.
39
La cedevolezza sarebbe connessa alla natura esclusivamente collaborativa dell’intervento dello Stato in
materie di competenza regionale (il Consiglio di Stato argomenta anche richiamando Corte cost. sent. n. 214/85 e
n. 192/87). E’ quindi necessario che l’atto normativo dello Stato in funzione sostitutiva collaborativa contenga la
clausola di cedevolezza.
40
Consiglio di Stato, Adunanza Generale, parere 25 febbraio 2002, n. 2 consultabile su www.filodiritto.it.
V., C. ODONE, La legislazione regionale e la legge 4 febbraio 2005, n. 11, consultabile in rete su
http://www.consiglio.regione.toscana.it/leggiebanchedati/oli/Pubblicazioni/diritto_comunit_e_regioni.pdf
Si evidenzia a p. 19 (e nota 36) comunque come l’esercizio del potere sostitutivo statale è stato esercitato,
non solo alla luce dell’art. 117 Cost. ma anche in forza dell’art. 1 delle leggi comunitarie più recenti che già a
partire dal 2001 avevano dato attuazione al nuovo art. 117 Cost. V. DDL comunitaria 2005: A. C. 576, art. 1
comma VI […] I decreti legislativi indicano espressamente la natura sostitutiva e cedevole delle disposizioni [..];
Legge 62/05 (legge comunitaria 2004) art. 1 comma VI; Legge 306/2004 (legge comunitaria 2003) art. 1 comma
V.
In relazione “al termine indicato dalla direttiva per il recepimento” a p. 20 nota 38, si ritiene che in ossequio
al principio di leale cooperazione, sembrerebbe opportuno che l’articolo contenente la clausola espressa di
cedevolezza indicasse anche la data di entrata in vigore del provvedimento statale in modo da fornire alle
Regioni ed alle province autonome tutti gli elementi necessari per concorrere pienamente alla realizzazione degli
obiettivi posti dalla direttiva, dandovi attuazione con proprio atto e determinando così il ritirarsi dell’atto
adottato in via sostitutiva dallo Stato.
34
V co. Cost. per la potestà legislativa nell’art. 16 III co., per la potestà regolamentare nell’art.
11 VIII co., nonché per i decreti ministeriali adottati in via sostitutiva nelle materie di
competenza regionale legislativa ai fini degli “adeguamenti tecnici” nell’art. 13 II co.
La norma centrale di riferimento è però costituita dall’art. 11 VIII co. la quale prevede
che possono essere adottati atti normativi nelle materie di competenza legislativa delle regioni
e delle province autonome di Trento e Bolzano al fine di porre rimedio all’eventuale inerzia
dei suddetti enti nel dare attuazione a norme comunitarie.
In tal caso gli atti normativi statali adottati si applicano per le regioni e le province
autonome per le quali non sia ancora in vigore la propria normativa di attuazione, a decorrere
dalla scadenza del termine stabilito per l’attuazione della rispettiva normativa comunitaria,
perdendo comunque efficacia dalla data di entrata in vigore della normativa di attuazione di
ciascuna regione e provincia autonoma.
Tali atti recheranno contenutisticamente l’esplicita indicazione della natura sostitutiva
del potere esercitato e del carattere cedevole delle disposizioni in essi contenuti.
Sotto il profilo più propriamente procedimentale, essi saranno sottoposti al preventivo
esame della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni e le province
autonome.
È bene tuttavia rilevare come il sistema dei rapporti tra Stato e Regioni e province
autonome verso cui ci si sta lentamente incamminando in tale ambito, consiste nel configurare
l’intervento legislativo regionale come la regola e quello sostitutivo statale come meramente
eventuale, quasi a sottolineare la straordinarietà di quest’ultimo come del resto emerge in
generale dalla evoluzione della giurisprudenza costituzionale.
Osservando il concreto esercizio del potere sostitutivo statale a mezzo di decreto
legislativo, relativamente a quelli adottati in attuazione delle direttive dal 2001 ad oggi, esso
risulta essere stato esercitato più volte sia in riferimento a materie di competenze legislativa
concorrente che residuale; la tipologia di competenza è individuabile all’interno della clausola
di cedevolezza, che facendo riferimento al meccanismo di cedevolezza, indica i limiti che
incontra l’esercizio della competenza legislativa regionale in riferimento a quella direttiva
specifica41.
Qualche perplessità suscita la costruzione del rapporto “potere sostitutivo statale (sia
pure a mezzo di normativa cedevole) preventivo” e “inadempienza regionale”, essendo, sotto
un profilo generale, l’inadempienza un vero e proprio stato anomalo di un rapporto giuridico
41
C. ODONE, cit., p. 20 in sui si riporta una interessante tabella relativa delle direttive attuate dallo Stato con
decreto legislativo, nell’esercizio del potere sostitutivo ex art. 117 V co. Cost.
35
che generalmente determina lo svolgimento di una previa attività di “diffida/contestazione”
dell’inadempienza stessa42.
Inoltre anche la Corte costituzionale aveva affermato che il principio di leale
cooperazione, in tema di potere sostitutivo, impone di non “procedere alla sostituzione
automaticamente, se non dopo aver attivato quelle misure (scambio di informazioni,
sollecitazioni, ecc.) che per i livelli e modalità, fossero state idonee a qualificare l’intervento
sostitutivo come necessitato dall’inerzia del soggetto di autonomia”43.
Il potere sostitutivo statale, configurato come preventivo e caratterizzato dalla
cedevolezza della normativa introdotta (denotante la natura collaborativa dell’intervento
statale), non depone a favore di una cooperazione “in senso forte” e pertanto, sotto il profilo
qui esaminato, di una evoluzione paritaria dei rapporti Stato-Regioni.
Problematica appare la concezione di una attività di recepimento del diritto
comunitario a mezzo fondamentalmente di legge regionale soprattutto in relazione ai tempi
particolarmente ampi con i quali i consigli regionali decidono.
Il che genererebbe il rischio di legittimare quasi un automatico esercizio del potere
sostitutivo ex art. 117 V co. Cost. sia pur a mezzo di una normativa cedevole.
In questo senso sarebbe ampiamente condivisibile la proposta avanzata oramai da
tempo in dottrina di prevedere una legge comunitaria regionale teleologicamente orientata
all’attuazione di tutte le direttive rientranti nelle materie di competenza regionale e che siano
coperte da riserva di legge44.
42
F. SORRENTINO, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali,
consultabile su federalismi.it , il quale a p. 15, pur ritenendo tale soluzione non del tutto corretta sul piano
costituzionale, la ritiene collaudata e suscettibile di prevenire inadempienze e di evitare conflitti con le regioni.
43
V. Corte cost. sent. n. 294/86
44
P. BILANCIA, Regioni ed attuazione del diritto comunitario, in Le Istituzioni del federalismo, 1.2002 p.
55 ss. e C. ODONE, cit. p. 20, il quale ritiene i decreti legislativi statali emanati nell’esercizio del potere
sostitutivo utili riferimenti ai fini della costruzione di una legge comunitaria regionale.
36
LA COOPERAZIONE TRA REGIONE ED ENTI LOCALI: IL RUOLO DEL
CONSIGLIO DELLE AUTONOMIE LOCALI
di
Federica Scarlatti
SOMMARIO: 1. La riforma del Titolo V, seconda parte, della Costituzione come
compimento, parziale, del sistema costituzionale delle autonomie locali. – 2. La cooperazione tra
Regione ed enti locali: il Consiglio delle Autonomie Locali. – 3. Il ruolo del Consiglio delle
Autonomie Locali: l’esperienza della Regione Toscana. – 4. Le prospettive della riforma
costituzionale.
1. La riforma del Titolo V, seconda parte, della Costituzione come compimento,
parziale, del sistema costituzionale delle autonomie locali
Più che di sistema costituzionale delle autonomie locali si potrebbe oggi forse parlare
effettivamente di “ruolo costituzionale delle autonomie locali”1, a partire soprattutto dal dato
formale della configurata parità degli enti che compongono la Repubblica, anche in base
all’art. 114 della Costituzione, che in luogo de “La Repubblica si riparte in Regioni, Province
e Comuni”, prevede “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, secondo una prospettiva, stando alla lettera della
riforma costituzionale del 2001, in cui le autonomie locali non rappresentano la ripartizione
supplementare di un’unità essenzialmente autosufficiente, ma di questa unità divengono
elementi costitutivi. E nella transizione da partizioni, di ascendenza prevalentemente
amministrativa, ad elementi costitutivi, forse più declamati che realmente definiti, lo Stato
pare perdere la posizione “strutturalmente e gerarchicamente sovraordinata agli altri enti
territoriali”2, pur nella prospettiva di continuità di sistema delineata da una giurisprudenza
costituzionale, che, anche “tra le non poche incertezze ed oscillazioni dalla stessa”3, allo Stato
ha invece riservato un ruolo unificante.
Del resto è anche grazie all’attribuzione di funzioni e poteri propri a Province e
Comuni, alla cui autonomia statutaria è stata assegnata rilevanza costituzionale, che si viene a
1
Di sistema costituzionale delle autonomie locali parla diffusamente F. PIZZETTI, definendo tale
denominazione come arretrata rispetto alla configurazione odierna delle autonomie locali nella costituzione
italiana, ne Il sistema costituzionale delle autonomie locali (tra problemi ricostruttivi e problemi attuativi), in Le
Regioni, 2005, 1-2, 49.
2
F. PIZZETTI, Il sistema costituzionale delle autonomie locali (tra problemi ricostruttivi e problemi attuativi)
citata, in Le Regioni, 2005, 1-2, 51.
3
A. RUGGERI, Riforma del titolo V ed esperienze di normazione, attraverso il prisma della giurisprudenza
costituzionale: profili processuali e sostanziali, tra continuo e discontinuo, in federalismi.it.
parlare oggi di “assetto policentrico dell’ordinamento”4, in cui il principio di sussidiarietà,
definito in modo espresso nel testo costituzionale, consente di riservare anche ai livelli più
“bassi” dell’ideale scala gerarchica in cui venivano suddivisi gli enti territoriali, un ruolo di
rilievo, come è avvenuto attraverso il generale conferimento delle funzioni amministrative,
proprie ed attribuite, ai Comuni.
In tale contesto non può essere taciuta la potestà regolamentare degli enti locali “in
ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”5,
che contribuisce ad arricchire e soprattutto a rendere ancor più complessa la posizione delle
autonomie locali nell’attuale sistema costituzionale.
Ed è in un tale complesso quadro che la cooperazione viene a svolgere, in potenza, un
ruolo rilevante ai fini del coordinamento dei numerosi soggetti istituzionali. In tal senso pare
opportuno considerare, nelle pagine che seguono, i luoghi della cooperazione tra Regione ed
enti locali, proprio alla luce dell’ordinamento costituzionale come disegnato dopo la riforma
del 2001.
Infatti la riforma da ultimo citata non si è limitata a ridefinire i rapporti tra Stato e
Regioni, ma “ha più complessivamente ridefinito l’intero quadro dei rapporti tra lo Stato e
l’intero sistema delle autonomie territoriali, sia regionali che locali, secondo una logica di
federalismo cooperativo”6, cooperazione resa indispensabile anche dalla crisi del sistema delle
fonti tradizionalmente basato sulla prevalenza del criterio di gerarchia e non di competenza, in
cui l’interazione ed il dialogo tra i diversi livelli di governo devono essere finalizzati al
superamento del rigido criterio della separazione delle competenze, spostandone non il quadro
formale ma il suo esercizio.
Tuttavia la previsione di sedi istituzionali in cui prevedere la realizzazione del
principio di leale collaborazione è sicuramente anche anteriore alla riforma del 2001, avendo
previsto il d.lgs. n. 281 del 1997 proprio l’istituzione della Conferenza Unificata, al fine di
favorire la cooperazione tra l’attività dello Stato ed il sistema delle autonomie, con funzioni
consultive ed in particolare con l’attribuzione del parere sul disegno di legge finanziaria e sui
disegni di legge collegati, sul documento di programmazione economica e finanziaria e sugli
4
Documento approvato dagli stati generali delle autonomie locali relativamente alla riforma costituzionale,
Rimini 10 aprile 2002, su federalismi.it.
5
Come prevista dall’art. 117, comma VI, Cost., e precisato dall’art. 4 della legge n. 131 del 2003.
6
A. CHELLINI, Il Consiglio delle autonomie locali nel dibattito nazionale e nell’esperienza della Regione
toscana, in Le Regioni, 2000, 3, 587
38
schemi di decreti legislativi volti a conferire funzioni e compiti amministrativi alle Regioni e
agli enti locali7.
E sono a mio parere tali tipi di sedi istituzionali a dover essere consolidati e previsti
con maggior definizione, proprio per superare la parzialità della realizzazione del sistema
costituzionale delle autonomie locali, o, più propriamente, del ruolo di queste ultime nel
sistema costituzionale: la finalità dovrebbe essere quella di superare le incertezze dell’odierno
sistema, in cui si è forse persa l’occasione per colmare le lacune del passato, e si è invece
scelto
di
accentuare
un’“impostazione
di
tipo
duale,
fondata
sulla
separazione/contrapposizione tra centro e periferia”8. E non si può non considerare il rapporto
inversamente proporzionale che lega l’attività relativa alla cooperazione ed la conflittualità tra
gli enti che della cooperazione dovrebbero essere i protagonisti: solo per fare un esempio è
possibile dire che al diminuire dell’attività della conferenza Stato Regioni9 è aumentato il
conflitto relativo alle competenze legislative di fronte alla Corte costituzionale.
In tal senso si è parlato delle sedi della cooperazione come di condizioni senza le quali
non è dato un regionalismo realmente collaborativo, e della Conferenza unificata e del
Consiglio delle Autonomie Locali come di modelli della realizzazione di tali principi, nel
rafforzamento della logica cooperativa in cui tali organismi si candidano ad essere il centro
dell’estrinsecazione della cooperazione stessa.
2. La cooperazione tra Regione ed enti locali: il Consiglio delle Autonomie Locali
Volendo individuare una proiezione istituzionale dei principi di leale cooperazione e
di parità tra enti pubblici territoriali parte della dottrina ha considerato proprio il Consiglio
delle Autonomie Locali come ente volto a garantire una presenza visibile al sistema delle
autonomie10. L’art. 123 della Costituzione, novellato dalla riforma costituzionale del 200111,
prevede che in ogni Regione lo Statuto disciplini il Consiglio delle autonomie locali “quale
7
In particolare il D.Lgs. n. 281 del 1997, agli articoli 8 e 9 prevede che la Conferenza Stato - citta’ ed
autonomie locali venga unificata con la Conferenza Stato - regioni per le materie ed i compiti di interesse
comune delle regioni, delle province, dei comuni e delle comunita’ montane, con la finalità di assumere
deliberazioni, promuovere e sancire intese ed accordi, esprimere pareri, designare rappresentanti in relazione alle
materie ed ai compiti di interesse comune alle regioni, alle province, ai comuni e alle comunita’ montane.
8
Così A. ANZON, secondo la quale proprio tale rigida impostazione segnata dai criteri della separazione delle
competenze è stata condannata all’insuccesso anche nell’esperienza pratica di molti paesi, Il nuovo titolo V della
parte II della Costituzione – Primi problemi della sua attuazione. Un passo indietro verso il regionalismo
“duale”, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
9
In particolare sulla Conferenza Stato Regioni si veda in contributo di N. Pignatelli.
10
In tal senso vedi L. VIOLINI, Il Consiglio delle autonomie, organo di rappresentanza permanente degli enti
locali presso la regione, in Le Regioni, 2000, 5, 989.
11
L’ultimo comma dell’art. 123 è stato aggiunto dall’art. 7 della legge cost. n. 3 del 2001.
39
organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali”, stabilendo la necessarietà di una tale
sede di raccordo istituzionale per comporre gli interessi dei diversi livelli di governo.
Tale soluzione costituzionale era però già stata sperimentata nella quasi totalità delle
Regioni, pur con soluzioni spesso sensibilmente diverse tra loro. Infatti i momenti di raccordo
tra Regioni ed enti locali vantano una esperienza normativa risalente, anche se non sempre ad
essa è corrisposta una adeguata realizzazione fattuale delle previsioni positive. Già il D.p.r. n.
616 del 1977 prevedeva, in modo generico, il concorso degli enti locali territoriali alla
determinazione dei programmi regionali. In seguito ancora non adeguatamente incisive si
rivelarono le previsioni della legge n. 142 del 1990, in cui la partecipazione degli enti locali
veniva sempre configurata in modo generico e limitata ai soli procedimenti programmatori,
come anche le previsioni della legge Bassanini, n. 59 del 1997, in base alle quali le Regioni,
nel processo di conferimento di funzioni alle province, comuni e altri enti locali, potevano
ascoltare organi rappresentativi delle autonomie locali ove costituiti dalle leggi regionali. È
invece in attuazione di queste ultime previsioni, con il decreto legislativo n. 112 del 1998, che
il legislatore inizia a definire più compiutamente i contorni della cooperazione tra Regioni ed
enti locali, prevedendo, all’art. 3, che le Regioni adottino “procedure di raccordo e
concertazione, anche permanenti, che diano luogo a forme di cooperazione strutturali e
funzionali, al fine di consentire la collaborazione e l’azione coordinata fra Regioni ed enti
locali nell’ambito delle rispettive competenze”, iniziando a dare forma istituzionale alla
generica partecipazione degli enti locali prevista fino a quel momento, previsioni riprese poi
nella disciplina del Testo unico dell’ordinamento degli enti locali.
