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Cancellazione degli scritti difensivi e risarcimento
Il Sole 24 Ore - Ventiquattrore Avvocato 1 ottobre 2009, N. 10 Pagina 42 Castro Sandro Cancellazione degli scritti difensivi e risarcimento dei danni subiti dall'offeso Scritti difensivi e doveri dell'avvocato. Regime delle violazioni e danni cagionati alle parti processuali. Poteri di apprezzamento del giudice nel sistema delle tutele. la QUESTIONE Quando uno scritto defensionale può dirsi offensivo? In base a quale parametro di valutazione si commisura l'offensività? Qual è la natura del danno patito dal soggetto leso e in che maniera può essere risarcito? È possibile condannare direttamente l'avvocato al risarcimento dei danni? l'INTRODUZIONE Il tema trattato riguarda essenzialmente lo svolgimento delle difese processuali degli avvocati durante le vicissitudini litigiose. Com'è noto, l'avvocato ha il dovere di difendere il proprio cliente nella maniera migliore possibile, in guisa da consentirgli di raggiungere l'obiettivo da questi avuto nell'ottica litigiosa. Talvolta, però, per una lunga serie di ragioni, capita che i toni si inaspriscano e che, quindi, la contesa si evolva in modo diverso da quello ordinario. Le invalicabili esigenze di corretta instaurazione del contraddittorio e le preminenti necessità di garantire compiutamente il diritto di difesa a ognuna delle parti del processo spingono a una media tolleranza verso le argomentazioni utilizzate dai difensori nel corso della contingenza, sempre che vengano rispettati taluni limiti, il cui superamento condurrà alle conseguenze che appresso vedremo. le NORME Codice di procedura civile Artt. 88, 89, 96 la FATTISPECIE Espressioni offensive o sconvenienti negli scritti dell'avvocato Viene qui in rilievo il caso in cui l'avvocato, nei propri scritti difensivi, utilizzi espressioni sconvenienti ovvero offensive, nonché l'ipotesi in cui questi assuma, in giudizio, una condotta violativa dei doveri di lealtà e probità, imposta anche dalle prescrizioni dettate dal Codice deontologico forense, che vuole il difensore quale professionista intellettuale avente la funzione di qualificata intermediazione tra il cittadino e il giudice. Dal punto di vista preliminare, è agevole notare che la maggioranza dei contegni in discorso, che risultino lesivi dell'altra parte processuale o del difensore della medesima, si registra avuto riguardo all'attività scritta,mentre per l'attività orale (ovvero, per la discussione, in camera di consiglio o in pubblica udienza) è più raro che si materializzino le violazioni in oggetto. L'art. 88 c.p.c. stabilisce l'obbligo, in capo all'avvocato, di comportarsi in giudizio con lealtà e probità. L'art. 89 c.p.c. prevede che le parti e i loro difensori, negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti all'autorità giudiziaria, non devono utilizzare espressioni sconvenienti ovvero offensive, con suppletiva precisazione che il giudice innanzi al quale penda l'affare potrà disporre, con ordinanza, che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, potendo, inoltre, assegnare, alla persona offesa, una somma da liquidarsi in via equitativa a titolo di risarcimento del danno sofferto, anche non patrimoniale, purché le riferite espressioni non riguardino l'oggetto della causa (sotto tale aspetto, è bene sottolineare che il richiamo va anche all'art. 598 c.p., il quale contempla una speciale causa di non punibilità per gli avvocati in relazione agli scritti e ai discorsi pronunciati davanti alle autorità giudiziarie o amministrative, se le offese concernano l'oggetto del procedimento). Da ultimo, viene in considerazione l'art. 96 c.p.c., dedicato alla responsabilità aggravata, secondo il quale la parte processuale che abbia agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave può essere condannata al risarcimento dei danni cagionati all'opposto contendente. Le norme passate in rassegna presentano intuitivi profili di collegamento, giacché esse mirano a impedire che la contingenza giudiziaria venga condotta senza rispettare i diritti altrui e