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Presentazione L`alimentazione: gusti, pratiche e politiche
SOCIOLOGIA DELL'ALIMENTAZIONE
Presentazione
L’alimentazione: gusti, pratiche e politiche
di ROBERTA SASSATELLI
Per gran parte degli scienziati sociali l’alimentazione ha rappresentato a lungo un oggetto futile e lo studioso la cui pista di
ricerca si spingeva in tale direzione si trovava ad affrontare il non
facile compito di liberarsi da un certo qual senso di colpa: così
almeno sosteneva Roland Barthes (1961) in un piccolo ma ispirato
saggio sul cibo. Se l’antropologia e la storia hanno superato un
simile pregiudizio e consolidato ormai pluridecennali percorsi di
ricerca sui fenomeni legati all’alimentazione, la sociologia ha
stentato non tanto ad accorgersi del carattere sociale dei nostri
gusti in fatto di cibo o di come, attraverso la cucina, vengano
continuamente prodotte, riprodotte e modificate le identità sociali,
quanto a tematizzare l’alimentazione come un oggetto di ricerca
in quanto tale. Certo il pasto è stato spesso un aneddoto
sociologico: ne Les formes élémentaires de la vie religieuse Durkheim (1894) è ben avvertito della funzione del pasto sacrificale che
unisce i commensali in un rituale di incorporazione mediante il
quale vengono assimilati e condivisi i principi sacri dell’animale;
con il solito sguardo curioso Simmel si cimenta invece in un saggio,
Soziologie der Mahlzeit (1910), in cui mette a fuoco le maniere
della tavola come una classe di forme sociali che traduce la
soddisfazione individuale in un evento sociale. Più prosaicamente
nel suo lavoro sulla classe operaia Halbwachs (1912) sottolinea che
per gli operai di inizio secolo il pranzo, l’ordine delle pietanze,
la scelta dei cibi e i loro prezzi erano delle vere e proprie istituzioni
sociali. Se la sociologia classica utilizza spesso un riferimento alle
pratiche alimentari per illustrare altri fenomeni sociali, è solo a
partire dalla fine degli anni settanta che intorno al cibo comincia
a consolidarsi un’apprezzabile costellazione di specifici lavori
sociologici.
RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. XLV, n. 4, ottobnre-dicembre 2004
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Roberta Sassatelli
Lo sviluppo di una vera e propria sociologia dell’alimentazione
è stato rallentato da un certo grossolano snobismo non solo per
tutto ciò che ha il sapore del quotidiano, ma anche per tutto ciò
che è legato alla sfera domestica e quindi, sulla scorta di un’eredità
ottocentesca difficile da eliminare, al lavoro femminile, di cui quello
in cucina è certamente tra i più creativi. Oggi, però, soprattutto
in Francia e nel mondo anglo-americano il cibo è considerato, come
scrive Arjun Appadurai (1981, 3) «un fatto sociale estremamente
ricco», una forma «particolarmente plastica di rappresentazione
collettiva». Importanti ricerche di taglio socio-antropologico o
socio-storico si sono susseguite a partire dagli anni Ottanta:
dall’ormai classico Cooking, Cuisine and Class di Jack Goody
(1992) al più recente Consumption, Food and Taste di Alan Warde
(1997), entrambi notevoli contributi sui significati distintivi della
cucina e del consumo di cibo, o dal celebre e celebrato All Manners
of Food di Stephen Mennell (1985) a Food, the Body and the Self
di Deborah Lupton (1996), lavori che in modi diversi – con una
tesi di stampo eliasiano sulla civilizzazione dell’appetito fondata
su una comparazione dell’evoluzione delle maniere della tavola
francesi e inglesi l’uno, e con un’ampia panoramica incentrata sulla
questione del corpo l’altro – riflettono su modernità, identità e
abitudini alimentari. Anche se molto poco di questi lavori ha avuto
risonanza in Italia, la «sociologia dell’alimentazione» (sociologie de
l’alimentation nei paesi francofoni o sociology of food in quelli
anglofoni) ha ormai il carattere di una specializzazione subdisciplinare, con un buon numero di testi che ne fanno il punto
e ne segnano progressi e confini (cfr. soprattutto Beardsworth e
Keil 1997; Mennell et al. 1992; Poulain 2002). Nelle sue fila
militano ricercatori che si trovano spesso a dialogare con altre
discipline in cui l’alimentazione è indubbiamente oggetto più
centrale – dalla storia all’antropologia, dall’epidemiologia alla
demografia, sino alla scienza della nutrizione. Non stupisce quindi
che molte delle riviste fiorite nel campo degli studi sull’alimentazione – da Appetite a Food and Foodways – abbiano un taglio
propriamente interdisciplinare.