In attuazione della disciplina in materia molte Regioni hanno quindi adottato appositi
provvedimenti12, con la finalità di dar vita a forme di cooperazione più strutturate; tuttavia,
come accennato, le esperienze regionali sono state anche molto diverse tra loro, e
caratterizzate da alcuni tratti che ne hanno limitato l’efficacia, come, ad esempio, la mancanza
di reale autonomia, che ha finito col tradursi in una sostanziale subalternità propositiva e di
impulso13, oppure una composizione che ha incluso in queste sedi non solo gli enti locali, ma
anche le cosiddette autonomie funzionali, facendo venir meno un collegamento più esplicito
12
Il panorama normativo che ha accolto la riforma costituzionale si presentava, come accennato, abbastanza
variegato, finanche nel nomen assegnato all’organismo in questione: per una comparazione delle diverse
denominazioni di cui alle leggi regionali di istituzione dei vari organismi si rinvia agli approfondimenti presenti
nel sito del Consiglio delle Autonomie locali della regione Umbria, http://www.cal-umbria.it.
13
F. GALILEI, Proposte per la disciplina dei consigli delle autonomie locali negli statuti regionali ai sensi
dell’art. 123 della Costituzione, in Nuova Rassegna, 2002, 753; A. CHELLINI, Il Consiglio delle autonomie locali
nel dibattito nazionale e nell’esperienza della Regione toscana, in Le Regioni, 2000, 3, 587.
40
con la rappresentanza espressione diretta del principio democratico, così limitando forse più
in generale anche una maggior rappresentatività politica degli enti partecipanti.
Ma il dato che forse più degli altri ha contribuito a minare l’efficacia di una
cooperazione più concreta tra Regione ed enti locali è costituito dalla mancata previsione, per
tali organismi, di funzioni incisive, perché non realmente incidenti nell’attività regionale. In
particolare erano stati previsti un numero limitato di atti/interventi, “a volte pareri, ma non
proposte, più spesso pareri e proposte, ma non intese”14, e soprattutto non erano stati previsti
vincoli pregnanti, o comunque una qualche incidenza formale nei procedimenti partecipativi,
tali da rendere i pareri o le proposte dei consigli/conferenze scarsamente rilevanti sul piano
della creazione di percorsi realmente integrati.
In realtà l’esperienza di quegli anni delle Regioni non è stata “brillantissima”,
essendosi rivelati i Consigli come “organi estremamente complessi, formati da alchimie
complicatissime, in cui non tutti si sentono rappresentati”15, in un panorama di previsioni
regionali in cui la soluzione prevalente si è manifestata nella scelta di un modello istituzionale
a carattere concertativo, ripreso dall’esperienza della conferenza Stato-Regioni16.
In particolare il panorama delle scelte normative si presentava particolarmente
variegato17: tutti gli organismi presi in esame avevano carattere consultivo, ma alcune Regioni
avevano assegnato a questi anche la competenza a concludere intese/accordi; tuttavia anche
tali intese erano sempre previste in termini di “intesa debole”, il cui mancato raggiungimento
non aveva una incidenza nel percorso partecipativo rispetto ai procedimenti regionali18. Le
materie per le quali era prevista l’attività dell’organismo in questione erano genericamente
riferite al conferimento delle funzioni amministrative, e ai piani regionali di sviluppo; più
raramente al riparto di risorse, all’esercizio delle funzioni di indirizzo e coordinamento,
all’esercizio del potere sostitutivo.
Per quel che riguarda invece la composizione, nella maggior parte dei casi questa era
prevista come mista, comprendendo la partecipazione di rappresentanti delle autonomie locali
e dell’ente regionale, e solo in alcune esperienze, quelle delle Regioni Friuli Venezia Giulia,
Lombardia, Toscana, Umbria e Valle d’Aosta, si è preferito il modello – minoritario – relativo
14
F. GALILEI, Proposte per la disciplina dei consigli delle autonomie locali, op. cit..
R. BIN, L’amministrazione coordinata ed integrata, in Le Regioni, 2000, 5, 1009.
16
A. CHELLINI, Il Consiglio delle autonomie locali nel dibattito nazionale e nell’esperienza della Regione
toscana, in Le Regioni, 2000, 3, 587.
17
Per un esame più puntuale del panorama normativo italiano in materia cfr. A. CHELLINI, Il Consiglio delle
autonomie locali op.cit.; e gli approfondimenti presenti sul sito del Consiglio delle autonomie della Regione
Umbria, http://www.cal-umbria.it.
18
In questi casi naturalmente la composizione delle conferenze/consigli era mista, non comprendendo quindi
i casi in cui la rappresentanza era limitata ai soli enti locali.
15
41
alla partecipazione dei soli rappresentanti degli enti locali: una scelta che forse permette
all’organismo di evidenziare maggiormente la posizione politica degli enti locali, in un
dialogo istituzionale che viene ad essere posto sicuramente in rilievo.
Per quanto concerne poi l’organizzazione, nella maggior parte delle Regioni gli
organismi in questione erano istituiti presso la Giunta regionale e presieduti dal Presidente di
questa: la mancata previsione della eleggibilità del presidente risulta sintomatica di una
autonomia organizzativa che stentava a decollare. In altre Regioni era previsto, in modi
diversi, il riferimento anche al Consiglio regionale.
Un modello che invece si è discostato dagli altri è quello della Regione Toscana: in
questo caso il Consiglio delle Autonomie locali è istituito presso il Consiglio, e il Presidente
viene eletto all’interno del Consiglio stesso, come accade in poche altre Regioni.
Venendo da ultimo all’attività delle conferenze/consigli delle autonomie locali si può
dire che nessuna normativa regionale aveva previsto una incidenza formale dei pareri
provenienti dalle suddette sedi istituzionali, rimanendo tale incisività affidata essenzialmente
all’area della dialettica politica, senza prendere una forma definita sul piano dei rapporti
interistituzionali. Unica eccezione in tal senso è costituita dalla Regione Toscana, che aveva
previsto in conseguenza del parere contrario del Consiglio delle Autonomie Locali
l’approvazione dell’atto solo a maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio
regionale19.
A fronte di un tale patrimonio si può dire che anche a “Costituzione invariata”
l’evoluzione dei rapporti istituzionali tra Regioni ed enti locali dimostrava da una parte una
tendenza al distacco dalla logica della rappresentanza delle autonomie con finalità di segno
più garantista rispetto alla tutela dei propri ambiti di interesse, ed un avvicinamento invece ad
una logica diversa, di cooperazione tra diversi livelli di governo. Tuttavia, come accennato, il
modello delineato dalle esperienze normative regionali era di stampo ancora piuttosto
incentrato sul ruolo della Regione, rimanendo l’organismo in questione ancora un’appendice
della Regione stessa.
Ed è in questo contesto che il legislatore costituzionale introduce l’ultimo comma
dell’art. 123, con la previsione di un organo di consultazione tra la Regione e gli enti locali,
19
Tuttavia tale previsione non ha avuto una sua compiuta realizzazione, essendo stata condizionata da una
modifica statutaria che ne consentisse l’esecuzione, modifica che non è intervenuta neppure da ultimo, con
l’approvazione del nuovo Statuto della Regione Toscana, che prevede, al quarto comma dell’art. 66, la
possibilità di disattendere il parere attraverso una motivazione espressa.
42
che da taluno è stato definito come un “paletto”20 costituzionale nel panorama della
cooperazione tra le Regioni e gli enti locali. La previsione costituzionale si pone dunque come
fatto ulteriore, rilevante, ai fini della definizione dei contorni della sede istituzionale deputata
a regolare, almeno in parte, i rapporti dell’ente regionale con le autonomie locali,
contribuendo a qualificare queste ultime sempre più come elementi di un sistema di governo
multilivello, e non semplicemente come ripartizioni amministrative della Regione.
In tal senso il Consiglio delle Autonomie locali, nell’evoluzione del sistema
costituzionale, si colloca come strumento in qualche modo di svalutazione del modello
gerarchico, aprendo la strada ad una cooperazione sempre più paritetica. E nella concreta
attuazione che della disposizione costituzionale hanno dato gli Statuti regionali si verifica il
fattivo compimento del cosiddetto “federalismo cooperativo”21. In questo senso Chellini
sostiene come il Consiglio delle Autonomie locali costituisca proprio una delle realizzazioni
necessarie affinché il citato federalismo non si disperda “disorganicamente in mille rivoli
diversi” ma trovi, al contrario, una sede specifica, a carattere permanente e a competenza
generale22. Il rischio, paventato dall’autore, è di vedere altrimenti disillusa la speranza di una
interazione e di un dialogo tra i diversi livelli di governo, pur nella diversità dei ruoli e delle
rispettive responsabilità, disillusa la speranza di un rapportarsi positivo delle rispettive
competenze, senza il quale risulterebbe improbabile poter assicurare funzionalità e dinamicità
al sistema.
L’inquadramento del ruolo del Consiglio delle Autonomie locali come elemento
qualificante del processo di realizzazione della cooperazione, non soltanto nella veste di sede
di raccordo tra Regione ed enti locali, ma come strumento indispensabile al compimento di
una dialettica di sistema di più ampio respiro, è stato delineato anche da Giuseppe Ugo
Rescigno, che viene a sottolineare proprio il ruolo strategico del Consiglio delle Autonomie
Locali nell’impianto costituzionale “per il buon funzionamento del tutto, un continuo e serrato
confronto tra tutti gli enti che compongono a pari titolo la Repubblica”23.
Tuttavia sempre Rescigno non manca di sottolineare la configurazione debole che
dell’istituto ha scelto di dare il legislatore costituzionale, identificando poche cose certe
ricavabili dal quarto comma dell’art. 123 Cost.: la necessarietà dell’istituzione di un Consiglio
20
L. VIOLINI, Il Consiglio delle autonomie, organo di rappresentanza permanente degli enti locali presso la
regione, in Le Regioni, 2000, 5, 989.
21
A. CHELLINI, Il Consiglio delle autonomie locali nel dibattito nazionale, op.cit., in Le Regioni, 2000, 3,
587.
22
A. CHELLINI, Il Consiglio delle autonomie locali nel dibattito nazionale, op.cit., 589.
23
G. U. RESCIGNO, Consiglio delle Autonomie Locali e Costituzione, in Politica del diritto, 2003, 2, 248.
43
delle Autonomie Locali, l’obbligatorietà della previsione statutaria per quest’ultimo e la sua
funzione consultiva.
Il resto pare lasciato alla libera volontà dei legislatori statutari, ai quali spetta
l’effettiva definizione dell’incisività dell’organismo nel sistema regionale, perché in effetti
l’art. 123 pare aggiungere poco alle prospettive aperte dalle esperienze regionali: la
definizione del Consiglio come di un organo consultivo lascerebbe ad intendere che nessuna
Regione potrebbe assegnare a quest’ultimo funzioni deliberanti; trattandosi poi di un organo
di consultazione “tra Regione ed enti locali” sembrerebbe doveroso garantire la
rappresentanza di tutti i Comuni, ma in relazione alla composizione dell’organo il
“costituzionalmente certo” appare ancor meno sicuro. In altre parole ciò che dalla
Costituzione si deduce viene più a costituire il segnale che il legislatore costituzionale ha
avvertito l’esigenza di incrementare “solidi strumenti di raccordo, che non una risposta
compiuta e soddisfacente”24 alle esigenze di un sistema in precedenza tendenzialmente
unitario e accentrato e divenuto ora, al contrario, tendenzialmente destrutturato e disarticolato.
3. Il ruolo del Consiglio delle Autonomie Locali: l’esperienza della Regione Toscana
Volendo più da vicino esaminare il ruolo del Consiglio delle Autonomie locali nel
quadro delle relazioni tra gli enti locali e la Regione, si è pensato di analizzare, sia pur
brevemente, alcuni tra gli aspetti che caratterizzano quest’ultimo, prendendo in
considerazione in particolare il Consiglio delle Autonomie della Regione Toscana, Regione la
cui esperienza nel panorama nazionale si è dimostrata degna di particolare rilievo, come
accennato nel paragrafo precedente, e nel cui Statuto il sistema delle autonomie può essere
considerato uno dei pilastri dello stesso, venendo ad essere riservata agli enti locali
un’importanza che vanta radici profonde nel retroterra storico-culturale della Regione.
Nello Statuto della Regione Toscana viene infatti a più riprese sottolineato il valore
della sussidiarietà verticale, accanto a quello della sussidiarietà orizzontale comunque molto
rilevante nel sistema regionale in questione, attraverso non solo la previsione di strumenti di
“devoluzione verso il basso”, con il limite naturalmente delle esigenze unitarie, ma anche
attraverso la previsione di un concorso degli enti locali nella programmazione regionale, in
24
F. PIZZETTI, Il sistema costituzionale delle autonomie locali (tra problemi ricostruttivi e problemi attuativi)
op. cit., 51.
44
una direzione di interazione che potremmo definire ascendente, configurando un sistema
amministrativo cosiddetto integrato, in una logica di rifiuto di un centralismo regionale25.
In particolare si vorrebbe far riferimento all’attività del Consiglio delle autonomie
locali, per il quale l’art. 66 dello Statuto della Regione Toscana prevede l’istituzione presso il
Consiglio, con funzioni “consultive e di proposta”.
Le funzioni consultive si estrinsecano in un parere, previsto come obbligatorio, “sul
bilancio regionale, sugli atti della programmazione regionale, sulle proposte di legge e di
regolamento che riguardano l’attribuzione e l’esercizio delle competenze degli enti locali”26,
venendo rinviata alla legge la disciplina più dettagliata delle ipotesi di atti sottoposti a parere.
È qui il caso di accennare al fatto che la legge regionale non è stata ancora aggiornata in base
alle nuove disposizioni statutarie, tuttavia l’art. 12 della legge regionale 21 marzo 2000, n. 36,
recante la “Nuova disciplina del Consiglio delle autonomie locali” a tutt’oggi in vigore,
prevede la competenza del Consiglio delle autonomie locali in relazione ad alcuni atti
regionali, con particolare riferimento alle proposte che attengono alla determinazione o
modificazione delle competenze degli enti locali, al riparto di competenze tra Regione ed enti
locali, alla istituzione di enti e agenzie regionali.
Da tali previsioni pare dunque che il modello toscano si sia adeguato alla lettura più
restrittiva della norma costituzionale, senza l’indicazione di una specifica funzione di
partecipazione o condivisione dei poteri deliberativi o di amministrazione attiva in senso
stretto27.
D’altra parte tuttavia lo spazio coperto dalla competenza consultiva del Consiglio delle
Autonomie risulta abbastanza ampio, venendo a poter esprimere parere su una pluralità di atti,
provenienti sia dalla Giunta che dal Consiglio, con l’unica necessità del riferimento di questi
ultimi alle autonomie locali.
Provando ad osservare più da vicino le funzioni del Consiglio potremmo prendere in
esame brevemente i pareri espressi dallo stesso attraverso l’osservazione da un lato
dell’attività del Consiglio al momento del suo avvio, dall’altro dell’attività più recente,
relativa ai pareri espressi nell’anno 200428.
25
Cfr. sul punto T. GROPPI, Il sistema delle autonomie, in, Statuto della Regione Toscana Commentario, P.
CARETTI, M. CARLI, E. ROSSI (a cura di), 2005, Giappichelli, Torino, p. 298.
26
Art. 66, comma 3, dello Statuto della Regione Toscana.
27
Così A. ANDREANI, Consiglio delle Autonomie Locali, in Statuto della Regione Toscana Commentario,
op.cit., p. 337.
28
Non è stato infatti ancora pubblicato il rapporto annuale di attività del 2005, in preparazione proprio in
questi mesi.
45
In relazione, dunque, ai dati rinvenibili riguardo al primo periodo del suo
funzionamento29 si osserva che su un totale di 72 pareri espressi dal Consiglio sono stati
formulati oltre 200 rilievi, sotto forma di osservazioni, richieste di modifiche e
raccomandazioni. In 7 casi vi è stato un parere negativo sull’atto oggetto di consultazione, ed
il grado di accoglimento dei rilievi da parte del Consiglio regionale si è aggirato intorno alla
metà dei casi. Un’attività pertanto già molto intensa da parte del Consiglio, e un grado di
accoglimento che se non si può definire negativo non integra tuttavia nemmeno i termini di
una cooperazione forte tra Regione e autonomie locali. Da segnalare, in relazione ai dati in
questione, che non è possibile considerare un’analisi più approfondita in relazione
all’interazione tra la legislazione regionale e la funzione consultiva delle autonomie locali, in
quanto la forma discorsiva dei pareri espressi non consentiva di poter valutare sempre
puntualmente il grado di accoglimento non tanto dei pochi pareri negativi, quanto delle
numerose raccomandazioni rivolte dal Consiglio all’organo regionale.