venendo meno agli imperativi precetti inerenti alla professione forense. La fattispecie trattata, però, presenta talune peculiarità, che non possono essere sottaciute. Criteri di valutazione delle espressioni Un'espressione può ritenersi lesiva (ovvero ingiuriosa) allorché essa sia oggettivamente denigratoria per il soggetto che la subisca. Ai sensi dell'art. 89 c.p.c., il Legislatore ha inteso reprimere gli atteggiamenti culminanti nell'utilizzo di frasi offensive oppure sconvenienti. Mentre tutte le frasi offensive sono, per ciò solo, sconvenienti, non è vero il contrario, perché potrebbe ben succedere che la frase sia ex se sconveniente, ma non risulti offensiva, specie se il soggetto a cui essa si riferisca sia, per le proprie personali attitudini o per il proprio carattere di particolare tolleranza, difficilmente irritabile. Orbene, una frase è sconveniente (e, quindi, offensiva) quando essa sia irrispondente al vero o quando non rispetti i limiti della continenza e della non gratuità, purché la stessa si riveli oggettivamente denigratoria per il soggetto passivo. Sul punto, affinché possa postularsi il diritto al risarcimento dei danni, occorre che l'espressione non riguardi l'oggetto del contendere (art. 89, comma 2, c.p.c.), nel senso che essa sia completamente gratuita, ergo immotivata, vale a dire non giustificabile, poiché esprimente un dileggio che avrebbe potuto sicuramente evitarsi. Per le espressioni che siano attinenti alla causa, esse saranno illegittime allorché siano sproporzionate rispetto ai fini che l'avvocato dovrebbe astrattamente avere di mira all'atto di assunzione dell'incarico professionale,ma potranno essere passibili, al più, di cancellazione. Diversamente (è questo il senso della clausola di salvaguardia di cui prima dicevamo, clausola non prevista per la cancellazione, che può disporsi a prescindere dal fatto che la frase utilizzata attenga o non all'oggetto della causa), vale il diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. e giammai il tenore dell'attività difensiva potrà essere censurato in sede giurisdizionale. In sintesi, saranno ammesse (id est: non costituiranno fonte di pregiudizio risarcibile,ma potranno essere cancellate) le espressioni forti, decise, accese, dai toni coloriti, sferzanti e rimarchevoli dell'altrui negativo comportamento, anche se disvelanti una palese disapprovazione da parte di chi le adoperi. Viceversa, dovranno ritenersi illegittime e licenziose le frasi che non abbiano nulla a che spartire con l'oggetto del contendere ovvero che siano oltraggiose, anche se inerenti all'oggetto del contendere (e, allora, come visto, saranno soltanto cancellabili),ma si tratterà di ipotesi residuali, sia perché il difensore non ha (o non dovrebbe avere) particolare interesse a utilizzarle (perché esse non aumentano, di fatto, la possibilità di vincere la causa) sia perché deve rimanere fermo il diritto di critica di cui all'ar t. 21 Cost., vieppiù considerando che l'avvocato deve essere di parte e, anzi, deve saper essere di parte, se del caso sottolineando defensionalmente determinati accadimenti. Non può in alcun modo ostacolarsi il diritto soggettivo dell'avvocato e del proprio rappresentato a gridare con forza le relative ragioni, altrimenti si tornerebbe ai tempi del diritto dell'oppressione, tipico di qualche sistema continentale. L'offensività deve essere oggettiva e non può interpretarsi in maniera soggettivizzata o soggettivizzante, perché l'ingiuria è tale per tutti e non può dipendere dall'animo del contendente (e, se l'ingiuria non sia comprensibile, perché rivolta a soggetti che non possano comprenderla, potranno agire in risarcimento i legali rappresentanti di detti soggetti). Del pari, la gratuità e la continenza devono essere valutate dal giudice ricorrendo a parametri oggettivi di delibazione, incensurabili nel giudizio di legittimità, se immuni da vizi logici e di motivazione. Fattispecie concrete Per schiarirsi le idee, sarà utile proporre qualche esemplificazione pratica. Se in un processo di separazione con addebito il difensore del marito tradito scriva in