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Musica e pittura: Debussy
Parte quarta Musica e pittura: Debussy Fig. 59 Claude Debussy in un ritratto di Marcel Baschet, 1884, Paris, Musée d’Orsay 1. Claude Debussy tra letteratura, pittura e musica “J’aime les images presque autant que la musique”. Claude Debussy, da una lettera a Edgar Varèse Come Gauguin amava e apprezzava l’arte orientale (nelle sue lettere e negli scritti compare non di rado il nome del grande pittore giapponese Hokusai), così Debussy ebbe modo di apprezzare (durante l’Esposizione Universale di Parigi del 1889) la delicatezza del contrappunto ritmico dell’orchestra Gamelan dell’isola di Giava1. Del fascino esercitato sul grande compositore francese da questo caratteristico organico strumentale è lui stesso ad informarci. Citando Tiersot che ne aveva lasciato una testimonianza, Edward Lockspeiser ricorda così la formazione caratteristica di questo organico strumentale orientale: “un gong appeso al muro; due specie di tamburi; uno strumento ad arco chiamato dong-cô con due corde tese in una strana maniera; una specie di oboe detto song-hi con otto buchi; un flauto con l’imboccatura posta a metà dello strumento, ed un altro strumento detto lion. Il song-hi emette suoni duri e stridenti. Sull’altro lato della scena si trova un enorme strumento a percussione, una specie di grancassa, sulla quale un sesto suonatore batte furiosamente.” Meriterebbe un capitolo a parte la trattazione dei rapporti di Debussy con la pittura, il suo interesse per Turner, Monet, per la pittura giapponese2. Le incisioni e le pitture di Katsushika Hokusai e Ando Hiroshige non hanno avuto influenza soltanto su Degas, Van Gogh, Gauguin ma anche su di lui. Debussy era affascinato dalle suggestioni delle incisioni di paesaggi e di marine giapponesi con i loro effetti di luce, le forme appiattite e disegnate di profilo, in controluce, senza ombre: tutti elementi che gli Impressionisti terranno indubbiamente presenti. Ed è significativo che il grande compositore francese avesse desiderato riprodurre come copertina della sua partitura d’orchestra per La mer un particolare della celebre incisione di Hokusai3, Le Creux de la vague au large de Kanagawa, che faceva parte della serie delle trentasei vedute del monte Fuji. Questo grande maestro dell’arte giapponese ha influenzato enormemente l’arte occidentale della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento. Non soltanto la cultura giapponese si può rintracciare nelle relazioni così esplicite tra l’arte giapponese e i maestri dell’Impressionismo e del Simbolismo (Monet, van Gogh e lo stesso Gauguin), ma anche in alcune memorabili pagine del capolavoro di Proust4: “ Et comme dans ce jeu où les Japonais s’amusent à tremper dans un bol de porcelaine rempli d’eau, de petits morceaux de papier jusque-là indistincts qui, à peine y sont-ils plongés, s’étirent, se contournent, se différencient, devienne des fleurs, des maisons, des personnages consistants et reconaissables, de même maintenant toutes les fleurs de notre jardin et celles du parc de M. Swann, et les nymphéas de la Vivonne, et les bonnes gens du villane et leurs petits logis et l’église et tout Combray et ses environs, tout cela prend forme et solidité, est sorti, ville et jardins, de ma tasse de thé.” 1 E. Lockspeiser, Debussy, Milano, Rusconi, 1983, p. 146. Per i rapporti con alcune fondamentali linee culturali dell’epoca, cfr. S. Jarocinsky, Debussy. Impressionismo e simbolismo, prefazione di V. Jankélévitch, Fiesole, Discanto, 1980 e F. Lesure, Debussy. Gli anni del Simbolismo, Torino, EDT, 1994 (in part. pp. 162 e sgg, e pp. 184 e sgg.). 3 Sul quale vedi H. Focillon, Hokusai, trad. di G. Guglielmi, Milano, Abscondita, 2003. 4 Impossibile non ricordare nel Du côté de chez Swann, primo volume della Recherche, l’immagine rievocata dal narratore allorché – dopo aver intinto nell’infuso di tiglio la petite madeleine – per effetto della memoria involontaria che sola può restituirci casualmente il passato – sente riaffiorare il sé quanto credeva perduto per sempre. 2 Fig. 60 K. Hokusai, Le Creux de la vague au large de Kanagawa Osserviamo, inoltre, che tra il 1895 e il 1902 apparvero diversi studi in Francia nei quali veniva sostenuta l’esistenza di strette affinità tra colore e suono5. Così Paul Souriau poteva, ad esempio, osservare: “Nel descriverci un quadro, i critici d’arte parlano di rossi selvaggi, di verdi striduli, di blu che cantano, d’una stonata nota di giallo, di armonie cromatiche e di dissonanze. In compenso una sinfonia ci è descritta con termini che appartengono alla pittura: la linea melodica si colora di sfumature diverse… i tre colori degli strumenti a fiato nel registro acuto si combinano armoniosamente. In alto c’è l’azzurro luminoso dei flauti, al centro il rosso vivo degli oboi, in basso le tonalità calde e tendenti al marrone del clarinetto…”. E un altro critico, Lucien Favre, poteva vedere nella pittura una sorta di musica statica: “La pittura è, se si vuole, una musica di colori immobili, una musica morta che però è di già una specie di musica”6. Come Gauguin rinnovava profondamente lo spazio pittorico e le sue ‘armonie’ di colori, così Debussy trasformava profondamente lo spazio musicale e i ‘colori’ delle sue armonie. Mentre Gauguin si liberava dai vincoli del disegno delle rappresentazioni del paesaggio tradizionale, Debussy si liberava dai vincoli del sistema tonale e dei modelli teorici di scala maggiore e minore per aprire nuovi ‘paesaggi’ di ascolto attraverso l’utilizzo di scale arcaiche (modali) di tradizione medievale, di scale difettive (di cinque o sei suoni) di tradizione orientale o ispirate alla tradizione orientale: non solo l’uso della scala cromatica a dodici suoni, quindi, o il cromatismo di Wagner 6 E. Lockspeiser, Debussy cit., p. 277. ma anche suggestioni esotiche, l’uso di accordi che non sottostanno più alle regole della tradizionale “armonia funzionale” ma che seguono percorsi imprevedibili e indipendenti7. Si può cogliere una sottile affinità, ci sembra, tra il modo di pensare di Gauguin e quello di Debussy in espressioni e dichiarazioni di ‘poetica’. Gauguin avverte fortemente l’esigenza di una completa libertà espressiva (“Come vedete questi alberi? Sono gialli. Bene, mettete del giallo: queste ombre, sono blu, dipingetele di oltremare puro; queste foglie rosse? Mettete del vermiglione.”. Debussy non gli è da meno quando, in un colloquio con il suo maestro Guiraud, sente di dover utilizzare la successione degli accordi in modo altrettanto libero dai vincoli tradizionali. Debussy fu legato da rapporti di amicizia e di stima reciproca con Mallarmé dal quale ebbe l’assenso a comporre una musica di scena intitolata Prélude, interlude et paraphrase finale pour l’après-midi d’un faune: soltanto il celebre Prélude verrà tuttavia terminato nel mese di settembre del 1894, con dedica a Raymond Bonheur. Fu il primo grande successo di Debussy, bissato calorosamente la sera della sua prima esecuzione a Parigi, il 22 dicembre dello stesso anno durante un concerto diretto da Gustave Doret alla Société Nazionale. Debussy definì questa sua composizione come “una serie di scenari attraverso i quali si muovono i desideri e i sogni del Fauno nella calura del pomeriggio. Poi, stanco di inseguire le ninfe e le naiadi che timorose si sono date alla fuga, si abbandona al sole inebriante, colmo di sogni finalmente realizzati, d’un senso di possesso totale nella totalità panica della natura”8. Nel Prélude à l’après-midi d’un faune affiorano sì alcune tracce del “tematismo” tradizionale (la melodia