Venendo invece ad osservare un periodo più recente di attività del Consiglio delle
Autonomie Locali30 si osserva che questo ha tenuto complessivamente 8 sedute, in cui si è
pronunciato 68 volte, esprimendo 3 osservazioni facoltative e 65 pareri obbligatori, la
maggior parte dei quali in relazione a proposte di legge, ma anche su proposte di
deliberazione, di regolamento e di risoluzione.
In relazione a detti pareri risulta che soltanto in 4 occasioni le pronunce sono state
negative, mentre 17 sono state quelle favorevoli: la maggior parte dei pareri espressi ha invece
previsto raccomandazioni generiche e condizioni specifiche formulate dal Consiglio: in
particolare si individuano 29 condizioni e 87 raccomandazioni. In relazione a queste il
rapporto riporta un’analisi parziale dell’esito dell’attività consultiva del Consiglio, motivata
dal fatto che non si erano conclusi tutti gli iter legislativi interessati dai pareri in analisi.
Considerando quindi i 38 atti approvati dal Consiglio Regionale si osserva che sono state
accolte 5 condizioni su 12 e 7 raccomandazioni su 34.
Tale dato, secondo il rapporto31, risulta inferiore alle percentuali di accoglimento
registrate nei primi anni di attività del Consiglio delle Autonomie, ma comunque lievemente
superiore rispetto alle rilevazioni relative all’anno 2003.
29
I dati sono tratti dal Bilancio di legislatura. L’attività del consiglio delle autonomie locali dalla sua
istituzione al termine della VI legislatura regionale, pubblicazione del servizio di assistenza al Consiglio delle
Autonomie Locali della Toscana, Firenze, marzo.
30
I dati cui si fa riferimento sono contenuti nel “Rapporto annuale di attività 2004”, pubblicazione n. 1/2005
del Consiglio delle Autonomie Locali.
31
“Rapporto annuale di attività 2004”, citato.
46
Tuttavia molteplici sono state le pronunce di accoglimento da parte del Consiglio, e su
tale grado di accoglimento ha inciso notevolmente il maggior ruolo di raccordo con le
associazioni rappresentative degli enti locali, nonché l’attività dei Tavoli di concertazione
interistituzionale: si osserva infatti che molti pareri favorevoli possono essere considerati
come attestazioni dell’esito dei passaggi cosiddetti concertativi. Ed è forse sempre grazie
all’intensità della concertazione anteriore alle sedute consiliari che nella quasi totalità delle
pronunce si è raggiunta l’unanimità per quel che riguarda il quorum deliberativo.
Volendo solo dare un veloce sguardo all’attività svoltasi nel corso dell’anno appena
concluso, basandosi su rilevazioni di dati ancora parziali, potremmo dire che i pareri sono
stati 62, e che in relazione ad essi nel corso del 2005 in 2 casi il Consiglio ha ritenuto di non
deliberare a causa dell’oggetto non rilevante ai fini della sua competenza; in 4 casi il
Consiglio ha dato parere negativo all’oggetto della consultazione, ed in altrettanti casi ha
posto condizioni all’espressione di un parere favorevole. In ben 18 casi ha invece ritenuto di
esprimere raccomandazioni, per lo più formulate “a titolo collaborativo”.
Anche da queste parziali32 osservazioni emerge la tendenza appunto a voler instaurare
un dialogo costruttivo con l’ente regionale, volontà rinvenibile nella molteplicità delle
osservazioni rese, e soprattutto, nella puntualità di queste ultime, senza tuttavia rinunciare, il
Consiglio stesso, ad esprimere posizioni contrarie sulle singole questioni occorse al suo
esame, attraverso la predisposizione di pareri piuttosto precisi nel censurare non soltanto le
previsioni lesive dell’autonomia degli enti locali, ma anche della ragionevolezza della
normativa, della compatibilità costituzionale ed in generale all’interesse dei cittadini.
Del resto la tematica dell’interesse dei cittadini e della rappresentatività costituisce
uno degli aspetti più delicati nella definizione dei contorni del Consiglio delle Autonomie
Locali, in quanto non l’interesse di alcuni, più fortunati, cittadini viene ad essere curato, ma
proprio l’interesse generale tutelato attraverso la rappresentanza del sistema delle autonomie,
non solo di alcune di esse. Questo rende di più facile comprensione quanto delicato possa
risultare l’aspetto della composizione del Consiglio.
Già Rescigno considerava come la questione della composizione del Consiglio fosse
troppo carica di implicazioni politiche, costituendo un problema soprattutto i Comuni non
capoluogo di provincia, a causa del loro grande numero33. La legge toscana prevede ad oggi
32
I dati sono stati ripresi dall’archivio telematico dei pareri espressi presente sul sito del Consiglio delle
Autonomie Locali toscano, http://www.consiglioautonomie.it/pareri.htm, solo parzialmente paragonabili ai dati
riferiti al primo periodo di funzionamento del Consiglio.
33
G. U. RESCIGNO, Consiglio delle Autonomie Locali e Costituzione, op. cit..
47
ancora una composizione di 50 membri34, di cui fanno parte i presidenti delle Province e i
sindaci dei Comuni capoluogo di provincia, nominati, e due presidenti di Consigli provinciali,
23 sindaci di Comuni non capoluogo, due presidenti di Consigli comunali, tre presidenti di
Comunità montane, eletti. La durata in carica del Consiglio è correlata alle elezioni
amministrative che riguardano più della metà degli enti locali della Regione. A parere di
Chellini si è voluto in questo modo evidenziare che il livello di rappresentanza di questo
organismo attiene alle autonomie locali, ed in sintonia con esse necessita di essere
aggiornato35.
La composizione come finora delineata, in base alle previsioni della legge regionale n.
36 del 2000, e non ancora modificata in seguito alle nuove previsioni statutarie, non ha avuto
il pregio di rispecchiare fedelmente le diverse componenti rilevanti, essendo combinata
naturalmente la composizione numerica con quella della rappresentanza politica, territoriale e
istituzionale dei numerosi enti locali della Regione. In relazione a tale problematica Andreani
auspica che la eventuale nuova composizione numerica del Consiglio regionale possa
consentire una diversa e più articolata composizione del Consiglio delle Autonomie Locali36.
4. Le prospettive della riforma costituzionale pendente
Se dunque il legislatore costituzionale, nelle previsioni di cui all’art. 123 Cost., si è
limitato a dar conto dell’esperienza delle Regioni nella definizione della sede preposta a
realizzare un momento di raccordo stabile tra Regione ed enti locali, lo stesso non può dirsi
per la riforma costituzionale pendente in attesa di referendum costituzionale confermativo, su
cui vorrei da ultimo soffermarmi. Infatti il testo varato dal riformatore costituzionale del 2005
prevede, al nuovo art. 123, che il Consiglio delle Autonomie Locali venga previsto non
soltanto come organo di consultazione, ma anche di concertazione e raccordo. In questo senso
sicuramente il legislatore costituzionale intende dotare l’organo in questione di funzioni
ulteriori, così da rendere la cooperazione tra la Regione e gli enti locali una sede di effettiva
integrazione, in cui il dialogo e la dialettica politico-istituzionale possa effettivamente trovare
canali formali per esprimersi e realizzare una cooperazione più solida. In questo senso si
prefigurerebbe infatti vera e propria collaborazione attiva all’adozione di atti normativi e di
amministrazione, la cui estensione ed intensità sarebbero nuovamente demandate alle scelte
34
La norma potrebbe naturalmente subire alcune modifiche in base alle nuove previsioni statutarie.
A. CHELLINI, Il Consiglio delle autonomie locali nel dibattito nazionale, op.cit.
36
A. ANDREANI, Consiglio delle Autonomie Locali, in Statuto della Regione Toscana Commentario, op.cit,
p. 337.
35
48
statutarie, che da questo punto di vista potrebbero partire da un’esperienza di comunque
significativa nell’ambito della cooperazione tra Regione ed enti locali.
Volendo prendere in considerazione, come esempio, lo statuto della Regione Toscana,
potremmo dire che alle previsioni ivi contenute dovrebbero essere apportate alcune
modifiche, essendo queste limitate alle funzioni consultive del Consiglio delle Autonomie.
Tuttavia ancora altre sono le disposizioni del testo di riforma costituzionale degne di
essere considerate in virtù dell’oggetto di queste osservazioni: infatti l’art. 57 del nuovo testo
costituzionale configura, nella definizione del nuovo Senato federale37, un ruolo particolare
anche per le Autonomie locali. L’articolo infatti prevede “Partecipano all’attività del Senato
federale della Repubblica, senza diritto di voto, secondo le modalità previste dal suo
regolamento, rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali.” Non volendo qui entrare
nella questione relativa alla configurazione delle modalità di partecipazione alle attività del
Senato, non si può tacere la peculiarità di una partecipazione degli enti locali che non è più
legata al rapporto con l’ente regionale, ma che lo supera entrando in contatto direttamente con
l’attività del governo di livello statale. Ciò viene a maggior ragione rafforzato dalla previsione
dell’art. 64, in base al quale il regolamento del senato federale dovrebbe disciplinare le
modalità ed i termini per l’espressione del parere che ogni consiglio o ass. regionale può
esprimere, sentito il CAL, sui disegni di legge di materia legislativa concorrente. In questo
caso si viene dunque a configurare un intervento, seppur indiretto, da parte del Consiglio delle
Autonomie Locali in merito ai disegni di legge relativi alle materie di competenza legislativa
concorrente, una sorta di funzione consultiva ultra regionem, in base alla quale il Consiglio
viene ad esprimere il proprio parere in merito a fonti di livello statale.
Con l’eventuale approvazione di tali previsioni costituzionali l’attuale cooperazione
relativa agli enti locali verrebbe a subire una trasformazione che, stando almeno al testo della
riforma, sembrerebbe radicale. Infatti non si tratterebbe più, soltanto, di cooperare con la
Regione al fine di realizzare un’interazione che si trasformi in atti e provvedimenti frutto del
dialogo costruttivo di questi due livelli di governo, ma di oltrepassare il rapporto di
cooperazione finora inteso “a due a due”, tra Regioni ed enti locali da una parte, e Regioni e
Stato dall’altro, e di avviare una cooperazione di più ampio respiro, capace di rendere le
autonomie locali in qualche modo partecipi di processi decisionali di livello statale.
Non si può tuttavia tacere che se da un lato il testo delle disposizioni costituzionali
“declama” la rinnovata rilevanza delle autonomie locali nel sistema della Repubblica,
37
Per un approfondimento in relazione alla tematica del Senato federale si veda il contributo di C. Napoli.
49
dall’altra pare che lo spirito d’insieme della riforma non sia completamente coerente con tale
ultima indicazione; basti solo pensare a quello che può essere definito ormai come lo
svuotamento del cosiddetto federalismo fiscale, in cui gli enti locali comunque verrebbero a
trovarsi in una condizione di subalternità, che molto assomiglia al passato, rispetto alle
decisioni statali in materia di imposizione fiscale, senza volersi qui addentrare nelle altre
numerose incoerenze presenti nel testo della riforma pendente, relative non soltanto agli enti
locali.
Considerando tuttavia alcune puntuali previsioni è pur vero che le autonomie locali
potrebbero essere chiamate ad una svolta ulteriore nella definizione del loro ruolo all’interno
dell’ordinamento giuridico, svolta che già oggi tale sistema ha iniziato a realizzare, anche se
forse ostacolata da un contesto normativo che rende ancora troppo stretta la via perché la
cooperazione riesca nella sua finalità di realizzazione delle autonomie locali come elementi
costitutivi della Repubblica.
50
LA CONFERENZA STATO-REGIONI E PROVINCE AUTONOME:
PROFILI FUNZIONALI E PROCEDIMENTALI
di
Nicola Pignatelli
1. La dilatazione della sfera competenziale e il rafforzamento della posizione della
Conferenza Stato-Regioni e Province autonome nel sistema costituzionale1 sembra trovare
una propria suggestiva sintesi nella evoluzione che ha caratterizzato la natura della fonte
istitutiva. Dopo una fase in cui tale fonte era rappresentata da un atto amministrativo, si è
aperta, invece, una (seconda) stagione di «legificazione»2 e di stabilizzazione della disciplina,
fino ad arrivare alla soluzione (ulteriore) della costituzionalizzazione della Conferenza nel
testo di riforma recentemente approvato in doppia lettura dalle camere3. In questo processo
“ascendente” può leggersi, in contro luce, la progressiva trasformazione di un mero strumento
procedurale e di coordinamento, a disposizione di una molteplicità di Enti (Stato, Regioni,
Province autonome), in un autonomo soggetto di imputazione giuridica4, titolare di
competenze proprie, che non si risolvono (come nella più risalente configurazione) nella
funzione consultiva (neppure obbligatoria), potendo infatti essere adottati (anche) atti di
amministrazione attiva; si è affermato, così, un mutamento sia quantitativo che qualitativo,
essendo stati attribuiti a quest’organo non soltanto poteri di co-decisione ma anche poteri di
gestione diretta. Tra l’altro, senza scomodare i “nuovi” poteri, il rafforzamento della
Conferenza emerge chiaramente dalla stessa evoluzione della (originaria) funzione consultiva,
divenuta obbligatoria e fattualmente vincolante, tanto da aver fatto parlare di una
«convenzione costituzionale»5, alla luce della quale il Governo sarebbe inibito a procedere
autonomamente, disattendendo il contenuto dei pareri. Proprio la prassi, più che il legislatore,
1
Per un inquadramento generale sulla problematica v. F. PIZZETTI, Il sistema delle Conferenze e la forma di
governo italiana, in Le Regioni, 2000, 473 ss.; P. CARETTI, Il sistema delle Conferenze e i suoi riflessi sulla
forma di governo nazionale e regionale, in Le Regioni, 2000, 547 ss.
2
P.A. CAPOTOSTI, Regione: IV) Conferenza Stato-Regioni, in Enc. giur., 1991, 2.
33
Art. 118, 3° comma: «La legge, approvata ai sensi dell’art. 70, 3° comma, istituisce la Conferenza StatoRegioni per realizzare la leale collaborazione e per promuovere accordi e intese». C. BASSU, La Conferenza
Stato-Regioni nella riforma costituzionale, in federalismi.it, fornisce, invece, una lettura riduttiva della
costituzionalizzazione della Conferenza.
4
A. AZZENA, Conferenze Stato-autonomie territoriali, in Enc. dir., Aggiornamento III, 1999, 426 ss.
5
I. RUGGIU, La Conferenza Stato-Regioni nella XIII e XIV legislatura, in Le Regioni, 2003, 200.
ha determinato un superamento del «separatismo garantistico»6, presupposto dal vecchio
Titolo V, imponendo la logica del regionalismo cooperativo e facendo emergere tracce di un
«federalismo sommerso»7. Tuttavia in queste pagine ci soffermeremo principalmente sui
profili normativi e procedimentali della Conferenza, rilasciando gli aspetti dinamici alle altre
sezioni.
2. Il momento iniziale del lungo e travagliato processo di “definizione” di questa
istituzione è rappresentato da un progetto elaborato dalla Commissione Bassanini, istituita
(con D.P.C.M. 20 novembre 1980), al fine di formulare soluzioni propositive in ordine ai
rapporti complessivi tra Stato e Regioni. In quel disegno di legge si attribuiva ad una
Conferenza permanente l’obiettivo di promuovere la partecipazione delle Regioni e Province
autonome alla elaborazione e all’attuazione dell’«indirizzo politico generale del Governo». In
realtà, alla luce di diffuse «resistenze»8, questo progetto fu sostituito dal disegno di legge
Spadolini del 1982, che segnò una forte involuzione, non prevedendo la soppressione delle
commissioni interregionali e limitandosi a riconoscere un’incidenza sulla sola adozione degli
atti di indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative trasferite. Questa sensazione di
diffidenza istituzionale fu recepita, da lì a poco, dal primo atto istitutivo della Conferenza,
ossia dal D.P.C.M. 12 ottobre 1983, con cui si riconobbero «compiti di informazione, di
studio e di raccordo sui problemi di interesse comune tra Stato, Regioni e Province
autonome», ossia una funzione assai meno penetrante rispetto a quella configurata dal
progetto Bassanini. Tra l’altro, un ulteriore passo indietro era stato fatto quanto alla fonte di
disciplina, visto che i disegni di legge avevano lasciato spazio ad un provvedimento
amministrativo, che sembrò minare la stabilità della Conferenza. Per di più questa soluzione
fece sorgere dubbi di compatibilità con la riserva di legge (per quanto relativa) ex art. 97
Cost.9, dovendo desumersi, infatti, da tale norma costituzionale, che gli organi della pubblica
amministrazione debbano essere istituiti e disciplinati con una legge o con un atto avente
forza di legge.
In questa fase «sperimentale»10 l’attività della Conferenza si è risolta prevalentemente
in comunicazioni e pareri meramente facoltativi11. Per quanto fosse apprezzabile il risultato
6
P.A CAPOTOSTI, Regione: IV) Conferenza Stato-Regioni, cit., 2.
I. RUGGIU, Conferenza Stato-Regioni: un istituto del federalismo «sommerso», in Le Regioni, 2000, 853 ss.
8
A. AZZENA, Conferenze Stato-autonomie territoriali, cit., 418.
9
A. BALDASSARRE, Replica, in Bollettino di legislazione e documentazione regionale, 1983, 396.
10
F.S. MARINI, La «pseudocollaborazione» di tipo organizzativo: il caso della Conferenza Stato-Regioni, in
Rass. parl., 2001, 664.
