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Sono un peccatore che non fa più scandalo

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Sono un peccatore che non fa più scandalo
Giovanni Testori: le confessioni di un cattolico tormentato
Sono un peccatore che non fa più scandalo
Romanziere, poeta, pittore, critico d’arte, regista. Ma soprattutto cristiano militante. Il vulcano-Testori
riesplode con un libro shock dove omosessuali, bambine stuprate, drogati soffrono e si consegnano nelle
mani di Dio. «Ma questa volta», dice, «non farò scalpore». Ecco la sua ultima provocazione
di Ludovica Ripa di Meana (da L’Europeo, 12 aprile 1986)
D – Come mai, Testori, tutto questo furore contro i laici?
T – Non so perché vi siete messi in testa che io faccio tutta questa differenza tra un cattolico e un laico. Non
è mica così. Io sono un cristiano scriteriato, e non vedo a che titolo potrei condannare altri. Certo,
l’ostentazione di certezza, la sufficienza, l’ironia dei laici quando montano in cattedra e pretendono di
insegnare al mondo chissà che, parlando in astratto, non le sopporto tanto, non mi interessano. Anche se, a
furia di parlare in astratto, vedo bene che questi diventano ricchi, potenti, forti... Ma poi, perché chiamarli
“laici”? I laici sono persone rispettabilissime. Questi sono “laicisti”. E la caccia al cattolico condotta da certi
giornali, tipo Repubblica o L’Espresso, è roba da laicisti: è peggio della caccia alle streghe dei tempi
dell’Inquisizione.
D – E secondo lei, oggi, i cattolici, la caccia alle streghe non la fanno più?
T – Se la fanno, la fanno anche loro contro i cattolici, esattamente come gli altri. Infatti, esistono anche i
cattolicisti, cosa crede? La linea di demarcazione vera non passa tra laici e cattolici: passa tra quelli che
vivono e quelli che fanno finta, che hanno abdicato alla vita per arrivare a posti di dominio: dominio
economico, politico, sociale, snobbistico. Allora, che questi siano cattolici o laici è uguale, hanno abdicato.
D – La linea di demarcazione non sarà quella, ma lei ha fatto fior di battaglie contro la cultura laica: aborto,
eutanasia…
T – Io sono antiabortista, sono contro l’eutanasia, contro gli armamenti, contro questo orrendo potere della
scienza, che cerca di fabbricare gli uomini in provetta. Sono contro la distruzione dell’eros che sta
nell’amore, e che viene praticata in nome della liberazione del sesso. D’altra parte, la sicumera, l’isteria con
cui i laicisti conducono le loro campagna significa che sentono la ritorsione della coscienza, e alzano la voce
per tacitarla. Certo che hanno torto, come tutti quelli che hanno paura della vita!
Il potere di Satana
D – Perché pensa che la liberazione sessuale distrugga l’eros?
T- Credo che l’elegia pubblicitaria sul corpo, da cui siamo sommersi, sia una diffamazione, una diminuzione
della forza del corpo. Tutto è esposto, e tutto è schiacciato. Il corpo che ti impongono la televisione, la
pubblicità, la moda non ha le dimensioni modeste ma sacre del corpo umano. Se tu ami una persona, c’è
l’odore, la fatica, c’è il sonno, l’alito… c’è tutta quella miseria, che fa la grandezza dell’uomo. La cosa
grande, la cosa enorme è l’incarnazione di Cristo: tutto l’universo creato è coinvolto nell’incarnazione e nella
passione di Cristo. E questi vogliono sostituire alla creazione che nasce dal congiungimento di due
imperfezioni, perché abbia vita un essere imperfetto ma destinato alle ceneri e all’eterno, vogliono sostituirla
con la creazione in vitro di esseri dominabili, assoggettati a un potere che è sopra a quello delle grandi
potenze, e che in qualche modo le accomuna: il potere della tecnologia che strozza la creazione di Dio
redenta dal Crtisto incarnato, per sostituirla con una riproduzione di laboratorio, atrocemente astratta. Questo
è il potere di Satana.
D – Dunque, Satana, per lei è l’astrazione tecnologica, e la sua ricerca è ricerca della concretezza, della
corporalità.
T – Non è che io ricerchi, io “sono” l’altra cosa. Non sono per nulla astratto. Non so se sono troppo fisico, se
esiste questo troppo. Ma certo, sono un po’ ingombrante. Quando entro nelle case – cosa che succede sempre
più di rado – bè, ho sempre l’impressione che sia entrato un toro, di una goffaggine tremenda, faccio tutti i
movimenti stretti per non far cadere la roba giù dai tavolini, e la roba cade.