del flauto, che ritorna spesso nel corso della composizione, svolge una vera e propria funzione di motivo ricorrente e perciò di idea tematica), troviamo sì tracce di suddivisione formale in tre zone con due episodi estremi ed uno centrale), ma al contempo chiarezza e partizione formale vengono continuamente occultate e sfumate. Motivi ed episodi diversi (emergenti senza regolarità prevedibili) si intrecciano con l’idea principale e la stessa divisione in tre parti viene continuamente messa in discussione da caratteristiche sonore che, anziché rafforzarla, contribuiscono a suscitare nell’ascoltatore il dubbio di ulteriori possibili suddivisioni formali. Osserviamo inoltre che le immagini sonore di Debussy, al pari di quelle verbali dei poeti e di quelle visive di alcuni pittori del suo tempo, si riallacciano alle poetiche simboliste secondo le quali l’immagine artistica non dovrebbe tanto imitare o riflettere le apparenze del mondo comune e reale quanto, piuttosto, rinviare ad una dimensione maggiormente elusiva, indeterminata. E, indeterminata, misteriosa, mai esattamente verificabile, rimarrà sempre e comunque – come Debussy riteneva – la “ beauté d’une œuvre d’art”9. 9 Claude Debussy, “S.I.M.”, 15 février 1913: “Soutenons que la beauté d’une œuvre d’art restera toujours mystérieuse, c’est-à-dire qu’on ne pourra jamais exactement vérifier ‘comment cela est fait”’. L’après-midi d’un faune (Stéphane Mallarmé) Églogue Le Faune Ces nymphes, je les veux perpétuer. Si clair, Leur incarnat léger, qu'il voltige dans l'air Assoupi de sommeils touffus. Aimai-je un rêve ? Mon doute, amas de nuit ancienne, s'achève En maint rameau subtil, qui, demeuré les vrais Bois même, prouve, hélas! que bien seul je m'offrais Pour triomphe la faute idéale de roses. Réfléchissons... ou si les femmes dont tu gloses Figurent un souhait de tes sens fabuleux ! Faune, l'illusion s'échappe des yeux bleus Et froids, comme une source en pleurs, de la plus chaste : Mais, l'autre tout soupirs, dis-tu qu'elle contraste Comme brise du jour chaude dans ta toison ? Que non! par l'immobile et lasse pâmoison Suffoquant de chaleurs le matin frais s'il lutte, Ne murmure point d'eau que ne verse ma flûte Au bosquet arrosé d'accords; et le seul vent Hors des deux tuyaux prompt à s'exhaler avant Qu'il disperse le son dans une pluie aride, C'est, à l'horizon pas remué d'une ride Le visible et serein souffle artificiel De l'inspiration, qui regagne le ciel. O bords siciliens d'un calme marécage Qu'à l'envi de soleils ma vanité saccage Tacite sous les fleurs d'étincelles, CONTEZ “Que je coupais ici les creux roseaux domptés “Par le talent; quand, sur l'or glauque de lointaines “Verdures dédiant leur vigne à des fontaines, “Ondoie une blancheur animale au repos : “Et qu'au prélude lent où naissent les pipeaux “Ce vol de cygnes, non! de naïades se sauve “Ou plonge... Inerte, tout brûle dans l'heure fauve Sans marquer par quel art ensemble détala Trop d'hymen souhaité de qui cherche le la : Alors m'éveillerai-je à la ferveur première, Droit et seul, sous un flot antique de lumière, Lys! et l'un de vous tous pour l'ingénuité. Autre que ce doux rien par leur lèvre ébruité, Le baiser, qui tout bas des perfides assure, Mon sein, vierge de preuve, atteste une morsure Mystérieuse, due à quelque auguste dent ; Mais, bast! arcane tel élut pour confident Le jonc vaste et jumeau dont sous l'azur on joue : Qui, détournant à soi le trouble de la joue, Rêve, dans un solo long, que nous amusions La beauté d'alentour par des confusions Fausses entre elle-même et notre chant crédule ; Et de faire aussi haut que l'amour se module Évanouir du songe ordinaire de dos Ou de flanc pur suivis avec mes regards clos, Une sonore, vaine et monotone ligne. Tâche donc, instrument des fuites, ô maligne Syrinx, de refleurir aux lacs où tu m'attends ! Moi, de ma rumeur fier, je vais parler longtemps Des déesses; et par d'idolâtres peintures À leur ombre enlever encore des ceintures : Ainsi, quand des raisins j'ai sucé la clarté, Pour bannir un regret par ma feinte écarté, Rieur, j'élève au ciel d'été la grappe vide Et, soufflant dans ses peaux lumineuses, avide D'ivresse, jusqu'au soir je regarde au travers. O nymphes, regonflons des SOUVENIRS divers. “Mon oeil, trouant les joncs, dardait chaque encolure “Immortelle, qui noie en l'onde sa brûlure “Avec un cri de rage au ciel de la forêt ; “Et le splendide bain de cheveux disparaît “Dans les clartés et les frissons, ô pierreries ! “J'accours; quand, à mes pieds, s'entrejoignent (meurtries “De la langueur goûtée à ce mal d'être deux) “Des dormeuses parmi leurs seuls bras hasardeux ; “Je les ravis, sans les désenlacer, et vole “À ce massif, haï par l'ombrage frivole, “De roses tarissant tout parfum au soleil, “Où notre ébat au jour consumé soit pareil. Je t'adore, courroux des vierges, ô délice Farouche du sacré fardeau nu qui se glisse Pour fuir ma lèvre en feu buvant, comme un éclair Tressaille ! la frayeur secrète de la chair : Des pieds de l'inhumaine au coeur de la timide Qui délaisse à la fois une innocence, humide De larmes folles ou de moins tristes vapeurs. “Mon crime, c'est d'avoir, gai de vaincre ces peurs “Traîtresses, divisé la touffe échevelée “De baisers que les dieux gardaient si bien mêlée : “Car, à peine j'allais cacher un rire ardent “Sous les replis heureux d'une seule (gardant “Par un doigt simple, afin que sa candeur de plume “Se teignît à l'émoi de sa soeur qui s'allume, “La petite, naïve et ne rougissant pas:) “Que de mes bras, défaits par de vagues trépas, “Cette proie, à jamais ingrate se délivre “Sans pitié du sanglot dont j'étais encore ivre.” Tant pis ! vers le bonheur d'autres m'entraîneront Par leur tresse nouée aux cornes de mon front : Tu sais, ma passion, que, pourpre et déjà mûre, Chaque grenade éclate et d'abeilles murmure ; Et notre sang, épris de qui le va saisir, Coule pour tout l'essaim éternel du désir. À l'heure où ce bois d'or et de cendres se teinte Une fête s'exalte en la feuillée éteinte : Etna ! c'est parmi toi visité de Vénus Sur ta lave posant tes talons ingénus, Quand tonne une somme triste ou s'épuise la flamme. Je tiens la reine ! O sûr châtiment... Non, mais l'âme De paroles vacante et ce corps alourdi Tard succombent au fier silence de midi : Sans plus il faut dormir en l'oubli du blasphème, Sur le sable altéré gisant et comme j'aime Ouvrir ma bouche à l'astre efficace des vins ! Couple, adieu ; je vais voir l'ombre que tu devins. Per questo celebre poema di Mallarmé Debussy previde un organico costituito da 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 arpe, crotali, archi. La composizione orchestrale, che lo aveva impegnato tra il 1891 e il 1894, è dedicata a Raymond Bonheur. Il Prélude, nella tonalità di Mi maggiore, venne eseguito a Parigi il 22 dicembre 1894, presso La Société National de Musique e venne perfino bissato. L’editore Fromont pubblicò la partitura a Parigi nel 1895. La composizione, che prende avvio con una melodia eseguita dal solo flauto traverso, senza alcun accompagnamento orchestrale o di altri strumenti, appare dispiegarsi su di una imprecisa area tonale. Jankélévitch10, come sempre acuto interprete del compositore, l’avvertiva come così carica di “voluttà da divenire angosciante”. La nitidezza dei contorni delle tre diverse sezioni appare continuamente messa in discussione dalla fluidità del procedimento adottato da Debussy che avvolge il testo musicale disseminando qua e là analogie e allusioni, associazioni, reminiscenze armoniche e timbriche che sorgono da una nuova logica compositiva che vuole opporsi al tradizionale schema