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Musica e pittura: Debussy
Parte quarta
Musica e pittura: Debussy
Fig. 59 Claude Debussy in un ritratto di Marcel Baschet, 1884, Paris, Musée d’Orsay
1. Claude Debussy tra letteratura, pittura e musica
“J’aime les images presque autant que la musique”.
Claude Debussy, da una lettera a Edgar Varèse
Come Gauguin amava e apprezzava l’arte orientale (nelle sue lettere e negli scritti compare
non di rado il nome del grande pittore giapponese Hokusai), così Debussy ebbe modo di apprezzare
(durante l’Esposizione Universale di Parigi del 1889) la delicatezza del contrappunto ritmico
dell’orchestra Gamelan dell’isola di Giava1. Del fascino esercitato sul grande compositore francese
da questo caratteristico organico strumentale è lui stesso ad informarci. Citando Tiersot che ne
aveva lasciato una testimonianza, Edward Lockspeiser ricorda così la formazione caratteristica di
questo organico strumentale orientale: “un gong appeso al muro; due specie di tamburi; uno
strumento ad arco chiamato dong-cô con due corde tese in una strana maniera; una specie di oboe
detto song-hi con otto buchi; un flauto con l’imboccatura posta a metà dello strumento, ed un altro
strumento detto lion. Il song-hi emette suoni duri e stridenti. Sull’altro lato della scena si trova un
enorme strumento a percussione, una specie di grancassa, sulla quale un sesto suonatore batte
furiosamente.”
Meriterebbe un capitolo a parte la trattazione dei rapporti di Debussy con la pittura, il suo
interesse per Turner, Monet, per la pittura giapponese2. Le incisioni e le pitture di Katsushika
Hokusai e Ando Hiroshige non hanno avuto influenza soltanto su Degas, Van Gogh, Gauguin ma
anche su di lui. Debussy era affascinato dalle suggestioni delle incisioni di paesaggi e di marine
giapponesi con i loro effetti di luce, le forme appiattite e disegnate di profilo, in controluce, senza
ombre: tutti elementi che gli Impressionisti terranno indubbiamente presenti. Ed è significativo che
il grande compositore francese avesse desiderato riprodurre come copertina della sua partitura
d’orchestra per La mer un particolare della celebre incisione di Hokusai3, Le Creux de la vague au
large de Kanagawa, che faceva parte della serie delle trentasei vedute del monte Fuji. Questo
grande maestro dell’arte giapponese ha influenzato enormemente l’arte occidentale della seconda
metà dell’Ottocento e del primo Novecento. Non soltanto la cultura giapponese si può rintracciare
nelle relazioni così esplicite tra l’arte giapponese e i maestri dell’Impressionismo e del Simbolismo
(Monet, van Gogh e lo stesso Gauguin), ma anche in alcune memorabili pagine del capolavoro di
Proust4:
“ Et comme dans ce jeu où les Japonais s’amusent à tremper dans un bol de porcelaine rempli d’eau,
de petits morceaux de papier jusque-là indistincts qui, à peine y sont-ils plongés, s’étirent, se contournent, se
différencient, devienne des fleurs, des maisons, des personnages consistants et reconaissables, de même
maintenant toutes les fleurs de notre jardin et celles du parc de M. Swann, et les nymphéas de la Vivonne, et
les bonnes gens du villane et leurs petits logis et l’église et tout Combray et ses environs, tout cela prend
forme et solidité, est sorti, ville et jardins, de ma tasse de thé.”
1
E. Lockspeiser, Debussy, Milano, Rusconi, 1983, p. 146.
Per i rapporti con alcune fondamentali linee culturali dell’epoca, cfr. S. Jarocinsky, Debussy. Impressionismo e
simbolismo, prefazione di V. Jankélévitch, Fiesole, Discanto, 1980 e F. Lesure, Debussy. Gli anni del Simbolismo,
Torino, EDT, 1994 (in part. pp. 162 e sgg, e pp. 184 e sgg.).
3
Sul quale vedi H. Focillon, Hokusai, trad. di G. Guglielmi, Milano, Abscondita, 2003.
4
Impossibile non ricordare nel Du côté de chez Swann, primo volume della Recherche, l’immagine rievocata dal
narratore allorché – dopo aver intinto nell’infuso di tiglio la petite madeleine – per effetto della memoria involontaria
che sola può restituirci casualmente il passato – sente riaffiorare il sé quanto credeva perduto per sempre.
2
Fig. 60 K. Hokusai, Le Creux de la vague au large de Kanagawa
Osserviamo, inoltre, che tra il 1895 e il 1902 apparvero diversi studi in Francia nei quali
veniva sostenuta l’esistenza di strette affinità tra colore e suono5. Così Paul Souriau poteva, ad
esempio, osservare: “Nel descriverci un quadro, i critici d’arte parlano di rossi selvaggi, di verdi
striduli, di blu che cantano, d’una stonata nota di giallo, di armonie cromatiche e di dissonanze. In
compenso una sinfonia ci è descritta con termini che appartengono alla pittura: la linea melodica si
colora di sfumature diverse… i tre colori degli strumenti a fiato nel registro acuto si combinano
armoniosamente. In alto c’è l’azzurro luminoso dei flauti, al centro il rosso vivo degli oboi, in basso
le tonalità calde e tendenti al marrone del clarinetto…”. E un altro critico, Lucien Favre, poteva
vedere nella pittura una sorta di musica statica: “La pittura è, se si vuole, una musica di colori
immobili, una musica morta che però è di già una specie di musica”6.
Come Gauguin rinnovava profondamente lo spazio pittorico e le sue ‘armonie’ di colori,
così Debussy trasformava profondamente lo spazio musicale e i ‘colori’ delle sue armonie. Mentre
Gauguin si liberava dai vincoli del disegno delle rappresentazioni del paesaggio tradizionale,
Debussy si liberava dai vincoli del sistema tonale e dei modelli teorici di scala maggiore e minore
per aprire nuovi ‘paesaggi’ di ascolto attraverso l’utilizzo di scale arcaiche (modali) di tradizione
medievale, di scale difettive (di cinque o sei suoni) di tradizione orientale o ispirate alla tradizione
orientale: non solo l’uso della scala cromatica a dodici suoni, quindi, o il cromatismo di Wagner
6
E. Lockspeiser, Debussy cit., p. 277.
ma anche suggestioni esotiche, l’uso di accordi che non sottostanno più alle regole della
tradizionale “armonia funzionale” ma che seguono percorsi imprevedibili e indipendenti7.
Si può cogliere una sottile affinità, ci sembra, tra il modo di pensare di Gauguin e quello di
Debussy in espressioni e dichiarazioni di ‘poetica’. Gauguin avverte fortemente l’esigenza di una
completa libertà espressiva (“Come vedete questi alberi? Sono gialli. Bene, mettete del giallo:
queste ombre, sono blu, dipingetele di oltremare puro; queste foglie rosse? Mettete del
vermiglione.”. Debussy non gli è da meno quando, in un colloquio con il suo maestro Guiraud,
sente di dover utilizzare la successione degli accordi in modo altrettanto libero dai vincoli
tradizionali.
Debussy fu legato da rapporti di amicizia e di stima reciproca con Mallarmé dal quale ebbe
l’assenso a comporre una musica di scena intitolata Prélude, interlude et paraphrase finale pour
l’après-midi d’un faune: soltanto il celebre Prélude verrà tuttavia terminato nel mese di settembre
del 1894, con dedica a Raymond Bonheur. Fu il primo grande successo di Debussy, bissato
calorosamente la sera della sua prima esecuzione a Parigi, il 22 dicembre dello stesso anno durante
un concerto diretto da Gustave Doret alla Société Nazionale. Debussy definì questa sua
composizione come “una serie di scenari attraverso i quali si muovono i desideri e i sogni del Fauno
nella calura del pomeriggio. Poi, stanco di inseguire le ninfe e le naiadi che timorose si sono date
alla fuga, si abbandona al sole inebriante, colmo di sogni finalmente realizzati, d’un senso di
possesso totale nella totalità panica della natura”8. Nel Prélude à l’après-midi d’un faune affiorano
sì alcune tracce del “tematismo” tradizionale (la melodia del flauto, che ritorna spesso nel corso
della composizione, svolge una vera e propria funzione di motivo ricorrente e perciò di idea
tematica), troviamo sì tracce di suddivisione formale in tre zone con due episodi estremi ed uno
centrale), ma al contempo chiarezza e partizione formale vengono continuamente occultate e
sfumate. Motivi ed episodi diversi (emergenti senza regolarità prevedibili) si intrecciano con l’idea
principale e la stessa divisione in tre parti viene continuamente messa in discussione da
caratteristiche sonore che, anziché rafforzarla, contribuiscono a suscitare nell’ascoltatore il dubbio
di ulteriori possibili suddivisioni formali. Osserviamo inoltre che le immagini sonore di Debussy, al
pari di quelle verbali dei poeti e di quelle visive di alcuni pittori del suo tempo, si riallacciano alle
poetiche simboliste secondo le quali l’immagine artistica non dovrebbe tanto imitare o riflettere le
apparenze del mondo comune e reale quanto, piuttosto, rinviare ad una dimensione maggiormente
elusiva, indeterminata. E, indeterminata, misteriosa, mai esattamente verificabile, rimarrà sempre e
comunque – come Debussy riteneva – la “ beauté d’une œuvre d’art”9.