Provenendo da tradizioni teoriche diverse i sociologi che si
sono occupati di alimentazione hanno, nel complesso, dato vita
ad un’arena di studi articolata in cui il cibo è illuminato secondo
prospettive non sempre immediatamente riconciliabili. Alcuni
sociologi si sono occupati prevalentemente degli aspetti della
produzione del cibo, del modo in cui essa è organizzata socialmente
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sia a livello micro – per es. Gary Allan Fine (1996) nel suo noto
Kitchens, uno studio sul lavoro nei ristoranti – sia a livello macro
– per es. i lavori di Ben Fine (Fine e Leopold 1993) sull’economia
politica dell’alimentazione. I più hanno concentrato la propria
attenzione sul consumo. Proprio i consumi alimentari sono, del
resto, anche nel senso comune, profondamente legati alle nostre
identità sociali: basti pensare all’ubiquità di quell’adagio che il noto
gastronomo e filosofo francese Brillat-Savarin diffuse con il suo
Physiologie du Goût: «dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei».
1. Certo, il cibo parla di noi, delle nostre origini, di chi siamo
e di chi vogliamo essere, ma anche i nostri disgusti alimentari ci
dicono molto. Mangiare in effetti è distinguere e discriminare, è
includere ed escludere – come sottolineato magistralmente sia da
Mary Douglas (1972; 1996) sia da Pierre Bourdieu (1979). In
queste visioni risuonano le celebri osservazioni di Lévi-Strauss
(1965) secondo cui l’essere umano è l’animal cuisinier e la cucina
è un’attività nella quale la società traduce inconsciamente la propria
struttura. Deciphering a Meal di Douglas (1972) rimane un saggio
fondamentale a questo proposito nel mostrare come un pasto, la
sua struttura, la sua preparazione e i modi del suo consumo siano
simbolo dei rapporti sociali di cui sono prodotto e allo stesso
tempo funzionino come un sistema di comunicazione dal carattere
classificatorio e discriminante. Ogni pasto è, insomma, un evento
sociale strutturato che struttura altri eventi a sua immagine. Ma
anche i manuali di cucina sono un crocevia di identità e classificazione culturale: «riflettono – come scrive, tra gli altri, Appadurai (1988, 3) – i mutamenti nei confini del commestibile, le
proprietà del processo culinario, le esigenze del bilancio famigliare,
le fluttuazioni del mercato e la struttura dell’ideologia domestica
[…] sono rappresentazioni non solo della struttura di produzione
e distribuzione […] ma anche di classe e ceto». Come ha mostrato
l’importante tradizione italiana di studi storici sull’alimentazione
– da Camporesi a Capatti e Montanari – anche la storia della nostra
penisola è stata costellata, dal medioevo ad oggi, da manuali di
cucina che vanno ben oltre la curiosità letteraria. Se non sono
mancate visioni moderniste, utopistiche, naturistiche o settarie –
da La cucina futurista di Martinetti al Manuale di gastrosofia
naturista di Alliata di Salaparuta – i manuali di cucina sono spesso
andati al cuore delle nostre più salde identità collettive: nell’ottocento l’italianità è stata immaginata anche grazie al celeberrimo
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La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Artusi mentre
l’odierna nostalgica frammentazione regionale è spesso una «tradizione» inventata grazie alla pletora di manuali che costruiscono
canoni e confini regionali.
Il cibo ha in effetti un ruolo centrale nella creazione delle
comunità e non è difficile ricordare una serie di luoghi comuni
in cui il riferimento alla dieta viene utilizzato per stigmatizzare o
celebrare immagini diverse di diverse identità collettive. Le abitudini alimentari contribuiscono a stabilizzare quei confini tangibili
e quelle molteplici differenze simboliche che strutturano lo spazio
sociale. Segnano l’appartenenza religiosa, non solo nelle culture
tradizionali o in quelle della prima modernità – come ha suggerito
Schivelbusch (1980) mettendo a confronto il posto che la nascente
società borghese anglosassone puritana assegnava al caffè e quello
che la Spagna o la Francia cattoliche riservavano alla sensuale
cioccolata - ma anche nel mondo «globalizzato» e «Mcdonaldizzato» prefigurato da George Ritzer (1993). Con buona pace di
Ritzer, i McDonald’s si sono dovuti adattare ovunque ai gusti locali
spesso influenzati da norme religiose: in Israele, per esempio, si
vendono Big Macs senza formaggio per non contravvenire alle
norme kosher della cucina ebraica che richiedono la separazione
di carne e latticini; in India si servono soprattutto Maharajah Mac,
con carne di montone, che possono essere consumati sia dai
Mussulmani che non mangiano maiale, sia dagli Hindu che non
possono cibarsi di carne bovina.
