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Infanzia: cultura, educazione, scuola
Reggio Emilia, 11-13 ottobre 2007
Cultura scuola persona
Mauro Ceruti
Buonasera e grazie per questa accoglienza molto calorosa. Grazie anche per avermi coinvolto in questa che io considero una sorta riflessione fatta ad alta voce e in modo “dialogante”.
Cercherò di mettermi in sintonia con lo spirito della realtà del Centro Internazionale. Mi capita sempre più spesso di pensare a cosa dire quando vengo invitato a tenere delle conferenze e delle lezioni in
qualità di ricercatore, e penso tra me e me a ciò che da qualche anno mi motiva ad accettare questi inviti:
non l’opportunità di dire la mia, di parlare, ma l’opportunità di ascoltare, e “ascoltare” è una parola importante che si può usare in modo molto pertinente per definire la scuola, che è luogo di ascolto. Questi
eventi mi consentono di ascoltare non solo nei momenti di dibattito che seguono alle conferenze, ma
soprattutto mi consentono di ascoltare me stesso, di ascoltare le intenzioni che vado elaborando, avvicinandomi intenzionalmente al luogo dove ci si incontra, cercando di ascoltare anche la motivazione di
chi vorrà ascoltarmi, perché è dall’ascolto che può nascere eventualmente, non solo probabilmente ma
come un evento irripetibile, come un evento, una parola sensata, una parola perfetta.
È per questo che sono grato alla Professoressa Rinaldi per avermi invitato qui (mi avevano invitato
già tanti anni fa in questo luogo, ma non ero potuto venire per ragioni indipendenti dalla mia volontà),
sono grato all’assessore Iuna Sassi per le parole con cui ha introdotto questo incontro e al dottor Aiello
per avermi introdotto e facilitato il compito nel dare due parole di senso a queste Indicazioni.
Da qualche settimana mi trovo coinvolto nei luoghi più diversi d’Italia, che mi fanno vivere l’esperienza della caratteristica principale dell’identità italiana, e cioè la sua diversità, perché l’Italia è davvero un
“microcosmo” dell’Europa.
Ricordo che una volta, durante una conferenza per ragazzi del primo ciclo delle scuole secondarie,
un ragazzino chiese al professore: “Che cos’è, che cosa fa l’identità dell’Europa?” E il professore rispose
con un apparente ossimoro: “L’identità dell’Europa sta nella sua diversità”. L’identità stava nell’uno, e lui
diede una ridefinizione di questo uno, di questa identità culturale dell’Europa, con la parola diversità.
Ho riscoperto, anche grazia a questo viaggio “fisico” di questi ultimi mesi, che la caratteristica propria della scuola italiana, l’identità della scuola italiana, sta nella sua diversità: non soltanto nella diversità
delle sue luci e delle sue ombre (che naturalmente esistono), ma proprio nella diversità di esperienze, di
proposte, di buone pratiche e soprattutto di ricerca.
Testo non rivisto dall’autore
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Mauro Ceruti
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Infanzia: cultura, educazione, scuola
Reggio Emilia, 11-13 ottobre 2007
Mi sono reso conto che l’unico modo di parlare delle Indicazioni, per cominciare a dare il via a questo
“cantiere” a cui ha dato vita dal Ministro per i prossimi due anni, è di non parlare delle Indicazioni, ma di
parlare della scuola. E non è un gioco di parole, perché altrimenti il rischio è di interpretare le Indicazioni
come una procedura, un protocollo da applicare, o come un suggerimento troppo forte, o come un
metodo o come, anche se non si usa più il termine, un “programma”.
Invece l’indicazione di fondo che dà il documento è che le scuole siano i luoghi della ricerca sull’insegnamento: ciò che va “rimesso sul fuoco” è che la scuola è il luogo dell’ascolto, dell’insegnamento e
dell’apprendimento ed è il luogo in cui si deve riscoprire, rigenerare e riaffermare il fatto che il buon
insegnamento è tale dal momento in cui diventa ricerca.
La caratteristica della ricerca è che non è mai un’attività di pensiero generale, o generica, o astratta; la
ricerca vera si declina sempre al singolare, certo con un metodo, con un canovaccio generale condiviso
indicativamente da una comunità, ma si declina sempre al singolare.