9
Claude Debussy, “S.I.M.”, 15 février 1913: “Soutenons que la beauté d’une œuvre d’art restera toujours mystérieuse,
c’est-à-dire qu’on ne pourra jamais exactement vérifier ‘comment cela est fait”’.
L’après-midi d’un faune (Stéphane Mallarmé)
Églogue
Le Faune
Ces nymphes, je les veux perpétuer.
Si clair,
Leur incarnat léger, qu'il voltige dans l'air
Assoupi de sommeils touffus.
Aimai-je un rêve ?
Mon doute, amas de nuit ancienne, s'achève
En maint rameau subtil, qui, demeuré les vrais
Bois même, prouve, hélas! que bien seul je m'offrais
Pour triomphe la faute idéale de roses.
Réfléchissons...
ou si les femmes dont tu gloses
Figurent un souhait de tes sens fabuleux !
Faune, l'illusion s'échappe des yeux bleus
Et froids, comme une source en pleurs, de la plus chaste :
Mais, l'autre tout soupirs, dis-tu qu'elle contraste
Comme brise du jour chaude dans ta toison ?
Que non! par l'immobile et lasse pâmoison
Suffoquant de chaleurs le matin frais s'il lutte,
Ne murmure point d'eau que ne verse ma flûte
Au bosquet arrosé d'accords; et le seul vent
Hors des deux tuyaux prompt à s'exhaler avant
Qu'il disperse le son dans une pluie aride,
C'est, à l'horizon pas remué d'une ride
Le visible et serein souffle artificiel
De l'inspiration, qui regagne le ciel.
O bords siciliens d'un calme marécage
Qu'à l'envi de soleils ma vanité saccage
Tacite sous les fleurs d'étincelles, CONTEZ
“Que je coupais ici les creux roseaux domptés
“Par le talent; quand, sur l'or glauque de lointaines
“Verdures dédiant leur vigne à des fontaines,
“Ondoie une blancheur animale au repos :
“Et qu'au prélude lent où naissent les pipeaux
“Ce vol de cygnes, non! de naïades se sauve
“Ou plonge...
Inerte, tout brûle dans l'heure fauve
Sans marquer par quel art ensemble détala
Trop d'hymen souhaité de qui cherche le la :
Alors m'éveillerai-je à la ferveur première,
Droit et seul, sous un flot antique de lumière,
Lys! et l'un de vous tous pour l'ingénuité.
Autre que ce doux rien par leur lèvre ébruité,
Le baiser, qui tout bas des perfides assure,
Mon sein, vierge de preuve, atteste une morsure
Mystérieuse, due à quelque auguste dent ;
Mais, bast! arcane tel élut pour confident
Le jonc vaste et jumeau dont sous l'azur on joue :
Qui, détournant à soi le trouble de la joue,
Rêve, dans un solo long, que nous amusions
La beauté d'alentour par des confusions
Fausses entre elle-même et notre chant crédule ;
Et de faire aussi haut que l'amour se module
Évanouir du songe ordinaire de dos
Ou de flanc pur suivis avec mes regards clos,
Une sonore, vaine et monotone ligne.
Tâche donc, instrument des fuites, ô maligne
Syrinx, de refleurir aux lacs où tu m'attends !
Moi, de ma rumeur fier, je vais parler longtemps
Des déesses; et par d'idolâtres peintures
À leur ombre enlever encore des ceintures :
Ainsi, quand des raisins j'ai sucé la clarté,
Pour bannir un regret par ma feinte écarté,
Rieur, j'élève au ciel d'été la grappe vide
Et, soufflant dans ses peaux lumineuses, avide
D'ivresse, jusqu'au soir je regarde au travers.
O nymphes, regonflons des SOUVENIRS divers.
“Mon oeil, trouant les joncs, dardait chaque encolure
“Immortelle, qui noie en l'onde sa brûlure
“Avec un cri de rage au ciel de la forêt ;
“Et le splendide bain de cheveux disparaît
“Dans les clartés et les frissons, ô pierreries !
“J'accours; quand, à mes pieds, s'entrejoignent (meurtries
“De la langueur goûtée à ce mal d'être deux)
“Des dormeuses parmi leurs seuls bras hasardeux ;
“Je les ravis, sans les désenlacer, et vole
“À ce massif, haï par l'ombrage frivole,
“De roses tarissant tout parfum au soleil,
“Où notre ébat au jour consumé soit pareil.
Je t'adore, courroux des vierges, ô délice
Farouche du sacré fardeau nu qui se glisse
Pour fuir ma lèvre en feu buvant, comme un éclair
Tressaille ! la frayeur secrète de la chair :
Des pieds de l'inhumaine au coeur de la timide
Qui délaisse à la fois une innocence, humide
De larmes folles ou de moins tristes vapeurs.
“Mon crime, c'est d'avoir, gai de vaincre ces peurs
“Traîtresses, divisé la touffe échevelée
“De baisers que les dieux gardaient si bien mêlée :
“Car, à peine j'allais cacher un rire ardent
“Sous les replis heureux d'une seule (gardant
“Par un doigt simple, afin que sa candeur de plume
“Se teignît à l'émoi de sa soeur qui s'allume,
“La petite, naïve et ne rougissant pas:)
“Que de mes bras, défaits par de vagues trépas,
“Cette proie, à jamais ingrate se délivre
“Sans pitié du sanglot dont j'étais encore ivre.”
Tant pis ! vers le bonheur d'autres m'entraîneront
Par leur tresse nouée aux cornes de mon front :
Tu sais, ma passion, que, pourpre et déjà mûre,
Chaque grenade éclate et d'abeilles murmure ;
Et notre sang, épris de qui le va saisir,
Coule pour tout l'essaim éternel du désir.
À l'heure où ce bois d'or et de cendres se teinte
Une fête s'exalte en la feuillée éteinte :
Etna ! c'est parmi toi visité de Vénus
Sur ta lave posant tes talons ingénus,
Quand tonne une somme triste ou s'épuise la flamme.
Je tiens la reine !
O sûr châtiment...
Non, mais l'âme
De paroles vacante et ce corps alourdi
Tard succombent au fier silence de midi :
Sans plus il faut dormir en l'oubli du blasphème,
Sur le sable altéré gisant et comme j'aime
Ouvrir ma bouche à l'astre efficace des vins !
Couple, adieu ; je vais voir l'ombre que tu devins.
Per questo celebre poema di Mallarmé Debussy previde un organico costituito da 3 flauti, 2
oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 arpe, crotali, archi. La composizione
orchestrale, che lo aveva impegnato tra il 1891 e il 1894, è dedicata a Raymond Bonheur. Il
Prélude, nella tonalità di Mi maggiore, venne eseguito a Parigi il 22 dicembre 1894, presso La
Société National de Musique e venne perfino bissato. L’editore Fromont pubblicò la partitura a
Parigi nel 1895. La composizione, che prende avvio con una melodia eseguita dal solo flauto
traverso, senza alcun accompagnamento orchestrale o di altri strumenti, appare dispiegarsi su di una
imprecisa area tonale. Jankélévitch10, come sempre acuto interprete del compositore, l’avvertiva
come così carica di “voluttà da divenire angosciante”. La nitidezza dei contorni delle tre diverse
sezioni appare continuamente messa in discussione dalla fluidità del procedimento adottato da
Debussy che avvolge il testo musicale disseminando qua e là analogie e allusioni, associazioni,
reminiscenze armoniche e timbriche che sorgono da una nuova logica compositiva che vuole
opporsi al tradizionale schema dell’ elaborazione motivico-tematica così congeniale ai compositori
di area austro-tedesca11. Gli accordi di quinta e di quarta e sesta che si succedono verso la
conclusione del Prélude offrono al corno i ‘punti’ di una melodia cromatica misteriosa che giunge
poi ad aprirsi sulla mediante e dominante. Altrettanto ‘misteriosa’ l’atmosfera creata dalla
successione armonica seguente che giustappone le tonalità di Fa diesis maggiore, La minore e Re
maggiore.