dell’ elaborazione motivico-tematica così congeniale ai compositori di area austro-tedesca11. Gli accordi di quinta e di quarta e sesta che si succedono verso la conclusione del Prélude offrono al corno i ‘punti’ di una melodia cromatica misteriosa che giunge poi ad aprirsi sulla mediante e dominante. Altrettanto ‘misteriosa’ l’atmosfera creata dalla successione armonica seguente che giustappone le tonalità di Fa diesis maggiore, La minore e Re maggiore. La cultura e la sensibilità letteraria di Debussy erano tali da sollecitarlo ad immaginarsi la realizzazione di oltre quaranta progetti di musiche per il teatro, come hanno dimostrato le ricerche di Robert Orledge12. La nascita del teatro simbolista in Francia può essere fissata con la fondazione del Théâtre d’Art (1890), grazie al poeta Paul Fort, anche se il padre del simbolismo, Stéphane 10 V. Jankélévitch, Debussy e il mistero cit., p. 72: “[…] è il cosmogonico Eros che ci parla attraverso la voce bucolica del flauto – e ben si sa in quale maniera Nijnskij, mimando il “coito con il Niente”, infondesse al pubblico dei balletti russi questa angoscia meridiana, questo panico canicolare, questa disperazione afrodisiaca.” 11 Il riferimento d’obbligo, ovviamente, è a Haydn, Mozart e Beethoven per il Settecento e per l’Ottocento; a Wagner, Mahler e Schoenberg, tra i molti, per l’Ottocento e il Novecento. 12 R. Orledge, Debussy and The Theatre, Cambridge, 1982. Cfr. anche J. Maehder, A la recherche d’un Pelléas. Studi sull’estetica drammatico-musicale di Claude Debussy, in Claude Debussy. Pelléas et Mélisande. Le Marthyre de SaintSébastien, Gran Teatro La Fenice cit., pp. 145-160. Mallarmé, ha scritto testi in cui più che l’azione drammatica, più che la dinamica della rappresentazione scenica, è la parola poetica a dominare l’azione. Maeterlinck negava uno sviluppo psicologico ai personaggi dei suoi drammi, soggetti come li vedeva a subire i colpi del destino del quale il dramma nulla avrebbe potuto spiegare: “étrange et silencieuse tragédie de l’être et de l’immensité”13. Anche Debussy, mentre stava lavorando al dramma Axël (1890) di Villiers de l’IsleAdam, soltanto abbozzato, si riconosceva in un’estetica teatrale nella quale l’intreccio e i caratteri dei personaggi gli sembravano del tutto secondari: il ‘pezzo’ in se stesso gli appariva soltanto “le voile”, il velo della causa, che era di tutt’altra natura. 13 J. Maedher, in A la recherche d’un Pelléas cit., p. 147 ricorda che nei saggi di Maeterlinck si trovano epressioni come questa che abbiamo riportato. Fig. 61 La prima pagina della partitura del Prélude à l’après-midi d’un faune (1894) di Claude Debussy 2. Pelléas et Mélisande “[…] et il faut dire tout cela avec do, ré, mi, fa, sol, la, si, do. Quel métier!”. Claude Debussy In questo senso, la sua opera lirica Pelléas et Mélisande composta tra il 1893 e il 1902 su testo del maggiore esponente del teatro simbolista, lo scrittore belga Maurice Maeterlinck,14 costituisce una fondamentale testimonianza. Ai suoi testi si ispirarono altri celebri musicisti quali G. Fauré, P. Dukas, A. Schoenberg, J. Sibelius, G. Puccini, Cyril Scott, A. Zemlinsky. Il lavoro teatrale di Maeterlinck presentava notevoli elementi innovativi per quanto riguarda la tematica, la scenografia, le figure dei personaggi, il simbolismo fortemente allusivo. Mallarmé ne aveva tessuto le lodi, nel 1893, sottolineando che in quell’arte tutto diveniva musica e che anche un solo strumento come il violino avrebbe nociuto.15 La versione teatrale in prosa comprendeva diciannove scene e quindi corrispondenti fondali (considerando che l’appartamento nel castello viene riproposto cinque volte16. La scelta dei colori che dominavano le scene era stata effettuata con molta cura: s’imponevano il blu scuro, il color malva, l’arancio e varie tonalità di verde (verde-muschio, verde-acqua, verde-luna). Il fogliame della foresta appariva folto e sinuoso; il castello veniva avvolto nelle brume, in una dimensione di sogno, evanescente, per soddisfare la richiesta di imprecisione voluta dallo scrittore. Vi erano, insomma, tutti gli ‘ingredienti’ per affascinare Debussy, per soddisfare la sua stessa richiesta di imprecisione nelle cose dell’arte, la sua propensione all’allusività, al suggerire più che dire. Espressioni come quelle che segnaleremo di seguito dal testo di Maeterlinck devono aver esercitato un impatto notevole sulla sensibilità del compositore17. Dopo aver concesso l’autorizzazione a mettere in musica il suo dramma, tuttavia, lo scrittore si distaccò dal compositore, attribuendo tanto a lui quanto al direttore dell’Opéra-Comique Albert Carré la responsabilità di aver tradito il suo dramma, averlo reso a lui estraneo e quasi nemico18. Che tutto sia da imputare alla scelta di attribuire il ruolo di Mélisande da parte di Carré e di Debussy alla cantante Mary Garden invece che a Georgette Leblanc (preferita dal drammaturgo), come si è spesso scritto, ci pare francamente non corrispondente al vero. Sembra più verosimile, invece, che i tagli accordati inizialmente siano stati ritenuti in seguito da Maeterlinck responsabili di uno sconvolgimento che non aveva evidentemente calcolato inizialmente. Ma diversi anni dopo la morte del compositore, Maeterlinck avrebbe espresso all’opposto tutta la sua ammirazione per la musica di Debussy19. Sembra che la sola volta20 in cui lo scrittore ebbe modo di ascoltare l’opera di Debussy sia stata nel 1927 quando al Metropolitan Opera House di New York fu rappresentato il primo atto, una versione in ogni caso assai incompleta, quindi. Tra le particolarità della partitura di Debussy, va annoverata anche la scelta di comporre mantenendo la struttura formale e metrica in prosa del dramma, contribuendo così alla trasformazione del ruolo svolto dal libretto nel teatro lirico. Non era una novità assoluta in realtà, in 14 F. C. Ricci, Il Pelléas et Mélisande di Debussy tra Simbolismo e Impressionismo, Bari, Adriatica Editrice, 1974 (in particolare pp. 119-146); C. Migliaccio, Invito all’ascolto di Debussy, Milano, Mursia, 1997, pp. 115-132; P. Rapetto, Il sogno di Pan. Saggio su Debussy, Genova, Il Melangolo, 2000, pp. 73-84. 15 Maurice Maeterlinck, Pelléas e Mélisande, traduzione di G. Davico Bonino, Commento musicologico di E. Girardi, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 18 (la testimonianza di Mallarmé apparve il 1° luglio del 1893 sul “National Observer”). 16 Cfr. Ivi, pp. 20 e sgg. per ulteriori ragguagli. 17 I riferimenti agli atti e alle scene, nonché alla numerazione delle pagine che indichiamo, sono tratti dalla trad. it. Feltrinelli cit.: Maurice Maeterlinck, Pelléas e Mélisande cit. 18 Frasi simili si possono leggere qua e là tra le righe di alcune lettere presentate da R. Peter, Claude Debussy. Editions augmentée de plusieurs chapitres et de lettres inédites de Claude Debussy, Paris, Gallimard, 1944, pp. 175-176. 19 J. Risset, “Ce n’est pas une rose” cit., p. 275. 