un atto processuale o dica oralmente in udienza che la moglie traditrice è una donna di facili costumi, tale frase, specialmente se sorretta da prove inconfutabili, non sarà né sconveniente né offensiva, rappresentando la pura e semplice verità ed essendo utile nell'angolazione del processo instaurato (perché dalla dichiarazione di addebito deriveranno o potrebbero derivare effetti favorevoli per il marito, quali l'affidamento dei figli, l'assegnazione della casa coniugale, la ricezione di un assegno di mantenimento o il mancato addebito di un assegno di mantenimento che, altrimenti, sarebbe stato o avrebbe potuto essere posto a suo carico). Di contro, se questa stessa frase venga utilizzata all'interno di una controversia successoria o proprietaria, essa sarà foriera di danni, poiché del tutto gratuita, non recando astratti benefici a colui che se ne sia avvalso. Similmente,dovrà reputarsi sconveniente e offensiva la medesima espressione, se particolarmente accentuata (es.,“prostituta” o una locuzione peggiore). Il rimedio di cui all'art. 89 c.p.c. sarà invocabile, altresì, laddove il fatto indicato nella frase sia completamente sfornito di prova o se vi sia un particolare accanimento del difensore nella stesura dell'atto processuale, purché slegato dal contenzioso. Poteri di apprezzamento del giudice Il giudice dovrà verificare se i fatti dedotti, pur ove accompagnati da espressioni rigide, siano veri o meno, provati o meno, positivi o negativi. L'Autorità giudiziaria dovrà, poi, attentamente valutare la natura e la qualità delle parti, la tipologia della lite intrapresa, la condotta pregressa della parte che domandi il risarcimento (es., la provocazione, la negazione dell'evidenza), l'uso ripetuto delle espressioni vivaci ecc.Non vi sarà spazio per condanne apodittiche o discendenti dall'implicito palinsesto dell'atto processuale, atteso che l'offesa deve essere diretta e contenuta in specifiche parole. A ogni buon conto, sarà fondamentale analizzare il rispetto della continenza, verificando se l'espressione sia gratuita (es., nella causa di separazione, sarebbe gratuito dire alla convenuta che ella, oltre a essere una donna di facili costumi, sia anche una delinquente o chissà cos'altro). Molto dipenderà dalla lungimiranza e dal buon senso del giudice, che dovrà fare ottimo uso degli strumenti predisposti dalla legge per evitare la verificazione di certe condotte, essendo importante interpretare correttamente la ratio della norma in discorso, soprattutto sotto la sponda teleologica. la GIURISPRUDENZA Evoluzioni giurisprudenziali In giurisprudenza, fenomeni eguali o similari rispetto a quelli passati al setaccio non sono, poi, così infrequenti come potrebbe credersi. Lo dimostra la scorsa delle decisioni intervenute, una delle quali, molto recente, merita rivisitazione. Il giudice di legittimità (cfr. Cass. civ., Sez. II, 9 settembre 2008, n. 23333) si è occupato della seguente vicenda. A seguito di una controversa vicenda immobiliare, un legale, ottenuta ingiunzione di pagamento, notificava il decreto ingiuntivo ai debitori, che lo opponevano,ma il giudice dell'opposizione concedeva la provvisoria esecutività del monitorio, tant'è che il creditore, per tale ragione, intimava precetto e, successivamente, notificava atto di pignoramento presso terzi, con il sistema del quinto dello stipendio. Uno dei debitori, asserendo di nulla dovere al professionista, gli inoltrava una lettera, nella quale rimetteva provvisoriamente al legale l'assegno pari all'importo richiesto in via creditoria, nell'intento di “saziare” il bisogno di denaro del richiedente. Il difensore, ricevuta la lettera, citava in giudizio l'autore della missiva, il quale ultimo, costituitosi in giudizio, ne negava il contenuto ingiurioso, precisando il tenore del rapporto contrattuale sottostante che aveva dato adito all'instaurazione del procedimento ingiuntivo. Sennonché, all'interno della comparsa di costituzione e risposta, l'avvocato del debitore coloriva la difesa (tacciando parte attrice di “persecuzione” nei riguardi del convenuto e avvalorando il tenore del