11
C. CITTADINO, I rapporti Stato-Regioni, Torino, 1998, 132, precisa che nei cinque anni di vita, la
7
52
dell’istituzione di una sede permanente di incontro tra i livelli di governo, tuttavia il ruolo
della Conferenza appariva depotenziato da talune contraddizioni strutturali, come la
composizione con due soli membri necessari e gli altri «invitati “occasionali”»12, e da talune
incongruenze funzionali, come la sovrapposizione con le competenze degli organismi misti di
settore13.
In realtà, già nel 1984, nel d.d.l. Craxi sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio
dei Ministri, fu prospettato un ampliamento funzionale della sfera di competenza della
Conferenza; questo progetto, assai simile allo spirito dell’originaria proposta Bassanini, fu
ripreso dalla l. 400/1988, che ne riconobbe, finalmente, una legittimazione normativa,
determinando una svolta sia nella composizione che nelle competenze. Quanto al profilo
strutturale, i Presidenti delle Regioni divennero membri effettivi (e non meramente eventuali)
e la Conferenza, istituita presso la Presidenza del Consiglio, fu dotata di una Segreteria a
composizione mista14, ossia di un apparato di supporto, indispensabile per garantirne la
funzionalità. Quanto, invece, al profilo delle attribuzioni, da una parte, si ribadì, in via di
principio, il contenuto del progetto Spadolini, riconoscendo alla Conferenza uno spazio di
partecipazione all’indirizzo politico del Governo15 (attraverso l’attività di informazione,
consultazione e raccordo), pur escludendo le materie della politica estera, della difesa, della
sicurezza nazionale, della giustizia (art. 12, 1° comma), dall’altra, si individuarono
analiticamente le ipotesi in cui la Conferenza avrebbe dovuto essere consultata (art. 12, 5°
comma). Inoltre, l’art. 12, 7° comma, attribuì una delega al Governo ad emanare un decreto
legislativo recante norme con cui provvedere al riordino e alla eventuale soppressione degli
altri organismi a composizione mista Stato-Regioni (salvo quelli con competenze tecnicoscientifiche), trasferendone le attribuzioni alla Conferenza, così da rendere quest’ultima la
sede esclusiva di incontro tra Governo statale e Governi regionali16.
3. Questo quadro è profondamente mutato con l’approvazione della l. 59/1997, che ha
aperto una fase ulteriore di rafforzamento e ampliamento delle funzioni della Conferenza, a
cui sono state riconosciute funzioni “nuove”, qualitativamente diverse da quella originaria di
mera consultazione; per quanto questi poteri fossero già emersi e fossero rintracciabili in
Conferenza si è riunita solo quattro volte (il 18 aprile e il 25 maggio 1984, 23 gennaio e 25 settembre 1985).
12
A. RUGGERI, Prime osservazioni sulla Conferenza Stato-Regioni, in Le Regioni, 1984, 703.
13
A. SANDULLI, La Conferenza Stato-Regioni e le sue prospettive, in Le Regioni, 1995, 841.
14
L. TORCHIA, Una conferenza pleno jure: prime osservazioni sul decreto legislativo 418/1989, in Le
Regioni, 1990, 1038.
15
F. PIZZETTI, Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato, Torino, 1996, 87.
16
Sul punto v. G. PASTORI, La Conferenza Stato-Regioni fra strategia e gestione, in Le Regioni, 1994, 1262
ss.
53
talune leggi di settore, precedenti alla l. 59/1997, non può negarsi come quest’ultima ne abbia
determinato una generalizzazione e stabilizzazione normativa.
L’art. 9 della c.d. l. Bassanini ha individuato i principi sulla base dei quali il Governo
avrebbe dovuto potenziare la sfera funzionale della Conferenza, affermando la necessità, da
una parte, di prevedere una partecipazione a tutti i processi decisionali di «interesse regionale,
interregionale ed infraregionale», il cui standard minimo fosse quello dell’attività consultiva
obbligatoria, e, dall’altra, di semplificare le procedure di raccordo tra Stato-Regioni (anche
attraverso la soppressione di taluni organi “superflui”, ossia i comitati e le commissioni
ancora presenti all’interno delle amministrazioni pubbliche), di specificare l’obbligatorietà
dell’intesa per alcune materie (nonché la disciplina del dissenso), di definire le forme di
partecipazione dei rappresentanti dei comuni, delle province e delle comunità montane.
Dal d.lgs. 281/1997, con cui il Governo ha dato attuazione alla delega17, può
desumersi una varietà funzionale, sintetizzabile in cinque categorie di competenza18: a)
consultiva; b) di co-gestione; c) di gestione diretta; d) strumentale; e) di partecipazione
all’attuazione comunitaria .
Quanto alla funzione consultiva (a), appare evidente come l’art. 2, 3° comma,
recependo la logica emersa dalle leggi di settore19 e discostandosi dalla l. 400/1988, affermi
l’obbligatorietà dei pareri della Conferenza in ordine agli schemi di disegni di legge, di
decreto legislativo, di regolamento del Governo, nelle materie di competenza delle regioni o
delle province autonome. La consultazione preventiva può essere disattesa quando il
Presidente del Consiglio dichiari la sussistenza di ragioni di urgenza, tuttavia la Conferenza è
sentita ex post, dovendo il Governo tenere conto dei suoi pareri in sede di esame parlamentare
dei disegni di legge o delle leggi di conversione dei decreti legge, nonché in sede di esame
definitivo degli schemi di decreto legislativo sottoposti al parere delle commissioni
parlamentari. In questa logica “successiva”, connessa a motivi di urgenza, la Conferenza è
comunque estromessa dal procedimento di adozione dei regolamenti, per quanto, alla luce
dell’art. 2, 6° comma, possa chiedere al Governo di valutare il parere ai fini dell’eventuale
17
Deve precisarsi che il legislatore già con la l. 549/1995, all’art. 2, 46° comma, aveva delegato il Governo al
riordino della composizione e delle attribuzioni della Conferenza ma la delega non fu esercitata nei tempi fissati
dalla legge.
18
Per una puntuale analisi quantitativa e qualitativa dell’attività v. A. STERPA, L’attività della Conferenza
Stato-Regioni e della Conferenza unificata nel periodo 2001-2002, in federalismi.it; F.S. MARINI, La Conferenza
Stato-Regioni nell’anno 2003, in Secondo Rapporto annuale sullo Stato del Regionalismo in Italia, Milano,
2003, 305.
19
Per una ricognizione della legislazione di settore v. A. SANDULLI, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 844
ss.; G. DI COSIMO, Dalla Conferenza Stato-Regioni alla Conferenza unificata (passando per lo Stato-Città), in
Le Istituzioni del Federalismo, 1998, 11 ss.
54
revoca o riforma dei provvedimenti già adottati. Inoltre, lo stesso Presidente del Consiglio
può sentire la Conferenza su ogni oggetto di interesse regionale, che ritenga opportuno
sottoporle (anche su richiesta della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province
autonome).
Da qui può desumersi, non soltanto una specificazione di quella “traccia”, quanto alla
partecipazione alla produzione delle fonti normative, già reperibile nell’art. 12, 5° comma,
lett. a, l. 400/1988, secondo cui la Conferenza era consultata (anche se non
obbligatoriamente) «sulle linee generali dell’attività normativa che interessa direttamente le
Regioni», ma anche un’immissione nella produzione normativa primaria, diversamente dal
periodo precedente al d.lgs. 281/1997, in cui, invece, tale partecipazione aveva ad oggetto
(quasi) esclusivamente fonti secondarie20.
La funzione di co-gestione (b), invece, si concretizza nelle intese e negli accordi.
Quanto alle prime, l’art. 2 del d.lgs. 281/1997 dispone che la Conferenza promuove e sancisce
le intese previste, come momento endo-procedimentale, dalla legislazione vigente, a cui tale
norma rinvia per presupposizione l’individuazione. Tuttavia il Consiglio dei Ministri, con
provvedimento motivato, può disattendere l’intesa, sia nelle ipotesi in cui non sia raggiunta
entro trenta giorni dalla prima seduta della Conferenza in cui l’oggetto è posto all’ordine del
giorno, sia quando sussistano ragioni di urgenza. In quest’ultimo caso emerge una differenza
rispetto all’art. 2, 5° comma, con cui il potere di disattendere il parere della Conferenza, nei
casi di urgenza, è attribuito al Presidente del Consiglio e non al Consiglio dei Ministri.
Taluni dubbi sorgono, invece, sull’art. 3, 2° comma, secondo cui le intese si
perfezionano con l’espressione dell’assenso del «Governo», non essendo chiaro se
quest’ultimo debba leggersi come «Consiglio dei Ministri» o come «Presidente del
Consiglio». Il dubbio sarebbe rafforzato dal diverso nomen utilizzato da questa norma,
rispetto a quanto previsto dal 3° comma e dal 4° comma dello stesso art. 3, in cui vi è un più
chiaro riferimento al «Consiglio dei Ministri». In realtà, sembra ragionevole leggere nel 2°
comma la necessità dell’assenso del Presidente del consiglio, perché, se così non fosse, si
produrrebbe una discrasia tra il soggetto che tratta (il Presidente del Consiglio) e quello che
delibera l’intesa (il Consiglio dei Ministri)21. Un’ulteriore conferma potrebbe trarsi dal fatto
che il d.lgs. 281/1997 non parla più, come la legislazione precedente, di intesa tra il Governo
e la Conferenza, ma di intesa “nella” Conferenza, dove opera principalmente il Presidente del
Consiglio (e solo eventualmente gli altri Ministri).
20
21
I. RUGGIU, Conferenza Stato-Regioni, cit., 884.
F.S. MARINI, La «pseudocollaborazione» di tipo organizzativo, cit., 672 ss.
55
Deve essere precisato che le intese, pur nella loro nota «debolezza»22 (normativa), ed i
pareri abbiano subito un progressivo mutamento nelle dinamiche delle relazioni governative,
arrivando a consolidare una forte vincolatività politica, tanto da mettere in dubbio l’effettività
degli artt. 2, 3° e 5° comma, e 3 del d.lgs. 281/1997 e da far emergere una tendenza, in cui si è
arrivati a scorgere una regola costituzionale23. La logica “tenue” della partecipazione
consultiva e delle intese deboli ha subito un progressivo mutamento, generando atti forti,
come emerge da un’attenta analisi della prassi24, per quanto tali atti non sottendano una
contrapposizione e un “bisogno” di veto regionale. La virtuosità della più penetrante
inclusione delle Regioni negli indirizzi del governo statale risiede nell’interesse comune a
raggiungere un punto di equilibrio, sul (duplice) presupposto che, da una parte, il Governo
rafforza la legittimazione dei propri atti attraverso la partecipazione regionale e, dall’altra, le
Regioni non possono permettersi di essere escluse dai processi governativi. L’art. 4 espande
ulteriormente la sfera di co-gestione, prevedendo (rectius, generalizzando, anche in questo
caso, uno strumento già introdotto da alcune leggi speciali) che il Governo, le Regioni, le
Province autonome, possano concludere, “nella” Conferenza, accordi al fine di coordinare
l’esercizio delle rispettive competenze e svolgere attività di interesse comune. Questa norma,
diversamente dalle altre del d.lgs. 281/1997, specifica in modo suggestivo che l’accordo è
attuazione del principio di leale collaborazione; questo richiamo esplicito al principio può
essere spiegato facendo riferimento alla natura volontaria dell’accordo, la cui realizzazione
non deve essere richiesta dalla legislazione vigente (come per le intese). Tra l’altro,
l’intensificarsi degli accordi sembra essere il sintomo più evidente del rafforzamento della
Conferenza e del suo riconoscimento da parte del Governo, proprio alla luce della sua natura
spontanea, sganciata da una scelta del legislatore di mettere in contatto i livelli di governo.
In questa logica di gestione «concertata»25 è riconducibile anche la previsione dell’art.
9 della l. 59/1997, che ha ripensato la disciplina dell’esercizio della funzione di indirizzo dello
Stato nei confronti delle Regioni, disponendo che gli atti di indirizzo e coordinamento delle
funzioni amministrative regionali, gli atti di coordinamento tecnico, nonché le direttive
22
Sulle intese “deboli” v. A. COSTANZO, Collaborazione fra Stato e Regioni e buon andamento
dell’amministrazione, in Giur. cost., 1988, 815 ss.; ID., Equivalenze tra parere favorevole ed intesa, nei rapporti
tra Stato e Regioni, in Giur. cost., 1988, 815 ss.; A. SANDULLI, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 854; S.
AGOSTA, La Corte e i «fili sospesi» del nuovo Titolo V (considerazioni a margine della giurisprudenza
costituzionale del triennio sulle intese Stato-Regioni), in www.giustamm.it.; ID., Dall’intesa in senso debole alla
leale collaborazione in senso forte? Spunti per una riflessione alla luce della più recente giurisprudenza
costituzionale tra (molte) conferme e (qualche) novità, in federalismi.it.
23
I. RUGGIU, La conferenza Stato-Regioni, cit., 202, parla di «convenzione costituzionale».
24
I. RUGGIU, La conferenza Stato-Regioni, cit., 200 ss.
25
I. RUGGIU, Conferenza Stato-Regioni, cit., 876.
56
relative all’esercizio delle funzioni delegate, siano adottati previa intesa «con la
Conferenza»26. Questa espressione sembra far emergere come la l. 59/1997, diversamente dal
successivo decreto legislativo, porti con sé la contraddizione linguistica della Conferenza
come “parte” e non come “luogo” dell’intesa. Deve essere precisato, però, come l’art. 8, 6°
comma, l. 131/2003, abbia compresso questo potere, negando l’adozione degli atti di indirizzo
e coordinamento per le materie di competenza concorrente ed esclusiva regionale, tanto da far
sorgere dei dubbi sulla sopravvivenza dello stesso27.
Un’altra serie di attribuzioni concretizzano la funzione di gestione diretta (c),
espressione di un autonomo potere (talune volte di natura deliberativa), alla luce del quale
sembrerebbe confermata la ricostruzione della Conferenza come «soggetto giuridico portatore
di interessi nazionali»28, distinto dagli enti che agiscono, con i propri rappresentanti, al suo
interno; in questa prospettiva la Conferenza appare un organo a cui sono imputabili
competenza proprie, come quella di determinazione dei criteri di ripartizione delle risorse
finanziarie che la legge assegna alle Regioni e alle Province autonome (art. 2, 1° comma, lett.
f, d.lgs. 281/1997), di formulazione di inviti e proposte nei confronti di altri organi dello
Stato, di enti pubblici o altri soggetti, anche privati, che gestiscono funzioni o servizi di
pubblico interesse (art. 2, 1° comma, let. h, d.lgs. cit.), di nomina, nei casi previsti
normativamente, dei rappresentanti regionali (art. 2, 1° comma, lett. d, d.lgs., cit.) e dei
responsabili di enti e organismi che svolgono attività o prestano servizi strumentali
all’esercizio di funzioni concorrenti tra i livelli di governo (art. 2, 1° comma, lett. l, d.lgs.
cit.). Tra l’altro, nello stesso d.lgs. 281/1998 vi è una clausola aperta (art. 2, 1° comma, lett.
g), secondo cui il legislatore può ampliare ulteriormente questo ambito competenziale,
attribuendo alla Conferenza il potere di adottare (altri) provvedimenti.
Al di fuori dei poteri di partecipazione all’attività del Governo statale (che si esplicano
attraverso la funzione consultiva e quella di co-gestione) e di gestione diretta della
Conferenza, sono individuabili attribuzioni strumentali (d), intimamente connesse alle
precedenti, le quali possono contribuire a garantirne l’effettività, come la funzione di
monitoraggio, ossia di valutazione degli obiettivi conseguiti ed i risultati raggiunti, con
riferimento agli atti di pianificazione e di programmazione in ordine ai quali si è pronunciata e
26
L’art. 8, 2° comma, l. 59/1997 specifica, che nell’ipotesi in cui l’intesa non venga raggiunta nel termine di
quarantacinque giorni dalla prima consultazione, gli atti di indirizzo e coordinamento possono essere adottati con
deliberazione del Consiglio dei ministri. Tali atti dovranno essere trasmessi alle competenti commissioni
parlamentari.
27
T. MARTINES, A. RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale, 2005, 123 ss. Contra v. S
BARTOLE, R. BIN, G. FALCON, R. TOSI, Diritto regionale, 2003, 199 ss.
28
A. AZZENA, Conferenze Stato-autonomie territoriali, cit., 426.
57
l’attività di scambio di dati e informazioni tra i livelli di governo.
Inoltre, l’art. 5 dello stesso d.lgs. n. 281/997, potenziando la logica di partecipazione
alle dinamiche di attuazione comunitaria29 (e), già introdotta dalla c.d. legge “La Pergola”
(art. 10, l. 86/1989), dispone che la Conferenza si riunisca in apposita sessione, su istanza
delle Regioni o delle Province autonome, almeno due volte in un anno, per esprimere parere
sullo schema di legge comunitaria annuale e per raccordare le linee della politica nazionale
nella elaborazione degli atti comunitari con le esigenze rappresentate dalle Regioni e dalle
Province autonome. La Conferenza ha anche il potere di designare i componenti regionali in
seno alla rappresentanza italiana presso l’Unione europea e di esprimere pareri sugli schemi di
atti amministrativi dello Stato che, nelle materie di competenza delle regioni o delle Province
autonome, danno attuazione alle direttive comunitarie ed alle sentenze della Corte di giustizia.