La cultura e la sensibilità letteraria di Debussy erano tali da sollecitarlo ad immaginarsi la
realizzazione di oltre quaranta progetti di musiche per il teatro, come hanno dimostrato le ricerche
di Robert Orledge12. La nascita del teatro simbolista in Francia può essere fissata con la fondazione
del Théâtre d’Art (1890), grazie al poeta Paul Fort, anche se il padre del simbolismo, Stéphane
10
V. Jankélévitch, Debussy e il mistero cit., p. 72: “[…] è il cosmogonico Eros che ci parla attraverso la voce bucolica
del flauto – e ben si sa in quale maniera Nijnskij, mimando il “coito con il Niente”, infondesse al pubblico dei balletti
russi questa angoscia meridiana, questo panico canicolare, questa disperazione afrodisiaca.”
11
Il riferimento d’obbligo, ovviamente, è a Haydn, Mozart e Beethoven per il Settecento e per l’Ottocento; a Wagner,
Mahler e Schoenberg, tra i molti, per l’Ottocento e il Novecento.
12
R. Orledge, Debussy and The Theatre, Cambridge, 1982. Cfr. anche J. Maehder, A la recherche d’un Pelléas. Studi
sull’estetica drammatico-musicale di Claude Debussy, in Claude Debussy. Pelléas et Mélisande. Le Marthyre de SaintSébastien, Gran Teatro La Fenice cit., pp. 145-160.
Mallarmé, ha scritto testi in cui più che l’azione drammatica, più che la dinamica della
rappresentazione scenica, è la parola poetica a dominare l’azione. Maeterlinck negava uno sviluppo
psicologico ai personaggi dei suoi drammi, soggetti come li vedeva a subire i colpi del destino del
quale il dramma nulla avrebbe potuto spiegare: “étrange et silencieuse tragédie de l’être et de
l’immensité”13. Anche Debussy, mentre stava lavorando al dramma Axël (1890) di Villiers de l’IsleAdam, soltanto abbozzato, si riconosceva in un’estetica teatrale nella quale l’intreccio e i caratteri
dei personaggi gli sembravano del tutto secondari: il ‘pezzo’ in se stesso gli appariva soltanto “le
voile”, il velo della causa, che era di tutt’altra natura.
13
J. Maedher, in A la recherche d’un Pelléas cit., p. 147 ricorda che nei saggi di Maeterlinck si trovano epressioni come
questa che abbiamo riportato.
Fig. 61 La prima pagina della partitura del Prélude à l’après-midi d’un faune (1894) di
Claude Debussy
2. Pelléas et Mélisande
“[…] et il faut dire tout cela avec do, ré, mi, fa, sol, la, si, do. Quel métier!”.
Claude Debussy
In questo senso, la sua opera lirica Pelléas et Mélisande composta tra il 1893 e il 1902 su
testo del maggiore esponente del teatro simbolista, lo scrittore belga Maurice Maeterlinck,14
costituisce una fondamentale testimonianza. Ai suoi testi si ispirarono altri celebri musicisti quali G.
Fauré, P. Dukas, A. Schoenberg, J. Sibelius, G. Puccini, Cyril Scott, A. Zemlinsky. Il lavoro teatrale
di Maeterlinck presentava notevoli elementi innovativi per quanto riguarda la tematica, la
scenografia, le figure dei personaggi, il simbolismo fortemente allusivo. Mallarmé ne aveva tessuto
le lodi, nel 1893, sottolineando che in quell’arte tutto diveniva musica e che anche un solo
strumento come il violino avrebbe nociuto.15 La versione teatrale in prosa comprendeva diciannove
scene e quindi corrispondenti fondali (considerando che l’appartamento nel castello viene
riproposto cinque volte16. La scelta dei colori che dominavano le scene era stata effettuata con molta
cura: s’imponevano il blu scuro, il color malva, l’arancio e varie tonalità di verde (verde-muschio,
verde-acqua, verde-luna). Il fogliame della foresta appariva folto e sinuoso; il castello veniva
avvolto nelle brume, in una dimensione di sogno, evanescente, per soddisfare la richiesta di
imprecisione voluta dallo scrittore. Vi erano, insomma, tutti gli ‘ingredienti’ per affascinare
Debussy, per soddisfare la sua stessa richiesta di imprecisione nelle cose dell’arte, la sua
propensione all’allusività, al suggerire più che dire. Espressioni come quelle che segnaleremo di
seguito dal testo di Maeterlinck devono aver esercitato un impatto notevole sulla sensibilità del
compositore17. Dopo aver concesso l’autorizzazione a mettere in musica il suo dramma, tuttavia, lo
scrittore si distaccò dal compositore, attribuendo tanto a lui quanto al direttore dell’Opéra-Comique
Albert Carré la responsabilità di aver tradito il suo dramma, averlo reso a lui estraneo e quasi
nemico18. Che tutto sia da imputare alla scelta di attribuire il ruolo di Mélisande da parte di Carré e
di Debussy alla cantante Mary Garden invece che a Georgette Leblanc (preferita dal drammaturgo),
come si è spesso scritto, ci pare francamente non corrispondente al vero. Sembra più verosimile,
invece, che i tagli accordati inizialmente siano stati ritenuti in seguito da Maeterlinck responsabili di
uno sconvolgimento che non aveva evidentemente calcolato inizialmente. Ma diversi anni dopo la
morte del compositore, Maeterlinck avrebbe espresso all’opposto tutta la sua ammirazione per la
musica di Debussy19. Sembra che la sola volta20 in cui lo scrittore ebbe modo di ascoltare l’opera di
Debussy sia stata nel 1927 quando al Metropolitan Opera House di New York fu rappresentato il
primo atto, una versione in ogni caso assai incompleta, quindi.
Tra le particolarità della partitura di Debussy, va annoverata anche la scelta di comporre
mantenendo la struttura formale e metrica in prosa del dramma, contribuendo così alla
trasformazione del ruolo svolto dal libretto nel teatro lirico. Non era una novità assoluta in realtà, in
14
F. C. Ricci, Il Pelléas et Mélisande di Debussy tra Simbolismo e Impressionismo, Bari, Adriatica Editrice, 1974 (in
particolare pp. 119-146); C. Migliaccio, Invito all’ascolto di Debussy, Milano, Mursia, 1997, pp. 115-132; P. Rapetto, Il
sogno di Pan. Saggio su Debussy, Genova, Il Melangolo, 2000, pp. 73-84.
15
Maurice Maeterlinck, Pelléas e Mélisande, traduzione di G. Davico Bonino, Commento musicologico di E. Girardi,
Milano, Feltrinelli, 1993, p. 18 (la testimonianza di Mallarmé apparve il 1° luglio del 1893 sul “National Observer”).
16
Cfr. Ivi, pp. 20 e sgg. per ulteriori ragguagli.
17
I riferimenti agli atti e alle scene, nonché alla numerazione delle pagine che indichiamo, sono tratti dalla trad. it.
Feltrinelli cit.: Maurice Maeterlinck, Pelléas e Mélisande cit.
18
Frasi simili si possono leggere qua e là tra le righe di alcune lettere presentate da R. Peter, Claude Debussy. Editions
augmentée de plusieurs chapitres et de lettres inédites de Claude Debussy, Paris, Gallimard, 1944, pp. 175-176.
19
J. Risset, “Ce n’est pas une rose” cit., p. 275.
20
Cfr. la nota 4 di p. 137 in O. Thompson, Debussy Man and Artist, New York, Dover Publications, 1965.
quanto compositori russi come Alexander Dargomyzhsky e Modest Musorgskij, tra il 1866 e il
1869, avevano dato origine alla creazione del nuovo genere della “Literaturoper”. Pelléas et
Mélisande, con la sua intonazione del testo in prosa, ha preceduto in questo senso opere successive
e importanti quali Salomè (1905, da Oscar Wilde) di Richard Straus; Parisina (1913, da Gabriele
d’Annunzio) di Pietro Mascagni; Francesca da Rimini (1914, ancora da D’Annunzio) di Riccardo
Zandonai; Wozzeck di Alban Berg, (1925, da Georg Büchner), per citare qualche titolo dei primi
decenni del Novecento. Allontanandosi quindi dalla tradizione del canto spiegato, Debussy tendeva
sempre più con il suo recitativo, con la sua declamazione rispettosa della lingua francese, a dare
respiro all’invisibile e all’inesprimibile. In questa scelta appare evidente la sua ricerca di andare
oltre il teatro d’opera tradizionale o anche a lui contemporaneo che relegava in secondo piano la
poesia.