20 Cfr. la nota 4 di p. 137 in O. Thompson, Debussy Man and Artist, New York, Dover Publications, 1965. quanto compositori russi come Alexander Dargomyzhsky e Modest Musorgskij, tra il 1866 e il 1869, avevano dato origine alla creazione del nuovo genere della “Literaturoper”. Pelléas et Mélisande, con la sua intonazione del testo in prosa, ha preceduto in questo senso opere successive e importanti quali Salomè (1905, da Oscar Wilde) di Richard Straus; Parisina (1913, da Gabriele d’Annunzio) di Pietro Mascagni; Francesca da Rimini (1914, ancora da D’Annunzio) di Riccardo Zandonai; Wozzeck di Alban Berg, (1925, da Georg Büchner), per citare qualche titolo dei primi decenni del Novecento. Allontanandosi quindi dalla tradizione del canto spiegato, Debussy tendeva sempre più con il suo recitativo, con la sua declamazione rispettosa della lingua francese, a dare respiro all’invisibile e all’inesprimibile. In questa scelta appare evidente la sua ricerca di andare oltre il teatro d’opera tradizionale o anche a lui contemporaneo che relegava in secondo piano la poesia. Il dramma di Maeterlinck presenta diversi simboli associati a cose e luoghi che non possono indicare esclusivamente ciò che essi rappresentano, carichi come sono di rimandi più o meno chiaramente interpretabili. Così è difficile, se non impossibile nella vicenda creata dallo scrittore, pensare che l’acqua sia soltanto l’elemento materiale della vita di tutti i giorni; il pozzo in cui cade l’anello di Mélisande sembra alludere all’inconscio; la fontana dei ciechi sembrerebbe evocare l’impossibilità dell’uomo di poter vedere chiaramente, e comprendere, il proprio destino e così via. Debussy ha dato ‘voce’ a questi simboli, con note, accordi, timbri diversi e anche silenzi che avvolgono efficacemente di ulteriore mistero, ci sembra, la narrazione teatrale. Così, per fare solo qualche esempio en passant, in una partitura21 in cui abbondano prevalentemente i p e i pp e i più che pp, è per mezzo dei suoni cupi dei contrabbassi divisi in due, ai violoncelli “en sourdine” e tre fagotti in ritmo di 4/4 “Très modéré” che veniamo introdotti dalle prime battute nel clima misterioso della foresta, seguiti alla batt. 5 dal timbro più aspro dei due clarinetti in sib, del corno inglese e da altri due oboi, sempre tutti in pp, come in pp li raggiungono le viole “très expressif”, e poi i tre flauti e i timbales, e i violini fino alla diciannovesima battuta quando si apre il sipario (p. 4, cifra 1) e poi altre quattro battute in “molto diminuendo”, lasciando i soli violoncelli divisi in due a sostenere l’entrata di Golaud, perdutosi nella foresta. Le sue parole (“Je ne pourrais plus sortir de cette forêt”) vengono pronunciate con un recitativo che insiste sulla nota re (successione di biscrome, poi di terzine di semiminime e crome), infine di una sola nota più lunga (un sib di minima, sostenuto da terzine di violoncelli divisi e in sordina), i contrabbassi in pp ancora con successioni di terzine come a riflettere lo stato d’animo del principe. Mentre i fagotti producono singole note al grave, i clarinetti pure in sordina, realizzano alcuni espressivi bicordi (p. 5, cifra 3). Tutto ciò per creare un clima espressivo ombroso à la Musorgskij, che ricorda un po’, pur con altri mezzi, il cupo preludio del Boris Godunov, una partitura che Debussy conosceva molto bene e che apprezzava molto. Ma altrettanto magistrali sono le scelte estetiche del compositore in contesti diametralmente opposti. Così, mentre i passi dei due fratelli sono simboleggiati dal pizzicato dei violoncelli e dei contrabbassi, la scelta delle arpe appare perfetta (Atto terzo, Scena II, p. 193, cifra 31) quando appaiono dopo l’uscita di Golaud e del fratellastro Pelléas dai sotterranei del castello. I loro arpeggi continuano (Atto III, Scena III, p. 199: Une terrasse au sortir des souterrains) sembrano rinviare al senso di liberazione provato da Pelléas (“Ah! Ah! je respire enfin”, p. 220) e al vento fresco che egli ora può respirare (p. 203). Molti sarebbero gli esempi da riportare non solo per come ha utilizzato gli strumenti e le voci, in senso timbrico ed espressivo non meno del suo uso del silenzio. Quando deve dare rilievo a qualche frase o singolo termine allora la musica tace. Tra le varie letture, più o meno suggestive o descrittive del dramma, si può annoverare almeno di sfuggita una lettura psicologica dei personaggi22. 21 I numeri tra parentesi nel nostro testo corrispondono alla numerazione della partitura di Pelléas et Mélisande della edizione Dover cit. 22 Ma per gli esiti di questa interpretazione non posso qui che rinviare all’autrice: C. Maurer Zenck, Pelléas et Mélisande. Il dramma di Maeterlinck e l’opera di Debussy. Uno studio sul fin-de-siècle nel vol. “I consigli del vento che passa”. Studi su Debussy, Milano, Edizioni Unicopli, Convegno Internazionale Milano, Teatro alla Scala 2-4 Vediamo ora qui di seguito alcuni passaggi nel testo di Maeterlinck che mi sembrano particolarmente interessanti per coglierne alcuni elementi essenziali e di particolare rilevanza sul piano poetico. Credo che Debussy debba averli trovati particolarmente suggestivi ed emozionanti sul piano umano e nelle loro possibili ‘traduzioni’ in musica, nonostante alcune scene e frasi siano state da lui stesso eliminate. Eliminata, stranamente, anche la canzone di Mélisande, di cui invece Gabriel Fauré fece una bella versione23, inserita nella sua op. 80. Atto primo, Scena prima: La porta del castello (pp. 45-46). Alle grida delle serve (dall’interno), “Aprite la porta! Aprite la porta!” il portinaio risponde “[…] uscite dalle piccole porte; ve ne sono molte!...(p. 45); Tutte le serve compaiono sulla soglia e la sorpassano. – Scena seconda. Una foresta. Si scorge Mélisande sul bordo di una fontana. – Entra Golaud. Scena terza: Una sala nel castello. Si scorgono Arkël e Geneviève. ARKËL. “Sono molto vecchio, eppure non ho ancora visto chiaro, neppure per un istante, dentro di me: come volete che giudichi quel che altri hanno fatto? Sono prossimo a morire, e non riesco neanche a giudicare me stesso… Ci si inganna sempre quando non si chiudono gli occhi per perdonare o per meglio guardare in se stessi. […] Ciò ci sembra strano, perché non vediamo mai altro che il rovescio dei destini…persino il rovescio del nostro…” (p. 49); Entra Pelléas. Scena quarta: Davanti al castello. Entrano Geneviève e Mélisande. GENEVIÈVE: “Anche noi cerchiamo la luce”. Atto secondo, Scena prima: Una fontana nel parco. Entrano Pelléas e Mélisande MÈLISANDE: “Ora mi sdraierò sul marmo. – Vorrei vedere il fondo dell’acqua”. – PELLÉAS: “Nessuno l’ha mai veduto”. Scena seconda: Un appartamento nel castello. Si scorge Golaud steso sul suo letto; Mélisande è al suo capezzale MÉLISANDE: “…non si vede mai il cielo limpido”. (p. 57) Scena terza: Davanti ad una grotta Entrano Pelléas e Mélisande. PELLÉAS: “Vi sono stalattiti che assomigliano a piante e a uomini. È piena di tenebre turchine. (p. 59) Scena quarta Un appartamento nel castello. Si scorgono Arkël e Pelléas Atto terzo, Scena prima: Un appartamento nel castello. Si scorgono Pelléas e Mélisande. Mélisande fila la sua canocchia in fondo alla sala Mélisande (cantando a mezza voce, mentre fila) San Daniele e San Michele San Michele e San Raffaele [je suis née un dimanche, un dimanche à midi.] Questo è il testo che Debussy24 ha utilizzato per far intonare a Mélisande una breve canzone di sapore medievaleggiante, sostenuta da un lieve accompagnamento orchestrale (i due versi tra parentesi quadre - assenti nel testo di Maeterlinck nella traduzione italiana cit. - sono invece presenti nella versione del compositore). giugno 1986, Atti a cura di P. Petazzi, pp.223-272. Nello stesso vol., vedi anche J. Risset, “Ce n’est pas une rose”. Debussy e Maeterlinck, pp. 273-279 e D. Grayson, Il “Pelléas “autentico”, pp. 281-307. 23 Pelléas et Mélisande, Musique de scène comprende: I. Prélude. Quasi Adagio; II. Fileuse. Andantino quasi Allegretto Chanson de Mélisande; III Sicilienne. Allegretto molto moderato; IV. Molto Adagio (La Mort de Mélisande). Rimaste inedite inizialmente, le musiche di scena di Fauré furono rappresentate a Londra in inglese nel 1898, senza l’esecuzione della Chanson de Mélisande, né apparve nella suite per orchestra pubblicata nel 1901 dall’editore Hamelle e che il compositore dedicò alla principessa di Polignac. 