Tuttavia tale peculiare funzione consultiva è esercitabile su richiesta dei Presidenti delle
Regioni e delle Province autonome ma col consenso del Governo, così che, diversamente
dalla consultazione ex. art. 2 d.lgs. 281/1997, non può essere qualificata come “obbligatoria”
ma semplicemente come “eventuale”.
In realtà il rafforzamento di questa sede permanente di collaborazione emerge
chiaramente da altre previsioni normative disseminate nell’ordinamento. Ad esempio, la l.
131/2003 (c.d. La Loggia), nell’intento di adeguamento dell’ordinamento alla modifica del
Titolo V, ha valorizzato la funzione di co-gestione della Conferenza, disponendo che il
Governo possa promuovere la stipula di intese proprio in tale sede, per favorire
l’armonizzazione delle rispettive legislazioni, il raggiungimento di posizioni unitarie o il
conseguimento di posizioni comuni (art. 8, 6° comma), così come la funzione consultiva,
prevedendo l’adozione del parere della Conferenza da parte del Governo, nella
predisposizione degli schemi dei decreti legislativi «ricognitivi» dei principi fondamentali
nelle materie di competenza legislativa concorrente (art. 1, 4° comma). Inoltre, nei casi di
assoluta urgenza, qualora l’intervento sostitutivo ex art. 120 Cost. non sia procrastinabile, i
provvedimenti necessari adottati sono immediatamente comunicati alla Conferenza, che può
chiederne il riesame (art. 8, 4° comma). Appare, invece, ambigua la previsione dell’art. 5, 2°
comma, di questa legge, secondo cui il Governo, nelle materie di competenza legislativa delle
Regioni e delle Province autonome, «è tenuto a proporre ricorso» dinanzi alla Corte di
giustizia delle Comunità europee avverso gli atti normativi comunitari, su richiesta della
Conferenza, deliberata a maggioranza assoluta delle Regioni e delle Province autonome. In
29
B. CALABRESE, Il comitato delle Regioni della Comunità europea e la partecipazione delle Regioni al
processo decisionale comunitario, in Riv. it. dir. publ. com., 1997, 498 ss.
58
questa norma può leggersi una scissione tra la componente regionale e quella governativa,
vincolata alla volontà maggioritaria della prima, in dissonanza con la configurazione della
Conferenza come sede di negoziazione e di “sintesi” dei livelli di governo, emergendo, così,
un’innaturale logica “rappresentativa” (della volontà dei governi decentrati).
Tra l’altro nel d.lgs. 430/1997, recante norme di riordino delle competenze del CIPE,
il Governo ha disposto che il Comitato adeguasse il proprio regolamento interno al contenuto
del decreto legislativo, al fine di consentire, intra alia, l’inclusione della Conferenza
nell’elaborazione delle proposte sin dalla fase iniziale. In tale logica il CIPE ha adottato, con
la delibera n. 63/1998 un nuovo regolamento, prevedendo la partecipazione della Conferenza
alla formulazione della proposta di delibera, relativamente alle attribuzioni del Comitato ex
art. 1, d.lgs. 430/1997.
4. Il d.lgs. 281/1997 non ha, invece, prodotto un mutamento della composizione di
quest’organo, che mantiene la sua fonte di disciplina nell’art. 12, 2° comma, l. 400/1988,
secondo cui la Conferenza è composta dai Presidenti delle Regioni (a statuto ordinario e
speciale) e delle Province autonome, nonché dal Presidente del Consiglio, che la presiede, per
quanto la prassi abbia fatto emergere un’intensa frequenza delle delega al Ministro per gli
affari regionali. Questo profilo trova una conferma proprio nel regolamento del CIPE, di cui si
è appena detto, in cui è prevista la partecipazione del Ministro per gli affari regionali, proprio
in qualità di Presidente della Conferenza. Per altro, in modo analogo, può desumersi dall’art.
2, 3° comma, d.lgs. 281/1997, che anche i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome
possano delegare gli assessori «nella singola seduta». Tuttavia l’organo appare a
composizione flessibile, visto che può farvi parte una componente soggettiva eventuale,
nell’ipotesi in cui il Presidente del Consiglio inviti alle riunioni i Ministri interessati agli
argomenti iscritti all’ordine del giorno e taluni rappresentanti delle amministrazioni statali o
di enti pubblici. Quanto invece alla componente regionale, è evidente come la rappresentanza
non sia commisurata al dato demografico e alle dimensioni delle singole Regioni, essendo
invece garantita la partecipazione dei singoli Enti30. Ciò che invece appare singolare è la
mancanza di «paritarietà»31 tra la componente regionale e quella statale, in dissonanza con la
configurazione della Conferenza come luogo di «negoziazione politica»32, tanto da aver fatto
30
F.S. MARINI, La «pseudocollaborazione», cit., 657; invece, sulla carenza di rappresentatività della
Conferenza si sofferma A. AZZENA, Conferenza Stato-Autonomie territoriali, cit., 428.
31
A. SANDULLI, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 853.
32
Corte cost. 31 marzo 1994, n. 116, in Giur. cost., 1994, 993 ss.
59
pensare alla necessità di introdurre un rigido criterio di proporzionalità33. Inoltre un ulteriore
elemento di contraddizione con la natura dell’organo è rappresentato dalla previsione secondo
cui la Conferenza è istituita «presso» la Presidenza del Consiglio (art. 12, 1° comma, l.
400/1988), da cui potrebbe trarsi una primazia del governo centrale e l’espressione della
volontà legislativa di incardinare la Conferenza nell’apparato statale; in realtà la Corte
costituzionale, attraverso una interpretazione adeguatrice, della configurazione dell’organo al
principio di leale collaborazione, ha affermato che essa è «una istituzione operante
nell’ambito della comunità nazionale come strumento per l’attuazione della cooperazione fra
lo Stato e le Regioni»34, dovendo essere qualificata non come una amministrazione statale ma
come una amministrazione nazionale35.
Quanto al funzionamento di quest’organo, appare evidente la carenza di una puntuale
disciplina procedimentale e quindi la flessibilità delle dinamiche interne, dovendo, per altro,
essere rilevato che manca una norma che attribuisca alla Conferenza un potere di autodisciplina, attraverso l’approvazione di un proprio regolamento, per quanto non possa negarsi
come proprio questo profilo di deformalizzazione abbia potuto assecondare lo spirito
cooperativo ed il raggiungimento di decisioni concordate36. Nell’art. 12, 2° comma, può
leggersi un “doppio regime” di convocazione; è previsto infatti che il Presidente del
Consiglio, da una parte, convochi obbligatoriamente, almeno una volta ogni sei mesi, la
Conferenza, dall’altra, che possa convocarla nelle ipotesi in cui lo ritenga opportuno. Per altro
l’art. 5, d.lgs., 281/1997, amplia la sfera della convocazione obbligatoria, disponendo che la
speciale sessione comunitaria si riunisca almeno due volte l’anno (ma non necessariamente
una volta ogni sei mesi, come dispone l’art. 12, 1° comma, l. 400/1988).
Il Presidente del Consiglio non soltanto convoca la Conferenza ma ne determina
l’ordine del giorno, che verrà comunicato ai Presidenti delle Regioni, ai quali non è
riconosciuto uno spazio di incidenza37. Questo potere rischia di neutralizzare soprattutto la
funzione consultiva nelle ipotesi in cui una certa materia non sia pacificamente riconducibile
tra quelle per le quali è obbligatorio il parere della Conferenza (ossia le materie di competenza
concorrente e quelle c.d. trasversali). In questo caso, in cui sarebbe probabilmente opportuno
mettere all’ordine del giorno la stessa problematicità di un (potenziale) ordine del giorno, la
Conferenza rischia di essere scavalcata, potendo, soltanto in estrema misura, le singole
33
A. SANDULLI, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 853.
Corte cost. 31 marzo 1994, n. 116, cit., 993 ss.
35
L. TORCHIA, Le amministrazioni nazionali, Padova, 1988.
36
F.S. MARINI, La Conferenza Stato-Regioni nell’anno 2003, cit., 204.
37
F.S. MARINI, La «pseudocollaborazione», cit., 662.
34
60
Regioni impugnare l’atto legislativo statale per violazione del principio di leale
collaborazione. Tuttavia sfugge, evidentemente, al rimedio del giudizio in via principale
l’adozione dei regolamenti governativi.
Tra l’altro nessuna indicazione normativa può essere reperita sulle modalità della
discussione, non essendovi alcuna specificazione sulla facoltà dei singoli Presidenti delle
Regioni e delle Province autonome di intervenire alla riunione. Qualche indicazione in più
può trarsi sulle modalità di voto dall’art. 2, 2° comma, d.lgs. 281/1997, per quanto la
procedura individuata abbia uno stretto ambito di applicazione, valendo soltanto per tre
categorie di atti, tassativamente individuati e riconducibili alla funzione di gestione diretta,
ossia per la determinazione dei criteri di ripartizione delle risorse finanziarie (art. 1, 1°
comma, lett. f, d.lgs. 281/1997), per la nomina dei responsabili ex art. 1, 1° comma, lett. i,
d.lgs. cit., nonché per l’adozione degli altri provvedimenti individuabili, secondo la clausola
aperta dell’art. 1, 1° comma, lett. g, dal legislatore.
Tale procedura scompone l’assenso del Governo («ferma la necessità dell’assenso del
Governo») da quello delle Regioni e delle Province autonome, che dovrà essere espresso
all’unanimità, non essendovi così una “confusione” tra la volontà dei governi decentrati e
quella del Governo statale, come ha affermato la stessa Corte costituzionale con la sent. n.
408/199838. Probabilmente questa autonomizzazione della posizione statale permette di
evitare che all’interno della Conferenza si creino maggioranze “verticali” tra la compagine
governative e i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome del medesimo colore
politico, garantendo (potenzialmente) una maggiore compattezza della compagine regionale,
il cui lavoro di sintesi e di mediazione interna, al fine di individuare una posizione comune,
dotata da un maggior peso concertativo, si svolge nella sede politica (pre-procedimentale)
della Conferenza dei Presidenti. Nell’ipotesi in cui non si raggiunga l’unanimità è richiesta la
maggioranza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, per quanto la norma non
qualifichi questa maggioranza come assoluta o semplice (non prevedendo neppure un quorum
funzionale). Verrebbe, allora, da chiedersi, alla luce della limitazione oggettiva di
applicabilità di questa procedura, quali siano le regole di voto per gli altri atti, come gli
accordi e le intese. In particolar modo, quanto a queste ultime, che si perfezionano con
l’assenso, da una parte della compagine statale, e dall’altra, di quella regionale,
un’indicazione potrebbe trarsi dalla giurisprudenza costituzionale39. La Corte, affermando,
infatti, che l’assenza di una o più Regioni, convocate regolarmente, alla riunione della
38
39
Corte costituzionale 14 dicembre1998, n. 408, in Giur. cost., 1998, 3509 ss.
R. BIN, Le deboli istituzioni della leale collaborazione, in Giur. cost., 2002, 4189 ss.
61
Conferenza, non accompagnata da alcuna manifestazione di dissenso, non può «impedire il
perfezionamento dell’intesa»40, sembra relativizzare la logica della unanimità, calibrandola
(non sui componenti ma) sui presenti. Tuttavia la prassi ha dimostrato una naturale
compattezza del «sistema regionale», per il quale l’unanimità (dei componenti) sarebbe una
sorta di «necessità per la stessa sopravvivenza della Conferenza», un presupposto di
legittimazione e di incidenza sulla posizione del Governo statale41.
In realtà, il funzionamento della Conferenza è strettamente connesso all’attività di
alcune articolazioni interne, come la Segreteria, i gruppi di lavoro, i comitati. Quanto a questi
ultimi, l’art. 2 D.P.R. 418/1989, ne prevedeva sei42, composti da quattro Presidenti regionali o
delle Province autonome e dai Ministri interessati, attribuendo a questi funzioni di natura
istruttoria. La scelta di introdurre tale struttura organizzativa rispondeva a ragioni di
efficienza, essendo intimamente connessa al trasferimento di competenze dagli organismi
misti, di cui il decreto legislativo disponeva la soppressione, in capo alla stessa Conferenza,
elevata a sede esclusiva del raccordo Stato-Regioni. Tuttavia già con il D.P.C.M. 4 giugno
1992 tali comitati vennero meno, essendo risultati inefficienti, non soltanto per la
composizione prevalentemente statale (e privata della partecipazione degli assessori
competenti) ma anche per la limitatezza delle funzioni43. Deve essere precisato, però, che il
legislatore, anche dopo il d.lgs. 418/1989, continuò ad istituire organismi misti “esterni” alla
Conferenza, indebolendo il tentativo di razionalizzazione e trasferimento di attribuzioni in
capo a quest’ultima. Proprio alla luce di questa nuova proliferazione, l’art. 7, 1° comma, d.lgs.
281/1998, ha previsto una (nuova) soppressione degli organismi a composizione mista StatoRegioni44 e un (nuovo) trasferimento di competenze. Questo processo di accentramento
riproponeva (ed accentuava) lo stesso problema che si era tentato di risolvere con il d.lgs.
418/1989, attraverso l’istituzione dei comitati “interni”, ossia quello dell’eccessivo carico di
lavoro per la Conferenza. Non a caso, l’art. 7, 2° comma, d.lgs. 281/1997, per ovviare ad un
rischio di disfunzionalità, senza riproporre le contraddizioni dei (vecchi) comitati, ha
introdotto una nuova logica organizzativa, disponendo che la Conferenza possa istituire
40
Corte cost. 26 giugno 2001, n. 206, in Giur. cost., 2001, 1537 ss.
Sul punto si v. di I. RUGGIU, La conferenza Stato-Regioni, cit., 207 ss.; F. PIZZETTI, Il sistema delle
Conferenze, cit., 481 ss.
42
Affari istituzionali e generali; Affari finanziari e della programmazione; Assetto e organizzazione del
territorio; Trasporti e politiche del Mezzogiorno; Paesaggio e tutela dell’ambiente; Servizi sanitari e sociali;
Attività produttive, istruzione e formazione professionale.
43
A. SANDULLI, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 842 ss.; F.S. MARINI, La «pseudocollaborazione», cit.,
660 ss.; A. AZZENA, Conferenza Stato-Autonomie territoriali, cit., 423.
44
Gli organismi individuati dall’allegato A, richiamato dall’art. 7, 1° comma, sono: la Commissione centrale
per l’impiego; il Comitato per le aree naturali protette e il Gruppo di lavoro per la carta della natura; il Comitato
nazionale di difesa del suolo; la Commissione permanente interministeriale per il conto nazionale dei trasporti.
41
62
«gruppi di lavoro» o «comitati» (pur utilizzando ambiguamente il medesimo nomen), con
funzioni non soltanto istruttorie (come nella precedente disciplina) ma anche di raccordo,
collaborazione, concorso all’attività conferenziale, e con una struttura non prevalentemente
statale (come nella precedente disciplina) ma caratterizzata anche dalla partecipazione dei
rappresentanti regionali (quindi anche degli assessori).
Nel periodo di “vuoto”, compreso tra la soppressione dei comitati e il d.lgs. 281/1997,
che ha reintrodotto, in una diversa logica, la previsione di gruppi di lavoro, un’altra
articolazione interna ha svolto un’attività indispensabile per la funzionalità della Conferenza,
che proprio i comitati avrebbero dovuto garantire. Infatti, l’art. 12, 3° comma, l. 400/1988
prevedeva che la Conferenza disponese di una Segreteria45, rinviandone la disciplina ad un
successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato di concerto con il
Ministro degli affari regionali. Questo organismo di raccordo e con poteri istruttori, fu, così,
istituito con D.P.C.M. 16 febbraio 1989, che fissava in venticinque unità il contingente
personale della Conferenza; soltanto dieci di queste unità erano di provenienza regionale, alla
luce di un’interpretazione restrittiva dell’art. 12, 4° comma, l. 400/1988, secondo cui il
decreto presidenziale istitutivo avrebbe dovuto prevedere l’«inclusione» di personale non
statale. In una fase successiva, invece, il Governo, con l’art. 10, d.lgs. 281/1997, ha previsto,
una nuova generalizzazione della disciplina della Segreteria, disponendo che questa svolge
un’attività istruttoria e di supporto, opera alle «dirette dipendenze e secondo gli indirizzi del
Presidente della Conferenza» e che l’organizzazione ed il funzionamento sono rimessi ad un
decreto del Presidente del Consiglio, adottato «su proposta» (e non più «di concerto», come
nell’art. 12, l. 400/1988) del Ministro per gli affari regionali. In attuazione di questa
previsione è stato così emanato il D.P.C.M. 19 marzo 1999, con cui si è operata una
specificazione delle funzioni istruttorie e di raccordo, una razionalizzazione della
distribuzione di competenze tra i settori e l’individuazione di dirigenti a cui attribuire la
direzione dei settori; tuttavia con il D.P.C.M. 19 aprile 2001 si è dato vita ad un’ulteriore
ridefinizione dei settori: a) rapporti istituzionali, cultura, occupazione, istruzione; b) finanza e
programmazione; c) sanità e politiche sociali; d) industria, commercio, artigianato e
infrastrutture; e) agricoltura e foreste; f) ambiente e territorio. Quanto all’organico della
Segreteria deve precisarsi che l’art. 10, 2° comma, d.lgs. 281/1997, individua un criterio
“minimo” di composizione, secondo cui «almeno la metà» del personale debba essere di
45
Su questo organismo v. C. CITTADINO, I rapporti Stato-Regioni, cit., 136 ss.; A. SANDULLI, La Conferenza
Stato-Regioni, cit., 843 ss.; P. ALLEGREZZA, La segreteria della Conferenza Stato-Regioni. Un’amministrazione
di raccordo nell’evoluzione del regionalismo italiano, in Riv. trim. scienz. ammin., 2002, n. 2, 13 ss.