La ricerca educativa, quella che si svolge nello stesso momento in cui si fa insegnamento e apprendimento, è tale nella misura in cui si rigenera sempre, si ricrea sempre nella singolarità di una relazione
tra persone in un contesto generale, persone che affrontano una sorta di irripetibile cosmogenesi, che è
quella della formazione.
Non c’è possibilità di replicare lo stesso apprendimento, di trasferire la stessa competenza in un altro
luogo scolastico. Per esempio, l’apprendimento del teorema di Pitagora vuol dire rinnovare, in certo
senso, l’esperienza che Pitagora ha fatto nel momento in cui ha inventato, ha creato la possibilità di questo
pensiero, e ciò avviene sempre nella situazione limitata che caratterizza la singolarità di una relazione.
Quindi l’intento di queste Indicazioni consiste essenzialmente nel riassegnare istituzionalmente, formalmente ed epistemologicamente il compito della riforma della scuola alla scuola medesima. Questa è la
prima osservazione.
(Mi ero preparato una relazione pensata proprio per quest’occasione, ma il viaggio che mi avete fatto
fare negli spazi del Centro Internazionale e le vostre osservazioni mi hanno fatto ascoltare altri pensieri.
Per cui mi scuserete se “abbandono” la relazione che avevo preparato: preferisco raccontarvi un po’ telegraficamente, in modo meno linearmente argomentato, alcuni pensieri che mi sono venuti in risonanza
col discorso sulle Indicazioni attraversando e ascoltando le “luci” che ho incontrato in questo luogo.)
Seconda osservazione: la scuola italiana si è messa alla ricerca di una riforma da ormai quasi quindici anni, così come, del resto, è avvenuto nelle scuole pubbliche di tutti gli Stati europei, con vicende
alterne, con intenzioni alterne. Sono tante le motivazioni, tanti i meriti, sono tante le fatiche, alcune le
soddisfazioni, molti i risultati nelle singole scuole, ma perché da quindici anni le scuole pubbliche, nazionali, europee sono in cerca di una riforma? Per il narcisismo di qualche Ministro che vuole passare
alla storia del proprio Paese? Magari in qualche caso è così ma forse non in tutti, perché quasi tutti i
Ministri dell’educazione europei che si sono messi in testa di riformare la scuola sono caduti, e spesso
hanno fatto cadere il loro governo… sta di fatto che il problema della riforma delle scuole nazionali è
un problema all’ordine del giorno ineludibile.
Faccio solo un cenno a questo problema perché ritengo che sia molto importante (e lo dico perché ci
ho riflettuto molto, riportandovi qui però il mio vissuto personale, rispetto anche all’elaborazione delle
Indicazioni, non un pensiero “ufficiale”): sono quindici anni che la scuola vive il tormento della riforma, e
per capire perché bisogna risalire alla nascita della scuola pubblica nazionale (anche se è un tema che voi
conoscete molto bene, come si deduce dalla mostra che ho visto negli altri locali del Centro Internazionale, dove viene presentata una rapida ricostruzione della storia della scuola pubblica italiana per mezzo
di alcune sinossi molto suggestive, molto intelligenti: innanzitutto quelle che riguardano la nascita, lo
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sviluppo della scuola pubblica e le sue declinazioni locali – Reggio Emilia – e poi alcune punte di promemoria su grandi eventi che hanno connotato la creatività della cultura europea, in particolare Picasso).
Sta di fatto che le motivazioni che hanno fatto sì che fosse “inventata”, letteralmente, la scuola pubblica nazionale, nella sostanza permangono ancora oggi, ma nella forma si trovano ad essere realizzate,
vissute, esperite oggi in un contesto radicalmente cambiato. Basti una sola battuta: innanzitutto la scuola
pubblica italiana di cui noi parliamo è un’invenzione tutto sommato recente della storia umana, perché
forse siamo abituati a dare per scontate le grandi forme dell’organizzazione culturale, sociale, umana in
cui viviamo oggi, ma sono invenzioni recenti (che vuol dire che prima di cinque o sei generazioni fa la
scuola pubblica italiana non esisteva, non era quella realtà che così capillarmente ha costruito il tessuto
della nostra società). Lo slogan fondatore della scuola pubblica nazionale era: “Fatta l’Italia, ora si tratta
di fare gli italiani”, e su questo varrebbe la pena di discutere, perché non va considerato solo come una
battuta ormai da film risorgimentale o post-risorgimentale. Quest’idea ci consente di introdurre dei termini oggi di grande attualità, e ne cito soltanto quattro, a coppie di due a due.