D – Lei rifiuta il potere e le sue esibizioni. Non pensa che papa Wojtyla con questo suo continuo viaggiare in
jet per il mondo, esibisca potere?
T – Io credo che per rispondere alla cultura del consumismo, del mega-show, della televisione di massa, ci
sono due modi: o ti chiudi nella solitudine del “mea culpa”, oppure cerchi di entrare dentro questa cultura e
cambiarla, cambiandone il significato. Le faccio un paragone che potrebbe sembrare irriverente, tanto è
sproporzionato: i pittori ultimi tedeschi e austriaci (chessò: Baselitz, Hödicke, Fetting, Lüpertz, Zimmer,
Albert…) e anche italiani (Faini, Frangi, Crocicchi, Verdi, Velasco) quelli che più esprimono, secondo me, la
tragedia del nostro tempo, usando le grandi dimensioni: cinque, sei metri. Insomma, le dimensioni della pop
art. Con la differenza che la pop art usava il gran formato del manifesto nella logica della pubblicità, loro
usano questo spazio enorme che crea immagini ossessionanti di dominio, e lo stravolgono, lo fatto esplodere
per creare immagini ultimative, disperatamente individuali, opposte agli interessi e al senso della pubblicità,
e quindi della pop art. Ora, allargando, io credo, io so che il papa sopporta tutto il dolore e la fatica di
cambiare quegli strumenti normalmente adoperati per la negazione della religione, della inevitabilità del
destino umano: cambiarli dal di dentro. E lo fa nel modo più rischioso. Non hanno già cercato di
ammazzarlo? I suoi viaggi in jet sono come l’entrata di Cristo a Gerusalemme. L’asino era l’umiltà, e io
penso che oggi vera umiltà sia quella di accettare questo orrore e mutarlo dal di dentro. Quello che sta
facendo lui è questo, una cosa enorme, di cui soffre enormemente.
D – Lei è da anni in contatto con Comunione e Liberazione, ha scritto anche un libro di colloqui con don
Giussani. In che circostanze è avvenuto questo incontro? Che senso ha?
T – L’anno dopo che era morta mia mamma, nel ’78, o già alla fine del ’77, quando ho cominciato a scrivere
quegli articoli sul Corriere della Sera che tanto orrore hanno fatto, mi ha telefonato un gruppo di ragazzi, né
vescovi, né altro: ragazzi. “Volevamo venire a conoscerla”. “Venite”. Erano di Cl. La cosa che mi ha colpito
subito è la loro umanità. Me, per esempio, mi accettano, mi vogliono bene, con tutto il casino che sono, con
tutto il casino che c’è nelle mie opere. In un mondo così preordinato, così cauto, la loro innocenza è
incredibile. Ma poi, altro che storie, io vedo quello che fanno negli ospedali, nelle carceri, con gli
handicappati. Combattono, magari ironizzano, però di fronte all’essere che ha bisogno non c’è più niente
altro che un infinito spirito di dedizione, di amore, di libertà. La gente non li conosce, e parla…
D – E don Giussani?
T – L’ho conosciuto lì da loro. Avevo un po’ tremore e vergogna, perché mi presentavo così, un povero
peccatore… Poi un giorno, ci siamo visti a tavola, e l’ho trovato un grande… un grande… un umile parroco,
con una conoscenza teologica sconfinata, ma anche con la coscienza dell’esistere. E non predicava affatto:
mi ha ascoltato più di quanto non m’abbia detto lui. Ecco, francamente, una cosa che mi ha stupito.
Ho il segno del male
D – Lei non fa che definirsi un povero peccatore, un cristiano scriteriato… Mi consente di dirle la mia
impressione, è cioè che l’unico peccato che lei davvero non si perdona sia l’omosessualità?
T – Forse il mio più grande peccato è questo qui: di non accettarmi. È come se qualcuno mi avesse calcato il
dito sulla fronte mentre nascevo: il segno dell’unzione e insieme il segno del male. Ma anche se l’amore mio,
proprio la tensione di dannazione d’amore punta verso lì, verso un ragazzo, io non riesco, non posso
accettare in me la negazione della creaturalità. Non mi posso quietare. Cristo mi ha marchiato: il mio peccato
vero è l’insubordinazione.
D – Ha mai avuto la tentazione di generare un figlio?
T – Mai.
D – Questo vuol dire che ha scelto di essere figlio per sempre?
