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Il punto sugli amministratori indipendenti

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Il punto sugli amministratori indipendenti
Il punto sugli amministratori indipendenti
Stefano Micossi
Assemblea annuale Nedcommunity
Milano, 21 aprile 2010
La figura degli amministratori indipendenti si è affermata su tutti i principali mercati
finanziari come una figura chiave per garantire la buona governance. Allo stesso
tempo, nel dibattito pubblico, su questa figura spesso prevalgono lo scetticismo, o
addirittura il sarcasmo, sull’effettiva sua capacità di proteggere gli azionisti di
minoranza, in particolare in un sistema come il nostro nel quale gli amministratori
sono in prevalenza nominati dall’azionista di controllo. Non hanno aiutato alcuni casi
ad alta visibilità nei quali la presenza in consiglio di amministratori indipendenti, di
alta reputazione e in numero elevato, non ha impedito espropriazioni degli azionisti di
minoranza.
Permettetemi di notare, in generale, che gli amministratori non esecutivi –
indipendenti o non indipendenti – hanno svolto o avuto un ruolo importante nel
miglioramento della governance delle società italiane quotate, come risulta
chiaramente dalle indagini annuali condotte da Emittenti Titoli e Assonime
sull’applicazione del Codice di Autodisciplina. Il ruolo degli indipendenti non
dovrebbe essere confuso con quello degli amministratori di minoranza che, come era
prevedibile già al momento di introduzione della fattispecie, sono espressione di
tipologie differenziate di azionisti: la prima figura è un ruolo ormai consolidato nella
prassi internazionale; la seconda rispecchia una scelta di governo societario solo
italiana, che finora non ha dato sempre buona prova.
1. L’introduzione degli amministratori indipendenti
L’evoluzione della governance delle società quotate italiane negli ultimi anni mostra
una crescente presenza di amministratori indipendenti. Essi rappresentano ormai un
1
terzo dei componenti dei consigli di amministrazione, con una presenza maggiore
con l’aumentare delle dimensioni della società.
1.1. Gli indipendenti nel Codice di Autodisciplina
L’introduzione degli amministratori indipendenti nel nostro sistema è legata
all’introduzione dell’autodisciplina, con il Codice approvato per la prima volta nel
1999 (con effetto dal 2000).
Nel nuovo Codice, ispirato all’esperienza dei sistemi anglosassoni, gli amministratori
indipendenti rappresentano un sottoinsieme degli amministratori non esecutivi, in
possesso di particolari requisiti che ne assicurano l’indipendenza dall’azionista di
controllo, dei quali si raccomanda la presenza in consiglio “in numero adeguato”.
Nei sistemi di common law con presenza dominante di public companies, la
diversificazione dei componenti dell’organo amministrativo risponde a una logica
precisa: l’amministrazione della società è affidata ad amministratori esecutivi,
espressione del management, dotati di ampia discrezione, mentre gli amministratori
indipendenti ne vigilano i comportamenti nell’interesse dell’azionariato.
In un sistema come quello italiano, caratterizzato dal ruolo rilevante degli azionisti di
controllo, la presenza degli amministratori indipendenti ha assunto due connotazioni
specifiche: la prevenzione dei conflitti di interesse tra socio di controllo e azionisti di
minoranza, invece che tra management e azionariato; il rapporto con l’attività di
controllo tradizionalmente svolta dal collegio sindacale.
L’efficacia dell’istituto ne presuppone una chiara qualificazione, fondata su procedure
di nomina trasparenti e meccanismi adeguati di valutazione dell’indipendenza.
Quanto alla procedura di nomina, la specificità del nostro sistema, caratterizzato
dalla diffusa presenza di azionisti di controllo, ha indotto a prediligere meccanismi di
trasparenza piuttosto che ad affidarne la scelta a comitati per le nomine, come pure
si fa in altri ordinamenti.
Sui requisiti soggettivi, il Codice di Autodisciplina identifica le situazioni idonee a
compromettere l’indipendenza del singolo amministratore, anche se la valutazione
2
dei singoli casi viene lasciata al consiglio. Ad esempio, la permanenza prolungata in
consiglio, per oltre nove anni, o il contemporaneo svolgimento di incarichi
professionali per la società o altre società del gruppo, possono determinare la perdita
dell’indipendenza. Ma il consiglio può decidere diversamente, dopo aver valutato gli
elementi rilevanti. Allo stesso modo, significative remunerazioni aggiuntive rispetto
all’emolumento fisso di amministratore, ivi inclusa la partecipazione a piani di
incentivazione legati alla performance aziendale, possono inficiare la terzietà e
l’imparzialità dell’amministratore.