proprio palinsesto difensivo, aggettivandone la fondatezza previo utilizzo di espressioni quali «se non è aur sacra»); il collega attore-avvocato chiedeva la cancellazione delle frasi ritenute offensive, domandando il risarcimento dei danni subiti, “prudenzialmente” quantificati in 10 milioni delle vecchie lire. All'uopo, veniva chiesta e autorizzata la chiamata di terzo in causa; nella specie, il terzo era nient'altri che il difensore del convenuto e questi, a sua volta costituitosi, chiedeva il rigetto della domanda di condanna ex art. 89 c.p.c. sia per tardività che per infondatezza, assumendo che in nessun caso l'avvocato potrebbe essere condannato al risarcimento dei danni discendenti dall'effettuazione dell'attività difensiva, non essendo lo stesso parte processuale, ma semplicemente mandatario del rappresentato, al quale solamente potrebbero, tutt'al più, riferirsi le espressioni usate negli atti difensivi. Il terzo chiedeva, poi, la sospensione del giudizio in corso, opponendosi al fatto che il contenuto della comparsa potesse risultare offensivo nei confronti dell'attore. Il Tribunale, ritenute ingiuriose sia le espressioni contenute nella lettera inviata dal debitore all'attore che quelle adoperate nella comparsa costitutiva, condannava il convenuto e il proprio avvocato al pagamento, nei confronti dell'altro avvocato (l'attore), a titolo di danno ex art. 89 c.p.c., nella misura di 7,5 milioni di lire cadauno, ossia per un totale di 15 milioni del non più esistente conio. Il giudice monocratico condannava i soccombenti pure al pagamento delle spese di lite. I perdenti in primo grado proponevano appello,ma la Corte d'Appello lo respingeva, condannando gli appellanti al pagamento delle spese del grado superiore del giudizio. Incassata la seconda sconfitta, entrambi i convenuti, ovviamente, ricorrevano per cassazione e, nel giudizio di legittimità, tutte le parti processuali argomentavano le rispettive ragioni. La Suprema Corte ha cassato la statuizione emessa dal giudice di merito di seconde cure, dettando principi importanti e interessanti, vale a dire stabilendo che l'avvocato non può essere condannato per gli scritti difensivi-offensivi depositati per conto del proprio assistito. Se, a cagione dell'attività processuale compiuta dal legale, il cliente viene condannato al risarcimento dei danni per aver offeso la propria controparte processuale, il danno lo subisce il rappresentato e non il difensore. È fatta salva la possibilità, per il soggetto condannato, di rivalersi sul proprio avvocato, ricorrendone le condizioni di legge. Procura alla lite, poteri dell'avvocato e regime di responsabilità per condotta contraria a lealtà e probità La Cassazione nella citata sentenza ha stabilito che: - l'art. 83 c.p.c. prescrive che il difensore stia in giudizio in luogo del proprio assistito, venendosi, perciò, a configurare una rappresentanza indiretta dello stesso (c.d. rappresentanza di interessi), soggetta alle norme del mandato; - il rapporto tra difensore e assistito potrebbe addirittura considerarsi un rapporto di sostituzione agli effetti processuali; - la conseguenza è che gli atti compiuti dal difensore sono connaturalmente destinati ad avere efficacia direttamente nella sola sfera del rappresentato; - il difensore, nell'ambito del processo, non può assumere la veste di parte per il solo fatto di esercitare il diritto di difesa; - l'avvocato difetta di legittimazione passiva e non può essere chiamato quale terzo nel giudizio pendente; - il cliente, se condannato, potrà rivalersi sull'avvocato ove ne sussistano le presupponenti condizioni, con l'effetto che il primo non potrà evitare la condanna,ma potrà, al più, instaurare un autonomo e nuovo giudizio civile contro il proprio ex difensore, agendo in regime di rivalsa; - il tenore delle espressioni sconvenienti e offensive va necessariamente ricavato dal senso logico e letterale delle parole adoperate, senza che si possa desumere aliunde la volontà asseritamente ingiuriosa della parte a cui le espressioni siano riferibili; - va protetto il diritto di critica, in specie se