Le appartenenze nazionali ed anche le distinzioni etniche
tendono a consolidarsi attraverso la cucina. Questo anche e
soprattutto quando i soggetti si trovano a fare i conti con merci
e contesti diversi da quelli ovvi e scontati per tradizione. Un
fenomeno oggi molto studiato è quello delle cucine etniche che
dà risalto alla doppia natura dei percorsi di ibridazione tra le
culture: i rifugiati e i migranti usano indubbiamente il cibo per
rimanere ancorati alle proprie tradizioni, ma così facendo le
riproducono nei luoghi di destinazione, spesso con significative
varianti e facendosi importanti agenti del cambiamento per i
consumi alimentari delle società di accoglienza (Cook e Crang
1996). Le tradizioni gastronomiche del resto non sono state
semplicemente rimpiazzate dallo sviluppo dell’industria alimentare
di massa, anzi si sta oggi assistendo ad un vero e proprio boom
della cucina etnica (Belasco e Scranton 2002). Nel suo Ethnic Foods
and the Making of Americans, Donna Gabaccia (1998) ha mostrato
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che lo sviluppo di un’industria nazionale dei cibi in scatola in quella
fucina del multiculturalismo di massa che sono gli Stati Uniti non
ha richiesto la negazione di ogni riferimento etnico. Le tradizioni
etniche sono state piuttosto messe in gioco e re-inventate mediante
un processo di «creolizzazione». Per quanto fabbricate e scarsamente connesse alla cultura locale e all’ambiente, le varie cucine
etniche o regionali degli Stati Uniti rappresentano un codice che
aiuta i consumatori a scegliere di volta in volta il proprio pasto.
Esse hanno inoltre un ruolo ambivalente rispetto alle differenze
etniche stesse: da un lato contribuiscono a fissare immagini
abbastanza nitide, ancorché stereotipizzate, di tali differenze,
dall’altro forniscono un’area in cui i corrispettivi confini possono
essere superati senza gravi rischi. D’altro canto alcuni settori
alimentari statunitensi, come l’industria dell’alcol, furono importanti soprattutto per gli immigrati provenienti dal Sud e dall’Est
europeo, dando vita ad un comparto che appariva etnicamente
neutro dal lato del consumo, ma si configurava come una vera
e propria nicchia etnica da quello della produzione (Gabaccia, in
Belasco e Scranton 2002).
Anche le distinzioni di classe e ceto vengono ad esprimersi e
a stabilizzarsi mediante le abitudini alimentari: pensiamo all’analisi
che Bourdieu (1979) ha condotto nel La distinction, dove alla
preferenza esteticizzante delle nuovi classi medie per la nouvelle
cousine si oppone la preferenza per l’abbondanza e la semplicità
degli accostamenti delle classi lavoratrici (cfr. anche Warde e
Martens 2001). Infine, i gusti e le pratiche alimentari contribuiscono a segnare le differenze di genere: accanto al lavoro di
trasformazione del cibo svolto nelle famiglie ancora per lo più dalle
donne (cfr. de Vault 1991), numerosi studi hanno documentato,
per esempio, che la carne è a tutt’oggi un cibo con forti
connotazioni maschili (associato alla caccia, alla forza, alla violenza)
e, allo stesso tempo, viene attivamente prescelto, rifiutato o
centellinato all’interno delle famiglie per segnare i confini di genere
(Lupton 1996). Del resto, è proprio intorno al rapporto con il cibo
– dalla produzione al consumo – che storicamente sono venute
a costruirsi diverse visioni della femminilità, visioni spesso improntate al servizio, al controllo di sé, alla moderazione, se non
addirittura alla mortificazione (cfr. Counihan 1999 e Muzzarelli e
Tarozzi 2003 anche per importanti riferimenti al nostro paese).
Proprio perché attraverso il cibo possono aprirsi spazi di trasgressione fortemente connotati in base al genere, lo si ritrova spesso
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investito di una carica erotica che si legge in controluce nel mito
(pensiamo solo la mela che Eva porge ad Adamo causando la
caduta dall’Eden), non manca di essere fonte di ispirazione
letteraria (Biasin 1991) o cinematografica (Bragaglia 2002) e finisce
anche per essere facile spunto per chi confeziona messaggi
pubblicitari tanto da ispirare l’eloquente neologismo di «gastroporno» (Smart 1994; cfr. anche Bell e Valentine 1997).
