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Quel banchiere non è leale. In: Il sole 24 ore, 24 marzo 2002, p. 31

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Quel banchiere non è leale. In: Il sole 24 ore, 24 marzo 2002, p. 31
VETRINA
IL S0LE-24 ORE
DOMENICA 24 MARZO 2002 -
N. 81
- PAGINA 31
MATTI011 & GERBI
Dai fascicoli della polizia fascista emergono i difficili rapporti tra l'amministratore delegato della Comit e il regime
« uel banchiere non è leale»
affaele Mattioli e il filosofo domato» è il titolo
del nuovo libro di Sandro Gerbi che sta per
uscire da Einaudi. Il filosofo domato è Antonello Gerbi, padre dell'autore, capo dell'Ufficio studi della
Banca Commerciale a Milano, che a Mattioli, fu legato da
uno straordinario rapporto di amicizia e collaborazione.
Utilizzando soprattutto gli inediti e ricchi carteggi familiari, Gerbi racconta la storia di questo quarantennale
sodalizio attraverso la formula della biografia parallela con molti «attori» importanti, quali Toeplitz, Luigi Einaudi, Croce, Malagodi, Solmi, La Malfa, Bacchelli, Togliatti
e tutta la cerchia di intellettuali e politici antifascisti che
gravitava intorno al «banchiere letterato» - al cui centro
però rimangono sempre i due protagonisti: la loro «fronda» durante il fascismo; il salvataggio di Gerbi in Però al
tempo delle leggi razziali; la missione economica di Mattioli in Usa; il ritorno di Gerbi in Patria e la rinnovata
collaborazione, sia in banca sia con la casa editrice Ricciardi; i retroscena politici dell'estromissione di Mattioli
nel 1972.
Un libro che oltre a esplorare le pieghe nascoste di una
profonda amicizia, rivela l'impegno etico-civile di due
uomini pubblici, rappresentanti di una classe dirigente
che ha dato un contributo decisivo alla ricostruzione
dell'Italia.
Anticipiamo in questa pagina un brano del capitolo sui rapporti di Mattioli e Gerbi con il regime mussoliniano.
R
DI SANDRO GERBI
l problema più delicato da
affrontare è forse il rapporto dei due protagonisti
con il redine mussoliniano.
Per quanto riguarda Gerbi
(all'epoca capo dell'Ufficio
studi della Comit), la situazione è abbastanza semplice. Si
è già accennato al suo temperamento anarchicheggiante
(s'intende alla "Don Ferrante"), ai sentimenti da sempre
antifascisti, alle tradizioni familiari. Nulla del costume littorio — dalla rozza retorica al
gallismo insolente — poteva
andargli a genio. Pur tuttavia
non si sentiva abbastanza "militante" da partecipare in alcun modo all'opposizione
clandestina o da pensare addirittura di espatriare, come suo
zio Claudio Treves. Né intravedeva i rischi personali connessi all'origine israelitica.
Era troppo presto anche per
persone più lungimiranti di
lui. Accettò dunque, nonostante gli ineluttabili problemi di
coscienza, di prendere la tessera del Partito nazionale fascista, divenuta obbligatoria
nel '33 per tutti i dipendenti
pubblici (...). L'Ufficio studi
occupava un ruolo di rilievo
nell'organizzazione della Comit, ma si trattava pur sempre
di un avamposto ben riparato.
Chi doveva maggiormente
esporsi era l'amministratore
delegato, cioè Mattioli.