Il termine identità-diversità: fatta l’Italia (l’uno), si tratta di fare gli italiani, e gli italiani erano molto diversi e la strategia con cui si dovette costruire l’Italia fu quella, tutto sommato, che è contenuta nel motto
della bandiera americana: E pluribus unum.
La grande strategia della scuola sarebbe stata poi, per 150 anni, quella di ridurre la diversità linguistica,
dialettale, antropologica, sociale, per costruire una cultura condivisa da tutti, una stessa lingua: l’italiano.
I francesi, che sono più severi, avevano introdotto la regola che prevedeva pene corporali per i ragazzini
che a scuola venivano sorpresi a parlare i dialetti o le lingue locali.
Il grande problema degli Stati nazionali moderni si traduce in questa prospettiva di omologazione,
omogeneizzazione di diversità di esperienze, di lingue, di culture.
Unità e molteplicità sono le altre due parole, da collocare nel contesto attuale, post-moderno, postidentitario.
Siamo nell’età della globalizzazione, nell’età in cui, dopo due, tre secoli di vita, gli Stati nazionali
stanno vivendo un momento di crisi: non a causa delle fantasie ideologiche di qualche capo popolo, ma
per il fatto che la sovranità assoluta degli Stati nazionali all’interno dei loro confini non è più garantita,
perché lo sviluppo delle tecnologie ha fatto sì che i grandi problemi del nostro tempo attraversino i confini nazionali. La maggior parte di questi problemi sono diventati transnazionali: il problema dell’energia, il problema del clima, il problema del terrorismo, il problema della pace, il problema della guerra,
il problema della educazione a una cittadinanza globale ecc… tutti i grandi problemi che ciascuno di
noi ha cercato di imparare ad affrontare attraverso lo studio di tutte le discipline, anche i più giovani di
noi, tutto sommato, nella scuola dell’obbligo e poi attraverso le varie professioni, ecco questi problemi
oggettivamente escono e fuoriescono dalla sfera della sovranità dei singoli Stati, ma fuoriescono anche
dalla sovranità del governo di ogni singola disciplina: i problemi dell’energia, per esempio, non sono
affrontabili soltanto attraverso una scienza particolare che si occupa dell’energia, fosse pure l’ecologia,
ma ha bisogno di essere affrontato attraverso l’intreccio di discipline diverse, quindi compresa quella
dell’educazione alla pace, e così il problema del clima, del terrorismo ecc ecc.
Questo è un primo, importante mutamento.
Il secondo è un mutamento non di tipo più politico-sociale, ma di carattere epistemologico. Lo accenno in due battute poi, cercherò di far “interagire” questi due mutamenti come spunto di riflessone
sulle Indicazioni
Il mutamento di carattere epistemologico lo accenno non dal punto di vista degli insegnanti, ma
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dal punto di vista dei bambini: le opportunità di apprendimento, le opportunità cognitive, gli stimoli di
apprendimento per i bambini e gli adolescenti di oggi, dell’ultima generazione, non solo si sono enormemente moltiplicati, ma si sono anche enormemente diversificati. Questo è successo proprio negli ultimi
15 anni, più o meno, con differenze a seconda dell’ambiente, urbano, rurale, del Nord, del Sud dei nostri
Paesi, i cosiddetti Paesi dal forte sviluppo occidentale (e anche forte sottosviluppo occidentale).