esso si inserisca nel contesto strettamente processuale, poco contando la sfera interna dell'autore, se non esistano riscontrabili elementi in base ai quali poter valutare la condotta serbata dall'individuo autore delle frasi ritenute infamanti. Problematiche aperte L'evoluzione del ragionamento seguito dai massimi giudici non è, comunque, totalmente risolutivo della problematica, perché lascia aperte alcune altre questioni. Per esempio, quand'è che un'espressione può veramente considerarsi offensiva? Quale angolazione deve presentare per poterlo essere? Occorre o no, per ottenere la liquidazione, la dimostrazione che la parte processuale sia venuta effettivamente a conoscenza delle frasi utilizzate? Ancora: quanto conta l'attinenza delle espressioni alla causa introitata? Infine: la condanna al risarcimento dei danni può essere decretata d'ufficio dal giudice? Quali sono i presupposti per l'eventuale esercizio dell'azione di rivalsa? Diamo analitica risposta agli interrogativi che ci siamo posti, rinviando alle considerazioni già proposte in merito ai caratteri che deve possedere l'espressione per poter essere considerata offensiva o sconveniente. Il riscontro della casistica giurisprudenziale fornisce la dimostrazione di quanto sia composito il panorama relativo all'argomento trattato. In disparte la disamina approfondita delle singole vicende, è utile, come di consueto, stigmatizzare i principi più rilevanti sanciti dai giudici, di merito e di legittimità. SCRITTI DIFENSIVI OFFENSIVI E SCONVENIENTI E RAPPORTI TRA LE PARTI Cassazione civ., Sez. II, 9 settembre 2008, n. 23333 L'avvocato non è parte del processo, essendo semplicemente un sostituto processuale dell'assistito. Per tale ragione, il difensore non può essere condannato al risarcimento dei danni inerenti all'attività difensiva svolta nell'interesse del proprio rappresentato. La condanna per uso di frasi sconvenienti e offensive deve essere decretata, ricorrendone i presupposti normativi, a carico del cliente, il quale potrà agire in rivalsa verso il proprio avvocato, attivando un'apposita e autonoma azione civile (art. 83 c.p.c.).Affinché un'espressione, contenuta in un atto formato al di fuori del processo e prima che esso abbia inizio, possa ritenersi ingiuriosa, occorre che essa sia direttamente lesiva e la lesività in questione deve essere appurata dall'autorità giudiziaria sulla base del significato logico e letterale da attribuire alle locuzioni utilizzate, senza che possa avere rilievo la volontà occulta di offendere. (Lex24 & Repertorio24) CANCELLAZIONE E GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ Cassazione civ., Sez. III, 4 giugno 2007, n. 12952 La cancellazione delle espressioni sconvenienti e offensive contenute negli scritti difensivi può essere disposta, ai sensi dell'art. 89, comma 2, c.p.c., anche nel giudizio di legittimità, con riferimento alle frasi - che risultino, contrastanti con le esigenze dell'ambiente processuale e della funzione difensiva nel cui ambito vengono formulate, oltre che offensive della persona per la controparte e del suo difensore - contenute negli scritti depositati davanti alla S.C. (Mass. giur. it., 2007; Lex24 & Repertorio24) Cassazione civ., Sez. III, 16 marzo 2005, n. 5677 La disposizione dell'art. 89, comma 2, c.p.c.,dettata in tema di poteri del giudice di ordinare la cancellazione delle espressioni sconvenienti o offensive dagli scritti difensivi, è applicabile anche in sede di giudizio di legittimità, con riferimento alle frasi contenute negli scritti depositati davanti alla Corte di Cassazione, e l'apprezzamento circa l'effettivo rapporto tra le espressioni usate e l'oggetto della causa non dipende dall'istanza della parte (che costituisce non una domanda giudiziale, ma una semplice sollecitazione all'esercizio di un potere officioso del giudice, strumentale all'obbligo delle parti di comportarsi in giudizio secondo modelli di lealtà e probità). (Mass. giur. it., 2005; Lex24 & Repertorio24) FRASI OFFENSIVE E RITORSIONE Cassazione civ., Sez. lav., 26 gennaio 2007, n. 1757 Non può concretare la condizione della