In ogni caso, le frequentazioni di Gerbi erano ben lontane da qualsiasi contiguità con
il fascismo, visto che andavano dallo zio Alessandro Levi
ai cugini Paolo e Piero Treves, a Carlo Levi, ai fratelli
Rosselli, agli amici del circolo culturale "Il Convegno"
(Eugenio Colorni, Leonardo
Borgese, Alessandro Pellegrini, Piero Gadda Conti eccetera), fino all'entourage di Mattioli, magistralmente descritto
da Bacchelli nel saggio intitolato Le notti di via Bigli, ove
si trovava, al civico n. 15,
l'ospitale dimora del banchiere (distrutta durante i bombardamenti alleati dell'agosto
'43). I più assidui, tutti in un
modo o nell'altro antifascisti,
erano i letterati Angelandrea
Zottoli e Francesco Flora, il
giornalista Gino Scarpa, l'architetto-pittore Gigiotti Zanini in frequenti bisticci con un
noto collega, Giuseppe De Finetti, l'avvocato Adolfo Tino,
Ugo La Malfa, Nino Levi,
Giorgio Di Veroli e molti altri, compresi naturalmente i
familiari di Mattioli e l'autore
del Mulino del Po.
In parte si trattava delle
stesse persone che si incontravano dal senatore Alessandro
Casati — nel suo palazzo milanese di via Soncino o nella
villa di Arcore — ogniqualvolta Benedetto Croce si spostava da Napoli al Nord, per
trascorrere la sua operosa vil-
I
leggiatura in Piemonte. Avere
in quel periodo rapporti con
Croce, personali o epistolari,
era sufficiente per essere considerati dei "sovversivi" e per
suscitare
l'occhiuto
sospetto dell'Ovra, la polizia politica
del duce. E
vero che nel
secondo dopoguerra,
1' antifascismo del filosofo napoletano sarà da
più parti considerato di
stampo 'conservatore",
per la sua visione del regime come
semplice interruzione di un
positivo processo di sviluppo
liberale, culminato nell'età
giolittiana. Per di più Croce
stesso, dopo essersi schierato
con i "neutralisti" e aver ac-
cettato
portafoglio dell'Istruzione nell'ultimo
ministero
Giolitti
(1920-1921), aveva salutato
come un fatto positivo l'avvento
di
Mussolini,
immaginando erroneamente che il
suo governo d'ordine" avrebbe
favorito la
ripresa dell'ideale liberale. Difesa
nel '23 la riforma scolastica Gentile, ancora
dopo il delitto Matteotti
(giugno '24)
aveva votato la fiducia a Mussolini, dando credito alla sua promessa
di un rapido ritorno alla legalità.
Ma le leggi "liberticide"
del gennaio '25 avevano se-
gnato la decisa svolta di Croce e il suo passaggio a
un'aperta opposizione (è di
quell'anno il suo Manifesto
degli intellettuali antifascisti). La sua condanna si estendeva ai vari movimenti culturali e politici fioriti nel primo
quindicennio del secolo (nazionalismo, dannunzianesimo, futurismo eccetera), movimenti che avevano diffuso
miti irrazionalistici, esaltato il
ruolo della "forza" in politica
e contribuito in modo determinante al successo e al radicamento del regime fascista.
Con la Storia d'Europa nel
secolo decimonono, apparsa
nel 1932, Croce, ormai in rotta con l'attualismo gentiliano,
aveva accentuato la propria
concezione "metapolitica" del
liberalismo, presentandolo come "religione della libertà".
Ne furono influenzati uomini
delle più diverse ideologie politiche, che videro nel filosofo
il solo punto di riferimento
dell'epoca, non osando Mussolini impedirne l'attività in-
VESPE
Franco Cordelli, un romanziere lontano dal romanzo
e è già dura stare lontani
da Parigi, come meditavano di fare (e poi non hanno fatto) Tabucchi e Consolo in
odio a Berlusconi, e come ha
fatto il ministro Urbani in odio
alla Tasca, ancora più drastica
è la scelta di Franco Cordelli di
stare lontano dal romanzo:
questo è appunto il titolo di una
raccolta di scritti del Nostro,
fresca di stampa presso la casa
editrice «Le Lettere». Scelta
davvero eroica, per uno che viene definito
(o si autodefinisce?) nella quarta di copertina «uno tra i pochi grandi romanzieri
dell'Italia di oggi» e che pubblica in abbinata con il volume anzidetto, dallo stesso
editore, un'altra antologia di suoi scritti
intitolata La religione del romanzo. Chis-
S
sà che fatica, tenersi alla larga
dall'oggetto di tanto desiderio
e di tanta fede. Chissà come
devono prudergli le mani. Cordelli, apprendiamo, è autore
non già di semplici romanzi,
ma addirittura di «un ciclo
che si inaugura con Procida,
nel 1973, e per il momento si
conclude con Un inchino a terra, 1999». Per il momento?