1.2. L’introduzione dell’amministratore indipendente nella legge
In seguito, la figura dell’amministratore indipendente è stata introdotta anche nella
legge, in occasione della riforma societaria del 2003. Nel modello monistico, nel
quale non è presente il collegio sindacale, è prevista la presenza obbligatoria degli
indipendenti nel comitato per il controllo sulla gestione. Negli altri modelli di
governance (tradizionale e dualistico) gli statuti possono richiedere la presenza di
amministratori indipendenti, con requisiti “ispirati” a codici di comportamento privati.
L’introduzione degli amministratori indipendenti rafforza l’evoluzione del consiglio di
amministrazione verso un monitoring board. Al suo interno, si realizza una chiara
diversificazione del ruolo degli amministratori delegati, rispetto alla restante
componente degli amministratori deleganti; a questi ultimi sono assegnati la
valutazione sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile
della società e i controlli.
Il rafforzamento della funzione di vigilanza dell’organo di amministrazione si è
accompagnato alla progressiva sottrazione del merito del controllo contabile al
collegio sindacale. Peraltro, con la recente trasposizione nel nostro ordinamento
della direttiva sulla revisione contabile, questa tendenza sembra di nuovo invertirsi,
dietro pressione di interessi categoriali.
La presenza obbligatoria dell’amministratore indipendente in tutti i modelli di
governance è stata sancita dalla legge per la tutela del risparmio (l. 262/2005).
3
L’introduzione della figura degli amministratori indipendenti per via normativa, se da
un lato tradisce una mancanza di fiducia nell’autodisciplina, dall’altro manifesta la
volontà di affermare i suoi istituti tipici.
I modi con cui la figura degli indipendenti è stata caratterizzata nella legge, tuttavia,
sollevano rilevanti perplessità.
In primo luogo, l’indipendenza degli amministratori è stata frettolosamente assimilata
a quella dei componenti del collegio sindacale, senza tener conto delle peculiarità del
ruolo di un amministratore nel consiglio di amministrazione. Mentre il membro del
collegio sindacale svolge una funzione di controllo esterna all’impresa, un consigliere
di amministrazione resta pur sempre partecipe della gestione attraverso le decisioni
del consiglio. La fissazione di identici requisiti non può non dar luogo a distonie.
Inoltre, la definizione di indipendenza della legge non coincide con quella
dell’autodisciplina, che definisce propri criteri di indipendenza e non utilizza il
riferimento ai criteri validi per i sindaci. La questione è fonte di notevole confusione;
genera conseguenze indesiderabili nel caso in cui la perdita dei requisiti di
indipendenza implichi la decadenza degli amministratori. Questa disciplina, infatti, si
applica ai criteri di indipendenza dei sindaci e non a quelli dell’autodisciplina.
2. Il ruolo degli amministratori indipendenti
Il peso crescente attribuito agli amministratori indipendenti nel governo societario
porta a interrogarsi sul loro specifico ruolo.
Nell’esperienza anglosassone delle società pubbliche gli amministratori indipendenti
hanno un ruolo determinante nella scelta del management e nella definizione delle
strategie aziendali e, attraverso la partecipazione ai comitati, concorrono a
determinare la remunerazione del management e al buon funzionamento dei controlli
aziendali.
Nelle società dove è presente un azionista di controllo, il ruolo degli amministratori
indipendenti non può riguardare attribuzioni che appartengono al socio stesso, come
ad esempio la nomina e la remunerazione dell’amministratore delegato. Ma resta il
4
ruolo centrale di tutela degli azionisti nel verificare la correttezza sostanziale e
procedurale
delle
decisioni, la
qualità degli assetti organizzativi, il buon
funzionamento dei sistemi di controllo.