63
provenienza statale; da questa norma può desumersi un principio di tendenziale prevalenza
della componente statale.
Non può negarsi come il progressivo ampliamento delle attribuzioni della Conferenza
abbia richiesto un aumento, direttamente proporzionale, delle capacità di raccordare,
informare, accelerare i tempi di confronto tra le amministrazioni interessate, e quindi una
progressiva responsabilizzazione delle funzioni della Segreteria in seno ad un procedimento
apparentemente neutro, ma direttamente strumentale ed indispensabile all’effettività del
regionalismo cooperativo. Tale procedimento si apre con l’assegnazione, da parte del direttore
della segreteria, del documento di provenienza statale, al settore competente che provvede a
trasmetterlo alle Regioni, le quali potranno richiedere l’organizzazione, sotto la direzione dei
funzionari della Segreteria, di un tavolo tecnico, in cui presentare rilievi e osservazioni; per
altro tale momento di confronto si svolge alla luce della documentazione apprestata dagli
stessi funzionari. Spetta poi alla Segreteria redigere una scheda di sintesi dell’istruttoria e del
quadro normativo, sulla base della quale si procederà alla votazione nell’assemblea plenaria46.
La prassi sembra aver dimostrato come la Conferenza svolga, in alcuni casi, un’attività di
mera ratifica delle conclusioni emerse dal procedimento predisposto dalla Segreteria47.
5. In realtà le dinamiche di funzionamento e le previsioni normative (di settore) della
partecipazione della Conferenza a taluni processi ne hanno fatto emergere una pluralità di
“anime”: una naturale, originaria, alla luce della quale questa amministrazione nazionale
funziona come luogo di negoziazione politica, di inclusione e di sintesi tra i livelli di
governo48; un’altra, innaturale, espressione di una tendenza «sommersa» e latente, alla luce
della quale le Regioni utilizzano la Conferenza come un organo dello Stato-apparato, come
un’assemblea in cui esprimere la propria volontà49; un’altra ancora, inversa a quest’ultima,
paradossalmente centralista, alla luce della quale si è tentato di utilizzare la Conferenza come
uno strumento per sottrarre competenze alle Regioni50.
L’art. 118, 3° comma, Cost., nella formulazione del testo di riforma, a cui si è già
accennato, configurando la Conferenza come strumento «per realizzare la leale collaborazione
e per promuovere accordi e intese», opera evidentemente una scelta, costituzionalizzando
un’anima (quella originaria) e fornendo un parametro-modello, alla luce della quale la Corte
46
P. ALLEGREZZA, La segreteria della Conferenza, 21 ss.
A. SANDULLI, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 844; A. AZZENA, Conferenza Stato-Autonomie
territoriali, cit., 423.
48
A. SANDULLI, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 853.
49
I. RUGGIU, Conferenza Stato-Regioni, cit., 211 ss.; A. SANDULLI, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 852 ss.
50
G. PASTORI, La Conferenza Stato-Regioni fra strategie e gestione, in Le Regioni, 1994, 1265 ss.
47
64
costituzionale potrebbe sindacare talune scelte normative, tese ad attribuire a tale organo una
diversa identità funzionale. Tra l’altro questa norma, pur limitandosi a dire poco, non sembra
declassare la Conferenza e negare la centralità della sua posizione (consolidatasi) nelle
dinamiche di governo51, utilizzando, infatti, un’espressione “aperta”, evocativa della idea di
organo della comunità e di amministrazione nazionale, come emersa dalla stessa
giurisprudenza costituzionale. In realtà ciò che fa sorgere dei problemi è la compatibilità di
tale istituzione rispetto alla logica del bicameralismo differenziato. Dovrà così verificarsi, a
Costituzione (eventualmente e non auspicabilmente) variata e a dinamiche consolidate, (a) se
la Conferenza, rispetto al Senato federale, appaia inutile, (b) se porti con sé un rischio di
«tricameralismo»52 (ed un possibile rafforzamento delle Regioni, potendo queste contare su
due “camere”), o (c) se, al contrario, possa produrre una virtuosa duplicazione dei canali di
immissione delle istanze regionali nelle funzioni statali, non limitati, così, al solo livello
parlamentare ma estesi anche al livello esecutivo53. Certamente le ipotesi sub a) e b)
presuppongono (la prima in senso recessivo e la seconda in senso ambiguamente rafforzativo)
che il reale funzionamento della Conferenza si allontani dal modello costituzionale, a cui si
informa l’art. 118, 3° comma, mentre l’ipotesi sub c) sembra prospettare l’unico spazio di
(complessa) compatibilità e di logica - ancor prima che giuridica - convivenza tra la
Conferenza e il Senato federale (dando per presupposto ma non ammesso che quest’ultimo sia
davvero tale). Tuttavia non può sfuggire, alla luce di questa doppia logica di raccordo, come
verrebbe meno la necessità di continuare a prevedere la funzione consultiva della Conferenza
relativa alla produzione normativa primaria, essendo peraltro prospettabile il rischio che il
precedente accordo tra i governi ridurrebbe il Senato ad una mera camera di ratifica. In altre
parole, se davvero si vorranno far “coabitare” queste due istituzioni, a costituzione variata,
sarà necessaria ed opportuna, al fine di evitare collisioni, una modifica del d.lgs. 281/1997,
attraverso la quale valorizzare (principalmente) la Conferenza come sede di raccordo tra le
funzioni amministrative e come strumento di “partecipazione” regionale alla potestà
normativa secondaria dello Stato.
51
Invece, in questo senso si esprime C. BASSU, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 7.
T.E. FROSINI, Il Senato federale e i procedimenti legislativi: un “puzzle” costituzionale, in T. GROPPI, P.L.
PETRILLO (a cura di), Cittadini, governo, autonomie. Quali riforme per la Costituzione?, Milano, 2005.
53
A tal proposito v. M. GORLANI, Articolazioni territoriali dello Stato e dinamiche costituzionali, Milano,
2004, 625.
52
65
L’INTRODUZIONE DEL SENATO FEDERALE: UN
RAFFORZAMENTO DELLA LEALE COOPERAZIONE?
di
Cristina Napoli
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Modifiche interne al titolo I della Parte seconda della
Costituzione. – 3. Modifiche esterne al titolo I della parte seconda della Costituzione. – 4.
Disposizioni transitorie relative all’eventuale entrata in vigore della riforma. – 5. Conclusioni.
1. Introduzione
La realizzazione di una “Camera delle Autonomie” come passo ulteriore verso una
sempre più compiuta attuazione del principio della leale collaborazione tra Stato e Regioni187
e come simbolo di un federalismo forte è ormai un topos degli ultimi anni188, basti pensare al
fatto che la legge cost. n. 3/2001, modificando il solo Titolo V della Parte seconda della
Costituzione e lasciando, pertanto, aperto il “problema”, ove mai possa considerarsi realmente
tale, della c.d. “regionalizzazione” del Senato, all’art. 11 aveva individuato comunque una
soluzione transitoria189, rimasta peraltro lettera morta, per cui, “in attesa della revisione delle
norme del titolo I della parte seconda della Costituzione”, i regolamenti parlamentari
avrebbero potuto prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province e
degli Enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali190.
187
La prospettiva di una “Camera delle Regioni” si era fatta avanti anche ai tempi dell’Assemblea
costituente, in particolare all’interno della seconda sottocommissione; tale prospettiva, tuttavia, pur continuando
in qualche modo a figurare nel progetto della Commissione dei 75, venne fortemente osteggiata, in nome
dell’unità politica dello Stato, dalle sinistre, le quali, poi, in Assemblea riuscirono ad avere la meglio, nonostante
l’approvazione dell’ambiguo art. 57, primo comma, per cui “Il Senato della Repubblica è eletto a base
regionale”. La questione, tornata d’attualità dopo l’istituzione delle Regioni (vennero proposti diversi disegni di
legge costituzionale aventi ad oggetto la c.d. regionalizzazione del Senato), in tempi recentissimi è stata avvertita
come un’esigenza da soddisfare al più presto.
Sulle ipotesi prospettate in proposito in Costituente, v. N. OCCHIOCUPO, La Camera delle Regioni, Milano,
1975.
188
Già la Commissione bicamerale istituita con legge costituzionale n. 1/1997 aveva individuato, nel testo di
legge costituzionale trasmesso alla Presidenza della Camera dei deputati il 4 novembre 1997, all’art. 89, ipotesi
in cui il Senato dovesse riunirsi in “sessione speciale”, integrato cioè da consiglieri comunali, provinciali e
regionali eletti in numero pari a quello dei senatori, in proposito v. R. TOSI, La Seconda Camera, in Le Regioni,
1997, p. 993 ss.
189
S. BARTOLE, R. BIN, G. FALCON, R. TOSI, Diritto regionale dopo le riforme, Bologna, 2005, p. 231 ss; T.
MARTINES, A. RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 2002, p. 103.
190
V. anche il secondo comma dell’art. 11, della legge costituzionale n. 3/2001. Sull’incerto futuro della
Commissione parlamentare per le questioni regionali così integrata, v. A. RUGGERI, La Commissione
parlamentare per le questioni regionali, tra le forti delusioni del presente e la fitta nebbia del futuro, su
federalismi.it, numero 23/2005.
federalismi.it n. 24/2005
Come è noto, il Parlamento italiano, il 16 novembre scorso, ha approvato in seconda
deliberazione la riforma di tutta la parte seconda della Costituzione191, attualmente in attesa di
referendum confermativo. La riforma de qua, tra le diverse modifiche, avrebbe, a dire dei suoi
sostenitori, “trasformato” il Senato della Repubblica in Camera espressione delle Autonomie
territoriali; e che ciò sia vero sul piano della dicitura formale è assolutamente indiscutibile,
giacché il Senato della Repubblica, qualora la riforma entrasse in vigore, diventerebbe
“Senato federale della Repubblica”, ma soprattutto dato il numero delle volte in cui questa
locuzione viene utilizzata e l’enfasi con cui è presentata.
Ora, premessa la grande difficoltà di definire il concetto di “federalismo”, è da dire
che se è vero che esso dovrebbe avere come fine ultimo quello di “preservare
simultaneamente sia l’unità che la diversità”192 e se è vero che tali diversità a livello centrale
dovrebbero essere massimamente rappresentate, là dove esista, da una Camera alta193,
espressione degli interessi territoriali, che si contrapponga ad una Camera bassa, di
rappresentanza, invece, degli interessi nazionali194, bisogna allora valutare il grado di
incisività garantita alla Camera alta stessa e sotto il profilo della rappresentatività, e quindi
dell’entità del collegamento autonomie-senatori, e sotto il profilo dei poteri ad essa assicurati,
vale a dire dell’effettiva possibilità per tali autonomie di conoscere ed intervenire sulle
questioni di maggior rilevanza a livello nazionale e locale. È, infatti, proprio dall’analisi di
tali aspetti che potrebbe derivarsi il compimento di quel passo in avanti nell’attuazione del
principio della leale collaborazione che dovrebbe tradursi nel passaggio da una cooperazione
attuata attraverso l’intervento consultivo (vincolante o meno) delle Regioni, ad una
partecipazione istituzionale delle stesse Regioni ai procedimenti decisionali, in cui le
autonomie territoriali, attraverso l’istituzione di un Senato “federale”, parteciperebbero da
protagoniste. Le norme del disegno di legge costituzionale dedicate al Senato federale della
Repubblica195, per ragioni di opportunità espositiva, possono essere così illustrate come
191
Per un attento esame della riforma nel suo complesso, L. PETRILLO, Riforme costituzionali, il Senato
approva in prima deliberazione, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 03/05/2005.
192
D. J. ELAZAR, Exploring federalism, The University of Alabama Press, 1987, trad. it. Idee e forme del
federalismo, Milano, Mondadori, 1998, p. 52 ss.
193
AA. VV., Role and Function of the Second Chamber, Proceedings of the Third Congress of the European
Association of Legislation, Baden-Baden Nomos Verlagsgesellschaft, 1999.
194
B. CARAVITA DI TORITTO, Il bicameralismo nelle più significative esperienze federali. Composizione e
attività legislativa delle Camere alte, in AA. VV., La Costituzione promessa, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004,
p. 85 ss; G. DE VERGOTTINI, Diritto costituzionale comparato, Padova, 2004, p. 315.
195
Una siffatta analisi è stata già condotta da M. MANETTI, Il Senato federale all’italiana, in federalismi.it,
numero 8/2005; G. M. SALERNO, Brevi note sulla composizione e sull’organizzazione del Senato Federale nel
ddl cost. approvato con modificazioni dalla Camera dei deputati, in federalismi.it, numero 21/2004; A. ANZON,
Il “federalismo” nel progetto di riforma approvato dal Senato in prima lettura, in
www.associazionedeicostituzionalisti.it, 28/04/2004; L. ANTONINI, Brevi note sul progetto di una seconda
www.federalismi.it
67
segue.
2. Modifiche interne al titolo I della Parte seconda della Costituzione
Esse hanno ad oggetto la composizione, l’organizzazione ed il funzionamento del
Senato ed il ruolo allo stesso riservato nell’ambito del procedimento di formazione delle
leggi. Composizione: Tra i due modelli principali di riferimento, quello americano, in cui i
rappresentanti vengono eletti a suffragio universale secondo modalità individuate dai singoli
Stati196 e quello tedesco, in cui i rappresentanti degli Stati sono, invece, nominati e revocati
dagli stessi governi dei Länder197, nonostante molti auspicassero l’adozione del secondo, la
modalità di elezione dei senatori, duecentocinquantadue nel testo della riforma, rimarrebbe
quella del suffragio universale e diretto (si passerebbe, però, dai 25 anni richiesti dal vigente
art. 58, primo comma, al semplice raggiungimento della maggiore età), “su base regionale”,
cosicché il collegamento tra senatori e Regioni verrebbe creato esclusivamente attraverso il
ricorso alla contestualità tra elezioni dei senatori nelle venti Regioni ed elezioni dei vari
Consigli regionali e dei Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano. Tuttavia, tale
ulteriore legame tra senatori e Regioni cui perverebbe la riforma non appare abbastanza
forte198, e ciò, con tutta probabilità, è evidente anche agli stessi autori della riforma: il Senato,
infatti, nella sua composizione ordinaria, sarebbe integrato da rappresentanti delle Regioni e
delle autonomie locali199, i quali, benché chiamati a partecipare alle attività dello stesso, non
verrebbero poi dotati del diritto di voto200. Quanto al numero di senatori per Regione, oltre
alla previsione per cui “nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sei; il
Molise ne ha due, la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste uno”, la ripartizione dei seggi dovrebbe
effettuarsi “in proporzione alla popolazione delle Regioni, quale risulta dall’ultimo
camera territoriale: soluzioni di compromesso per evitare il suicidio dei senatori, in federalismi.it, 26/06/2003;
B. CARAVITA DI TORITTO, Federalismo, Federalismi, Stato federale, in federalismi.it, numero 21/2005.
196
Sul modello americano v. R. W. BENNETT, The Senate of the United States, in AA. VV., Role and
Function, cit, p. 141 ss.
197
Ad es. nelle audizioni parlamentari intervenute durante la prima fase di approvazione, questa preferenza è
stata esplicitamente espressa dai prof. A. Barbera e G. Pitruzzella; favorevole al meccanismo della constestualità
invece, il prof. B. Caravita di Toritto: “il meccanismo secondo cui il Senato è eletto e sciolto insieme ai Consigli
regionali mi sembra il modo per raccordare fortemente Senato e Regioni”. Sul modello Bundesrat, v. H. RISSE,
The Bundesrat in the Legislative Process of the Federal Republic of Germany, in AA. VV., Role and Function,
cit, p. 115.
198
V. audizione parlamentare del prof. Cerulli Irelli.
199
Essi verrebbero eletti dai vari Consigli regionali tra i propri componenti, da ciascun Consiglio delle
autonomie locali tra i sindaci e i presidenti di Provincia o di Città metropolitana della rispettiva Regione e, a
tutela delle minoranze linguistiche presenti nella Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol, i Consigli delle
Province autonome di Trento e Bolzano ed i rispettivi Consigli delle autonomie locali ne eleggerebbero ciascuno
un proprio rappresentante.