T – Certo, mia madre è la persona che ho amato e amo più al mondo. Però, invece, alcuni di questi ragazzi
sono come miei figli. Non posso spiegare, non c’è una logica, non la conosco, la rimetto a Dio. In queste mie
ultime poesie di Diademata, e in Confiteor, di cui sto facendo la regia, c’è tutta questa roba qui, tutto.
D – A proposito: che cos’è, per lei, fare la regia in teatro?
T – Come faccio io le regie? Bè, non è che io stia tanto lì a ragionare: vado su, e faccio io. Naturalmente
dopo un’ora e mezzo, due, mi rimbomba la testa, divento matto. La regia che cos’è? Nei miei testi non c’è
luce, non c’è movimento, non c’è scena, non c’è niente. Secondo me, tutta la regia è la regia del testo. E
anche se dovessi fare la regia di altri testi, non scritti da me, farei nello stesso modo. L’unica cosa che mi
interessa è che l’attore coincarni [sic] col testo.
D – E quali sono gli attori che lei predilige, che ha prediletto?
T – Oh Dio! La Morelli. Poi la Brignone. Moltissimo Parenti, e Adriana Innocenti. E la Luisa Rossi: era una
grande. E la Pagani. Indimenticabile. Quando avevo 14, 15 anni le ho visto fare la più grande interpretazione
della figliastra nei Sei personaggi di Pirandello. A un certo punto quando parla col padre “… mi pulsava una
vena…” tutta vestita di nero, si leva un guanto… E questo pezzo di carne bianco, nudo, mi è rimasto nella
testa, meraviglioso, quella voce… Forse è una delle donne di cui mi sono innamorato. Di lei e della Lauretta
Masiero. Castamente.
D – E fra gli attori di oggi?
T – Oggi, non so. Franco Branciaroli e questo Andrea Soffiantini che mi fa Rino nel Confiteor, perché non
recita. E non dimentichiamo la Franca Valeri. Grande. Poteva fare ben altro di quello che ha fatto, anche
Luchino Visconti glielo diceva sempre.
D – Lei ha lavorato con Visconti. Eravate anche amici?
T – L’ho conosciuto, ai tempi di Rocco e i suoi fratelli, e per anni sono stato talmente suo amico che sono
stato malissimo quando abbiamo litigato. Era meraviglioso come faceva recitare gli attori: meraviglioso
come ti accoglieva a casa. Sembrava che arrivasse il re quando arrivavi tu. Ma poteva anche essere spietato.
Forse la sua passione segreta era dominare e poi distruggere. Credo per infelicità. Non lo so. Comunque è
passato, e quando è morto, ho fatto pubblica ammenda alla Scala. Volevano che parlassi alla
commemorazione: e io ho detto che avevo litigato con lui, che era finita male, e che gli chiedevo perdono.
D – Ai tempi di Rocco lei ha conosciuto anche Alain Delon. Che persona è?
T – È un uomo, un essere, un amico indimenticabile. Ora non lo vedo più tanto. Comunque, nella vita sua c’è
una sproporzione assoluta fra il suo fascino, il suo successo e i suoi desideri più profondi. Il suo sogno era di
essere un ragazzo comune. Ora non può più. Sono certo che, ora, il suo sogno estremo è di essere
dimenticato.
D – Parliamo un attimo della sua famiglia. Prima di tutto: quanti siete?
T – Sei: un fratello, una sorella, poi io, poi altre tre sorelle. quarantotto nipoti e ventidue pronipoti col
ventitreesimo che nasce tra qualche giorno…
D – Che pensava la sua mamma di lei? Com’era?
T – Era semplicissima, buonissima. Ma non buona-scema: era anche molto dura. Lei non ha mai saputo
niente... Questa è stata una delle poche premure che ho avuto nella vita: fare di tutto perché non sapesse. Ma
capiva, capiva senza spiegazioni, senza parole, che è la comprensione più giusta. Credo che il nostro errore è
di voler capire a tutti i costi, mentre invece bisogna aver l’umiltà di lasciarsi capire.
D – E suo padre?
T – Anche mio papà era un uomo giusto.
D – La morte di sua madre ha modificato l’idea che lei ha della morte? È più rassegnato, adesso…
T – Non è che non mi assalga ancora, la cagna. Ma è come se vedessi tutto già dopo. Invece, una cosa che
prima non accettavo mica tanto, e che adesso mi sembra giustissima, il minimo di giustizia, è che anche le
grandi opere d’arte devono finire. Facciamo benissimo a tentare di salvarle: bisogna amarle, bisogna salvare
la storia… Ma se, tra la Cappella Sistina che rischia di cadere e un bambino che rischia di morire, uno
sceglie di salvare la Cappella Sistina, non capisce che cos’è la Cappella Sistina.