2. Se le distinzioni sociali e le tassonomie culturali si esprimono,
e spesso si realizzano, attraverso il cibo, di converso, ciò che è
«cibo» è risultato di un processo di classificazione culturale che
si realizza attraverso una serie di pratiche e conoscenze secondo
i tempi e i modi di numerose istituzioni sociali che, soprattutto
nelle società contemporanee, compongono una complessa filiera
alimentare. Gli attori sociali devono poter innanzi tutto individuare
e selezionare, da un universo di possibilità amplissimo, qualcosa
come «commestibile». Devono poi produrre o estrarre gli ingredienti selezionati, lavorarli, e trasportarli nei luoghi dove potranno
essere preparati adeguatamente per il consumo. Anche in società
come quelle occidentali contemporanee dove si diffondono i cibi
pronti, gli alimenti vanno comunque portati a casa, conservati, cotti
o scaldati, e spesso combinati ad altri alimenti per costruire dei
«piatti» negoziando con una serie di saperi e di conoscenze diverse
grazie alle quali i piatti vengono disposti in sequenze (de Certeau
et al. 1984). Gli attori sociali devono ovviamente imparare non
solo a gustare i cibi, ma anche ad utilizzare attrezzi diversi per
il loro consumo esibendo maniere adeguate. E poi, dovranno anche
saper parlare del cibo, negoziando con quella dietetica profana che
si ritrova in epoche anche remote (cfr. Flandrin e Montanari 1997),
ma che nella società contemporanea è affiancata da una vasta e
articolata gamma di discorsi sul cibo: medici ed estetici, edonistici
e salutisti, commerciali e religiosi, e così via.
Anche una succinta esposizione dei percorsi del cibo come
questa ci mostra chiaramente come esso non sia solo un fatto
materiale. Le rivoluzioni alimentari per esempio, lungi dall’essere
delle rivoluzioni puramente materiali sono anche e soprattutto delle
rivoluzioni simboliche. La diffusione in Europa, per esempio, di
bevande eccitanti come il caffè, la cioccolata ed il tè si accompagnò
alla diffusione del consumo di saccarosio, che, come ha mostrato
Sidney Mintz (1985) in un celebre saggio, fu segnata da profondi
mutamenti culturali. La rapidissima diffusione dello zucchero nel
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settecento non ebbe semplicemente a che fare con la crescente
disponibilità di saccarosio a costi decrescenti; implicò piuttosto una
varietà di idiosincrasie culturali nel suo consumo che, almeno in
parte, rendono conto di tale diffusione. Lo zucchero e le bevande
amare zuccherate divennero i primi lussi democratici: non erano
necessari perché nutrienti eppure venivano quotidianamente usati
da tutti, incluse le masse lavoratrici, ed erano circondati da rituali
complessi. Gradualmente masse di lavoratori europei che non
avevano mai avuto accesso a prodotti che venivano da lontano
diventarono consumatori abituali di queste merci coloniali e
tropicali che fino a poco prima erano state remote e inaccessibili.
I consumatori divennero così dipendenti da mercati che andavano
ben oltre la loro visione del mondo, iniziarono a riconoscere
principi di valutazione diversi da quelli delle loro comunità e
tipicamente legati ai consumi, e cominciarono a valutare se stessi
come individui che avevano o meno la capacità di fare fronte a
questi stessi consumi.
Le molteplici valenze simboliche che si accompagnano al cibo
non ci devono però fare dimenticare che le nostre abitudini
alimentari, e i percorsi di produzione e scambio che le sostengono,
hanno innanzi tutto dei risvolti pratici spesso di ampia portata.
Nulla rende più evidente quest’affermazione di uno sguardo
globale e di lungo periodo: se lo stesso Mintz (1985) ha sostenuto
che la coltivazione delle piante e l’addomesticamento degli animali
per la produzione di cibo nel neolitico fu probabilmente il più
importate progresso tecnico nell’intera storia dell’umanità, nel suo
Seeds of Change Henry Hobhouse (1985, XI) scrive provocatoriamente che «il punto di partenza per l’espansione europea al di
fuori del Mediterraneo … non ha avuto nulla a che fare con la
religione o lo sviluppo del capitalismo, ma ha avuto molto a che
fare con il pepe. Le Americhe furono scoperte come effetto
imprevisto della ricerca del pepe». In effetti, studiare l’alimentazione oggi vuole dire cimentarsi in un esercizio di problematizzazione e superamento di alcune delle dicotomie che hanno segnato
il pensiero teorico sociale: materiale/simbolico; produzione/consumo; oggetto/soggetto; locale/globale, e così via. Né lo strutturalismo venato di cognitivismo – che fa scrivere a Claude Lévi-Strauss
(1962) nel suo celebre La pensée sauvage che perché siano «buoni
da mangiare» i cibi devono essere innanzi tutto «buoni da pensare»
– né il materialismo evoluzionista – che spinge, diversi anni dopo,
Marvin Harris (1986) a contrapporsi all’antropologo francese con
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il suo Good to eat secondo cui tutti i tabù alimentari, dal divieto
per la carne di maiale tra ebrei e mussulmani a quello per la mucca
tra gli indù, sono riportabili e sostenuti da vantaggi e svantaggi
in termini evoluzionistici ed ecologici – rappresentano oggi i punti
più avanzati della ricerca. Tra strutturalismo e materialismo si
fanno avanti posizioni, come la teoria della pratica post-strutturalista, che tentano di concepire le azioni che gli esseri umani
compiono per nutrirsi come sia materiali che simboliche, strutturate socialmente nello spazio e nel tempo, e spesso organizzate da
una varietà di istituzioni più o meno formalizzate. Mangiare per
l’attore sociale, proprio come produrre cibo, non è solo un atto
cognitivo e neppure solo un atto materiale: del resto mente e corpo
sono entrambi inestricabilmente connessi alle varie pratiche che
ruotano intorno al cibo. Il cibo in effetti si offre come oggetto
dei nostri gusti e disgusti contribuendo a fissare le nostre capacità
e le nostre identità incorporate, rendendo così tangibile la mutua
costituzione di oggetto e soggetto, e infine sguscia tra le maglie
della distinzione tra produzione e consumo cui ci ha abituato
l’economia moderna per mostrare la porosità particolaristica e la
frammentazione locale del processo di industrializzazione globale.