24 Pelléas et Mélisande, ed. Dover cit., Scène I “Un des tours du château. Un chemin de ronde passe sous une fenêtre de la tour”, pp. 151 sgg: “MÉLISANDE à la fenêtre tandis que’elle peigne ses cheveux dénoués” : solo cinque battute per mettere in musica i quattro versi del poeta e che tuttavia, aprono ad una dimensione lirica contenuta che si allontana dagli onnipresenti recitativi su cui l’opera si era stagliata fino a questo momento e sui quali continuerà a svilupparsi. Qui, nella tonalità con un diesis in chiave di Mi minore, il canto si eleva discretamente. Scena seconda Una delle torri del castello. Un cammino di ronda passa sotto una finestra della torre Mélisande (alla finestra, mentre si pettina i capelli sciolti) Le tre sorelle cieche, (speriamo ancora). Le tre sorelle cieche, hanno le loro lampade d’oro. Salgono sulla torre, (loro, voi e noi). Salgono sulla torre, aspettano sette giorni. Ah! La prima dice, (speriamo ancora). Ah la prima dice, sento le nostre luci. Ah! la seconda dice, (loro, voi e noi). Ah! la seconda dice, è il re che sale. No, la più santa dice, (speriamo ancora). No, la più santa dice, le luci si sono spente. (pp. 65-66) Entrano. Pelléas sul cammino di ronda. Mélisande si sporge dalla finestra. MÉLISANDE: “ Vedo una rosa nelle tenebre” Mentre si sporge, la sua chioma d’un tratto si sgroviglia e inonda Pelléas Alcune colombe escono dalla torre e volano intorno a loro nella notte. Entra Golaud sul cammino di ronda Scena terza I sotterranei del castello. Entrano Golaud e Pélleas GOLAUD: “Ebbene, ecco l’acqua stagnante di cui vi parlavo…Sentite l’odore di morte che sale? […] C’è qui un lavorìo segreto che non si può nemmeno supporre […] Vedete il baratro? Scena quarta: Una terrazza all’uscita dei sotterranei Entrano Golaud e Pelléas PELLÉAS: “[…] C’è la sotto un’aria umida e pesante come una rugiada di piombo, e tenebre spesse come un pastone avvelenato” (p. 70) Scena quinta: Davanti al castello Entrano Golaud e il piccolo Yniold GOLAUD: “Me ne sto qui come un cieco che cerca il suo tesoro in fondo all’oceano!...Me ne sto qui come un neonato perduto nella foresta […]” (p. 73) Atto quarto: Scena prima Un corridoio nel castello Entrano e s’incontrano Pelléas e Mélisande PELLÉAS: “Esco dalla camera di mio padre […]” ‘Sei tu, Pelléas? Guarda, guarda, non l’avevo mai notato, ma hai il viso serio e affabile di quelli che non vivranno a lungo…Bisogna viaggiare; bisogna viaggiare…” (p. 77) Scena seconda Un appartamento nel castello. Si scorgono Arkël e Mélisande ARKËL: “[…] i vecchi hanno bisogno di toccare con le loro labbra la fronte d’una donna o una guancia d’un bambino, per credere ancora alla freschezza della vita, e allontanare per un istante le minacce della morte […] Lasciati guardare così, da vicino, un momento… si ha un tale bisogno di bellezza nei paraggi della morte .” (p. 79) Alle parole di Mélisande che grida la propria infelicità, il vecchio risponde “Se fossi Dio, avrei pietà del cuore degli uomini…” Scena terza: Una terrazza del castello Si scorge il piccolo Yniold che cerca di sollevare un blocco di roccia. Scena quarta: Una fontana nel parco Entra Pelléas PELLÉAS: “Ho giocato in sogno con le insidie del destino […] E tutti questi ricordi …è come se portassi via un po’ di acqua in un otre di mussola…Bisogna che la veda un’ultima volta, fino in fondo al cuore…Bisogna che le dica tutto ciò che non ho detto…” (p. 83) Entra Mélisande MÉLISANDE: “Sì, sì; sono felice, ma sono triste…”, PELLÉAS “Si è tristi, spesso, quando si ama…[…] Sei tanto bella che sembra tu stia per morire…[…] Ci sono tante cose che non si sapranno mai…Aspettiamo sempre; e poi…[…]Tutto è perduto, tutto è salvato! Tutto è salvato stasera!” (p. 85) Atto quinto, Scena prima: Una sala bassa nel castello. Si scorgono le serve riunite, mentre fuori alcuni bambini giocano davanti a una delle finestrine alte della sala LA VECCHIA SERVA Quando la sventura s’annida in casa, potete tacere quanto vi pare (p. 91) Scena seconda Un appartamento nel castello. Si scorgono Arkel, Golaud e il medico in un angolo della camera. Mélisande è distesa sul suo letto. IL MEDICO: “È nata senza ragione…per morire; e muore senza ragione…” (p. 93) […] ARKËL: “L’anima umana è molto silenziosa…L’anima umana ama andarsene da sola…Soffre così timidamente […]”. La penultima didascalia teatrale che Maeterlinck aveva preparato per il suo dramma reca questa indicazione: In questo momento, tutte le serve cadono all’improvviso in ginocchio in fondo alla camera. E dobbiamo immaginarlo l’impatto, il forte impatto emotivo che chi aveva visto il suo dramma deve aver provato alla vista di quell’atto di pietà delle serve all’ascolto delle ultime parole, quelle pronunciate dal vecchio ARKËL: “[…] Era un piccolo essere così tranquillo, così timido e così silenzioso…Era un povero piccolo essere misterioso come tutti. Lei è là, come se fosse la sorella maggiore della sua creatura..[…] Bisogna che viva, ora, al suo posto…È il turno della povera piccola. (escono in silenzio)” (p. 97)25. Tutto è finito, quindi, ma anche tutto ricomincia, nell’incessante e disperato ‘gioco’ delle vite che si affacciano, scompaiono e, dando la vita stessa, rinnovano l’Eterno movimento dell’esistenza dei piccoli esseri misteriosi, misteriosi “come tutti”. Debussy aveva apportato di sua scelta alcuni cambiamenti: aveva tagliato la prima scena del primo atto e la prima scena dell’ultimo atto, che nell’originale versione di Maurice Maeterlinck prevedevano invece l’apparizione delle serve, il cui ruolo ci sembra svolgere la funzione del coro nelle tragedie greche o nelle monumentali Passioni di J. S. Bach. Il compositore si era dovuto rassegnare ad elaborare degli intervalli musicali tra un atto e l’altro per consentire i necessari cambiamenti di scena. Fu Albert Carré26, direttore dell’Opéra Comique, a richiederlo. E fu una fortuna poiché, come lo stesso Carré affermava, tali entr’actes sono dei “chefs-d’oeuvre dans un chef d’oeuvre”. Pur non assimilabili alla funzione e alla tecnica wagneriana dei leitmotiven, nel Pelléas et Mélisande si possono rintracciare alcuni motivi musicali. Maurice Emmanuel27 ne indicava tredici, così definibili: I. (Les temps lointains…); II. Golaud; III. Mélisande; IV. (La destinée), V. Pelléas; VI. La fontane; VII. (L’anneau); VIII. Yniold; IX. (L’amour déclaré); X. (La mort); XI. (L’amour éperdu); XII. L’enfant; XIII. (Le pardon). Cerchiamo ora di sintetizzare al massimo grado gli aspetti musicali che caratterizzano la melodia, l’armonia, il ritmo e il timbro della partitura di Debussy. Il fatto che la vicenda si svolga in epoca medievale (ma quale Medioevo precisamente?) e in un luogo immaginario (Allemonde è un regno puramente fantastico dell’Europa post-carolingia) deve senz’altro aver stimolato il compositore a orientarsi verso soluzioni che dovevano opporsi alla tradizione operistica più o meno a lui contemporanea, sia francese che italiana. Le sue critiche andavano sia a Massenet, a 25 Quello stesso silenzio che anche Debussy apprezzava molto e al quale aveva cercato di dare un importante rilievo nelle sue composizioni e in questa in particolare. Nemmeno cosciente risulta alla fine Mélisande del suo essere madre; di aver dato la vita alla sua bambina che continuerà quindi a rinnovare l’incessante ripetersi del Destino, del già accaduto nella ruota senza fine del Tempo. 26 Ne dava notizia Maurice Emmanuel nel suo Pelléas et Mélisande de Debussy. Étude et analyse, Paris, Editions Mellottée, 1926, p. 49. 