L’Amleto? Un fallimento
D – E che cos’è la Cappella Sistina?
T – È un fallimento: un enorme, il più grande dei fallimenti. Come l’Amleto, come la Divina Commedia. Più
un’opera tende, o non può fare a meno di tendere, all’assoluto, alla perfezione, più è destinata al fallimento.
Nel segno si muore. Prima di Cristo, forse, non era così. L’Odissea, forse, non è un fallimento. Cristo è Dio
che ha fatto irruzione nel fallimento. Da quando il Creatore è diventato creatura incarnandosi in Cristo, non
possiamo più acquietarci nelle antiche metafore di chi cercava di dare un nome, una figura a un Dio
sconosciuto.
D – Si ha notizia della sua straordinaria precocità in tutti i campi dell’arte e del sapere. Mi fa un piccolo
curriculum dei suoi studi?
T – Se ci tiene... Dunque: sono andato a scuola un anno a Novate. Poi, con mio fratello, siamo andati al San
Carlo, qui a Milano, a corso Magenta, dai Padri Oblati. Ricordo che la prima volta, lì nell’atrio, mi aveva
accompagnato la mia mamma, e con la mamma abbiamo sempre parlato in dialetto, allora tutti dicevano:
“Guarda quello lì, che parla dialetto”. Ho passato un anno di rifiuto totale. Nelle ricreazioni, mi chiudevo nel
cesso, e una volta, ricordo, ho preso la catenina col crocifisso e l’ho gettata giù nella turca. E ho perso l’anno.
Bocciato. L’hanno dopo, però, li avevo tutti in mano, i miei compagni, ero diventato il loro dio. Vinta
l’umiliazione, ero diventato un bullo. Comunque, il rettore convocò mio padre e gli dessi: “Non mi sembra
che abbia doti particolari. L’unica cosa che può fare, è ragioneria”. Purtroppo, neanche quella, perché non
capivo niente di matematica. Bisognò tentare con il ginnasio. Non che studiassi molto, ma leggevo in
proprio, andavo a vedere le mostre. Ho ancora il catalogo di una mostra di Correggio a Parma, dove mi sono
fatto portare da mia mamma come regalo per san Giovanni, e avevo 12 anni. A 16, ero già amico di Morlotti,
di Guttuso… Durante la guerra sono andato in Cattolica. E lì bisognava giurare che non avresti abbracciato
le tesi del Modernismo. Va bene, giurare sul passato si può, ma sul futuro mi pareva una cosa molto più
problematica… Alla tesi, mi volevano mandare via, espellere. Era sull’estetica del Surrealismo, movimento
che fra l’altro a me non piace. Sapevo che c’era un po’ di maretta per certe pagine… Entro, e si alza su
Mochi Onori, che era il presidente, con il suo collo di ermellino, e dice: “La commissione ha preso atto della
sua tesi e non la ritiene degna di essere discussa in questa università”. Allora io dico: “Se questa università
non la ritiene degna, me la ridia, che vado a discuterla da un’altra parte”. Poi mi sono informato: per passare
alla Statale, dovevo fare altri cinque esami. Allora niente, strappo le pagine che li avevano scandalizzati, e mi
ripresento dopo un mese. Discussione, e alla fine: “Il candidato ha qualcosa da dire?”. “No, solo che, così, la
tesi non mi interessa più”. “110, ma niente lode”.
D – Pittura, le sue predilezioni assolute
T – Così, su due piedi? Bè, secondo me l’ultimo Caravaggio, quando si disfa; Van Gogh, sempre: queste con
l’Amleto di Shakespeare, sono le profezie.
D – Fra i pittori contemporanei? Tre nomi.
Picasso, Matisse, Bacon
D – E fra gli scrittori?
T – Sempre tre? Bernanos, Céline, Malcom Lowry
Amato? No, sopportato
D – Nessun italiano?
T – Pirandello. Io trovo che i Sei personaggi siano il più grande libro della letteratura moderna, in assoluto.
Anche perché io credo che l’autore che loro cercano è Dio. Allora, il teatro non è più lo spazio dell’analisi,
come per la borghesia dal Settecento in su: diventa un altare, il luogo del sacrificio… Poi tra i miei padri
bisogna mettere Roberto Longhi, grandissimo.