Le opportunità di apprendimento si sono enormemente moltiplicate, si sono enormemente intensificate. Anche su questo tema potremmo aprire un file di ricerca e formazione in ciascuna scuola della durata di uno, due anni interi, ma io vi accennerò il mio pensiero in pochi minuti, con una battuta: quando
ho fatto le scuole elementari io (e io sono un anziano professore, ma non vecchio come Matusalemme),
tutto quello che si poteva e si doveva imparare per diventare, secondo le finalità della scuola pubblica
italiana, cittadini italiani, si apprendeva non con l’educazione civica, ma con l’italiano, la storia, la geografia, la matematica ecc. Tutto questo si poteva imparare a scuola e di fatto s’imparava nel perimetro della
scuola: era contenibile nel sussidiario, perché l’enciclopedia dei saperi era il sussidiario. Lo straordinario
proliferare dei saperi che ha caratterizzato il ’900, ma soprattutto la seconda metà del ’900, ha fatto sì che
oggi questo sia diventato impossibile, perciò ci si accapiglia molto, da quindici anni a questa parte e in
tutta Europa, nelle riforme scolastiche, a proposito di indicazione e programmi.
È molto difficile definire un sussidiario di ragionevoli dimensioni, quantomeno fisiche, sostenibile
dallo zainetto, non dico dalla testa, ma dallo zainetto dei bambini e dei ragazzi.
Difficile stabilire quali sono i saperi davvero essenziali, che possano essere essenziali per tutti, per
tutti i bambini da 0 a 16 anni d’Europa, o quantomeno d’Italia; sarebbe difficile, a meno di dilatare sempre di più il numero delle pagine, ma anche così non basterebbe mai, perché più si aggiunge più si deve
aggiungere per rendere sensato e interpretabile ciò che si aggiunge.
Questo accade a causa della proliferazione dei saperi di base, indispensabili per apprendere le conoscenze di base utili per praticare un buon esercizio di cittadinanza attiva e consapevole, come recita
giustamente la Costituzione italiana. Ma accade anche per una ragione socio-antropologica, a causa della
globalizzazione: oggi all’ordine del giorno non è soltanto la scuola pubblica italiana, l’educazione del
cittadino italiano, ma è anche l’educazione del cittadino europeo e, di fatto, l’educazione del cittadino
planetario, il cittadino che può esercitare le proprie opportunità, i propri diritti, i propri doveri in questo
processo di individualizzazione in atto.
D’altra parte questo si vede in ognuna delle nostre classi che, a seconda delle varie differenziazioni,
contengono in sé il significato del tutto: le classi cosiddette multiculturali in cui spesso accade che almeno il 5% dei bambini siano figli di immigrati di prima generazione, e in molte classi sono più del 5%,
addirittura il 40-50%.
E si cita solo il dato quantitativo: ci sono addirittura classi con il 60% dei bambini di famiglie straniere, però si “collassano”, si omogeneizzano nella categoria di “figli di stranieri” bambini che hanno
tra di loro differenze maggiori di quante tutti insieme abbiano rispetto ai bambini italiani, perché è vero
che “nella notte della diversità tutti i bambini sono annebbiati e diventano neri”, come diceva Hegel a
proposito delle mucche, ma non bisogna trattare i bambini come mucche che diventano tutte nere per
il semplice fatto che sono indecifrabili allo sguardo della nostra identità. E anche qui si parla dell’educazione dei nuovi italiani (e qui potremmo aprire un altro file di ricerca, a partire dalle Indicazioni), ma
non trascuriamo il fatto che la presenza di bambini di famiglie straniere di prima generazione saranno in
gran parte sì, nuovi italiani, ma sono anche il sintomo rivelatore di un processo che comunque accade
ed esiste dal punto di vista antropologico ed epistemologico anche nelle classi composte da 30 bambini
tutti di Reggio Emilia.
La diversità oggi è un problema cruciale, perché si dice che la globalizzazione introduce solo omologazione, e questo è vero se non viene governata, ma è altrettanto vero che la globalizzazione sta introdu-
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cendo dei processi di diversificazione individuale straordinari, non per il fatto che il bambino senegalese
o il bambino ucraino si trovano nelle classi delle scuole di Reggio Emilia, ma per il fatto che anche 30
bambini figli di Reggio Emilia da trenta generazioni sono fra loro più diversi di quanto non fossimo
diversi noi bambini dello stesso paese quarant’anni fa.
Omologati sotto certi punti di vista, forse, ma anche molto diversificati.
Perché? Perché sono proliferate le opportunità di apprendimento e le opportunità di conoscenza,
e si sono diversificate rapidissimamente, nel corso di una sola generazione, attraverso lo sviluppo delle
nuove tecnologie della comunicazione, della democratizzazione o con il consumismo, attraverso anche
la possibilità di incontri fecondi e creativi.