27 Ivi, p. 135. Rinvio a questo studio per la trattazione dei vari motivi elencati. Cfr. anche le osservazioni di C. Migliaccio, Invito all’ascolto di Debussy, Milano, Mursia, 1997, pp. 115-132. Meyerbeer e Charpentier, sia a Mascagni, Puccini e Leoncavallo. Bisognava quindi negare molti dei valori che avevano caratterizzato le opere di questi maestri. Il canto doveva essere sostanzialmente negato, per privilegiare l’intonazione più vicina al linguaggio della quotidianità: una sorta di recitativo sillabico che, tutt’al più, si sarebbe dovuto innalzare al livello di un sobrio arioso, privo di slanci eccessivi, nei momenti più lirici. Nessuna strizzata d’occhio, quindi, alla vocalità più amata dal pubblico! Era necessario che la melodia fosse essenzialmente modale, sulla scorta di maestri ammirati del Rinascimento come l’italiano Pierluigi da Palestrina o lo spagnolo Tomás Luis de Victoria. L’armonia doveva procedere liberamente, senza legami tradizionalmente ritenuti regole o leggi inviolabili: gli accordi consonanti o dissonanti utilizzati non ‘risolvono’, non seguono un principio organizzativo di evoluzione. Altro terreno sul quale lavorare era l’orchestra che, pur sostanziosa dal punto di vista del numero degli strumenti utilizzati, è trattata con estrema delicatezza, proponendo raramente nella sua totalità l’organico impiegato, mantenendola all’interno di volumi sonori il cui massimo livello richiesto è il “forte”, richiedendo più volte l’utilizzo dei suoni armonici che alleggeriscono la sonorità e sfruttando in tal senso anche gli archi divisi, il delicato uso dell’arpa e della celesta. Insomma, il processo tradizionale di tensione e distensione del flusso musicale tendono ad essere elusi, come se il compositore volesse per così dire bloccare in uno stato di immobilità il discorso musicale, come se procedesse per “macchie sonore”, con sfasature ritmiche che creano un effetto di sospensione. Inoltre, una scelta di accostamenti timbrici personalissimi grazie anche ad una tecnica “divisionista” che rende cameristica l’orchestrazione per mezzo della scarsità dei raddoppi strumentali, della divisione appunto a due , a tre e quattro. E, per ottenere tutto questo, si era avvalso spontaneamente – come scrisse in una lettera al violinista e compositore Ernest Chausson – di una “piccola alchimia”. Alludeva a quel “raro mezzo che è il silenzio, come di un fattore espressivo” e che poteva essere il “solo modo di far valere l’azione di una frase”28. Sul piano storiografico possiamo ritenere che Debussy sia rimasto, con Pelléas et Mélisande, essenzialmente un autore isolato, al quale non possono essere ascritti propriamente dei seguaci, dei prosecutori o anche dei semplici imitatori. Sul piano filologico, sappiamo che il compositore aveva revisionato più volte, in fasi diverse, la sua opera, apportando aggiunte nelle bozze mentre stava lavorando a completamento della partitura per la pubblicazione. Questo avveniva nell’estate del 1903, parecchi mesi dopo l’ultima rappresentazione e ulteriori revisioni vennero effettuate un anno dopo la pubblicazione della partitura. Tali cambiamenti si trovano ricopiati nella partitura custodita negli archivi delle edizioni Durand, utilizzata come base per la seconda edizione della partitura orchestrale. Nelle varie partiture noleggiate, queste revisioni furono copiate a mano e, successivamente, introdotte nelle partiture destinate alla pubblicazione: nel 1950 nella partitura da studio e nel 1966 in quella per il direttore. Questa è la versione “standard” che oggi è principalmente ascoltata e che, come afferma David Grayson, non corrisponde alle “ultime idee” di Debussy, in quanto queste sono presenti nella partitura personale del compositore, custodita nella Biblioteca François Lang di Royaumont29. Pierre Boulez non è stato certo tenero con il suo giudizio, come sempre tagliente. A lui la forma musicale sembrava non utilizzare pienamente “il suo potere di espressione e di costruzione: alcune scene gli apparivano “fatte troppo visibilmente di frammenti uniti testa a testa, dove ripetizioni e progressioni armoniche (di due misure in due) accentuano la simmetria semplicistica”; ironizzava sul “recitativo infinito” dell’opera di Debussy, alludendo alla melodia infinita di Wagner, affermando che Pelléas era a suo avviso invecchiato.30 Salvo poi, in tempi recenti, decantarne le lodi ed eseguirlo ancora in registrazioni discografiche e in produzioni teatrali31! René Leibowitz, nelle righe conclusive del capitolo diciottesimo della sua 28 Lettera del 2 ottobre 1893, citata a nota 18 di p. 116 da E. Girardi, Mélisande, Debussy e il suono cit. D. Grayson, Il Pelléas “autentico” cit., p. 305. 30 P. Boulez, Note di apprendistato, Torino, Einaudi, 1968, p. 298. 31 Vedi ad es. l’intervista apparsa in “Châtelet. Théâtre musical de Paris”, Mars-Avril 1992, N° 8, pp. 3-6. 29 Histoire de l’opéra32 la definiva come “no man’s land” dell’arte lirica. Che non sia da ricercare, invece che nella tradizione dell’opera lirica, nella nascita e nello sviluppo del cinema – e quindi nella fine dell’arte lirica – la causa di quel non aver avuto fino ad oggi “il coraggio di seguirlo”? Quell’arte cinematografica che ha preso avvio proprio in quella Parigi fin de siècle di cui abbiamo cercato di tratteggiare alcune linee fondamentali, attraverso le opere e il pensiero di alcuni dei suoi più significativi e grandi protagonisti. Arte di cui prenderemo in esame più avanti alcuni aspetti, nel suo nascere, e che vedremo prendere avvio proprio negli anni decisivi della cultura francese di fine Ottocento e di primo Novecento. Ritornando a Pelléas et Mélisande, ricordiamo che l’importanza dell’opera di Maeterlinck e di Debussy è tale che essa ha impegnato non soltanto la riflessione in ambito musicologico ma anche in quello letterario e filosofico. Oltre che aver fatto del testo di Maeterlinck uno dei suoi celebri Pastiches, nella Recherche33 di Proust troviamo riferimenti a Debussy e al Pelléas et Mélisande, opera di moda nelle conversazioni salottiere parigine. Una suggestione fortissima aveva esercitato tanto il testo di Maeterlinck quanto la musica di Debussy in un filosofo intelligente e sensibile alla musica come Vladimir Jankélévitch34. Chi volesse poi affrontare scrupolosamente dal punto di vista filologico ed estetico le problematiche relative alla versione più attendibile della partitura di Debussy – e, conseguentemente, anche ad aspetti di natura estetica e interpretativa – si trova ad affrontare problemi della più diversa natura (dai registri vocali, ad alcuni raddoppi strumentali, alla scenografia ecc.) che hanno dato vita ad esecuzioni in teatro e a diverse registrazioni discografiche35. Il simbolismo di Maeterlinck, il preraffaellismo e la moda della teosofia indù costituiscono lo sfondo sul quale si possono collocare alcune opere di Satie, Ravel e Debussy36. Come Debussy stesso ebbe a dire nel 1889 nel corso di un colloquio con il suo vecchio maestro Ernest Guiraud egli non era tentato di imitare ciò che ammirava in Wagner. Concepiva una forma drammatica diversa, poiché “la musica comincia là dove la parola è impotente ad esprimere; la musica è scritta per l’inesprimibile; vorrei che essa sembrasse uscire dall’ombra e che, qualche istante dopo vi ritornasse; che sempre fosse persona discreta”37. E alla domanda di Guiraud su quale librettista gli sembrasse più idoeneo, Debussy rispondeva con accenti da poeta simbolista: “Colui che, dicendo le cose a metà, mi permetterà di sovrapporre il mio sogno al suo; colui che concepirà personaggi la cui storia e i cui luoghi non saranno di alcun tempo e di alcun luogo; colui che non m’imporrà dispoticamente la “scena da fare” e mi lascerà libero qui o là di avere più arte di lui e portare a compimento la mia opera […] Sogno dei poemi che non mi condannino a trascinare avanti atti lunghi, pesanti, che mi forniscano delle scene mobili, diverse per luoghi e carattere; dove i personaggi non discutano, ma subiscano la vita e la sorte”. Questo privilegio che il musicista accordava all’indeterminato, alla discrezione, al mistero, emerge più volte nella sua corrispondenza di fine secolo. A Henri Lerolle, ad esempio, commentando la scena della morte di Mélisande, sottolineava quanto la gente non potesse “ammettere che uno se ne vada discretamente, come chi ne ha abbastanza di questo pianeta Terra per recarsi là dove spuntano i fiori della serenità!”38. 