giusta causa legittimante il licenziamento di un lavoratore il contenuto della memoria difensiva depositata dallo stesso per resistere in un giudizio instaurato nei suoi confronti dal datore di lavoro, ancorché esso ponga riferimento a espressioni sconvenienti od offensive, le quali sono soggette, invero, alla disciplina prevista dall'art. 89 c.p.c.Tale documento giudiziario costituisce, del resto, un atto riferibile all'esercizio del diritto di difesa, oggetto dell'attività del difensore tecnico, al quale si applica la causa di non punibilità stabilita dall'art. 598 c.p. per le offese contenute negli scritti presentati dinanzi all'autorità giudiziaria qualora esse concernano l'oggetto della causa, che costituisce applicazione estensiva del più generale principio posto dall'art. 51 c.p. (individuante la scriminante dell'esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) applicabile anche alle offese rinvenibili negli atti difensivi del giudice civile, a condizione, però, che riguardino sempre l'oggetto del processo in modo diretto e immediato (nella specie, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata con la quale era stata correttamente esclusa, in base ai richiamati principi, la sussistenza della giusta causa di licenziamento nel contenuto della memoria difensiva presentata dal lavoratore per tutelare le proprie ragioni in una causa intentata nei suoi riguardi, in cui si poneva riferimento, in modo anche offensivo, a fatti riguardanti una vicenda penale in cui era stato coinvolto l'istituto di credito datore di lavoro, i quali erano comunque risultati collegati all'oggetto del giudizio, senza che, peraltro, nel caso specifico, si potessero configurare quantomeno i presupposti del giustificato motivo soggettivo, non rilevandosi l'idoneità delle frasi criticate a ledere, di per sé, il vincolo fiduciario tra lo stesso istituto e il lavoratore). (Lav. giur., 2007, 10, 1034; Dir. prat. lav., 2007, 43, 2595) FRASI CHE POSSONO ESSERE CANCELLATE Corte d'Appello di Roma, Sez. IV, 11 ottobre 2006 A norma dell'art. 89 c.p.c. l'offesa all'onore e al decoro comporta l'obbligo della cancellazione delle frasi offensive contenute negli atti difensivi quando le stesse non abbiano alcuna relazione con l'esercizio della difesa o si presentino come eccedenti le esigenze difensive (fattispecie nella quale la Corte di Appello ha ritenuto fondata la domanda di parte appellata volta a ottenere la cancellazione dalla avversa memoria di replica di espressioni, quali, «la malafede di controparte» o «da quale stato confusionale sono maturate le conclusioni e la comparsa di parte avversa», ritenute eccedenti le esigenze della lite). (Banca dati Jurisdata) POTERI OFFICIOSI DEL GIUDICE Cassazione civ., Sez. I, 27 febbraio 2003, n. 2954 L'ordine di cancellazione di frasi sconvenienti od offensive costituisce esercizio di un potere discrezionale, esercitabile dal giudice anche d'ufficio ed è incensurabile in Cassazione, essendo preclusa nel giudizio di legittimità una nuova valutazione dei fatti. (Foro it., 2003, 1, 1039) LEALTÀ, PROBITÀ E RIPARTO DELLE SPESE PROCESSUALI Cassazione civ., Sez. lav., 20 marzo 2007, n. 6635 In materia di spese processuali, al criterio della soccombenza può derogarsi solo quando la parte risultata vincitrice sia venuta meno ai doveri di lealtà e probità, imposti dall'art. 88 c.p.c.Tale violazione, inoltre, è rilevante unicamente nel contesto processuale, restando estranee circostanze che, sia pur riconducibili a un comportamento commendevole della parte, si siano esaurite esclusivamente in un contesto extraprocessuale, le quali circostanze possono, al più, giustificare una compensazione delle spese (in applicazione del principio di cui in massima, la Suprema Corte ha cassato la decisione della Corte territoriale che, in controversia previdenziale, aveva condannato l'Inps al pagamento delle spese processuali, sul presupposto che l'ente previdenziale avesse concorso a dare origine alla controversia negando, in radice, la sussistenza di un'inabilità temporanea assoluta conseguita a infortunio sul lavoro e sostenendo