Dicevo prima che quando ho fatto le scuole elementari io tutto quello che si doveva e si poteva
imparare era contenibile nel programma, nel sussidiario, e accadeva dentro il perimetro della scuola.
Le forme dell’apprendimento strutturante, cognitivamente decisivo per la formazione e l’unificazione
dell’esperienza, si realizzavano nel perimetro della scuola. Anche la curiosità in qualche modo si esercitava lì, magari contenuta in forme autoritarie, però accadeva nel perimetro della scuola.
Oggi i sociologi dell’educazione (e scusate se ora “do i numeri”, ma è utile per far capire i concetti) ci
dicono che in una società come la nostra, nelle scuole come le nostre, ciò che il bambino e l’adolescente
imparano nelle aule scolastiche (qui mi trovo nel tempio della pedagogia, e questa semplificazione me
la perdonerete, però voglio proporre un problema epistemologico), rappresenta il 20-30% di quello che
imparano nel corso della loro giornata. Questo è un dato quantitativo ma è un dato che richiede anche
una riflessione qualitativa: il bambino, quando si sveglia la mattina, trova spesso già la televisione accesa,
o il computer acceso, e nel corso dei soli dieci minuti in cui fa colazione fa una full immersion di cultura
globale. Ed è subito esposto non soltanto a una tempesta di informazioni, ma anche, se vogliamo usare
un linguaggio comportamentista (anche se evidentemente non ho di queste tentazioni), rischia anche di
vivere un’esperienza “stimolo-risposta”, perché è calato in un contesto che gli propone opportunità che
non so se definire di apprendimento, anche se di fatto sono esperienze di apprendimento “in-intenzionali”, non comunque guidate esplicitamente in un setting pedagogicamente orientato e consapevole.
Questo è un problema epistemologicamente rilevante. Da quindici anni a questa parte le riforme
della scuola hanno lasciato vivere, nei corridoi del ministero e delle nostre scuole, un atteggiamento
innanzitutto sintomo di difficoltà: qual è il compito della scuola? Una scuola nella quale non accade la
maggior parte degli apprendimenti dei bambini, ma una scuola in cui accade una minima parte degli
apprendimenti, una scuola in cui spesso i bambini interpretano quella minima parte che è anche la parte
più importante di ciò che imparano.
Si è diffuso quindi un atteggiamento che ha provocato tutte quelle piccole riforme e controriforme
che hanno appesantito la scuola, un atteggiamento nutrito dalla filosofia del “la scuola non ce la fa più,
non ce la fa più a declinare nel contesto presente le sue finalità e le sue missioni originarie, e deve accontentarsi di gestire un’onorevole e sicura ritirata rispetto ai suoi compiti fondativi, quelli della formazione,
della socializzazione, quelli dell’imparare a essere anche attraverso l’ascolto e gli apprendimenti”.
Io penso che questa non sia l’unica reazione possibile della scuola pubblica nazionale, penso che oggi
più che mai la scuola deve poter essere un luogo di produzione e di costruzione di senso, perché il problema a cui è esposto il bambino e l’adolescente di oggi – che con ciò fa da specchio a noi adulti, perché
questo discorso sui bambini è un discorso su noi adulti e su noi insegnanti – è la frammentazione dell’esperienza, sia della sua esperienza esistenziale che della sua esperienza affettiva, cognitiva, che lo porta a
rinnovate difficoltà di apprendimento, oppure lo porta a successi straordinari ma sotto forma di successi
in frammenti specializzati delle sue competenze cognitive, sulle quali o attraverso le quali il bambino e
l’adolescente non è in grado di fare un altro tipo di esperienza, l’esperienza riflessiva, di collegamento
con altre esperienze, con altri apprendimenti, innanzitutto fra quelli fatti a scuola, e poi fra quelli fatti a
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scuola e quelli fatti fuori dalla scuola, oppure fra quelli che fatti fuori dalla scuola e poi portati a scuola
(spesso la scuola ha l’indicazione di lasciare “fuori dalla porta” questi apprendimenti fatti altrove, ma
questo vuol dire lasciare il bambino fuori dalla porta della scuola. Ciò che il bambino diventa attraverso le
sue esperienze cognitive non è uno zainetto che si può lasciare fuori, come le scarpe da ginnastica che si
cambiano per mettere i sandaletti quando si entra in classe…).