Il dramma di Maeterlinck presenta diversi simboli associati a cose e luoghi che non possono
indicare esclusivamente ciò che essi rappresentano, carichi come sono di rimandi più o meno
chiaramente interpretabili. Così è difficile, se non impossibile nella vicenda creata dallo scrittore,
pensare che l’acqua sia soltanto l’elemento materiale della vita di tutti i giorni; il pozzo in cui cade
l’anello di Mélisande sembra alludere all’inconscio; la fontana dei ciechi sembrerebbe evocare
l’impossibilità dell’uomo di poter vedere chiaramente, e comprendere, il proprio destino e così via.
Debussy ha dato ‘voce’ a questi simboli, con note, accordi, timbri diversi e anche silenzi che
avvolgono efficacemente di ulteriore mistero, ci sembra, la narrazione teatrale. Così, per fare solo
qualche esempio en passant, in una partitura21 in cui abbondano prevalentemente i p e i pp e i più
che pp, è per mezzo dei suoni cupi dei contrabbassi divisi in due, ai violoncelli “en sourdine” e tre
fagotti in ritmo di 4/4 “Très modéré” che veniamo introdotti dalle prime battute nel clima
misterioso della foresta, seguiti alla batt. 5 dal timbro più aspro dei due clarinetti in sib, del corno
inglese e da altri due oboi, sempre tutti in pp, come in pp li raggiungono le viole “très expressif”, e
poi i tre flauti e i timbales, e i violini fino alla diciannovesima battuta quando si apre il sipario (p. 4,
cifra 1) e poi altre quattro battute in “molto diminuendo”, lasciando i soli violoncelli divisi in due a
sostenere l’entrata di Golaud, perdutosi nella foresta. Le sue parole (“Je ne pourrais plus sortir de
cette forêt”) vengono pronunciate con un recitativo che insiste sulla nota re (successione di
biscrome, poi di terzine di semiminime e crome), infine di una sola nota più lunga (un sib di
minima, sostenuto da terzine di violoncelli divisi e in sordina), i contrabbassi in pp ancora con
successioni di terzine come a riflettere lo stato d’animo del principe. Mentre i fagotti producono
singole note al grave, i clarinetti pure in sordina, realizzano alcuni espressivi bicordi (p. 5, cifra 3).
Tutto ciò per creare un clima espressivo ombroso à la Musorgskij, che ricorda un po’, pur con altri
mezzi, il cupo preludio del Boris Godunov, una partitura che Debussy conosceva molto bene e che
apprezzava molto. Ma altrettanto magistrali sono le scelte estetiche del compositore in contesti
diametralmente opposti. Così, mentre i passi dei due fratelli sono simboleggiati dal pizzicato dei
violoncelli e dei contrabbassi, la scelta delle arpe appare perfetta (Atto terzo, Scena II, p. 193, cifra
31) quando appaiono dopo l’uscita di Golaud e del fratellastro Pelléas dai sotterranei del castello. I
loro arpeggi continuano (Atto III, Scena III, p. 199: Une terrasse au sortir des souterrains)
sembrano rinviare al senso di liberazione provato da Pelléas (“Ah! Ah! je respire enfin”, p. 220) e al
vento fresco che egli ora può respirare (p. 203). Molti sarebbero gli esempi da riportare non solo per
come ha utilizzato gli strumenti e le voci, in senso timbrico ed espressivo non meno del suo uso del
silenzio. Quando deve dare rilievo a qualche frase o singolo termine allora la musica tace.
Tra le varie letture, più o meno suggestive o descrittive del dramma, si può annoverare
almeno di sfuggita una lettura psicologica dei personaggi22.
21
I numeri tra parentesi nel nostro testo corrispondono alla numerazione della partitura di Pelléas et Mélisande della
edizione Dover cit.
22
Ma per gli esiti di questa interpretazione non posso qui che rinviare all’autrice: C. Maurer Zenck, Pelléas et
Mélisande. Il dramma di Maeterlinck e l’opera di Debussy. Uno studio sul fin-de-siècle nel vol. “I consigli del vento
che passa”. Studi su Debussy, Milano, Edizioni Unicopli, Convegno Internazionale Milano, Teatro alla Scala 2-4
Vediamo ora qui di seguito alcuni passaggi nel testo di Maeterlinck che mi sembrano
particolarmente interessanti per coglierne alcuni elementi essenziali e di particolare rilevanza sul
piano poetico. Credo che Debussy debba averli trovati particolarmente suggestivi ed emozionanti
sul piano umano e nelle loro possibili ‘traduzioni’ in musica, nonostante alcune scene e frasi siano
state da lui stesso eliminate. Eliminata, stranamente, anche la canzone di Mélisande, di cui invece
Gabriel Fauré fece una bella versione23, inserita nella sua op. 80.
Atto primo, Scena prima: La porta del castello (pp. 45-46). Alle grida delle serve (dall’interno),
“Aprite la porta! Aprite la porta!” il portinaio risponde “[…] uscite dalle piccole porte; ve ne sono
molte!...(p. 45); Tutte le serve compaiono sulla soglia e la sorpassano. – Scena seconda. Una
foresta. Si scorge Mélisande sul bordo di una fontana. – Entra Golaud. Scena terza: Una sala nel
castello. Si scorgono Arkël e Geneviève. ARKËL. “Sono molto vecchio, eppure non ho ancora visto
chiaro, neppure per un istante, dentro di me: come volete che giudichi quel che altri hanno fatto?
Sono prossimo a morire, e non riesco neanche a giudicare me stesso… Ci si inganna sempre quando
non si chiudono gli occhi per perdonare o per meglio guardare in se stessi. […] Ciò ci sembra
strano, perché non vediamo mai altro che il rovescio dei destini…persino il rovescio del nostro…”
(p. 49); Entra Pelléas. Scena quarta: Davanti al castello. Entrano Geneviève e Mélisande.
GENEVIÈVE: “Anche noi cerchiamo la luce”.
Atto secondo, Scena prima: Una fontana nel parco. Entrano Pelléas e Mélisande MÈLISANDE:
“Ora mi sdraierò sul marmo. – Vorrei vedere il fondo dell’acqua”. – PELLÉAS: “Nessuno l’ha mai
veduto”. Scena seconda: Un appartamento nel castello. Si scorge Golaud steso sul suo letto;
Mélisande è al suo capezzale MÉLISANDE: “…non si vede mai il cielo limpido”. (p. 57) Scena
terza: Davanti ad una grotta Entrano Pelléas e Mélisande. PELLÉAS: “Vi sono stalattiti che
assomigliano a piante e a uomini. È piena di tenebre turchine. (p. 59) Scena quarta Un
appartamento nel castello. Si scorgono Arkël e Pelléas
Atto terzo, Scena prima: Un appartamento nel castello. Si scorgono Pelléas e Mélisande.
Mélisande fila la sua canocchia in fondo alla sala Mélisande (cantando a mezza voce, mentre fila)
San Daniele e San Michele
San Michele e San Raffaele
[je suis née un dimanche,
un dimanche à midi.]
Questo è il testo che Debussy24 ha utilizzato per far intonare a Mélisande una breve canzone di
sapore medievaleggiante, sostenuta da un lieve accompagnamento orchestrale (i due versi tra
parentesi quadre - assenti nel testo di Maeterlinck nella traduzione italiana cit. - sono invece
presenti nella versione del compositore).
giugno 1986, Atti a cura di P. Petazzi, pp.223-272. Nello stesso vol., vedi anche J. Risset, “Ce n’est pas une rose”.
Debussy e Maeterlinck, pp. 273-279 e D. Grayson, Il “Pelléas “autentico”, pp. 281-307.
23
Pelléas et Mélisande, Musique de scène comprende: I. Prélude. Quasi Adagio; II. Fileuse. Andantino quasi Allegretto
Chanson de Mélisande; III Sicilienne. Allegretto molto moderato; IV. Molto Adagio (La Mort de Mélisande). Rimaste
inedite inizialmente, le musiche di scena di Fauré furono rappresentate a Londra in inglese nel 1898, senza l’esecuzione
della Chanson de Mélisande, né apparve nella suite per orchestra pubblicata nel 1901 dall’editore Hamelle e che il
compositore dedicò alla principessa di Polignac.