Quando terminerà questa lunga astinenza, questo Ramadan
letterario? Ammiriamo sinceramente la forza d'animo di Cordelli, vero anacoreta della narrativa. E speriamo che il suo sacrificio serva d'esempio a quei tanti che, dal
romanzo, dovrebbero stare lontani (non
«per il momento», ma per sempre), con
grande sollievo dei lettori.
tellettuale — in particolare la
pubblicazione della sua rivista, «La Critica» — nel timore di ripercussioni negative
all'estero.
Che l'Ovra controllasse la
corrispondenza di Croce è cosa oggi risaputa. Ma anche
allora un fatto del genere poteva essere facilmente immaginato. Per cui chi gli scriveva
era al corrente del rischio di
essere sospettato di scarse
simpatie per il regime e di
venire quindi "schedato". All'Archivio centrale dello Stato, a Roma, sono conservati
circa 600 fascicoli di altrettanti corrispondenti del filosofo.
Tra questi, Antonello Gerbi e
Raffaele Mattioli.
La prima lettera del capo
dell'Ufficio studi, intercettata
e trascritta dalla polizia politica, reca la data 15 aprile
1936, e contiene, oltre a qualche riga di Gerbi, la traduzione di un lungo articolo pubblicalo sul quotidiano olandese
«Algemene Handelsblad» il
25 febbraio di quell'anno, in
occasione del settantesimo genetliaco di Croce. Immediatamente, il 20 aprile, l'Alto
commissario della città di Napoli, una specie di prefetto
locale, ne invia copia ai colleghi di Milano, chiedendogli
di «disporre riservati accertamenti per l'identificazione
del mittente (chiamato per
errore Antonello Gerli) di
cui si gradiranno le complete
generalità e le informazioni
specie d'indole politica e
possibilmente la natura dei
rapporti intercorrenti tra costui e il Croce».
Un mese dopo giunge la
risposta del prefetto "di Milano, Motta, datata 18 maggio
1936, in cui si identifica il
mittente «col Dott. Gerbi Antonello di Edmo e fu Levi
Virginia (rectius Iginia), nato
a Firenze il 15 maggio 1904,
qui domiciliato col padre in
via De Togni 30, impiegato
Antonello Gerbi in esilio in Peni negli anni Trenta. Sopra, Raffaele Mattioli (a sinistra) e Antonello Gerbi su un
terrazzo della Banca Commerciale Italiana. A sinistra, nel testo, Benedetto Croce
presso la Direzione Generale fra il dicembre del '38 e il sistere professionalmente la
(Ufficio Studi) della Banca
Commerciale Italiana. Egli è
nipote del defunto fuoruscito
Claudio Treves. Ha precedenti come sospetto in linea
politica, ma
finora non ha
dato luogo a
rilievi
coi
suoi atteggiamenti;
è
iscritto
al
P.N.F. dal
25.3.1933».
Un appunto manoscritto, con sigla
inintelligibile, aggiunge a parte che
nell'articolo del quotidiano
olandese, trasmesso dal capo
dell'Ufficio studi al filosofo
napoletano, «si fa una critica
velenosa contro il Fascismo».
Il fascicolo "Gerbi" contiene poi la trascrizione di altre
cinque lettere dirette a Croce
dicembre del '39 (spedite dal
Perii, dove Gerbi si era nel
frattempo rifugiato). Più smilzo, ma non per questo meno
significativo il dossier "Mattioli", il cui
incontro con Croce come si è
accennato
pare risalisse addirittura agli anni
della Grande guerra.