Io penso che sia necessario questo turbamento della scuola, che sia necessario questo affaticamento
della scuola, ma non questa pesantezza.
È necessario pensare che la riforma della scuola immediatamente prossima sarà una riforma epistemologica o non sarà. Con questo intendo dire che la riforma della scuola, per usare le parole del mio
maestro Edgar Morin, o sarà una riforma paradigmatica, di paradigma, cioè di modalità di organizzazione e di relazioni che caratterizzano la vita a scuola, la vita delle idee, la vita delle discipline, dei metodi,
delle esperienze, o non sarà. O sarà una riforma che cadrà inevitabilmente nell’essere ancora una riforma
“programmatica”, cioè che riguarda i programmi, sia nei contenuti sia nei metodi. Allora, al di là del fatto
che queste Indicazioni siano più o meno ben riuscite, queste vogliono essere l’indicazione di una ricerca
condivisa, di un paradigma costruito attraverso il “laboratorio scuola”, non l’indicazione di un paradigma precostituito da eseguire.
Suggerisco ora tre parole per cercare di decifrare, cioè di trovare la cifra del tempo all’interno del quale noi facciamo ricerca a scuola, e queste tre parole sono in grado di caratterizzare bene sia la condizione
nostra, umana, inedita, che è emersa attraverso la rapida globalizzazione e la rapida evoluzione tecnologica dei nostri contesti di vita degli ultimi quindici anni (pensate che fino al 1989 la parola “globalizzazione” non compariva nemmeno nel dizionario…). Non che la globalizzazione sia nata nel 1989, è nata
nel 1492: dopo 100.000 anni di popolamento umano della Terra per via diasporica, separante, nel 1492
è avvenuto lo shock che repentinamente, per il peggio e per il meglio, ha irreversibilmente introdotto il
destino di popolamento umano della terra ibridante, convergente, non solo nel modo di costruire l’economia, ma anche nei modi di alimentazione, nel modo in cui si sono evoluti i nostri sistemi immunitari, nel
modo in cui si sono scontrati e incontrati gli dei della terra, il corpo, la mente, lo spirito, le lingue, i miti…
Questo è stato un grande shock all’interno del quale va letta, nell’età della globalizzazione, l’educazione
alla storia, alla geografia, ma anche alle scienze naturali ecc.
Tre parole, dicevo, che ci possono aiutare sia a leggere la condizione umana che emerge in questi
quindici anni, sia la condizione dei sapere, la condizione epistemologica.
Accelerazione. La frase che diciamo sempre di più è “non abbiamo tempo”. E siccome la risorsa principale dell’esistenza umana è il tempo, ciò denota una malattia dell’anima, della mente, delle società.
Non avere tempo è un bell’ossimoro per la vita, è una bella contraddizione, che non a caso crea ansia a
crea nuove malattie della mente nelle società dello sviluppo, attraverso le quali escono i “bubboni” del
sottosviluppo, nascosti dall’apparente sviluppo educativo e culturale. L’accelerazione è un prodotto della
globalizzazione e della tecnologia ma l’accelerazione dello sviluppo e la propagazione dei saperi è una
condizione epistemologica: si producono sempre più saperi, c’è una specie di inversione di tendenza
rispetto a pochissime generazioni fa, in cui pochi sapevano tutto e molti non sapevano niente (avevano
un sapere profondo, pratico, ma non un sapere elaborato concettualmente nelle scuole). Oggi i sapienti
navigano in un oceano in cui vivono uno spaesamento di iperossigenazione, l’impossibilità di accedere a
quell’infinito universo dei saperi che si presenta a noi come possibile e accessibile, per poi però diventare
inaccessibile in mancanza di mappe, in mancanza di chiavi di lettura. Ciò che ci mancano non sono i
territori ma sono le mappe per attraversare i territori, per uscirne incolumi, per utilizzarli ed esplorarli
in modo fecondo. Già qualche tempo fa, quando si profilava la cosiddetta società dell’informazione,
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Thomas Eliot in alcuni suoi versi ebbe modo di dire: “Quanta conoscenza perderemo nell’informazione,
quanta sapienza perderemo nella conoscenza…”: non che lui sottovalutasse l’importanza dell’informazione e l’importanza della conoscenza, ma prevedeva la possibilità di un rapporto vizioso inedito… mai
un poeta di qualche generazione fa avrebbe potuto pensare che l’aumento delle informazioni poteva
andare a scapito delle conoscenze, o che l’aumento delle conoscenze poteva andare a scapito della sapienza. Semmai, si poteva pensare che proprio per mancanza di informazioni e conoscenza molti uomini
e molte donne purtroppo non potevano arrivare a un livello sufficiente di sapienza.