L’esperienza applicativa ha confermato che, anche nel nostro sistema di proprietà
concentrata, gli amministratori indipendenti svolgono un ruolo positivo, soprattutto
quando sono più elevate la qualità professionale e la reputazione. Oltre ad arricchire
il dibattito consiliare, essi hanno consentito in casi significativi un penetrante scrutinio
delle operazioni in conflitto di interesse. Spesso, la loro prevalenza all’interno dei
comitati consiliari ha consentito valutazioni più ponderate delle decisioni gestionali a
garanzia degli interessi di tutti i soci. Nei casi in cui le cariche di presidente e di
amministratore con deleghe sono concentrate in un’unica persona, la presenza di
amministratori indipendenti può rappresentare un ulteriore elemento di garanzia e
contrappeso. In tali circostanze1, il Codice di Autodisciplina suggerisce di nominare
un lead independent director con la funzione di coordinare in seno al consiglio le
istanze e i contributi degli amministratori indipendenti.
Un aspetto peculiare dell’esperienza italiana, però, è che il mercato e i media
specializzati sono stati di norma poco attenti nell’identificare i casi non convincenti di
applicazione dei criteri di indipendenza. Al riguardo, Assonime ha più volte proposto
di rafforzare i meccanismi di sanzione reputazionale nei casi di applicazione
insufficiente o distorta dell’autodisciplina; la difficoltà di identificare i soggetti cui
attribuire l’iniziativa non ha finora consentito di procedere in questa direzione. Ma il
tema deve essere ripreso.
3. Gli indipendenti nella nuova disciplina della Consob sulle parti correlate
Il Regolamento Consob sulle operazioni con parti correlate attribuisce un nuovo
specifico ruolo agli amministratori indipendenti.
3.1. La definizione degli indipendenti
1
Si aggiunga anche il caso il presidente coincida con l’azionista che controlla la società.
5
Il Regolamento fa riferimento a due categorie di amministratori indipendenti.
Essi sono in primo luogo gli amministratori e i consiglieri in possesso dei requisiti di
indipendenza previsti dalla legge per i sindaci (art. 148, comma 3, Tuf). Qualora,
tuttavia, la società dichiari di aderire a un codice di comportamento promosso da
società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria, che
preveda requisiti almeno equivalenti a quelli richiesti ai sindaci, allora devono essere
coinvolti nelle decisioni su operazioni con parti correlate gli amministratori e i
consiglieri indipendenti riconosciuti come tali dalla società, in applicazione del
medesimo codice. Si noti, al riguardo, che il 96% delle società quotate aderisce al
Codice.
Con lo stesso Regolamento, la Consob è intervenuta sulla governance delle società
quotate soggette a direzione e coordinamento, rafforzando i criteri di indipendenza
(art. 37 Regolamento Mercati). In tal caso, infatti, possono qualificarsi indipendenti gli
amministratori che, oltre a possedere i requisiti sopra indicati, non ricoprano la carica
di amministratore nella società o nell’ente che esercita attività di direzione e
coordinamento o nelle società quotate controllate da tale società o ente2.
Si può ricordare, al riguardo, che il Codice di Autodisciplina già prevedeva che non
possa considerarsi indipendente quell’amministratore che sia “esponente di rilievo” di
una società “di rilevanza strategica” del gruppo.
Il Regolamento, inoltre, stabilisce che – nelle società che rientrino in tale regime e
siano soggette a potere di direzione e coordinamento da parte di altra società
quotata – gli indipendenti rappresentino la maggioranza del consiglio di
amministrazione.
3.2. Il ruolo degli indipendenti
Il coinvolgimento degli amministratori indipendenti è diverso in relazione alla
rilevanza dell’operazione con parti correlate.
2
Inoltre, la società soggetta a direzione e coordinamento di altra società o ente, dovrà avere il
comitato controllo interno e il comitato per le remunerazioni composto da soli indipendenti con i
requisiti rafforzati.
6
Per le operazioni di minore rilevanza, un comitato composto esclusivamente da
amministratori non esecutivi (e non correlati all’operazione), in maggioranza
indipendenti, deve esprimere un motivato parere non vincolante “sull’interesse della
società al compimento dell’operazione nonché sulla convenienza e sulla correttezza
sostanziale delle relative condizioni”.
Per le operazioni di maggiore rilevanza, un comitato composto esclusivamente da
amministratori indipendenti (non correlati) deve fornire un parere vincolante. Il parere
è derogabile solo nell’ipotesi, da prevedere in statuto, in cui l’assemblea autorizzi il
compimento dell’operazione. In tal caso l’assemblea delibera “con modalità volte a
impedire il compimento dell’operazione qualora la maggioranza dei soci non correlati
esprima voto contrario all’operazione” (c.d. whitewash), potendosi però prevedere un
quorum costitutivo (non superiore al 10%) dei soci non correlati.