Anche nel
caso del banchiere la prima traccia del controllo poliziesco compare nel 1936, allorché l'Ovra intercetta una
lettera dell'i 1 aprile in cui
l'amministratore delegato della Comit risponde a una richiesta di raccomandazione
di Croce a favore di un avvocato di Bari, desideroso di as-
Ma Mussolini aveva
fiducia in lui.
E Farinacci, che
chiedeva la sua testa,
dovette arrendersi
Comit del capoluogo pugliese. Mattioli risponde che farà
il possibile, pur avvalendosi
già la sede di Bari dell'opera
di quattro legali. La trascrizione della lettera viene spedita
ancora una volta a Milano per
ottenere lumi, ma la risposta
non figura nel fascicolo. In
compenso un mese dopo —
lo si legge anche qui in un
foglietto manoscritto e solo
siglato — il prefetto della città ambrosiana informa i colleghi napoletani che «Mattioli
Gr. Uff. Raffaele fu Cesario e
di Tessitore Angelina, nato a
Vasto (Chieti) il 20.3.95, dottore in scienze commerciali,
capitano di compi. in congedo, medaglia di bronzo al valor militare, è Amm. Delegato della Banca Commerciale
Italiana. Dicesi appartenere
alla massoneria e, per quanto iscritto al Partito dal
12.4.1933, i suoi sentimenti
non sono ritenuti leali».
Seguono una lettera di felicitazioni e auguri del 5 gennaio 1937; un dispaccio delle
prefettura di Milano in cui si
forniscono sommarie indicazioni su una quindicina di corrispondenti di Croce (tra cui,
oltre a Mattioli, Piero Gadda
Conti, Camillo Giussani, futuro presidente della Comit e
latinista di vaglia, l'allora presidente Ettore Conti, i germanisti Lavinia Mazzucchetti e
Alessandro Pellegrini, l'avvocato Adolfo Tino); e due brevi comunicazioni di Mattioli,
sempre del 1937, relative al
professor Adolfo Omodeo,
stretto collaboratore di Croce
(in queste ultime corrispondenze il censore nota che come mittente, sul tergo della
busta, figura «Il Ministro della Casa di S.M. il Re e Imperatore»: forse un non riuscito
tentativo di depistaggio).
Quali fossero gli orientamenti di Mattioli nei confronti
del regime era dunque risaputo ai vertici della polizia politica. Il che viene confermato da
un breve dialogo tra il banchiere, per nulla intimorito, e il
potente capo dell'Ovra, Arturo Bocchini. Lo ha raccolto
Corrado Stajano dalla viva voce di Mattioli: «"Voi — gli
aveva chiesto Bocchini — venite di continuo a raccomandarmi gente da salvare dal
confino. E quando sarà il vostro turno, chi vi raccomanderà?". "Voi", gli aveva risposto il banchiere».
A volte una singola testimonianza illumina più di cento
trattati. Racconta Sergio Solmi (il letterato, capo dell'ufficio legale della Comit): «Raffaele... era un antifascista.
Averlo incontrato in casa Gobetti, i nostri successivi discorsi, non mi lasciavano ombra di dubbio sui suoi sentimenti in fatto di politica».
Quanto segue è di una chiarezza cristallina: «Come, nonostante che la sua avversione
al regime fosse ben nota, gli
fosse riuscito non soltanto di
mantenere il suo posto, ma di
compiere una così rapida e
brillante carriera, era per me
un mistero. Alla fine però
compresi: la cosa si spiegava
con la sua abilità diplomatica
e la simpatia personale che
ispirava; ma, soprattutto, col
rapido diffondersi della sua
fama quale economista e finanziere, fama che rifulse pienamente quando Mussolini in
persona lo designò a salvare
la pericolante baracca delle
banche di interesse nazionale
dalla crisi che, negli anni
Trenta, partita da Wall Street,
stava mandando in rovina
mezzo mondo. Cosicché Roberto Farinacci, che soleva
chiedere la sua testa nella prima facciata di "Cremona nuova", falli nell'intento».
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