24
Pelléas et Mélisande, ed. Dover cit., Scène I “Un des tours du château. Un chemin de ronde passe sous une fenêtre de
la tour”, pp. 151 sgg: “MÉLISANDE à la fenêtre tandis que’elle peigne ses cheveux dénoués” : solo cinque battute per
mettere in musica i quattro versi del poeta e che tuttavia, aprono ad una dimensione lirica contenuta che si allontana
dagli onnipresenti recitativi su cui l’opera si era stagliata fino a questo momento e sui quali continuerà a svilupparsi.
Qui, nella tonalità con un diesis in chiave di Mi minore, il canto si eleva discretamente.
Scena seconda
Una delle torri del castello. Un cammino di ronda passa sotto una finestra della torre
Mélisande (alla finestra, mentre si pettina i capelli sciolti)
Le tre sorelle cieche,
(speriamo ancora).
Le tre sorelle cieche,
hanno le loro lampade d’oro.
Salgono sulla torre,
(loro, voi e noi).
Salgono sulla torre,
aspettano sette giorni.
Ah! La prima dice,
(speriamo ancora).
Ah la prima dice,
sento le nostre luci.
Ah! la seconda dice,
(loro, voi e noi).
Ah! la seconda dice,
è il re che sale.
No, la più santa dice,
(speriamo ancora).
No, la più santa dice,
le luci si sono spente. (pp. 65-66)
Entrano. Pelléas sul cammino di ronda. Mélisande si sporge dalla finestra. MÉLISANDE: “ Vedo
una rosa nelle tenebre” Mentre si sporge, la sua chioma d’un tratto si sgroviglia e inonda Pelléas
Alcune colombe escono dalla torre e volano intorno a loro nella notte. Entra Golaud sul cammino
di ronda Scena terza I sotterranei del castello. Entrano Golaud e Pélleas GOLAUD: “Ebbene, ecco
l’acqua stagnante di cui vi parlavo…Sentite l’odore di morte che sale? […] C’è qui un lavorìo
segreto che non si può nemmeno supporre […] Vedete il baratro? Scena quarta: Una terrazza
all’uscita dei sotterranei Entrano Golaud e Pelléas PELLÉAS: “[…] C’è la sotto un’aria umida e
pesante come una rugiada di piombo, e tenebre spesse come un pastone avvelenato” (p. 70) Scena
quinta: Davanti al castello Entrano Golaud e il piccolo Yniold GOLAUD: “Me ne sto qui come un
cieco che cerca il suo tesoro in fondo all’oceano!...Me ne sto qui come un neonato perduto nella
foresta […]” (p. 73)
Atto quarto: Scena prima Un corridoio nel castello Entrano e s’incontrano Pelléas e Mélisande
PELLÉAS: “Esco dalla camera di mio padre […]” ‘Sei tu, Pelléas? Guarda, guarda, non l’avevo
mai notato, ma hai il viso serio e affabile di quelli che non vivranno a lungo…Bisogna viaggiare;
bisogna viaggiare…” (p. 77) Scena seconda Un appartamento nel castello. Si scorgono Arkël e
Mélisande ARKËL: “[…] i vecchi hanno bisogno di toccare con le loro labbra la fronte d’una donna
o una guancia d’un bambino, per credere ancora alla freschezza della vita, e allontanare per un
istante le minacce della morte […] Lasciati guardare così, da vicino, un momento… si ha un tale
bisogno di bellezza nei paraggi della morte .” (p. 79) Alle parole di Mélisande che grida la propria
infelicità, il vecchio risponde “Se fossi Dio, avrei pietà del cuore degli uomini…” Scena terza: Una
terrazza del castello Si scorge il piccolo Yniold che cerca di sollevare un blocco di roccia. Scena
quarta: Una fontana nel parco Entra Pelléas PELLÉAS: “Ho giocato in sogno con le insidie del
destino […] E tutti questi ricordi …è come se portassi via un po’ di acqua in un otre di
mussola…Bisogna che la veda un’ultima volta, fino in fondo al cuore…Bisogna che le dica tutto
ciò che non ho detto…” (p. 83) Entra Mélisande MÉLISANDE: “Sì, sì; sono felice, ma sono
triste…”, PELLÉAS “Si è tristi, spesso, quando si ama…[…] Sei tanto bella che sembra tu stia per
morire…[…] Ci sono tante cose che non si sapranno mai…Aspettiamo sempre; e poi…[…]Tutto è
perduto, tutto è salvato! Tutto è salvato stasera!” (p. 85)
Atto quinto, Scena prima: Una sala bassa nel castello. Si scorgono le serve riunite, mentre fuori
alcuni bambini giocano davanti a una delle finestrine alte della sala LA VECCHIA SERVA
Quando la sventura s’annida in casa, potete tacere quanto vi pare (p. 91) Scena seconda Un
appartamento nel castello. Si scorgono Arkel, Golaud e il medico in un angolo della camera.
Mélisande è distesa sul suo letto. IL MEDICO: “È nata senza ragione…per morire; e muore senza
ragione…” (p. 93) […] ARKËL: “L’anima umana è molto silenziosa…L’anima umana ama
andarsene da sola…Soffre così timidamente […]”.
La penultima didascalia teatrale che Maeterlinck aveva preparato per il suo dramma reca questa
indicazione: In questo momento, tutte le serve cadono all’improvviso in ginocchio in fondo alla
camera.
E dobbiamo immaginarlo l’impatto, il forte impatto emotivo che chi aveva visto il suo
dramma deve aver provato alla vista di quell’atto di pietà delle serve all’ascolto delle ultime parole,
quelle pronunciate dal vecchio ARKËL: “[…] Era un piccolo essere così tranquillo, così timido e
così silenzioso…Era un povero piccolo essere misterioso come tutti. Lei è là, come se fosse la
sorella maggiore della sua creatura..[…] Bisogna che viva, ora, al suo posto…È il turno della
povera piccola. (escono in silenzio)” (p. 97)25.
Tutto è finito, quindi, ma anche tutto ricomincia, nell’incessante e disperato ‘gioco’ delle vite
che si affacciano, scompaiono e, dando la vita stessa, rinnovano l’Eterno movimento dell’esistenza
dei piccoli esseri misteriosi, misteriosi “come tutti”.
Debussy aveva apportato di sua scelta alcuni cambiamenti: aveva tagliato la prima scena del
primo atto e la prima scena dell’ultimo atto, che nell’originale versione di Maurice Maeterlinck
prevedevano invece l’apparizione delle serve, il cui ruolo ci sembra svolgere la funzione del coro
nelle tragedie greche o nelle monumentali Passioni di J. S. Bach. Il compositore si era dovuto
rassegnare ad elaborare degli intervalli musicali tra un atto e l’altro per consentire i necessari
cambiamenti di scena. Fu Albert Carré26, direttore dell’Opéra Comique, a richiederlo. E fu una
fortuna poiché, come lo stesso Carré affermava, tali entr’actes sono dei “chefs-d’oeuvre dans un
chef d’oeuvre”. Pur non assimilabili alla funzione e alla tecnica wagneriana dei leitmotiven, nel
Pelléas et Mélisande si possono rintracciare alcuni motivi musicali. Maurice Emmanuel27 ne
indicava tredici, così definibili: I. (Les temps lointains…); II. Golaud; III. Mélisande; IV. (La
destinée), V. Pelléas; VI. La fontane; VII. (L’anneau); VIII. Yniold; IX. (L’amour déclaré); X. (La
mort); XI. (L’amour éperdu); XII. L’enfant; XIII. (Le pardon).
Cerchiamo ora di sintetizzare al massimo grado gli aspetti musicali che caratterizzano la
melodia, l’armonia, il ritmo e il timbro della partitura di Debussy. Il fatto che la vicenda si svolga in
epoca medievale (ma quale Medioevo precisamente?) e in un luogo immaginario (Allemonde è un
regno puramente fantastico dell’Europa post-carolingia) deve senz’altro aver stimolato il
compositore a orientarsi verso soluzioni che dovevano opporsi alla tradizione operistica più o meno
a lui contemporanea, sia francese che italiana. Le sue critiche andavano sia a Massenet, a
25
Quello stesso silenzio che anche Debussy apprezzava molto e al quale aveva cercato di dare un importante rilievo
nelle sue composizioni e in questa in particolare. Nemmeno cosciente risulta alla fine Mélisande del suo essere madre;
di aver dato la vita alla sua bambina che continuerà quindi a rinnovare l’incessante ripetersi del Destino, del già
accaduto nella ruota senza fine del Tempo.