32 Trad. it. Storia dell’opera, Milano, Garzanti, 1966. Il richiamo è al cap. “Pelléas et Mélisande” ovvero la “no man’s land” dell’arte lirica, pp. 319-331. Contrariamente a Maurice Emmanuel, Leibowitz fa dipendere maggiormente alcune innovazioni di Debussy da Wagner: dall’utilizzo del leitmotiv alle armonizzazioni basate su accordi di nona. 33 Vedi Sodome et Gomorrhe, ed. Gallimard cit., pp. 242-248. 34 Questo è un refrain che ritorna più volte nella profonda riflessione dell’eminente filosofo francese. Ad esempio, in La musique et l’ineffable, a cura di E. Lisciani-Petrini, Napoli, Tempi Moderni, 1983; e Id., Debussy e il mistero, a cura di E. Lisciani-Petrini, traduzione di C. Migliaccio, Milano, SE, 2012. 35 Vedi L.-M. Suter, Pelléas et Mélisande in Performance, Yale University Press, pp. 45-63 che ha basato le sue riflessioni su una quindicina di recordings. 36 V. Jankélévitch, La musique et les heures, Paris, Seuil, 1988, p. 10. 37 Oltre che nei vari testi dedicati a Debussy dalla musicologia francese che abbiamo citato nelle note, questo colloquio è parzialmente riportato anche in italiano da G. Salvetti, Il Novecento I, p. 45. 38 Lettera citata da F. Lesure, Debussy. Gli anni del Simbolismo cit., p. 163. In una lettera datata venerdì sera, 10 gennaio 1902 e spedita a Robert Godet, Debussy informava che la decisione era stata presa. Pelléas et Mélisande sarebbe stata rappresentata all’Opéra-Comique, aggiungendo che in quel periodo egli l’aveva perfino “un peu trop joué”39. Léon Vallas, ricorda diverse prese di posizione negative o favorevoli alle prime rappresentazioni dell’opera di Debussy. Accanto a chi derideva il lavoro del compositore vi era chi riteneva Pelléas et Mélisande un’opera “malsaine et néfaste”, tendente nientemeno che alla “diminution et à la ruine de notre être”.40 Ma André Messager41, tra gli altri, che fu il primo direttore d’orchestra a dirigere l’opera, ricorda l’impressione irresistibile e unica che aveva esercitato su di lui l’ascolto del lavoro di Debussy, il quale cercava, nella difficile composizione del Pelléas et Mélisande, di migliorare continuamente la partitura, elaborando e rielaborando in quasi una decina d’anni il suo originale lavoro teatrale. Jean Barraqué42 riporta alcuni passaggi del compositore relativi ai timori, alle quasi ossessioni che lo tormentavano nel dare voce ai suoi personaggi. Doveva dare vita e voce a Golaud, il marito di Mélisande e padre del piccolo Yniold, al vecchio Arkël. E tutto ciò egli avrebbe dovuto farlo con delle note di una scala musicale. Che mestiere fare il musicista e dover rendere la complessità dell’anima dei personaggi con dei do, re, mi, fa, sol, la, si lamentava ironicamente! Con Debussy anche la critica è costretta a rivedere le proprie analisi, tradizionalmente fondate soprattutto sul predominio della melodia, dell’armonia e in parte del ritmo. Il suono puro, con le sue opere, comincia a esigere, per così dire, le proprie attenzioni. Il ‘problema’ del suono, del suo ‘mistero’, aveva sollecitato Debussy a riflettere e a scriverci su nella sua raccolta Monsieur Croche antidilettante.43 Stefan Jarocinski44, in un contributo meno conosciuto, ricorda che, già dal 1894, Debussy avrebbe voluto – nella scena della morte di Mélisande – vedere una parte dell’orchestra sulla scena, al fine di poter meglio avere così “en quelque sorte une mort de toute sonorité” (il richiamo in nota 3 è ad una lettera di Debussy del 28. VII. 1894 indirizzata a H. Lerolle). Non meno importante è il motivo del tempo musicale che, riletto alla luce anche di una riflessione filosofica45, apre a una dimensione non più sorretta da una concezione di un tempo omogeneo e lineare, cosicché viene a sostituirsi una visione fluida del tempo stesso, sulla scorta della riflessione di Henri Bergson e, vorrei aggiungere, di Marcel Proust. In Italia46, ma non solo, il predominio di una visione storica che privilegiava la tradizione musicale tedesca (Wagner-Schoenberg- Berg-WebernScuola di Darmstadt) e quella filosofica pure (Hegel-Adorno-Scuola di Francoforte-neopositivismo 39 Riportata in Claude Debussy, Lettres a deux amis. Soixante-dix lettres inédites a Robert Godet et G. Jean-Aubry, Paris, Librairie José Corti, 1942, pp. 102-103. 40 Cfr.“Pelléas et Mélisande” (1892-1902). Le Debussysme, pp. 177-219 in L. Vallas, Claude Debussy et son temps, Paris, Librairie Félix Alcan, 1932, ricorda diverse prese di posizione negative o favorevoli alle prime rappresentazioni dell’opera di Debussy. Accanto a chi derideva il lavoro del compositore vi era chi riteneva Pelléas et Mélisande un’opera di grande valore (p. 188). 41 A. Messager, Les premières représentations de Pelléas, “Revue Musicale”, 7, 1 May, 1926, pp. 110-112. Sarà “À la mémoire de Georges Hartmann/Et en témoignage de profonde affection à André Messager” che Debussy dedicherà la sua opera. Riprendiamo la dedica dall’ edizione Dover Claude Debussy, Pelléas et Mélisande in Full Score. A questa edizione faremo riferimento per qualche richiamo alla partitura dell’opera di Debussy. 42 Nel suo Debussy, Paris, Éditions du Seuil, 1962, p. 117: “J’ai peur! Il me faut des choses si profondes et si sûres! Il y a là un petit père qui me donne le cauchemar… Maintenant c’est Arkël qui me tourmente; celui-ci, il est d’outre-tombe, et il a cette tendresse désintéressée et prophétique de ceux qui vont bientôt disparaître, et il faut dire tout cela avec do, ré, mi, fa, sol, la, si, do. Quel métier!”. 43 Trad. it. Il signor Croche antidilettante, Milano, Adelphi, 2003 che ricalca nel titolo Il Monsieur Teste di Paul Valéry, ovviamente! Nell’edizione Gallimard del 1971 (seconda ed. 1987), il M. Croche antidilettante è diventato Monsieur Croche et autres écrits, che comprende l’integrale della sua opera critica. Nella edizione del 1987 sono state aggiunte sei nuove interviste che Debussy aveva dato a giornalisti inglesi, americani, ungheresi e italiani. 44 Quelques aspects de l’univers sonore de Debussy, in Debussy et l’évolution de la musique au XXe siècle, Paris, 24 – 31 Octobre 1962, Études réunies et présentées par Edith Weber, Editions du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris, 1967, pp. 167-184: p. 171. 45 Oltre a vari passi nelle opere di Jankélévitch, cfr. anche F. Cannoni, Tempo musicale in Debussy. Influssi bergsoniani e apertura verso una riflessione sul tempo nella musica, “Nuova Rivista Musicale Italiana”, 3/4, Luglio/Dicembre 1992, pp. 433-440. 