questa tesi in giudizio). (Mass. giur. it., 2007) PROFILI RISARCITORI Corte d'Appello di Napoli, Sez. III, 14 aprile 2008 In materia di doveri delle parti e dei difensori, la cancellazione delle espressioni offensive, negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati dinanzi al giudice, e il risarcimento del danno previsti dall'art. 89, comma 2, c.p.c., sono sanzioni diverse, distinte e autonome: pertanto la prima, che non ha funzione risarcitoria, può avere luogo senza la seconda e viceversa. (Banca dati Jurisdata) ANIMUS NOCENDI Tribunale di Monza, Sez. I, 26 settembre 2007 L'art. 89 c.p.c. contiene una norma posta a tutela dell'eccesso nell'esercizio del diritto di difesa, che si deve svolgere sempre in maniera civile e non deve essere caratterizzata dall'intento di offendere inutilmente l'avversario; in particolare, l'antigiuridicità della condotta è esclusa solo laddove le espressioni offensive riguardino l'oggetto della causa e siano dettate da esigenze difensive. (Banca dati Jurisdata) la DOTTRINA In dottrina, l'argomento esposto ha ricevuto alcuni approfondimenti, tesi a valutare l'incidenza della violazione posta in essere dal difensore, nonché la conoscenza che di essa abbia l'individuo che, obtorto collo, si sia visto costretto a subire passivamente siffatta fastidiosa condotta. Prova del danno e liquidazione “ex officio” Nel caso sopra riportato, va da sé che l'avvocato, essendo difensore di se stesso, abbia direttamente appreso il contenuto degli scritti difensivi dell'avversario. Normalmente, però, questo non avviene. Rimane, allora, problematico capire se la parte, per potersi vedere accogliere la richiesta di risarcimento, debba o meno dimostrare al giudice di avere avuto contezza delle espressioni ingiuriose. Se esse vengano pronunciate in presenza dell'interessata, nulla quaestio. Se, invece, siano contenute in uno o più scritti difensivi, riteniamo che la parte debba fornire al giudice la prova di averle apprese. Se così non fosse, si decreterebbero risarcimenti automatici (quale danno subisce la parte se neppure sa di essere stata offesa?). Né può ragionarsi in termini di presunzione di conoscenza o di conoscibilità. Le udienze sono pubbliche, ma gli atti processuali non sono (non dovrebbero essere) accessibili al quisque de populo.Dubitiamo che il risarcimento possa avvenire in via officiosa, perché il giudice deve essere e rimanere terzo e imparziale.All'occorrenza, l'art.89, comma 2, c.p.c.nulla dice in proposito (né può argomentarsi a contrario ex art. 96, comma 2, c.p.c., che discetta di liquidazione ex officio, ma non di condanna in tal senso), ma non sembra che possa derogarsi all'inesorabile principio della domanda, previsto dall'art. 99 c.p.c. Lo si potrebbe fare, forse, solo per la cancellazione delle frasi incriminate, posto che la cancellazione, a differenza del risarcimento, non danneggia nessuno. L'istituto qui esaminato poggia sul comportamento processuale per quel che riguarda la condanna da addossare alla parte in virtù del contenuto degli atti difensivi depositati dall'avvocato e sul comportamento extraprocessuale della parte stessa per ciò che concerne la medesima condanna, la quale, in questa seconda evenienza, assume natura non patrimoniale (o esistenziale) ex art. 2043 c.c. e morale ex art. 2059 c.c. L'azione di rivalsa La Cassazione non si è soffermata sui presupposti utili per positivamente attivare l'azione di rivalsa. A rigor di logica, qualunque condanna cagionata da scritti difensivi sarebbe idonea a far ritenere accoglibile la seconda domanda risarcitoria (quella proposta dall'ex cliente contro l'avvocato) e il giudicato del primo processo dovrebbe ritenersi vincolante per il secondo giudice, che dovrebbe decidere in conformità, provvedendo a ripartire gli oneri dell'esito sfavorevole. Il cliente, dunque, potrà recuperare le somme che abbia dovuto sborsare a cagione della materializzazione di un contegno che, in fin dei conti, non gli appartenga in prima persona (e, spesso, il cliente ignora in toto ciò che l'avvocato abbia scritto in sua difesa, specie perché, sovente, i