È dunque prevalsa la tesi secondo cui le operazioni rilevanti con parti correlate
possono essere impedite dagli azionisti di minoranza dissenzienti. Una soluzione più
rispettosa del mercato avrebbe potuto arrestarsi sulla soglia di un massimo di
trasparenza, senza sospendere il diritto di decidere degli azionisti di controllo.
Rispetto alle bozze di regolamento poste in consultazione, la disciplina definitiva
precisa gli obblighi e i diritti informativi degli amministratori indipendenti nella fase
delle trattative e dell’istruttoria sull’operazione. In particolare, ogni ruolo diretto degli
indipendenti nelle trattative è stato escluso, in base alla forte considerazione
secondo cui la partecipazione alle trattative avrebbe indebolito l’indipendenza degli
amministratori coinvolti; inoltre, si è riconosciuto che un flusso selettivo di
informazioni solo verso alcuni amministratori avrebbe intaccato l’unicità del consiglio
e la parità tra i consiglieri.
4. Gli amministratori di minoranza
È utile qui un richiamo alla figura degli amministratori di minoranza, aggiunti
nell’ordinamento agli amministratori indipendenti con poco meditata decisione dalla
legge sul risparmio.
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La legge prevede ora che almeno uno dei componenti del consiglio di
amministrazione debba essere tratto dalla lista presentata in assemblea dalle
minoranze che abbia ottenuto il maggior numero di voti.
Con l’introduzione del rappresentante delle minoranze il legislatore ha generalizzato
a tutte le società quotate il modello che lo Stato aveva disegnato nella stagione delle
privatizzazioni delle grandi imprese statali, e che rispondeva allo specifico scopo di
proteggere gli amministratori dall’ingerenza indebita dello Stato rimasto azionista di
controllo, in presenza di un limite al possesso azionario dei privati.
In linea di principio, questa nuova categoria di amministratori avrebbe dovuto
mostrare maggiore indipendenza rispetto agli azionisti di controllo; peraltro, non si
specificò per loro l’esigenza di indipendenza rispetto ad altri interessi estranei
all’azienda. Inoltre, nulla impedisce che i soci di minoranza possano adottare
comportamenti opportunistici a fini di vantaggio personale, dato che in molti casi
l’investimento richiesto per la presentazione di una lista può risultare assai modesto,
dunque con un minor vincolo al conseguimento dell’interesse comune della società.
Nell’esperienza pratica questi timori sono stati confermati. Si è visto, infatti, che
l’amministratore di minoranza può funzionare secondo le intenzioni nelle società
maggiori, in cui sono presenti, tra gli azionisti, investitori istituzionali che possono
garantire candidature di qualità. Nelle società a minore capitalizzazione, invece,
l’amministratore di minoranza è talora risultato portatore di interessi particolari, non
necessariamente coincidenti con la creazione di valore per tutti gli azionisti3.
3
Ad alcuni anni di distanza dall’introduzione obbligatoria degli amministratori di minoranza,
l’esperienza applicativa mostra dati non incoraggianti, anche se per un giudizio definitivo bisognerà
attendere l’entrata a regime della nuova disciplina (nella corrente stagione assembleare). Il ricorso a
questa figura si pone nei livelli minimi imposti per legge. C’è stato certamente un aumento della
frequenza con la quale le minoranze sono presenti in consiglio: i consiglieri attribuibili alle minoranze
sono aumentati da 90 nel 2006 a 122. In parallelo, si evidenzia una riduzione del numero medio degli
amministratori di minoranza – nelle società in cui essi sono presenti – passato da 3,9 nel 2006 a 2,3.
Tale fenomeno è spiegabile con il fatto che le società che volontariamente avevano più di un
amministratore di minoranza, hanno previsto l’elezione di un solo rappresentante, pari al minimo di
legge. Numero e peso degli amministratori di minoranza variano in relazione alle dimensioni e al
settore delle società. Oltre che nelle società privatizzate, la frequenza dell’elezione dei consiglieri di
minoranza è maggiore nel settore finanziario, caratterizzato da una maggiore frammentazione
dell’azionariato.