D – Con Longhi lei ha avuto anche una lunga frequentazione. Quando lo ha conosciuto?
T – Molto tardi. Non avevo il coraggio, mi sembrava di disturbarlo. Perché io, l’Officina Ferrarese di
Longhi l’ho letto quando avevo 11 anni. Non che capissi tutto. Mi emozionava, tremavo. Poi, nel ’51, un
amico comune, Vittorio Olcese, gli ha detto di questo Testori, e lui rispose: “Gli dica di mandarmi giù un
saggio”. Allora io gli ho mandato gli Appunti inediti della pittura lombarda: Morazzone, Cerano, Tanzio da
Varallo, Cairo. “Il testo”, rispose lui, “è molto bello, però mancano le fotografie”. Allora gliele portai,
ricordo, alla mostra del Caravaggio, lì l’ho conosciuto, su quei divanoni rossi. Lui guarda le fotografie, e
chiama la Mina Gregori, che allora era sua assistente: “Mina, vieni qui, perché queste attribuzioni sono
vere”. Cominciò pubblicando su Paragone il saggio sul Cairo, che provocò una grandinata di insulti.
Qualche anno prima di morire, Longhi mi ha mostrato anche le lettere: “Ma lei è pazzo a pubblicare questo
cose, questo è il testo di uno psicopatico”. E lui, con grande coraggio, lo difendeva, dicendo: “Bè, vedrete”.
Ora quei detrattori sono diventati quasi tutti amici miei.
D – Che cosa pensa lei di Pasolini?
T – Secondo me, non ha avuto nelle opere il coraggio che ha avuto nella vita. Era un arcade, travolto da un
istinto più forte dell’Arcadia. Ma nella sua letteratura, l’Arcadia riamane, ribaltata nel sociale.
D –Perché la parola “sociale” le fa tanto orrore?
T – La categoria del sociale è una menzogna costruita per garantire le strutture del potere economico e
politico. Tanto il sociale liberale, quanto il sociale marxista. La deificazione del sociale è il più grande
insulto che è stato fatto all’uomo.
D – Ma nella struttura del potere culturale italiano, un posto lo ha anche lei. Almeno, è questo che le
rinfacciano.
T – Anzi, nella struttura, o non struttura italiana, io ho l’impressione di essere un ingombro, una specie di
teratoma. Succede, alcune volte, che di due gemelli, uno cresce e l’altro si ferma, resta un piccolo feto solo
unghie e capelli. Il primo nasce; poi magari dopo anni, sente questo peso, spesso pensano sia un tumore,
invece è il gemello che è rimasto dentro, e si chiama teratoma. Questo sono io nella cultura italiana: mi
sopportano, però come sarebbero più contenti se non ci fossi! Che potere vuole che abbia? Se un vanto ho, è
che nessuno, mai, di nessun partito, mi ha detto: và a dirigere la Biennale, il Piccolo Teatro, o che so io.
Questo è il mio orgoglio. E di ricordarmi degli esseri che ho amato, sempre. Non i libri che faccio, che mi
sembrano… Quest’ultimo poi, questo Diademata, per me è come uno spurgo.
L’ultimo scandalo
D – E perché?
T – Forse non si doveva neanche stampare. Spesso le cose che faccio io vanno di là, ma questo va di là
tanto...
D – Perché pensa di essere ingombrante per l’establishment letterario?
T – Perché sono disordinato, impudico. Poi, una cosa che deve dar fastidio a molti, e hanno anche ragione, è
il fatto che per me la forma è da distruggere. Anche se magari ripeto sempre la stessa cosa, la stessa
ossessione, sono costretto a inventare ogni volta una lingua diversa, un ritmo diverso, una struttura diversa
per “essere” la cosa che devo esprimere, non per dominarla. Perché, per me, di assoluto non c’è che quello
che passa dentro: e per fare passare dentro l’assoluto, la forma deve essere in rischio. Ecco che, come
scrittore, son già fottuto.
D – Questo libro susciterà scandalo?
T – Ma no! Forse faranno finta. Ma oggi non si scandalizza più nessuno: tutto va bene, tutto passa liscio su
questa specie di olio velenoso che si stende su tutto. Anche quelli che dovrebbero, secondo me, essere dei
maestri, o almeno suscitare problemi, attenzioni, ormai si sono seduti e si lasciano trasportare da questo olio
come da un tapis roulant che convoglia tutto nel forno crematorio del nuovo universale nazismo. Che
scandalo vuole che faccia io, con queste mie menate? Forse oggi lo scandalo è il silenzio.
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