200
Ancora v. audizione parlamentare del prof. Cerulli Irelli.
www.federalismi.it
68
censimento generale”201. Pertanto, oltre a diminuire ulteriormente il numero minimo di
senatori per Regione da sette a sei, si conserverebbe come parametro di ripartizione dei seggi
quello della popolazione delle varie Regioni e quindi un criterio che consentirebbe soltanto ad
alcuni territori di essere adeguatamente rappresentati; ci sarebbe da chiedersi, allora, se
dall’applicazione di questa riforma c.d. federale le diverse autonomie territoriali verrebbero a
trovarsi tutte in posizione equidistante dal centro, oppure se qualcuna di esse vi sarebbe più
vicina delle altre202, ovvero se della c.d. devolution potrebbero avvantaggiarsi tutte le Regioni
in egual misura.
Particolari risultano le previsioni relative all’elettorato passivo: accanto al compimento
del venticinquesimo anno di età (e non più il quarantesimo, come dispone il vigente art. 58,
secondo comma, fedele all’origine latina del termine stesso Senato), vengono individuati altri
tre requisiti di eleggibilità a senatore difficilmente collegabili tra di loro: infatti, si
restringerebbe l’eleggibilità a senatore soltanto a coloro i quali ricoprano o abbiano ricoperto
in passato cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali ed a coloro i quali
siano stati eletti senatori o deputati nella Regione, ma contestualmente la si riestenderebbe,
con il terzo requisito, a tutti coloro i quali “risied[a]no nella Regione alla data di indizione
delle elezioni”.
Altra novità sarebbe la scomparsa dei senatori a vita203; infatti, l’art. 5 della riforma, di
modifica del vigente art. 59, attribuirebbe al Presidente della Repubblica il potere di nominare
deputati a vita “fino a tre cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario”204.
Organizzazione e funzionamento: Rinviando, per il momento, il tema del
procedimento di approvazione delle leggi, è innanzitutto da dire che le due Camere
verrebbero a differenziarsi in relazione alla loro durata, poiché soltanto la Camera dei deputati
risulterebbe “eletta per cinque anni”, mentre il Senato federale verrebbe a funzionare come
un organo “permanente”, nella misura in cui il relativo rinnovo sarebbe destinato a diventare
periodico, essendo condizionato alla durata delle legislature regionali: i senatori eletti in
201
Sulle modalità di elezione dei senatori in altre esperienze federali, v. G. DE VERGOTTINI, Diritto
Costituzionale comparato, cit., p. 497 ss.
202
Già anni addietro G. PASQUINO, Lo Stato federale, Milano, Il Saggiatore, 1996, p. 109.
203
T. E. FROSINI, Il Senato federale e i procedimenti legislativi: un “puzzle” costituzionale, in
www.fedealismi.it, numero 8/2005.
204204
Così ponendo fine ai dubbi sorti, ex art. 59, secondo comma del vigente testo costituzionale, in
relazione al numero complessivo massimo di senatori a vita: se, cioè, il potere in capo al Presidente della
Repubblica di “nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario” sia da attribuirsi ad ogni Presidente eletto oppure se “cinque”
sia, appunto, il numero complessivo massimo di senatori a vita che, fatta eccezione per gli ex Presidenti della
Repubblica, possa completare la composizione numerica del Senato.
www.federalismi.it
69
ciascuna Regione o Provincia autonoma, infatti, rimarrebbero in carica sino alla
proclamazione dei nuovi senatori della medesima Regione o Provincia autonoma; la proroga
della Camera dei deputati, di ciascun Consiglio o Assemblea regionale e dei Consigli delle
Province autonome, e la conseguente permanenza in carica dei relativi senatori, non potrebbe
essere disposta che per legge e soltanto in caso di guerra.
Il Presidente e l’Ufficio di Presidenza del Senato federale (così come della Camera dei
deputati), nel ddl costituzionale, continuerebbero ad essere scelti tra i senatori stessi, ma per il
primo verrebbero esplicitate le maggioranze richieste (dei due terzi dei componenti
l’Assemblea per i primi due scrutini e dal terzo scrutinio in poi la maggioranza assoluta dei
componenti), per il secondo verrebbe previsto un rinnovamento periodico a garanzia della sua
costante rappresentatività.
Quanto alle deliberazioni della Camera dei deputati, del Senato federale della
Repubblica e del Parlamento in seduta comune, verrebbe confermata la necessità di un doppio
quorum, anche se, per le deliberazioni del Senato federale della Repubblica, verrebbe inserito
un ulteriore requisito di validità, vale a dire la presenza dei senatori eletti “da almeno un terzo
delle Regioni”, e quindi, con tutta probabilità, di senatori provenienti da almeno sette Regioni
(arrotondando per eccesso) su venti.
Al regolamento del Senato federale della Repubblica sarebbe affidato il compito di
garantire i diritti delle minoranze e di disciplinare le modalità ed i termini entro cui ogni
Consiglio o Assemblea regionale o Consiglio delle Province autonome possa esprimere pareri
sui disegni di legge c.d. “a prevalenza Senato”205, sentito il Consiglio delle autonomie locali.
Ancora, lo stesso regolamento, oltre a disciplinare l’organizzazione in commissioni del
Senato, dovrebbe stabilire le modalità con cui il Senato sarebbe chiamato ad esprimere il
proprio parere relativamente all’adozione di un decreto di scioglimento di un Consiglio
regionale o di rimozione di un Presidente di Giunta regionale, ai sensi dell’articolo 126, primo
comma.
Quanto alle Commissioni parlamentari d’inchiesta disciplinate dall’art. 82, singolari
appaiono le modifiche ad esse apportate; infatti, nonostante la possibilità di disporre inchieste
su materie di pubblico interesse e di nominare a tale scopo fra i propri componenti una
commissione formata proporzionalmente ai vari gruppi continuerebbe ad essere garantita ad
entrambe le Camere, soltanto le Commissioni d’inchiesta monocamerali istituite dalla Camera
dei deputati e quelle istituite da una legge approvata da entrambe le Camere potrebbero
205
Così L. PETRILLO, Riforma costituzionali, il Senato approva in prima deliberazione, in
www.associazionedeicostituzionalisti.it, 03/05/2005;
www.federalismi.it
70
procedere alle indagini ed agli esami “con gli stessi poteri e con le stesse limitazioni
dell’autorità giudiziaria”, dovendosi ricavare a contrario che quella istituita dal Senato
federale non potrebbe agire godendo delle stesse garanzie (anche se non essendo detto
espressamente, a ciò potrebbe rimediare lo stesso regolamento del Senato).
Procedimento legislativo: Certamente decisivo per misurare il grado di incisività
garantito al Senato federale della Repubblica è l’esame del procedimento di formazione delle
leggi così come disegnato dal testo di riforma costituzionale206, dove il principio della
reciproca parità tra le due Camere di cui si compone il Parlamento207, tutelato
nell’approvazione di una legge dal vigente sistema delle navette, lascia spazio, nella riforma,
ad una triplicazione delle tipologie legislative, che accompagna l’Italia nel novero dei Paesi a
bicameralismo c.d. imperfetto o “zoppo”208. Infatti, il ddl individua tre categorie di leggi:
“monocamerali della Camera dei deputati”, “monocamerali del Senato federale della
Repubblica” e “bicamerali… ma (si potrebbe aggiungere) non perfettamente”.
Quanto alle prime, disciplinate all’art. 70, primo comma, così come riscritto dalla
riforma, esse avrebbero ad oggetto le materie di competenza legislativa esclusiva statale, di
cui al secondo comma dell’art. 117; i disegni di legge riguardanti tali materie, approvati in via
preventiva da parte della Camera dei deputati, passerebbero successivamente al vaglio del
Senato federale della Repubblica, il quale, entro trenta giorni, potrebbe proporre modifiche,
sulle quali, tuttavia, la Camera andrebbe a decidere “in via definitiva”.
Per le seconde, invece, si affida, in un procedimento parallelo, ma inverso, al Senato
federale l’approvazione, anche questa volta preventiva, dei disegni di legge concernenti la
determinazione dei principi fondamentali nelle materie oggetto di potestà legislativa
concorrente tra Stato e Regioni, di cui al terzo comma dell’articolo 117; successivamente, la
Camera dei deputati verrebbe chiamata, sempre entro trenta giorni, ad avanzare modifiche,
sulle quali poi sarebbe lo stesso Senato a decidere in via definitiva
209
. È da dire che tale
competenza legislativa esclusiva del Senato federale della Repubblica verrebbe ad essere
ridimensionata da una previsione contenuta nel successivo quarto comma del medesimo art.
206
T. E. FROSINI, Il Senato federale e i procedimenti legislativi: un “puzzle” costituzionale, in
www.fedealismi.it, numero 8/2005.
207
S. MATTARELLA, IL bicameralismo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1983, p. 1161 ss; F.
PIZZETTI, Riforme istituzionali e prospettive di bicameralismo in Italia: riflessioni e interrogativi, in Quaderni
costituzionali, 1984, p. 243 ss.
208
L. PALADIN, Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo. Il caso italiano, in Quaderni
costituzionali, 1984, p. 221 ss.
209
S. BARTOLE, Invito al dibattito sulle riforme istituzionali, in www.associazionedeicostituzionalisti.it,
24/05/2004, il quale ritiene che affidare al Senato la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di
competenza concorrente contraddica la stessa scelta di riparto delle funzioni tra Stato e Regioni, laddove infatti
tali principi dovrebbero dar voce ad “interessi unitari del Paese”.
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71
70: infatti, qualora su un disegno di legge cd a prevalenza Senato fosse il Governo a proporre
modifiche, nella fase in cui esso si trovasse davanti alla Camera dei deputati, e lo stesso
ritenesse tali modifiche essenziali per l’attuazione del proprio programma di governo ovvero
per la tutela delle finalità che presiedono all’esercizio dei poteri sostitutivi dello Stato, il
Presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, potrebbe autorizzare il
Primo ministro (così verrebbe ad essere chiamata la figura del Presidente del Consiglio dei
ministri) ad esporne le motivazioni al Senato, il quale dovrebbe pronunciarsi entro trenta
giorni. Ed ancora, qualora tali modifiche non venissero accolte dal Senato, il disegno di legge
verrebbe trasmesso alla Camera, la quale, si troverebbe a decidere in via definitiva, ma a
maggioranza assoluta dei suoi componenti, sulle modifiche proposte dal Governo.
Prescindendo in questa sede dalla opportunità di inserire il Presidente della Repubblica
“garante della Costituzione e dell’unità federale della Repubblica”210 in un circuito tutto
politico211, non si può non sottolineare come il Senato, anche in relazione alla determinazione
dei principi fondamentali delle materie oggetto di potestà legislativa concorrente tra Stato e
regioni, verrebbe a perdere l’ultima parola, la quale potrebbe spettare alla sola Camera dei
deputati, anche, eventualmente, in qualche modo condizionata dalla fiducia posta su quelle
modifiche dal Governo, il quale, infatti, sulla base del progetto di riforma costituzionale,
risulterebbe legato da rapporto fiduciario alla sola Camera dei deputati.
Il criterio della competenza per materia tra Camera e Senato varrebbe anche per
l’approvazione delle leggi delega e per le leggi di conversione dei decreti legge.
In riferimento alle ultime, si è detto, si potrebbe parlare di leggi bicamerali…ma non
perfettamente.
Bicamerali: a differenza delle leggi monocamerali suddette, l’art. 70, terzo comma,
così come verrebbe modificato dalla riforma de qua, attribuirebbe all’esercizio collettivo delle
due Camere la funzione legislativa dello Stato in relazione all’esame dei disegni di legge
concernenti una serie di materie esplicitamente individuate:
ƒ
la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art.
117, secondo comma, lett. m);
ƒ
la disciplina relativa a legislazione elettorale, organi di governo e
funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, secondo
210
Così l’art. 87, primo comma, del testo riformato.
E comunque, sull’inopportunità di questa scelta, v. le audizioni di Pitruzzella, Caravita di Toritto,
Carlassare, Cerulli Irelli, Barbera, Lippolis.
211
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72
comma, lett. p);
ƒ
il cd federalismo fiscale, di cui all’art. 119;
ƒ
l’esercizio dei poteri sostitutivi del Governo di cui all’art. 120, secondo
comma;
ƒ
il sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato federale
della Repubblica.
Ed ancora, la collegialità nell’esercizio della funzione legislativa sarebbe prevista nei
casi in cui la stessa Costituzione espressamente rinvii alla “legge dello Stato” o alla “legge
della Repubblica”212.
Non perfettamente perché, anche nell’ambito di queste materie, verrebbe individuata
una deroga al principio del bicameralismo perfetto. Qualora, infatti, le due Camere non
riuscissero a pervenire all’approvazione di un medesimo testo, ai rispettivi Presidenti, d’intesa
tra di loro, verrebbe data la possibilità di convocare una commissione, composta da trenta
deputati e trenta senatori, scelti in modo da rispecchiare proporzionalmente la composizione
delle stesse, con il compito di proporre un testo unificato da sottoporre al voto finale delle due
Assemblee nei termini stabiliti dagli stessi Presidenti.
Su eventuali questioni di competenza in ordine all’esercizio della funzione legislativa,
deciderebbero i Presidenti delle Camere, d’intesa tra di loro, i quali, tuttavia, potrebbero
deferire tale decisione ad un comitato paritetico, composto da quattro deputati e quattro
senatori, scelti dagli stessi; la decisione dei Presidenti o del comitato “non” sarebbe
“sindacabile in alcuna sede”213, così tentando di escludere un’eventuale competenza della
Corte costituzionale in sede di sindacato di legittimità costituzionale formale relativamente
alla titolarità della funzione legislativa.
Quanto alla disciplina relativa alla titolarità dell’iniziativa legislativa, la novità è che a
ciascun membro delle due Camere verrebbe sì garantita la possibilità di presentare disegni di
legge, ma esclusivamente nell’ambito delle rispettive competenze214.
L’art. 16 della riforma, recante “Procedure legislative ed organizzazione per
commissioni”, andrebbe a modificare l’art. 72 della Costituzione; ogni disegno di legge,
presentato alla Camera competente, esaminato preliminarmente da una commissione,
verrebbe poi approvato dall’Assemblea articolo per articolo e con votazione finale, così come
prevede il primo comma del vigente art. 72. L’esame in commissione sarebbe escluso e
212
Art. 70, quarto comma.
Così il sesto comma dell’art. 70, riformato.
214
Art. 71, primo comma riformato.
213
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73
sarebbe altresì prevista come obbligatoria l’adozione della procedura normale e
l’approvazione diretta da parte dell’Assemblea per i disegni di legge in materia costituzionale,
elettorale e di delegazione legislativa (verrebbe, infatti, meno il vigente riferimento ai disegni
di legge di autorizzazione a ratificare trattati internazionali e di approvazione di bilanci e
consuntivi, i quali, infatti, ai sensi degli artt. 80 e 81, così come rinnovati dalla riforma,
passando alla competenza legislativa della sola Camera dei deputati, verrebbero, pertanto,
approvati con legge monocamerale della Camera).
Su richiesta del Governo, verrebbero iscritti all’ordine del giorno delle Camere e votati
entro tempi certi, secondo le norme dei rispettivi regolamenti, i disegni di legge presentati o
fatti propri dallo stesso, il quale potrebbe, inoltre, pretendere, decorso il termine, la
deliberazione della Camera dei deputati (che sola, si sottolinea, concederebbe la fiducia al
Governo) articolo per articolo e con votazione finale215; mentre, le proposte di legge di
iniziativa delle Regioni e delle Province autonome verrebbero poste all’ordine del giorno
della Camera competente nei termini stabiliti dal proprio regolamento, con priorità per quelle
adottate da più Regioni e Province autonome in coordinamento tra di loro216.
Tentando di tirare le somme sul quantum di funzione legislativa che la riforma riserva
al Senato federale della Repubblica, il quadro è alquanto deludente: si può, infatti, concludere
che in nessuna delle tre tipologie di leggi che potrebbero vedere la luce di qui a poco il ruolo
rivestito dal Senato sarebbe, per così dire, decisivo: infatti, nelle materie di competenza
esclusiva dello Stato, e quindi dove tutto viene deciso a livello centrale, il Senato federale non
soltanto non avrebbe alcuna voce in capitolo, ma non sarebbe neppure titolare dell’esercizio
dell’iniziativa legislativa; nelle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni, ovvero
nella determinazione dei principi fondamentali entro cui le fonti regionali possono muoversi,
esso andrebbe a decidere in via definitiva, ma soltanto teoricamente, nella misura in cui, come
si è già messo in evidenza, potrebbe essere la Camera dei deputati ad avere l’ultima parola; ed
infine, nelle materie destinate a formare oggetto delle leggi c.d. bicamerali, le dinamiche di
un bicameralismo paritario, attraverso il ricorso alla commissione convocata dai Presidenti
delle due Camere, verrebbero messe a dura prova. Sembra, pertanto, abbastanza evidente che
la Camera espressione delle Autonomie territoriali, la cui nascita viene sottolineata con tanta
ridondanza nel testo del ddl costituzionale, proprio nell’esercizio della funzione più
importante dell’organo parlamentare, è destinata, là dove la riforma superasse il consenso
popolare, ad avere un peso nient’affatto determinante e ciò anche in ragione di un’altra
215
216
Cfr. quinto comma, art. 72, riformato.
Così settimo comma, art. 72 riformato.