3. La sociologia dell’alimentazione non è oggi solo un terreno
privilegiato per sperimentare posizioni teoriche nuove e d’avanguardia, è anche un ambito di studi che si trova a fronteggiare
numerose sfide concrete, pressanti e politicamente delicate. Basti
pensare agli squilibri nutrizionali che portano un numero crescente
di abitanti dei paesi occidentali sviluppati ad essere sovra peso
proprio quando il Sud del mondo è ancora attraversato da violente
carestie. È chiaro che fronteggiando simili questioni la sociologia
non può che confrontarsi con discipline più «operative». Gli studi
socio-antropologici hanno però anche una loro specificità che
possiamo individuare non tanto in uno sterile distacco, quanto
nell’opportunità di comprendere cosa «vuole dire» mangiare prima
ancora di cercare di modificare le abitudini alimentari, come
sostenne Margaret Mead (1943) lavorando in qualità consulente
per il progetto sui mutamenti della dieta promosso dal Ministero
della Difesa statunitense durante la seconda guerra mondiale. Così,
se l’epidemiologia ha messo in luce un nesso statistico positivo tra
obesità e mortalità o tra alcolismo e tabagismo e alcune gravi
patologie, la sociologia può non solo adoperarsi per sottolineare
la relatività e le valenze potestative delle conoscenze scientifiche
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sulla dieta, ma anche aiutarci a capire perché sono soprattutto le
donne a diventare obese, bulimiche o anoressiche (Bordo 1993),
come i giovani imparano a fumare e cosa significhi per loro
(Hughes 2003) e quali sono i significati e le norme associate al
consumo di alcool e all’intossicazione da alcolici in gruppi sociali
e retaggi culturali diversi (Alasuutari 1992; Cottino 1991) .
La medicalizzazione dell’alimentazione quotidiana, con la crescente tendenza ad esprimere i valori nutrizionali in calorie, è solo
una delle grandi tendenze che incidono sulla cucina contemporanea: ad essa si accompagna una marcata tendenza alla destrutturazione del desinare, per cui i pasti si semplificano, si mangia
fuori pasto e, soprattutto, da soli e nei luoghi più diversi senza
seguire uno specifico insieme di norme rituali. Entrambe queste
tendenze contribuiscono ad approfondire la voragine che pare
aprirsi tra norme e pratiche alimentari: «un pasto come si deve»
è insomma lontano dalla nostra realtà quotidiana, e non per scarsità
– come avveniva nelle società tradizionali e ancora avviene nel Sud
del mondo – ma per un’abbondanza materiale e una polifonia
culturale che disorientano. «Pubblicità, suggestioni e prescrizioni
diverse, e soprattutto e sempre di più, messaggi commerciali di
natura medica» concorrono a produrre, secondo Claude Fischler
(1979, 206), quella «libertà anomica» che è anche «un tranello
ansioso, e questa ansia favorisce a sua volta delle condizioni
alimentari aberranti». È da considerazioni simili che Fischler (1979,
cfr. anche 1990) è partito per proporre la nozione di «gastroanomia», intesa come condizione caratterizzante la modernità
alimentare e a sua volta definita da tre interconnessi fenomeni: la
sovrabbondanza di cibo; la riduzione dei controlli sociali del
gruppo e della commensalità che ha lasciato al consumatore il peso
di una scelta sempre più individualizzata; e il moltiplicarsi dei
discorsi sul cibo che produce una costellazione o un mosaico
cacofonico e contraddittorio di criteri di scelta alimentare.