difensori non consegnano copia degli atti difensivi ai propri assistiti e pochi clienti si recano presso gli organi giudiziari per acquisirli ovvero chiedono al proprio avvocato di consegnarglieli). Per ulteriori approfondimenti dottrinali - ANDRIOLI, Commento al Codice di procedura civile, I, Jovene, 1961; - MANDRIOLI, Dei doveri delle parti e dei difensori, Commentario al c.p.c., (diretto da) Allorio, Utet, 1973, I, 2; - PICARDI, Codice di procedura civile, Giuffrè, 2005; - SATTA, Commentario al Codice di procedura civile, I, Giuffrè, 1966; - SCARSELLI, «Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali», in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, 91. le CONCLUSIONI L'avvocato non figura tra le parti del processo, dato che il Libro I, titolo III, c.p.c. è titolato “delle parti e dei difensori”, laddove la congiunzione utilizzata indica chiaramente che si tratta di soggetti diversi. Quindi, l'avvocato non può essere condannato direttamente ex art. 89 c.p.c., ma soltanto in sede di rivalsa. I danni che il cliente può subire sono sostanzialmente danni non patrimoniali, liquidabili in via di equità. Le frasi adoperate dagli avvocati nei loro atti difensivi o nelle more dell'attività forense possono ritenersi offensive, dando luogo al risarcimento, se e solo debordino vistosamente dai margini della lite e si rivelino oggettivamente infamanti per i rispettivi destinatari.Tali frasi saranno sconvenienti, invece,nella distinta evenienza in cui si palesino gratuite e sovrabbondanti rispetto allo scopo che il legale si prefigge attivando il contenzioso o resistendo alla pretesa portata avanti dal collega per conto del cliente di quest'ultimo, nel qual caso non si farà luogo al risarcimento, ma si potrà ottenere la cancellazione giudiziale delle espressioni poco garbate. la PRATICA Aspetti processuali pratici Sotto l'aspetto pratico, è consigliabile che il legale mantenga una certa distanza dal petitum, dovendo cercare di non inasprire inutilmente e polemicamente i toni, soprattutto con i propri colleghi, posto che, come si vede dalle decisioni intervenute, violare lo statuto degli altrui diritti potrebbe significare, in concreto, ritrovarsi a essere esposto ad azioni risarcitorie, che molti avvocati non disdegnano di instaurare, anche infondatamente. Il processo non deve diventare un luogo per covare vendette malcelate o per nascondere irritanti ipocrisie,ma deve restare la sede principale tesa a stabilire chi abbia ragione e chi abbia torto. La ricerca della verità (processuale) dovrebbe stimolare i giudicanti a smorzare i toni, dall'alto della loro neutralità ed equidistanza, anche per far capire agli avvocati o alle parti che la loro condotta potrebbe essere controproducente o da disapprovarsi. Il limite all'esercizio del diritto di difesa deve inevitabilmente e lungimirantemente misurarsi con il diritto-dovere di partecipare al processo in modo ordinato, composto e rispettoso, onde non urtare la suscettibilità degli altri consociati. È indispensabile, pertanto, uno sforzo costante del professionista forense, il quale, proprio in virtù della diligenza aggravata di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., non deve assumere atteggiamenti fuori posto per la spassionata disamina giudiziale dell'affare, dovendo, dunque, evitare di utilizzare locuzioni scritte oppure orali - gratuite e denigratorie, avendo l'obbligo di conservare, pur se sia un soggetto di parte, una buona dose di signorilità, frigido pacatoque animo. Resta ferma la possibilità di ritenere scriminata la condotta del legale in casi particolari, ovvero quando questi abbia interesse personale alla causa ovvero quando sia il collega a incorrere nelle espressioni offensive e sconvenienti, nel qual caso sarà l'attività compiuta da questi a dover essere oggetto di attenzione e l'uso di frasi altrettanto offensive e sconvenienti, come contraltare di chi le abbia ricevute, dovrà tollerarsi, come avviene per le ipotesi penalistiche di provocazione e di risposta alla provocazione, che quest'ultima sia di pari livello rispetto all'aggressione morale subita.