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Perdonato dalle lucertole
Davide Bernasconi Perdonato dalle lucertole Milano, Edlin, 1997, pp. 111 Davide Van de Sfroos, Premio Tenco ’99 come Miglior Autore Emergente, decine di migliaia di copie vendute del secondo album, Breva e Tivan (1999). Oppure Davide Bernasconi, classe 1965, cantastorie. L’uomo che in dialetto lariano canta le storie ascoltate o vissute nel tremezzino – un lembo di terra e acqua che riunisce pochi paesi, da Ossuccio a Cadenabbia, nella zona centrale del lago di Como, dalla parte di Menaggio – e l’uomo che raccoglie le storie della sua gente e le trasforma in poesia hanno in comune un libro, Perdonato dalle lucertole (Milano, Edlin Editrice, 1997, pp. 111). Il sottotitolo, (Paròll de sfroos) – inserito tra parentesi, con timidezza – ci conferma che le liriche racchiuse nel volume, tutta la produzione degli anni ’90, sono effettivamente la voce, le parole di un territorio, di una cultura di cui Bernasconi si fa menestrello e bandiera, per traghettarla da un passato senza tempo verso il nuovo millennio della globalizzazione. Questi sono i nostri paesi, che ci masticano e ci portano in braccio, che ci spogliano e ci rivestono: occhi di gufo e di lince puntati sulle nostre mosse segrete… La parola letteraria diviene memoria storica di una precisa territorialità di espressione laghèe, mentre la voce narrante partecipa il proprio senso del luogo, le nozze tra l’umido e il solido di una terra di confine, l’incanto dell’incontro con un tempo mobile e musicale, misurato dai ritmi del lago: Chi ero ieri? Un’armonica, le ore mi han soffiato dentro o forse io ho suonato per farle a pezzi, perché le ore questo lo pretendono. Chi ero ieri? Ero una zampa di gallina, che graffiava la ghiaia per arrivare ad oggi. E oggi? Oggi porto in giro il mio cuore di vetro: mi sembra giusto non capire più niente, diventare deboli e innamorarsi. Innamorato del proprio ambiente, Bernasconi si identifica con le radici che sente affondare nelle sponde del Lario, attorno ai pontili, in quel «tempo liquido» dove il suo cuore «non è altro che una darsena / che continua a fare entrare e uscire / barche fantasma». Ma tutto questo andare e venire non è fatica, né dolore o rimpianto, bensì quieta e risoluta accettazione di un’appartenenza, e della sua segreta ricchezza; il menestrello non fa che tracciare la mappa dello specchio d’acqua che lo nutre e lo possiede: Battello che vai, battello che vieni salutami tutto il lago, lago a forma di fionda, lago “uomo che corre”, lago fulmine azzurro. Il cantastorie canta, e nel dare forma al proprio paesaggio interiore attraverso la creazione letteraria ascolta la voce degli strumenti che hanno fondato la sua geografia personale, rendendoli protagonisti di una testimonianza collettiva, perché È tempo di danzare, tra le guance more del tramonto e di sentire le fisarmoniche respirare, le chitarre che quasi sanguinano… Il violino ha un suono da ladro e ti impicca al sogno più alto, finché hai pozzanghere al posto degli occhi. Allora balliamo, se non vogliamo morire la morte dei vivi, balliamo dentro la musica… Perché la musica offre una sponda sicura, una via d’uscita, un biglietto di ritorno, è segnale di vita e misura della distanza, ritmo della pioggia e regola del caos. Nella musica anche la mente malata, Nel sogno del pazzo che ride sott’acqua, trova una sua armonia nella forza di un sogno, mentre «si tinge di alghe / e diventa Dio-pesce, / diventa Madre-onda, / diventa Padre-fango, / diventa e ridiventa, / perché è pazzo, / perché è sogno / e questa canzone lo inzuppa e lo morde.» E al morso della canzone, sembra dire Bernasconi, poeta e cantastorie, celebrante di una terra di mezzo, nessuno si può sottrarre. Isabella Maria Zoppi *Recensione pubblicata ne L’isola che non c’era, anno V, n° 20, dicembre 2000, p. 71.