Se già De Martino (1977, 615) scriveva «se è una minaccia
la fame, è una minaccia anche mangiare da soli: ché il pane come
cibo che nutre si può perdere anche quando si spegne la sua
valorizzazione di cibo da mangiarsi in comune», le osservazioni
di Fischler declinano una tematica anticipata dall’antropologia
filosofica e si combinano armoniosamente con l’idea che la nostra
sia una «società del rischio» (Beck 1988). L’obbligo biologico a
mangiare variato e la costrizione culturale a mangiare solo alimenti
conosciuti e contrassegnati come commestibili secondo pratiche e
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valori condivisi produrrebbe infatti, secondo Fischler, una contraddittoria opposizione tra «neofilia» e «neofobia», ed è questo
«paradosso dell’onnivoro» ad essere poi esasperato dalla società
moderna, generando nuove forme di ansia. Certo, l’intensificarsi
delle ansie alimentari può essere considerato un fenomeno storico
da rintracciarsi già nell’allargamento dei circuiti alimentari associato alla diffusione di merci coloniali nell’Ancien Régime (Ferriéres
2002). Nel complesso però questa tesi è stata declinata nel senso
di un’antropologia bio-culturale dell’alimentazione. Così l’idea di
una fondamentale ambivalenza umana di fonte al cibo permette
di classificare una serie di dimensioni dell’esperienza (cfr. per es.
Beardsworth in Maurer e Sobel 1995): una dimensione piacere/
disgusto raccoglie ansie di ordine sensoriale che vengono tenute
a bada introducendo nuovi alimenti mescolandoli ad alimenti
tradizionali e utilizzando preparazioni e ricette già note; una
dimensione salute/malattia si connette ad ansie di ordine sanitario
di cui si fanno carico non solo le prescrizioni dietetiche mondane
ma anche la medicina e dalla scienza dell’alimentazione; e, infine,
una la dimensione vita/morte con ansie di ordine morale simboleggiate innanzi tutto dalla regolazione, nelle società occidentali,
della produzione e circolazione della carne attraverso un complesso
apparato burocratico che tenta di sopperire alla secolarizzazione
del sacrificio degli animali. In effetti, la laicizzazione dell’alimentazione nel suo complesso è causa ed effetto di processi industriali
che, a loro volta, tentano di recuperare qualcosa di sacro dispiegando, lungo tutta la filiera alimentare, una pletora di saperi esperti
sempre più codificati.
Nell’alimentazione quotidiana «aver scelta» è un fenomeno
relativamente recente nella sua diffusione tra la massa delle
popolazioni occidentali, fenomeno evidentissimo nella ristorazione.
In tempi di scandali alimentari, «mucca pazza» e transgenico, la
situazione di scelta si allontana però chiaramente, anche nella
nostra coscienza, da una decisione tra alternative con probabilità
certe. Peraltro, secondo Stephen Mennell (1985), l’aumento della
varietà e la diminuzione dei contrasti non sono che «due facce
della stessa medaglia». Riprendendo il lavoro di Adorno sulla
musica «popular», Mennell guarda alle caratteristiche della modernità alimentare con occhio critico, intravedendo essenzialmente
«feticismo», ovvero la costruzione di un canone di best-sellers
standardizzati, e «regressione» del gusto, che è anche preferenza
per cibi facili come lo yogurt o i formaggi freschi. Con toni meno
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apocalittici Fischler (1990) considera la modernità alimentare un
meccanismo di creolizzazione: la cultura alimentare di massa
sarebbe attraversata da tendenze centripete e centrifughe che
producono una sorta di mosaico sincretico universale. Certo se la
mondializzazione crea flussi di merci de-localizzati, l’industrializzazione tende a tagliare i legami tra prodotto e territorio, disconnettendo il cibo dal suo più immediato milieu ambientale e
culturale. Gli studi più importanti in questo campo hanno però
ormai mostrato che la mondializzazione e la standardizzazione si
abbina all’eterogeneità e al localismo (cfr. per es. Appadurai 1996).
Lo stesso processo di localizzazione procede in due direzioni
diverse: implica un cambiamento della cultura locale, ma anche
un aggiustamento degli standard operativi dell’azienda che arriva
su un territorio (Howes 2000). La cucina contemporanea è in effetti
presa tra globale da una parte e locale dall’altra, anzi nulla meglio
della cucina ci mostra l’intrecciarsi di globalizzazione e localizzazione. Alla (ri)scoperta del locale e delle tradizioni regionali, si
affianca quella che viene definita World Cuisine, una cucina fusion
e basata sull’ibridazione di materie prime e preparazioni. In
quest’ottica, se proprio per rispondere alle esigenze del commercio
globale, la messa punto di norme di sicurezza e di regolazione degli
alimenti venga progressivamente trasferita ad enti sopranazionali
(dal Codex Alimentarius all’Organizzazione Mondiale per il Commercio all’Unione Europea), non bisogna porre eccessiva enfasi
sull’omogeneità culturale e sul crollo delle tradizioni nazionali o
locali: l’armonizzazione tra le diverse tradizioni non è affatto scevra
di conflitti, come ha mostrato molto bene il caso del cibo
transgenico che ha diviso le nazioni del Nord del mondo come
quelle del Sud (Sassatelli e Scott 2001).