26
Ne dava notizia Maurice Emmanuel nel suo Pelléas et Mélisande de Debussy. Étude et analyse, Paris, Editions
Mellottée, 1926, p. 49.
27
Ivi, p. 135. Rinvio a questo studio per la trattazione dei vari motivi elencati. Cfr. anche le osservazioni di C.
Migliaccio, Invito all’ascolto di Debussy, Milano, Mursia, 1997, pp. 115-132.
Meyerbeer e Charpentier, sia a Mascagni, Puccini e Leoncavallo. Bisognava quindi negare molti dei
valori che avevano caratterizzato le opere di questi maestri. Il canto doveva essere sostanzialmente
negato, per privilegiare l’intonazione più vicina al linguaggio della quotidianità: una sorta di
recitativo sillabico che, tutt’al più, si sarebbe dovuto innalzare al livello di un sobrio arioso, privo di
slanci eccessivi, nei momenti più lirici. Nessuna strizzata d’occhio, quindi, alla vocalità più amata
dal pubblico! Era necessario che la melodia fosse essenzialmente modale, sulla scorta di maestri
ammirati del Rinascimento come l’italiano Pierluigi da Palestrina o lo spagnolo Tomás Luis de
Victoria. L’armonia doveva procedere liberamente, senza legami tradizionalmente ritenuti regole o
leggi inviolabili: gli accordi consonanti o dissonanti utilizzati non ‘risolvono’, non seguono un
principio organizzativo di evoluzione. Altro terreno sul quale lavorare era l’orchestra che, pur
sostanziosa dal punto di vista del numero degli strumenti utilizzati, è trattata con estrema
delicatezza, proponendo raramente nella sua totalità l’organico impiegato, mantenendola all’interno
di volumi sonori il cui massimo livello richiesto è il “forte”, richiedendo più volte l’utilizzo dei
suoni armonici che alleggeriscono la sonorità e sfruttando in tal senso anche gli archi divisi, il
delicato uso dell’arpa e della celesta. Insomma, il processo tradizionale di tensione e distensione del
flusso musicale tendono ad essere elusi, come se il compositore volesse per così dire bloccare in
uno stato di immobilità il discorso musicale, come se procedesse per “macchie sonore”, con
sfasature ritmiche che creano un effetto di sospensione. Inoltre, una scelta di accostamenti timbrici
personalissimi grazie anche ad una tecnica “divisionista” che rende cameristica l’orchestrazione per
mezzo della scarsità dei raddoppi strumentali, della divisione appunto a due , a tre e quattro. E, per
ottenere tutto questo, si era avvalso spontaneamente – come scrisse in una lettera al violinista e
compositore Ernest Chausson – di una “piccola alchimia”. Alludeva a quel “raro mezzo che è il
silenzio, come di un fattore espressivo” e che poteva essere il “solo modo di far valere l’azione di
una frase”28.
Sul piano storiografico possiamo ritenere che Debussy sia rimasto, con Pelléas et Mélisande,
essenzialmente un autore isolato, al quale non possono essere ascritti propriamente dei seguaci, dei
prosecutori o anche dei semplici imitatori. Sul piano filologico, sappiamo che il compositore aveva
revisionato più volte, in fasi diverse, la sua opera, apportando aggiunte nelle bozze mentre stava
lavorando a completamento della partitura per la pubblicazione. Questo avveniva nell’estate del
1903, parecchi mesi dopo l’ultima rappresentazione e ulteriori revisioni vennero effettuate un anno
dopo la pubblicazione della partitura. Tali cambiamenti si trovano ricopiati nella partitura custodita
negli archivi delle edizioni Durand, utilizzata come base per la seconda edizione della partitura
orchestrale. Nelle varie partiture noleggiate, queste revisioni furono copiate a mano e,
successivamente, introdotte nelle partiture destinate alla pubblicazione: nel 1950 nella partitura da
studio e nel 1966 in quella per il direttore. Questa è la versione “standard” che oggi è
principalmente ascoltata e che, come afferma David Grayson, non corrisponde alle “ultime idee” di
Debussy, in quanto queste sono presenti nella partitura personale del compositore, custodita nella
Biblioteca François Lang di Royaumont29. Pierre Boulez non è stato certo tenero con il suo
giudizio, come sempre tagliente. A lui la forma musicale sembrava non utilizzare pienamente “il
suo potere di espressione e di costruzione: alcune scene gli apparivano “fatte troppo visibilmente di
frammenti uniti testa a testa, dove ripetizioni e progressioni armoniche (di due misure in due)
accentuano la simmetria semplicistica”; ironizzava sul “recitativo infinito” dell’opera di Debussy,
alludendo alla melodia infinita di Wagner, affermando che Pelléas era a suo avviso invecchiato.30
Salvo poi, in tempi recenti, decantarne le lodi ed eseguirlo ancora in registrazioni discografiche e in
produzioni teatrali31! René Leibowitz, nelle righe conclusive del capitolo diciottesimo della sua
28
Lettera del 2 ottobre 1893, citata a nota 18 di p. 116 da E. Girardi, Mélisande, Debussy e il suono cit.
D. Grayson, Il Pelléas “autentico” cit., p. 305.
30
P. Boulez, Note di apprendistato, Torino, Einaudi, 1968, p. 298.
31
Vedi ad es. l’intervista apparsa in “Châtelet. Théâtre musical de Paris”, Mars-Avril 1992, N° 8, pp. 3-6.
29
Histoire de l’opéra32 la definiva come “no man’s land” dell’arte lirica. Che non sia da ricercare,
invece che nella tradizione dell’opera lirica, nella nascita e nello sviluppo del cinema – e quindi
nella fine dell’arte lirica – la causa di quel non aver avuto fino ad oggi “il coraggio di seguirlo”?
Quell’arte cinematografica che ha preso avvio proprio in quella Parigi fin de siècle di cui abbiamo
cercato di tratteggiare alcune linee fondamentali, attraverso le opere e il pensiero di alcuni dei suoi
più significativi e grandi protagonisti. Arte di cui prenderemo in esame più avanti alcuni aspetti, nel
suo nascere, e che vedremo prendere avvio proprio negli anni decisivi della cultura francese di fine
Ottocento e di primo Novecento.
Ritornando a Pelléas et Mélisande, ricordiamo che l’importanza dell’opera di Maeterlinck e
di Debussy è tale che essa ha impegnato non soltanto la riflessione in ambito musicologico ma
anche in quello letterario e filosofico. Oltre che aver fatto del testo di Maeterlinck uno dei suoi
celebri Pastiches, nella Recherche33 di Proust troviamo riferimenti a Debussy e al Pelléas et
Mélisande, opera di moda nelle conversazioni salottiere parigine.
Una suggestione fortissima aveva esercitato tanto il testo di Maeterlinck quanto la musica di
Debussy in un filosofo intelligente e sensibile alla musica come Vladimir Jankélévitch34. Chi
volesse poi affrontare scrupolosamente dal punto di vista filologico ed estetico le problematiche
relative alla versione più attendibile della partitura di Debussy – e, conseguentemente, anche ad
aspetti di natura estetica e interpretativa – si trova ad affrontare problemi della più diversa natura
(dai registri vocali, ad alcuni raddoppi strumentali, alla scenografia ecc.) che hanno dato vita ad
esecuzioni in teatro e a diverse registrazioni discografiche35.
Il simbolismo di Maeterlinck, il preraffaellismo e la moda della teosofia indù costituiscono
lo sfondo sul quale si possono collocare alcune opere di Satie, Ravel e Debussy36. Come Debussy
stesso ebbe a dire nel 1889 nel corso di un colloquio con il suo vecchio maestro Ernest Guiraud egli
non era tentato di imitare ciò che ammirava in Wagner. Concepiva una forma drammatica diversa,
poiché “la musica comincia là dove la parola è impotente ad esprimere; la musica è scritta per
l’inesprimibile; vorrei che essa sembrasse uscire dall’ombra e che, qualche istante dopo vi
ritornasse; che sempre fosse persona discreta”37. E alla domanda di Guiraud su quale librettista gli
sembrasse più idoeneo, Debussy rispondeva con accenti da poeta simbolista: “Colui che, dicendo le
cose a metà, mi permetterà di sovrapporre il mio sogno al suo; colui che concepirà personaggi la cui
storia e i cui luoghi non saranno di alcun tempo e di alcun luogo; colui che non m’imporrà
dispoticamente la “scena da fare” e mi lascerà libero qui o là di avere più arte di lui e portare a
compimento la mia opera […] Sogno dei poemi che non mi condannino a trascinare avanti atti
lunghi, pesanti, che mi forniscano delle scene mobili, diverse per luoghi e carattere; dove i
personaggi non discutano, ma subiscano la vita e la sorte”. Questo privilegio che il musicista
accordava all’indeterminato, alla discrezione, al mistero, emerge più volte nella sua corrispondenza
di fine secolo. A Henri Lerolle, ad esempio, commentando la scena della morte di Mélisande,
sottolineava quanto la gente non potesse “ammettere che uno se ne vada discretamente, come chi ne
ha abbastanza di questo pianeta Terra per recarsi là dove spuntano i fiori della serenità!”38.