Come si muove la scuola in questo contesto?
Vi lascio queste mie impressioni in forma molto succinta e spero che non le intendiate come “pillole”
di saggezza ma solo come spunti di riflessione.
L’accelerazione dello sviluppo dei saperi introduce l’esigenza di individuare un principio di selezione
che permetta di convivere con il limite, perché per la prima volta viviamo l’esperienza di un accesso alle
conoscenze inesauribile: non basta una vita intera per poter accedere a una parte infinitesima delle conoscenze oggi accessibili. Da qui l’opportunità e il pericolo a un tempo (viviamo nel tempo dell’ambivalenza) dello specialismo, lo specialismo come rifugio per l’impossibilità di accedere al tutto e quindi come
garanzia di rigore almeno in un tassello del mosaico, ma con il pericolo di sviluppare un’intelligenza
cieca, un’intelligenza sofisticata che riesce a illuminare perfettamente una regione ristretta ma che è cieca
rispetto alla propria cecità, e che quindi rischia di diventare supponente, di estendere la propria ragione
e le proprie ragioni al tutto, o comunque incapace di articolarsi con altre intelligenze parziali.
Da qui l’impossibilità di ribadire quelle idee di interdisciplinarietà pur interessanti e in voga già da
30-40 anni e che hanno rischiato, meritoriamente, di interpretare il compito dell’integrazione dei saperi
attraverso sommatorie, oppure attraverso la costruzione di mosaici che integrassero i tasselli però costruiti autonomamente. L’intento è invece di un’unificazione “metodologica” dei saperi.
Seconda parola: interdipendenza. Tutto è connesso con tutto (la globalizzazione) ma anche i saperi rimandano sempre di più gli uni agli altri.
Come costruire quest’interdipendenza nella realizzazione dei contesti formativi delle persone e dei
bambini? Ciò si può sperimentare nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole primarie molto meglio che nei
licei o nelle università, e molto probabilmente la rigenerazione di una creatività scientifica oggi largamente in crisi si potrà far nel momento in cui davvero il rinnovamento della scuola dei primi anni di vita
potrà concedere nuovamente la possibilità ai bambini e agli adolescenti, futuri adulti, futuri scienziati o
professionisti, di elaborare un immaginario integratore, un’estetica del mondo che faccia da supporto
davvero, non estrinseco, alla scoperta e all’apprendimento nei primi anni di vita.
La terza parola è imprevedibilità, la non-linearità: piccole cause generano grandi effetti. Questo avviene
nelle condizioni antropologiche della nostra vita (“il battito d’ali di una farfalla sul cielo di Tokio”, diceva
già qualche anno fa il meteorologo Edward Lorenz, “avrà effetti grandi e importanti lontani nello spazio
e nel tempo”, per dire che una piccola e seppur meravigliosa causa come il battito d’ali di una farfalla
può essere responsabile di una “biforcazione”, del fatto che, cioè, magari a Reggio Emilia la settimana
successiva piove invece che esserci il sole).
Questo nel mondo delle relazioni, e l’educazione è relazione, è una metafora espistemologicamente e
pedagogicamente molto influente.
Voglio ora accennare a tre o quattro idee.
Una mi nasce da quello che ho appena detto, e quello che ho appena detto mi è venuto in mente dalla
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passeggiata attraverso l’atelier “Raggio di Luce”. Passeggiando credo che abbiate tutti non solo visto, ma
anche vissuto questi spazi, che sono spazi, alcuni, che forse un pedagogista esterno potrebbe definire
“didattica della scienza”, ma a me sono sembrate opere d’arte, ma non opere d’arte da museo.