4. Forse nulla meglio della cucina del nostro paese ci mostra
le ambivalenze del sistema alimentare contemporaneo. In Italia
l’avanzare dell’industrializzazione del sistema alimentare e la pressione della globalizzazione non hanno certo cancellato i mestieri
e le arti della cucina tradizionali, anche se i saperi artigianali sono
in forte mutamento (cfr. Benporat 1999). Se gli anni del secondo
dopo guerra sono anche quelli in cui si diffondono abitudini
alimentari che unificano i gusti degli italiani creando un senso
nuovo di appartenenza alla nazione – ricordiamo la promozione
di dolci tipici come il panettone che vengono fatti assurgere a
simbolo nazionale (cfr. Camporesi 1995; Helstosky 2004; Monta-
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nari e Capatti 1999; Sorcinelli 1999) – oggi la varietà delle cucine
di territorio del nostro paese è diventata un modello globale, tanto
quanto la «dieta mediterranea» – anch’essa peraltro una tradizione
inventata (cfr. Hubert 1998; Teti 1999) – ha fatto breccia nella
dietetica profana dei paesi nordici. Le preparazioni e le tradizioni
gastronomiche locali sono ormai considerate una leva dello sviluppo locale e un patrimonio non solo da salvaguardare ma anche
da sviluppare. Nel 2003 l’Inea ha segnalato oltre 120 prodotti
certificati come IGP o DOP e ben 450 denominazioni relative al
settore vitivinicolo. Alcuni di questi prodotti rimangono di nicchia
ma altri, come il Parmigiano Reggiano, sono chiaramente piccoli
lussi democratici e di massa e definiscono nuovi percorsi di qualità
dei prodotti alimentari organizzati intorno a significati come
«l’artigianalità», il «gusto», la «genuinità» che sembrano offrire
nuove fonti di rassicurazione dei consumatori (Gabbai et al. 2004;
Murdoch e Miele 1999). Il «tipico» in effetti è ormai non solo
un percorso istituzionalizzato di garanzia che traduce l’origine
locale e particolaristica in forme burocratizzate e universalistiche,
ma anche un codice comunicativo sempre più egemonico, tanto
da essere surrettiziamente preso a prestito per pubblicizzare
prodotti di largo consumo. Miriadi di manifestazioni – regionali,
provinciali, comunali – promuovono la cucina e la gastronomia
locale e le forme produttive tradizionali. Il salone internazionale
dell’alimentazione nei segmenti di eccellenza «Cibus» a Parma, il
«Salone del Gusto» promosso a Torino da Slowfood non sono che
la punta dell’iceberg di un settore economico e culturale che sta
prendendo forte consapevolezza di sé. Del resto, nel mondo globale
il cibo italiano ha un posto tanto preminente quanto e più dei
fast-food americani: pizza, espresso, spaghetti sono tutti diventati
oggetto di catene distributive di grande successo, ma anche i
ristoranti italiani di alta qualità hanno colonizzato i paesi sviluppati
a Est e a Ovest. Peraltro, se l’agricoltura italiana è la seconda in
Europa per volumi dopo quella francese e se proprio l’Italia è il
principale produttore europeo di derrate all’avanguardia come
quelle biologiche, l’industria della trasformazione alimentare italiana è estremamente parcellizzata, esposta alla penetrazione di
multinazionali straniere e, come hanno mostrato molto bene i
recenti crack finanziari, non è sempre preparata alle sfide globali
(cfr. Fanfani et al. 2001).
Anche per la sua forte dinamicità interna, l’universo dell’alimentazione costituisce oggi un’area di studio che, al di là di
Presentazione
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un’apparente leggerezza, si pone come fertile terreno per l’analisi
delle implicazioni sociali e politiche del quotidiano. Temi come
la fame, l’ineguaglianza, il neocolonialismo, le biotecnologie, la
sicurezza alimentare, la sostenibilità ambientale, la responsabilità
delle imprese, ecc. stanno diventando cruciali in quest’area,
avvicinando ad una recente ma ormai ben identificabile tradizione
di ricerca studiosi provenienti da altre sub-specializzazioni sociologiche, dalla sociologia politica a quella economica a quella
culturale. Se la cucina è spesso stata indicata come uno dei luoghi
di riproduzione dell’ordine e delle gerarchie sociali, essa può anche
caricarsi di valenze anti-egemoniche, come ha mostrato Warren
Belasco (1993) nel suo Appetite for Change dove prende in
considerazione le iniziative alimentari alternative e di protesta
portate avanti dalla controcultura americana. È anche sulla scorta
di una cultura alimentare alternativa, spesso intrisa di ambientalismo, che si è sviluppata l’agricoltura biologica, un settore ancora
giovane ma che sta crescendo in media del 10% annuo a livello
mondiale; ed è la cultura ambientalista che unita al movimento
missionario ha favorito lo sviluppo del commercio equo e solidale,
che pur cresce di circa il 20% annuo (Sassatelli 2004b).