32
Trad. it. Storia dell’opera, Milano, Garzanti, 1966. Il richiamo è al cap. “Pelléas et Mélisande” ovvero la “no man’s
land” dell’arte lirica, pp. 319-331. Contrariamente a Maurice Emmanuel, Leibowitz fa dipendere maggiormente alcune
innovazioni di Debussy da Wagner: dall’utilizzo del leitmotiv alle armonizzazioni basate su accordi di nona.
33
Vedi Sodome et Gomorrhe, ed. Gallimard cit., pp. 242-248.
34
Questo è un refrain che ritorna più volte nella profonda riflessione dell’eminente filosofo francese. Ad esempio, in La
musique et l’ineffable, a cura di E. Lisciani-Petrini, Napoli, Tempi Moderni, 1983; e Id., Debussy e il mistero, a cura di
E. Lisciani-Petrini, traduzione di C. Migliaccio, Milano, SE, 2012.
35
Vedi L.-M. Suter, Pelléas et Mélisande in Performance, Yale University Press, pp. 45-63 che ha basato le sue
riflessioni su una quindicina di recordings.
36
V. Jankélévitch, La musique et les heures, Paris, Seuil, 1988, p. 10.
37
Oltre che nei vari testi dedicati a Debussy dalla musicologia francese che abbiamo citato nelle note, questo colloquio
è parzialmente riportato anche in italiano da G. Salvetti, Il Novecento I, p. 45.
38
Lettera citata da F. Lesure, Debussy. Gli anni del Simbolismo cit., p. 163.
In una lettera datata venerdì sera, 10 gennaio 1902 e spedita a Robert Godet, Debussy
informava che la decisione era stata presa. Pelléas et Mélisande sarebbe stata rappresentata
all’Opéra-Comique, aggiungendo che in quel periodo egli l’aveva perfino “un peu trop joué”39.
Léon Vallas, ricorda diverse prese di posizione negative o favorevoli alle prime rappresentazioni
dell’opera di Debussy. Accanto a chi derideva il lavoro del compositore vi era chi riteneva Pelléas
et Mélisande un’opera “malsaine et néfaste”, tendente nientemeno che alla “diminution et à la ruine
de notre être”.40 Ma André Messager41, tra gli altri, che fu il primo direttore d’orchestra a dirigere
l’opera, ricorda l’impressione irresistibile e unica che aveva esercitato su di lui l’ascolto del lavoro
di Debussy, il quale cercava, nella difficile composizione del Pelléas et Mélisande, di migliorare
continuamente la partitura, elaborando e rielaborando in quasi una decina d’anni il suo originale
lavoro teatrale. Jean Barraqué42 riporta alcuni passaggi del compositore relativi ai timori, alle quasi
ossessioni che lo tormentavano nel dare voce ai suoi personaggi. Doveva dare vita e voce a Golaud,
il marito di Mélisande e padre del piccolo Yniold, al vecchio Arkël. E tutto ciò egli avrebbe dovuto
farlo con delle note di una scala musicale. Che mestiere fare il musicista e dover rendere la
complessità dell’anima dei personaggi con dei do, re, mi, fa, sol, la, si lamentava ironicamente!
Con Debussy anche la critica è costretta a rivedere le proprie analisi, tradizionalmente fondate
soprattutto sul predominio della melodia, dell’armonia e in parte del ritmo. Il suono puro, con le sue
opere, comincia a esigere, per così dire, le proprie attenzioni. Il ‘problema’ del suono, del suo
‘mistero’, aveva sollecitato Debussy a riflettere e a scriverci su nella sua raccolta Monsieur Croche
antidilettante.43 Stefan Jarocinski44, in un contributo meno conosciuto, ricorda che, già dal 1894,
Debussy avrebbe voluto – nella scena della morte di Mélisande – vedere una parte dell’orchestra
sulla scena, al fine di poter meglio avere così “en quelque sorte une mort de toute sonorité” (il
richiamo in nota 3 è ad una lettera di Debussy del 28. VII. 1894 indirizzata a H. Lerolle). Non meno
importante è il motivo del tempo musicale che, riletto alla luce anche di una riflessione filosofica45,
apre a una dimensione non più sorretta da una concezione di un tempo omogeneo e lineare,
cosicché viene a sostituirsi una visione fluida del tempo stesso, sulla scorta della riflessione di Henri
Bergson e, vorrei aggiungere, di Marcel Proust. In Italia46, ma non solo, il predominio di una
visione storica che privilegiava la tradizione musicale tedesca (Wagner-Schoenberg- Berg-WebernScuola di Darmstadt) e quella filosofica pure (Hegel-Adorno-Scuola di Francoforte-neopositivismo
39
Riportata in Claude Debussy, Lettres a deux amis. Soixante-dix lettres inédites a Robert Godet et G. Jean-Aubry,
Paris, Librairie José Corti, 1942, pp. 102-103.
40
Cfr.“Pelléas et Mélisande” (1892-1902). Le Debussysme, pp. 177-219 in L. Vallas, Claude Debussy et son temps,
Paris, Librairie Félix Alcan, 1932, ricorda diverse prese di posizione negative o favorevoli alle prime rappresentazioni
dell’opera di Debussy. Accanto a chi derideva il lavoro del compositore vi era chi riteneva Pelléas et Mélisande
un’opera di grande valore (p. 188).
41
A. Messager, Les premières représentations de Pelléas, “Revue Musicale”, 7, 1 May, 1926, pp. 110-112. Sarà “À la
mémoire de Georges Hartmann/Et en témoignage de profonde affection à André Messager” che Debussy dedicherà la
sua opera. Riprendiamo la dedica dall’ edizione Dover Claude Debussy, Pelléas et Mélisande in Full Score. A questa
edizione faremo riferimento per qualche richiamo alla partitura dell’opera di Debussy.
42
Nel suo Debussy, Paris, Éditions du Seuil, 1962, p. 117: “J’ai peur! Il me faut des choses si profondes et si sûres! Il y
a là un petit père qui me donne le cauchemar… Maintenant c’est Arkël qui me tourmente; celui-ci, il est d’outre-tombe,
et il a cette tendresse désintéressée et prophétique de ceux qui vont bientôt disparaître, et il faut dire tout cela avec do,
ré, mi, fa, sol, la, si, do. Quel métier!”.
43
Trad. it. Il signor Croche antidilettante, Milano, Adelphi, 2003 che ricalca nel titolo Il Monsieur Teste di Paul Valéry,
ovviamente! Nell’edizione Gallimard del 1971 (seconda ed. 1987), il M. Croche antidilettante è diventato Monsieur
Croche et autres écrits, che comprende l’integrale della sua opera critica. Nella edizione del 1987 sono state aggiunte
sei nuove interviste che Debussy aveva dato a giornalisti inglesi, americani, ungheresi e italiani.
44
Quelques aspects de l’univers sonore de Debussy, in Debussy et l’évolution de la musique au XXe siècle, Paris, 24 –
31 Octobre 1962, Études réunies et présentées par Edith Weber, Editions du Centre National de la Recherche
Scientifique, Paris, 1967, pp. 167-184: p. 171.
45
Oltre a vari passi nelle opere di Jankélévitch, cfr. anche F. Cannoni, Tempo musicale in Debussy. Influssi bergsoniani
e apertura verso una riflessione sul tempo nella musica, “Nuova Rivista Musicale Italiana”, 3/4, Luglio/Dicembre 1992,
pp. 433-440.