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74
circostanza, tutt’altro che secondaria, ovvero l’assenza nel novero delle leggi c.d. bicamerali
dei disegni di legge di approvazione del bilancio e del rendiconto consuntivo: il Senato
federale della Repubblica non sarebbe chiamato a conoscere ed a deliberare sulla legge più
importante di ogni anno, la legge finanziaria.
È da dire, tuttavia, che con l’attribuzione al Senato federale della Repubblica della
competenza nell’individuazione dei principi fondamentali relativi alle materie oggetto di
potestà legislativa concorrente, il principio della leale cooperazione potrebbe trovare
applicazione nell’esercizio del potere legislativo, dove, infatti, lo Stato (e per esso il Senato
federale della Repubblica) e le Regioni verrebbero a collaborare nella determinazione delle
medesime materie, delle quali il primo regolerebbe la legislazione di principio e le seconde
quella di dettaglio, anche se in quest’affermazione l’implicito presupposto è che, nell’incontro
tra questi due soggetti, il Senato, ancora una volta, verrebbe a rappresentare lo Stato, e quindi
interessi nazionali, i quali, dovrebbero incontrarsi con quelli regionali “collaborando
lealmente”.
3. Modifiche esterne al titolo I della parte seconda della Costituzione
Al di fuori del Titolo I, tra le modifiche fondamentale risulterebbe senz’altro l’uscita
del Senato dal circuito fiduciario. Ai sensi dell’art. 94 riformato, infatti, il programma di
legislatura, illustrato dal Primo ministro alle Camere entro dieci giorni dalla nomina,
dovrebbe ricevere il voto “di fiducia” soltanto dalla Camera dei deputati, la quale, pertanto,
rimarrebbe, insieme con il Primo ministro, unica protagonista nei casi di questione di fiducia
(il ricorso alla quale, è da dire, non sarebbe ammesso per l’approvazione delle leggi
costituzionali e di revisione costituzionale217) e mozione di sfiducia. Ancora, l’art. 104, quarto
comma, della Costituzione, relativo alla elezione del Consiglio superiore della magistratura,
verrebbe modificato quanto alla componente di nomina parlamentare218, per cui, qualora la
riforma entrasse in vigore, degli otto componenti designati ai sensi del vigente art. 104 dal
Parlamento in seduta comune, quattro verrebbero eletti dalla Camera dei deputati e quattro dal
Senato federale della Repubblica. Inoltre, ai sensi dell’art. 46 del ddl costituzionale, rubricato
“Coordinamento interistituzionale da parte del Senato federale della Repubblica”219, una
legge dello Stato dovrebbe promuovere il coordinamento tra Senato federale della Repubblica
e Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, ed al regolamento del Senato federale
217
Così l’ultimo periodo del secondo comma dell’art. 94 riformato.
Cfr il primo comma dell’art. 36 del ddl costituzionale.
219
Disposizione che verrebbe introdotta dall’art. 127-ter della Costituzione.
218
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75
della Repubblica spetterebbe garantire rapporti di reciproca informazione e collaborazione tra
i rappresentanti degli enti territoriali di tutti i livelli ed i senatori, i quali potrebbero essere
sentiti, ogni volta che lo richiedessero, dal Consiglio regionale ovvero dal Consiglio della
Provincia autonoma in cui siano stati eletti.
Infine, verrebbe attribuito al Senato federale della Repubblica il potere di nomina di
quattro giudici costituzionali; la Corte costituzionale, infatti, nel testo di riforma verrebbe a
mutare nella sua composizione, per cui pur rimanendo fisso a quindici il numero complessivo
di giudici, cambiano le proporzioni relative all’elettorato attivo: quattro giudici sarebbero
nominati dal Presidente della Repubblica, quattro dalle supreme magistrature ordinaria e
amministrative, tre dalla Camera dei deputati e quattro, appunto, dal Senato federale della
Repubblica, integrato, per l’occasione, dai Presidenti delle Giunte delle Regioni e delle
Province autonome di Trento e di Bolzano. È da dire che la modifica delle norme relative alla
composizione della Corte costituzionale nel senso di garantire alle Regioni ed eventualmente
anche agli Enti locali il potere di nomina di una quota di giudici costituzionali abbia
rappresentato e rappresenti una costante degli ultimi anni (dal progetto della Commissione
bicamerale del 1997220 alla proposta di devolution del Ministro per le riforme Bossi del
2001221, dal Testo di riforma della parte seconda della Costituzione presentato dal Governo il
10 ottobre 2003222 sino al definivo contenuto della riforma) dinanzi alla quale la dottrina ha
manifestato il fondato timore di una sorta di “regionalizzazione” della Corte costituzionale, di
una sua trasformazione, cioè, in un organo in qualche modo rappresentativo di interessi di
parte e pertanto difficilmente in grado di operare come garante super partes del rispetto della
Carta costituzionale223. Cosicché, è stato ritenuto che, anche laddove si reputasse opportuna la
220
Dove si prevedeva che la Corte costituzionale fosse composta da venti giudici: cinque nominati dal
Presidente della Repubblica, cinque dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative, cinque dal Senato
della Repubblica e cinque “da un collegio formato dai rappresentanti di Comuni, Province, Regioni che
integrano il Senato della Repubblica in sessione speciale”;: v. R. ROMBOLI, La giustizia costituzionale nel
progetto della Bicamerale, in Diritto Pubblico, 1997, p. 833 ss.
221
Nella proposta il numero dei giudici costituzionali restava fisso a quindici, ma a cambiare sarebbero state
le proporzioni: quattro giudici sarebbero stati nominati dal Parlamento in seduta comune, tre dal Presidente della
Repubblica, tre dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative e cinque dai “presidenti delle giunte e dei
consigli regionali riuniti in Assemblea comune”: v. A. RUGGERI, “Regionalizzazione” apparente e
“politicizzazione” evidente della Corte costituzionale, attraverso la modifica della sua composizione,
19/09/2001, su www.unife.it; C. FUSARO, Osservazione-Lampo, 22/09/2001, su www.unife.it; R. BIN, Le Regioni
nella Corte costituzionale: davvero uno scandalo?, 14/09/2001, su www.unife.it; R. DE LISO, Le Regioni nella
Corte costituzionale: già oggi è possibile, 20/05/2003, su www.unife.it; S. BARTOLE, A. PACE, F. SORRENTINO,
In difesa della Corte costituzionale, in Questione giustizia, 2001, p. 825 ss (scritto che riprende l’articolo Giù le
mani dalla Corte costituzionale, pubblicato su La Stampa del 18 luglio 2001).
222
Il cui art. 33 così recitava: “La Corte costituzionale è composta da diciannove giudici. Cinque giudici
sono nominati dal Presidente della Repubblica, tre dalla Camera dei deputati, sei dal Senato federale della
Repubblica e cinque dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa”.
223
E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, Torino, 2003, p. 64.
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76
previsione di giudici costituzionali di nomina regionale, fondamentale risulterebbe la tutela
dell’autonomia e dell’indipendenza degli stessi da chi li ha nominati224. Ad ogni modo,
quanto al testo della riforma in oggetto, se è vero che il meccanismo della contestualità tra
elezione dei senatori ed elezione dei consiglieri regionali non sarebbe tale da far immaginare
una Camera composta da soggetti portatori di interessi sostanzialmente differenti da quelli
rappresentati dall’altra Camera, è anche vero che la menomazione della imparzialità della
Corte costituzionale, nel senso di una sua “regionalizzazione”, attualmente non
rappresenterebbe un rischio concreto. Probabilmente, a destare maggiori perplessità
sarebbero, invece, i numeri: dei quindici giudici, ben sette sarebbero di derivazione politica225,
potendo, pertanto, verificarsi la circostanza per cui il quorum funzionale di undici giudici
venga raggiunto attraverso la somma dei sette giudici di nomina parlamentare e di (soli)
quattro giudici designati dal Presidente della Repubblica o dalle supreme magistrature, così
definitivamente incrinando il ricercato equilibrio raggiunto all’art. 16, della legge n. 87 del
1953226.
4. Disposizioni transitorie relative all’eventuale entrata in vigore della riforma
La tempistica relativa all’eventuale entrata in vigore della riforma nel suo complesso
creerebbe indubbiamente notevoli difficoltà, confermate proprio dalle dimensioni delle
disposizioni transitorie stesse; in particolare, l’art. 53 della riforma, recante, appunto,
“Disposizioni transitorie”, individua nella prima legislatura successiva a quella in corso alla
data di entrata in vigore della riforma, la diretta applicabilità, sia pur temperata da una serie di
eccezioni, delle disposizioni relative al Senato federale della Repubblica. Tra le eccezioni si
annoverano, innanzitutto, quella delle nuove figure dei “deputati a vita”, quella della
rinnovata composizione e quella della natura c.d. permanente del Senato federale, che
troverebbero attuazione soltanto dalla successiva formazione della Camera dei deputati e del
Senato federale della Repubblica trascorsi cinque anni dalle prime elezioni del Senato
medesimo; medio tempore, infatti, continuerebbero ad applicarsi i corrispondenti articoli della
Costituzione vigente. In secondo luogo, fino all’adeguamento della legislazione elettorale,
comprese le norme concernenti le elezioni nella circoscrizione Estero, al nuovo meccanismo
224
A. PERTICI, La partecipazione delle Regioni alla nomina dei componenti della Corte costituzionale, in (a
cura di R. ROMBOLI) L’Attuazione della Costituzione, Pisa, 2004, p. 269 ss.
225
Ad es. la prof. L. Carlassare, nell’audizione al Senato, sottolinea la circostanza per cui “7 membri vengano
eletti da organi politici, ossia dai due rami del Parlamento (tre membri dalla Camera e quattro dal Senato) (...).
Se consideriamo che i membri della Corte sono 15, la metà viene in sostanza nominata dagli organi politici”.
226
Una soluzione a quest’inconveniente potrebbe essere, attraverso la modifica del secondo comma dell’art.
16, della legge n. 87 del 1953, l’innalzamento il quorum funzionale a dodici giudici, cosicché sarebbe sempre
garantita la presenza di almeno un giudice nominato da tutti coloro i quali hanno il relativo potere di nomina.
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fiduciario, a decorrere dalla prima legislatura della Camera dei deputati successiva a quella in
corso alla data di entrata in vigore della riforma, il Governo, entro dieci giorni dalla sua
formazione, si dovrebbe presentare alla Camera per ottenere la fiducia, la quale sarebbe
accordata o revocata mediante mozione motivata e votata per appello nominale; il Governo
non potrebbe avvalersi dei benefici derivanti dall’utilizzo di quella norma capace di vincere
l’impasse posto dal Senato trasportando l’approvazione di modifiche ad un disegno di legge
dal Senato, competente secondo le norme fissate dalla stessa riforma, alla Camera con cui è
legata dal rapporto di fiducia. In terzo luogo, la riforma distingue nettamente le prime, dalle
seconde: infatti, le prime elezioni del Senato federale della Repubblica, nelle quali per
l’eleggibilità a senatore verrebbe ancora richiesto il compimento del quarantesimo anno di età,
avrebbero luogo contestualmente a quelle della Camera dei deputati ed i senatori così eletti
durerebbero in carica per cinque anni. È soltanto dalla seconda elezione in poi che il Senato
federale della Repubblica verrebbe ad essere eletto nella sua nuova composizione e con i
nuovi requisiti relativi all’elettorato passivo. Peraltro, i senatori a vita in carica
continuerebbero comunque a farvi parte.
Inoltre, per garantire la c.d. contestualità in entrata227 prevista dalla riforma, con
esclusivo riferimento al quinquennio successivo alle prime elezioni del Senato federale della
Repubblica, da un lato si provvederebbe alla proroga della legislatura di ciascun Consiglio
regionale e di Provincia autonoma in carica trascorsi trenta mesi dalla data di indizione delle
prime elezioni del Senato federale della Repubblica: esse, infatti, rimarrebbero in carica fino
alla data di indizione delle nuove (seconde) elezioni, le quali avverrebbero contestualmente a
quelle di tutti i Consigli regionali o di Provincia autonoma, in carica alla data delle elezioni, i
quali sarebbero conseguentemente sciolti; dall’altro lato, in caso di scioglimento del Consiglio
regionale o dei Consigli delle Province autonome in base all’articolo 126 o ad altra norma
costituzionale, la durata della successiva legislatura regionale o provinciale sarebbe ridotta
conseguentemente.
Fino all’adeguamento della legislazione elettorale ai nuovi meccanismi ed alle nuove
regole introdotti dalla riforma, verrebbero applicate le leggi elettorali per il Senato della
Repubblica e la Camera dei deputati già vigenti.
5. Conclusioni
Forse, prescindendo dalla concreta necessità, per la realizzazione di un ordinamento
227
V. R. BIFULCO, Senato federale:
www.associazionedeicostituzionalisti.it, 23/12/2004.
dov’è
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finita
la
contestualità
affievolita?,
in
78
federale, di una Camera alta espressione delle Autonomie territoriali228, prima di chiedersi se
il Senato disegnato dalla riforma sia o meno federale, bisogna forse domandarsi se la riforma
stessa nel suo complesso possa considerarsi realmente tale; e a tal proposito, scorrendo le
norme riformate, si scopre, ad esempio, che il regionalismo differenziato del vigente terzo
comma dell’art. 116 scompare, che l’elenco delle materie di competenza esclusiva dello Stato
di cui al secondo comma dell’art. 117 aumenta, che i confini dei poteri sostitutivi dello Stato
di cui al secondo comma dell’art. 120 diventano più elastici e che addirittura il Parlamento,
all’art. 127, diviene titolare del potere di annullare una legge regionale che pregiudichi il
redivivo
interesse
nazionale.
In
senso
inverso
parrebbe
muoversi,
invece,
la
costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni, la quale tuttavia, laddove non si
provvedesse a differenziare i diversi campi di azione, potrebbe mal convivere con il nuovo
Senato federale, o, con più probabilità, potrebbe essere quest’ultimo a mal convivere con la
Conferenza, la quale, oltre a vantare già diversi anni di riconosciuto buon funzionamento,
agisce ad un livello, quello governativo, per la sua ontologica natura esecutiva, maggiormente
incisivo.
Quanto al grado di attuazione del principio della leale collaborazione tra Stato e
Regioni, attraverso la previsione nel testo della riforma di un Senato c.d. federale, le norme
dello stesso ddl relative alla sua composizione inducono a considerare la Camera che ne
deriverebbe non idonea da sola a rappresentare le autonomie territoriali regionali e ad
esprimerne gli orientamenti; a dimostrazione di ciò sta l’inserimento, come parte necessaria
della composizione ordinaria del Senato federale, di rappresentanti delle Regioni e delle
autonomie locali, i quali, presumibilmente (altrimenti sarebbe difficile comprendere la ratio
della previsione) dovrebbero farsi portavoce all’interno di un ramo del Parlamento degli
interessi e delle esigenze ciascuno della Regione di provenienza. Le Regioni, pertanto, nei
procedimenti decisionali di maggiore rilevanza a livello centrale ed a livello locale, non
troverebbero nel Senato c.d. federale un luogo di esclusiva rappresentanza, all’interno del
quale esercitare le competenze ad esso riservate dalla Costituzione, ma si troverebbero a
cooperare con lo Stato in una posizione tutt’altro che paritaria: l’uno rappresentato da senatori
sia pur eletti su base regionale e contestualmente all’elezione dei vari consigli regionali, le
altre da rappresentanti variamente eletti, ma non muniti di diritto di voto. Per cui potrebbe
concludersi che all’interno del Senato di prossima eventuale istituzione lo Stato e le Regioni
228
Esistono, infatti, affermate esperienze federali che non menzionano tra i propri elementi costitutivi un
Senato federale; ad es. l’ordinamento canadese, in proposito v. P. PASSAGLIA, Il Senato canadese: anomalia o
originalità?, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2003, p. 1913 ss.
www.federalismi.it
79
verrebbero a cooperare attraverso l’incontro tra rappresentanti delle Regioni (e delle
autonomie locali) e senatori federali della Repubblica, incontro che non potrebbe che avere
esclusivamente e nuovamente natura e finalità consultiva, le quali, peraltro, verrebbero
sminuite non soltanto dall’assenza in capo a tali soggetti rappresentanti delle Regioni del
diritto di voto, ma anche dall’esiguità numerica degli stessi (un rappresentante ogni consiglio
regionale, uno ogni consiglio delle autonomie locali, e, ancora due per i consigli provinciali di
Trento e Bolzano). Le Regioni, pertanto, non troverebbero nella Camera alta disegnata dalla
riforma un luogo di esclusiva espressione delle proprie istanze, ma piuttosto un luogo dove
“convivere” in qualche modo con istanze statali, alle quali risulterebbero legate da un
rapporto meramente consultivo.
In ultima analisi, la sensazione, quantomeno in relazione alle modifiche c.d. federali, è
quella di trovarsi dinanzi ad una “riforma mediatica”, la quale, puntando molto sulla forma,
pare voler indurre il cittadino a convincersi circa l’avvenuta introduzione nel nostro
ordinamento di penetranti modifiche, le quali, poi, oltre a difettare nella sostanza, risultano
inserite in un disegno più generale che spesso contraddice proprio quelle novità che vengono
presentate con maggiore forza.
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80
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