Del resto poiché i più recenti dati della FAO confermano che
circa il 25% della superficie del pianeta è dedicato alla produzione
alimentare e che ben 800 milioni di persone sono denutrite risulta
impossibile separare la nostra alimentazione ed i criteri di sviluppo
dell’agricoltura dalle questioni di salvaguardia dell’ambiente e di
tutela dei gruppi svantaggiati. Per certi versi, l’attenzione all’origine
del cibo, e quindi il tentativo di «de-feticizzare» i prodotti
alimentari rendendo più visibile i loro percorsi di produzione, può
essere un modo per mettere in discussione la qualità di ciò che
mangiamo da nuovi punti di vista: non solo ambientale come può
accadere nel biologico, ma anche umanitario come può avvenire
nel commercio equo e solidale (Goodman 2002; Guthman 2002;
Sassatelli 2004a; 2004b). Questioni di respiro globale vengono
insomma ormai portate sulla nostra tavola dai nostri piatti:
all’imperativo della «sicurezza alimentare» – nel doppio senso di
lotta alla fame e alla scarsità (food security) e attenzione a quei
rischi igienici che sono spesso il risultato non previsto di una
industrializzazione che doveva eliminare le carenze alimentari (food
safety) – si affianca oggi la questione della «sovranità alimentare».
Come questi rapidi cenni suggeriscono, una filiera alimentare
sempre più lunga e complessa come la nostra è carica di nodi
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Roberta Sassatelli
problematici non sempre visibili che possono essere resi trasparenti
applicando opportunamente la scatola degli attrezzi del sociologo.
5. Identità e differenze, caratteristiche oggettuali e costruzioni
simboliche, processi globali e peculiarità locali, rituali di consumo
e percorsi di produzione vengono illuminati da un’analisi dei gusti
alimentari, delle pratiche e delle politiche del cibo. È con questioni
simili che si confrontano alcuni tra i protagonisti del dibattito
internazionale in questo numero dedicato alla sociologia dell’alimentazione. Il saggio di Alan Warde ci consente di mettere a fuoco
una pratica di consumo sempre più importante nelle società
occidentali, che sollecita, e al tempo stesso struttura, la nostra
capacità di scelta: la frequentazione di ristoranti. Warde considera
l’attività del mangiare fuori come una forma di consumo culturale
e, utilizzando la teoria della pratica, dimostra che mangiare fuori
consiste in un insieme di conoscenze condivise e in convenzioni
che governano le performances individuali. Tali conoscenze e
convenzioni, che spesso appaiono semplicemente come «gusti»,
sono socialmente differenziate anche se si realizzano nell’ambito
di una pratica ampiamente normalizzata. Antoine Hennion e
Geneviève Teil approfondiscono la tematica del «gusto» dal punto
di vista delle pratiche che contraddistinguono il sapere e il sentire
dell’«amatore». Considerando il caso di un alimento particolare
e profondamente evocativo come il vino, Hennion e Teil mostrano
i limiti di una lettura distaccata e ascetica del gusto in cui gli oggetti
perdono la loro specificità e diventano solo scuse per la distinzione
sociale e, collocandosi a metà strada tra indifferenza critica e
differenza oggettuale, tentano al contempo di offrire alcuni suggerimenti per evitare di ricadere in una visione oggettivista. La
ricerca di forme di coerenza alimentare che offrano sostegni
dell’identità si esprime anche, come sottolinea Alan Beardsworth
nel suo saggio, nei regimi vegetariani, fenomeno che coinvolge oggi
una minoranza significativa della popolazione occidentale. Beardsworth, che da anni studia il vegetarianismo, si sofferma sulla non
facile convivenza di contenuti etici e aspirazioni salutiste, invitandoci a riflettere sui significati dell’astensione volontaria dalle carni
e su come essa illumini alcune delle ambiguità della nostra cultura.
Tra queste ambiguità vi è anche il nostro atteggiamento nei
confronti della natura e della scienza che si è espresso, tra l’altro,
nelle resistenze incontrate dall’applicazione dell’ingegneria genetica
agli alimenti. Proprio traendo spunto dalla questione del transge-
Presentazione
15
nico, Anne Murcott, un’illustre veterana degli studi sull’alimentazione, e Hugh Campbell chiudono questo speciale presentando un
importante tentativo di gettare un ponte tra la sociologia dell’alimentazione che si è concentrata prevalentemente sul consumo e
la sociologia rurale che ha studiato il sistema agro-alimentare
essenzialmente come catena di istituzioni produttive.
ROBERTA SASSATELLI
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