46 Una riflessione su questi temi è stata aperta da Enrico Fubini nel cap. secondo, Debussy e il simbolismo, pp. 19-31 del suo Il pensiero musicale del Novecento, Pisa, Edizioni ETS, 2007. logico, ecc.) si è negli ultimi decenni andata sviluppando una riflessione musicale e filosofica che ha valorizzato maggiormente, dopo decenni di sottovalutazione o di esclusione, una serie di autori che non hanno fatto riferimento alla cosiddetta “Seconda Scuola musicale di Vienna e alle tematiche, quindi, dell’atonalità, della dodecafonia, del serialismo. In Francia l’impressionismo, il simbolismo, l’esotismo hanno aperto altrettanto interessanti e validissime ‘porte’ su questioni fondamentali del rinnovamento della composizione musicale (e i nomi sono, naturalmente, Fauré, Satie, Debussy, Ravel) e della filosofia contemporanea (Bergson, Valéry, Brelet, Jankélévitch). E, tra gli scrittori delle due tradizioni delle due capitali europee, alla Vienna di Trakl, di Kraus e di Musil, la Parigi di Baudelaire, di Mallarmé e di Proust (ma non solo!), non ha nulla da invidiare. Se poi consideriamo l’importanza di autori quali Musorgskij, Albeniz, Rachmaninov, e i molti altri che in vari centri europei hanno contribuito ad aprire nuovi orizzonti, possiamo ora affermare quanto sia stata parziale l’analisi del filosofo della musica maggiormente valorizzato dall’editoria e a lungo apprezzato dalla critica: T.W.Adorno. Al teatro Debussy aveva pensato da molto tempo ma vi aveva rinunciato dopo diversi tentativi finiti negativamente47. In particolare andrebbe ricordato e meriterebbe più attenzione - oltre al Martyre de Saint-Sébastien48 che sancì anche il rapporto di collaborazione che aveva legato Debussy a Gabriele D’Annunzio - anche quello che vide operare Debussy e Victor Segalen (il cui nome ritroveremo nella pagine che dedicheremo a Paul Gauguin). Il compositore e lo scrittore avevano progettato di lavorare assieme, in sintonia peraltro, in un lavoro teatrale intitolato OrphéeRoi. Soltanto Debussy, secondo lo scrittore, avrebbe potuto guidarlo nella stesura dell’argomento, avendo maturato con Pelléas et Mélisande, “grande esperienza nella prosa lirica”. Debussy, tuttavia, non riteneva di avere esperienza ma soltanto istinto.49 E istintiva, spontanea, era anche la prima impressione che egli aveva quando conosceva qualcuno. L’amicizia non poteva nascere se non c’era quest’aspetto di spontaneità50. Al di là delle controversie anche aspre che si verificarono per la scelta della protagonista femminile del dramma, Maeterlinck era comunque consapevole del talento, se non del “genio”, del musicista francese. Una “persona che amo e ammiro”51, giunse perfino a scrivere e alla quale non intendeva impedire di affrontare il suo testo teatrale in piena autonomia di artista. Debussy avrebbe pensato di musicare anche un altro lavoro teatrale di Maeterlinck, La Princesse Maleine52. Non saprei, invece, dire se egli fosse a conoscenza di altre opere di Maeterlinck: quelle ad esempio, che aveva dedicato ad una trilogia sugli insetti e per la quale si era guadagnato una certa fama presso i suoi contemporanei. Ma mi sembra del tutto verosimile pensare che egli si sarebbe molto 47 Georges Gourdet ricorda parole di Debussy assai significative del suo rapporto con il sogno e con la realtà: “Le drame de Pelléas, qui malgré son atmosphère de rêves, contient beaucoup plus d’humanité que le prétendus documents sur la vie […] Il y a là une langue évocatrice […] les personnages de ce drame tâchent de chanter comme des personnes naturelles et non pas dans une langue arbitraire, faite de traditions surannées”. 48 Il testo originale in francese e la traduzione italiana si possono leggere nel vol. Claude Debussy. Pelléas et Mélisande. Le Marthyre de Saint-Sébastien, Venezia, Grand Teatro la Fenice, 1995. Ricordo qui, en passant, che nella corrispondenza tra il compositore e lo scrittore italiano troviamo qualche riferimento a Pelléas et Mélisande (cfr., ad es., le lettere del 1911 in D’Annunzio-Debussy. Mon cher ami. Epistolario 1910-1917, Firenze, Passigli Editori, pp. 62-63).. Michel Imberty in un articolo (Il senso del tempo e della morte nell’immaginario debussiano, “Nuova Rivista Musicale Italiana”, 3, luglio/settembre 1987, pp. 383-409) ha definito la musica di Debussy come dominata dal timore della morte e la sua scrittura come un “vero e proprio esorcismo per tentare di rendere al tempo la sua dimensione vitale” (p. 403). E, in conseguenza di questo suo postulato, ritiene la delusione successiva all’entusiasmo iniziale nei confronti del testo di D’Annunzio come dovuto non solo all’ampollosità del lavoro ma anche alla sua mancanza di fede religiosa, salvo poi affermare che egli è riuscito comunque a scrivere “un’opera di grande varietà e nello stesso tempo di un’unità effettiva e piena di bellezza” (p. 404). 49 Cristina Cano, nell’articolo Victor Segalen e Claude Debussy, “Nuova Rivista Musicale Italiana”, 2, aprile/giugno 1980, ha trattato il rapporto di collaborazione e il carteggio tra i due, sottolineando l’influenza del compositore sullo studioso. 50 Così lo ricordava Jean Lépine in La vie de Claude Debussy, Paris, Albin Michel, 1930, p. 140. 51 Ivi, p. 165. 52 Con quest’opera, pubblicata nel 1889, Maeterlinck, raggiunse la fama verso i ventisette anni. riconosciuto in queste righe di Maurice Maeterlinck che poniamo a conclusione delle nostre ‘impressioni’ su di lui e sul suo tempo: “La verità è che a noi ripugna ammettere che su questa terra esistano altri esseri che, per la loro intelligenza o le loro qualità morali, abbiano gli stessi nostri titoli a rappresentare non so quale parte eccezionale nell’universo. Il pensare che essi possano dividere con noi un privilegio, che crediamo unico, scuote le nostre millenarie illusioni, ci umilia, ci scoraggia. Li vediamo nascere, vivere, compiere i loro umili doveri, poi scomparire a centinaia di miliardi, senza lasciare tracce, senza che nessuno e nulla si turbi, senza raggiungere altra meta che la morte. Non vogliamo dire a noi stessi che anche per noi le cose andranno allo stesso modo. E preferiremmo che tutto fosse stupido, istintivo, automatico, irresponsabile. Un giorno impareremo anche noi a contentarci della vita, come tutto ciò che vive sotto questo globo. E sarà l’ultimo ideale”53. ‘Ultimo ideale’, o primo forse, che ci sembra caratterizzare lo stesso vago sostrato, lo stesso primo e ultimo ‘ideale’ - non …‘stupido’ - che sta al ‘fondo’, come presupposto, come fondamento, malinconico e lacerato con i suoi eterei personaggi, immersi nel clima decadente della “fin de siècle”, presentati nella loro natura vuota come smarriti e atterriti dal mistero dell’amore, della gelosia, della vita e della morte, del Pelléas et Mélisande di Maurice Maeterlinck e di Claude Debussy. Dramma teatrale, e poi anche musicale, dove bellezza e morte sembrano convergere idealmente se non coincidere precisamente. Mi riferisco a quel passo54 del dramma un po’ allusivo, così evocativo e quasi un sussurro vorremmo dire, laddove Pelléas rivolgendosi a Mélisande le porge queste semplici e misteriose parole: “Sei così bella che si direbbe tu stia per morire”55 (Atto Quarto, Scena terza) 53 Cfr. anche G. Macchia, Il mito di Parigi cit., p. 199. Debussy aveva trascorso intere giornate “à la poursuite de ce rien dont elle est faite (Mélisande) […])”; Id., Elogio della luce, Milano, Adelphi, 1990, p. 171. 54 Inspiegabilmente tagliato da Debussy in partitura. 55 Maurice Maeterlinck, Pelléas e Mélisande, traduzione di G. Davico Bonino, Commento musicologico di E. Girardi, Milano, Feltrinelli, 1993. Fig. 62 Claude Debussy in una foto di Nadar, 1908 ca. Fig. 63 Maurice Maeterlinck, Parigi, in una fotografia del 1901 Fig. 64 Jean Périer, primo interprete di Pelléas, in una foto d’epoca di Nadar, 1902 Fig 65 Mary Garden, prima interprete di Mélisande, in una foto d’epoca del 1908 Fig. 66 La prima pagina della partitura del Pelléas et Mélisande (1902) di Debussy