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Inoltre, la dicotomia tra gli amministratori di minoranza e quelli indipendenti non ha
contribuito a rafforzare l’indipendenza di valutazione del consiglio: infatti, gli
amministratori di minoranza non sono necessariamente indipendenti, come si è
detto, mentre la loro presenza in consiglio ha depotenziato il ruolo degli indipendenti.
In effetti, solo in un quarto dei casi le liste sono presentate da investitori istituzionali 4.
Molti investitori istituzionali internazionali non sembrano interessati all’elezione di
propri rappresentanti; la capacità delle SGR di partecipare alle assemblee con quote
azionarie significative e presentare liste è diminuita con la crisi dei mercati.
Anche i meccanismi di nomina potrebbero essere migliorati. La legge prevede quote
minime di partecipazione al capitale per la presentazione delle liste nella misura del
2,5% del capitale, o la diversa misura stabilita dalla Consob sulla base di tre
parametri: capitalizzazione, flottante e assetti proprietari della società.
Nell’esercizio della delega, la Consob ha disegnato un meccanismo per la
presentazione di liste articolato in ben sei soglie – dallo 0,5% al 4,5% –
corrispondenti a diverse classi di capitalizzazione di mercato. La soglia più bassa,
pari allo 0,5%, si applica agli emittenti con capitalizzazione superiore a 20 miliardi di
euro. Oltre all’evidente complicazione del sistema, vi è l’inconveniente sempre
presente quando si utilizzano parametri quantitativi nella determinazione di obblighi
di legge: la crisi finanziaria, determinando forti cadute dei corsi azionari, ha mutato in
maniera inattesa, e forse indesiderabile, le soglie in vigore per le diverse società,
cosicché adesso si parla di modificarle. In realtà, meglio sarebbe stato indicare dei
criteri, lasciando i numeri fuori dalla norma.
Conclusioni
La progressiva affermazione nei consigli di amministrazione delle società quotate
degli amministratori indipendenti dimostra una fiducia crescente del mercato
finanziario e dell’ordinamento in tale figura.
4
Il numero di consiglieri presentati da fondi comuni o fondi pensione è diminuito dal 32% (nel 2008) al
25% del totale dei consiglieri per cui sono disponibili informazioni (tornando così sui livelli del 2007,
quando era pari al 27%).
9
Il percorso iniziato con il Codice di Autodisciplina e per ora compiuto con la legge sul
risparmio, ha prodotto complessivamente un buon risultato: nelle società quotate
esiste un adeguato numero di indipendenti, è migliorata la qualità del consiglio come
collegio e, soprattutto, è aumentata la trasparenza delle informazioni.
Certamente l’istituto, tipico della cultura anglosassone, ha faticato a imporsi, nella
forma e soprattutto nella sostanza, tra le nostre società quotate. I risultati sono però
incoraggianti, soprattutto nei casi di amministratori di specchiata competenza,
autorevolezza e reale indipendenza.
Pur essendo migliorata la trasparenza nei processi di valutazione dell’indipendenza
da parte dei consigli, occorre rafforzare la descrizione dei casi di indipendenza
“dubbi”:
in
tal
senso,
le
società
dovranno
tenere
in
considerazione
la
raccomandazione recentemente diffusa dal Comitato per la corporate governance
delle società quotate. Una compliance solo formale alla raccomandazione potrebbe
condurre a interventi imperativi dell’autorità di vigilanza.
Dal punto di vista sostanziale la presenza degli amministratori indipendenti va
coordinata con altre funzioni di controllo presenti nel nostro sistema. La questione è
complessa: la moltiplicazione dei soggetti deputati al controllo va risolta con un’opera
più generale di razionalizzazione del sistema dei controlli – come abbiamo descritto
in un recente volumetto dell’Assonime.
Un nodo da sciogliere sulla governance è rappresentato dalla dicotomia tra
amministratori indipendenti e amministratori di minoranza. Risposte non sempre
meditate agli scandali finanziari dello scorso decennio hanno prodotto un regime
ibrido, con la coesistenza non facile di queste due figure.
Su questi temi si dovrà ritornare, eliminando istituti e sovrastrutture che non hanno
dato buona prova e la cui permanenza rischia invece di pregiudicare la potenziale
utilità di istituti – quali gli amministratori indipendenti – nei quali l’ordinamento crede e
ai quali ha affidato ruoli di crescente rilievo.
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