46
Una riflessione su questi temi è stata aperta da Enrico Fubini nel cap. secondo, Debussy e il simbolismo, pp. 19-31 del
suo Il pensiero musicale del Novecento, Pisa, Edizioni ETS, 2007.
logico, ecc.) si è negli ultimi decenni andata sviluppando una riflessione musicale e filosofica che
ha valorizzato maggiormente, dopo decenni di sottovalutazione o di esclusione, una serie di autori
che non hanno fatto riferimento alla cosiddetta “Seconda Scuola musicale di Vienna e alle
tematiche, quindi, dell’atonalità, della dodecafonia, del serialismo. In Francia l’impressionismo, il
simbolismo, l’esotismo hanno aperto altrettanto interessanti e validissime ‘porte’ su questioni
fondamentali del rinnovamento della composizione musicale (e i nomi sono, naturalmente, Fauré,
Satie, Debussy, Ravel) e della filosofia contemporanea (Bergson, Valéry, Brelet, Jankélévitch). E,
tra gli scrittori delle due tradizioni delle due capitali europee, alla Vienna di Trakl, di Kraus e di
Musil, la Parigi di Baudelaire, di Mallarmé e di Proust (ma non solo!), non ha nulla da invidiare. Se
poi consideriamo l’importanza di autori quali Musorgskij, Albeniz, Rachmaninov, e i molti altri che
in vari centri europei hanno contribuito ad aprire nuovi orizzonti, possiamo ora affermare quanto sia
stata parziale l’analisi del filosofo della musica maggiormente valorizzato dall’editoria e a lungo
apprezzato dalla critica: T.W.Adorno.
Al teatro Debussy aveva pensato da molto tempo ma vi aveva rinunciato dopo diversi
tentativi finiti negativamente47. In particolare andrebbe ricordato e meriterebbe più attenzione - oltre
al Martyre de Saint-Sébastien48 che sancì anche il rapporto di collaborazione che aveva legato
Debussy a Gabriele D’Annunzio - anche quello che vide operare Debussy e Victor Segalen (il cui
nome ritroveremo nella pagine che dedicheremo a Paul Gauguin). Il compositore e lo scrittore
avevano progettato di lavorare assieme, in sintonia peraltro, in un lavoro teatrale intitolato OrphéeRoi. Soltanto Debussy, secondo lo scrittore, avrebbe potuto guidarlo nella stesura dell’argomento,
avendo maturato con Pelléas et Mélisande, “grande esperienza nella prosa lirica”. Debussy, tuttavia,
non riteneva di avere esperienza ma soltanto istinto.49 E istintiva, spontanea, era anche la prima
impressione che egli aveva quando conosceva qualcuno. L’amicizia non poteva nascere se non c’era
quest’aspetto di spontaneità50.
Al di là delle controversie anche aspre che si verificarono per la scelta della protagonista
femminile del dramma, Maeterlinck era comunque consapevole del talento, se non del “genio”, del
musicista francese. Una “persona che amo e ammiro”51, giunse perfino a scrivere e alla quale non
intendeva impedire di affrontare il suo testo teatrale in piena autonomia di artista. Debussy avrebbe
pensato di musicare anche un altro lavoro teatrale di Maeterlinck, La Princesse Maleine52. Non
saprei, invece, dire se egli fosse a conoscenza di altre opere di Maeterlinck: quelle ad esempio, che
aveva dedicato ad una trilogia sugli insetti e per la quale si era guadagnato una certa fama presso i
suoi contemporanei. Ma mi sembra del tutto verosimile pensare che egli si sarebbe molto
47
Georges Gourdet ricorda parole di Debussy assai significative del suo rapporto con il sogno e con la realtà: “Le drame
de Pelléas, qui malgré son atmosphère de rêves, contient beaucoup plus d’humanité que le prétendus documents sur la
vie […] Il y a là une langue évocatrice […] les personnages de ce drame tâchent de chanter comme des personnes
naturelles et non pas dans une langue arbitraire, faite de traditions surannées”.
48
Il testo originale in francese e la traduzione italiana si possono leggere nel vol. Claude Debussy. Pelléas et Mélisande.
Le Marthyre de Saint-Sébastien, Venezia, Grand Teatro la Fenice, 1995. Ricordo qui, en passant, che nella
corrispondenza tra il compositore e lo scrittore italiano troviamo qualche riferimento a Pelléas et Mélisande (cfr., ad es.,
le lettere del 1911 in D’Annunzio-Debussy. Mon cher ami. Epistolario 1910-1917, Firenze, Passigli Editori, pp. 62-63)..
Michel Imberty in un articolo (Il senso del tempo e della morte nell’immaginario debussiano, “Nuova Rivista Musicale
Italiana”, 3, luglio/settembre 1987, pp. 383-409) ha definito la musica di Debussy come dominata dal timore della morte
e la sua scrittura come un “vero e proprio esorcismo per tentare di rendere al tempo la sua dimensione vitale” (p. 403).
E, in conseguenza di questo suo postulato, ritiene la delusione successiva all’entusiasmo iniziale nei confronti del testo
di D’Annunzio come dovuto non solo all’ampollosità del lavoro ma anche alla sua mancanza di fede religiosa, salvo poi
affermare che egli è riuscito comunque a scrivere “un’opera di grande varietà e nello stesso tempo di un’unità effettiva e
piena di bellezza” (p. 404).
49
Cristina Cano, nell’articolo Victor Segalen e Claude Debussy, “Nuova Rivista Musicale Italiana”, 2, aprile/giugno
1980, ha trattato il rapporto di collaborazione e il carteggio tra i due, sottolineando l’influenza del compositore sullo
studioso.
50
Così lo ricordava Jean Lépine in La vie de Claude Debussy, Paris, Albin Michel, 1930, p. 140.
51
Ivi, p. 165.
52
Con quest’opera, pubblicata nel 1889, Maeterlinck, raggiunse la fama verso i ventisette anni.
riconosciuto in queste righe di Maurice Maeterlinck che poniamo a conclusione delle nostre
‘impressioni’ su di lui e sul suo tempo:
“La verità è che a noi ripugna ammettere che su questa terra esistano altri esseri che, per la loro
intelligenza o le loro qualità morali, abbiano gli stessi nostri titoli a rappresentare non so quale parte
eccezionale nell’universo. Il pensare che essi possano dividere con noi un privilegio, che crediamo unico,
scuote le nostre millenarie illusioni, ci umilia, ci scoraggia. Li vediamo nascere, vivere, compiere i loro umili
doveri, poi scomparire a centinaia di miliardi, senza lasciare tracce, senza che nessuno e nulla si turbi, senza
raggiungere altra meta che la morte. Non vogliamo dire a noi stessi che anche per noi le cose andranno allo
stesso modo. E preferiremmo che tutto fosse stupido, istintivo, automatico, irresponsabile. Un giorno
impareremo anche noi a contentarci della vita, come tutto ciò che vive sotto questo globo. E sarà l’ultimo
ideale”53.
‘Ultimo ideale’, o primo forse, che ci sembra caratterizzare lo stesso vago sostrato, lo stesso
primo e ultimo ‘ideale’ - non …‘stupido’ - che sta al ‘fondo’, come presupposto, come fondamento,
malinconico e lacerato con i suoi eterei personaggi, immersi nel clima decadente della “fin de
siècle”, presentati nella loro natura vuota come smarriti e atterriti dal mistero dell’amore, della
gelosia, della vita e della morte, del Pelléas et Mélisande di Maurice Maeterlinck e di Claude
Debussy. Dramma teatrale, e poi anche musicale, dove bellezza e morte sembrano convergere
idealmente se non coincidere precisamente. Mi riferisco a quel passo54 del dramma un po’ allusivo,
così evocativo e quasi un sussurro vorremmo dire, laddove Pelléas rivolgendosi a Mélisande le
porge queste semplici e misteriose parole:
“Sei così bella che si direbbe tu stia per morire”55 (Atto Quarto, Scena terza)
53
Cfr. anche G. Macchia, Il mito di Parigi cit., p. 199. Debussy aveva trascorso intere giornate “à la poursuite de ce rien
dont elle est faite (Mélisande) […])”; Id., Elogio della luce, Milano, Adelphi, 1990, p. 171.
54
Inspiegabilmente tagliato da Debussy in partitura.
55
Maurice Maeterlinck, Pelléas e Mélisande, traduzione di G. Davico Bonino, Commento musicologico di E. Girardi,
Milano, Feltrinelli, 1993.
Fig. 62 Claude Debussy in una foto di Nadar, 1908 ca.
Fig. 63 Maurice Maeterlinck, Parigi, in una fotografia del 1901
Fig. 64 Jean Périer, primo interprete di Pelléas, in una foto d’epoca di Nadar, 1902
Fig 65 Mary Garden, prima interprete di Mélisande, in una foto d’epoca del 1908
Fig. 66 La prima pagina della partitura del Pelléas et Mélisande (1902) di Debussy
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