E mi è venuta proprio questa idea, cioè un gioco di specchi e di luce che fa sperimentare che non
esiste la possibilità di ricostruire da un unico punto di vista la complessità di un mondo, magari piccolo
solo quattro metri quadrati. Per quanto piccolo, questo mondo non solo non è rappresentabile da una
solo punto di vista, nemmeno quello più in alto e sintetico, ma bisogna capovolgere totalmente l’idea:
questo mondo è costruito proprio dall’interazione continua di tutti i punti di vista che apparentemente
lo guardano dall’esterno, ciascuno a modo suo. Ovvero, non basta dire che ciascun punto di vista sul
mondo è parziale, non basta dire che quel mondo è rappresentabile dalla summa di tutti i punti di vista
(e forse questo è ancora peggio, pur nella sua intelligenza, per comprendere la relatività di tutti i punti
di vista), ma bisogna arrivare a dire, senza cadere nel relativismo epistemologico, che quel mondo è costruito da una danza creatrice che fa interagire tutti questi punti di vista concettuali, operativi, corporei,
fisici, materiali ecc.
(Questa è una bella metafora: l’arte contemporanea, nel momento in cui la scienza stravolgeva l’epistemologia del Novecento, ha esplorato questa prospettiva di rieducazione della nostra mentalità, questa
nuova prospettiva pedagogica, meglio di quanto abbiano fatto la filosofia, la scienza medesima, la pedagogia stessa. L’arte l’ha fatto meglio, l’ha fatto meglio Magritte, per parlare solo di uno stereotipo di
quest’esplorazione all’inizio del Novecento, l’ha fatto meglio Cézanne… dobbiamo concepire quell’arte
come profondamente epistemologica e pedagogica e non confinarla in una cornice in un museo, altrimenti il suo potenziale estetico, e quindi epistemologico, scompare, perché il pericolo vero è quello della
museificazione dell’arte.)
Allora l’idea che mi è emersa, attraverso un gioco di specchi tra i maestri che ho avuto la fortuna di
avere “fisicamente”, da Bateson a Piaget, a Morin a Bruner, per citare quattro persone che più hanno
influenzato la mia post-adolescenza e ho avuto la fortuna di conoscere in classe, tutti questi quattro
maestri mi hanno suggerito l’idea che epistemologia (io insegno epistemologia quindi uso spesso questa
parola) e estetica sono sinonimi.
Perché epistemologia ed estetica sono sinonimi? Ve lo dico dal punto di vista dell’estetica, con due
battute (e non me ne vorrà Gregory Bateson, di cui volgarizzo alcune posizioni sull’argomento): noi
abbiamo perso persino il senso della parola “estetica”. Nella nostra esperienza quotidiana, e penso anche
nell’attività critica quando l’abbiamo trasformata in una disciplina accademica, senz’altro recuperiamo il
senso della parola “estetica” in alcune affermazioni che fanno da suggello ad alcune nostre esperienze,
come quelle che ho letto su uno dei poster della mostra “Dialogo con i luoghi”: senza costruire luoghi
belli, senza vivere in luoghi e in contesti belli, è difficile che si attivino davvero delle relazioni autentiche,
feconde, creative, di insegnamento e apprendimento.
Però perché l’estetica è sinonimo di epistemologia, cioè parla della conoscenza e fa fare esperienza
della conoscenza come l’epistemologia?
Noi possiamo recuperare, e qui faccio forse una forzatura dal punto di vista etimologico, il senso
della parola e dell’esperienza estetica più autentico e più profondo, quello che serve in pedagogia, quando pensiamo al suo contrario. Per esempio quando andiamo dal dentista, prima di farci trapanare un
dente chiediamo l’anestetico: l’an-estetico è un non-estetico, ma perché chiediamo un non-estetico dal
dentista? Non chiediamo un’esperienza brutta, anzi, per non fare un’esperienza brutta, quella del dolore,
chiediamo un non-estetico, ma lo chiediamo perché l’an-estetico, il non-estetico, l’an-estesia, ci consente
di toglierci la sensibilità agli effetti della relazione tra una cosa e un’altra, tra il trapano e il nostro nervo.
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Cultura scuola persona
Mauro Ceruti
Infanzia: cultura, educazione, scuola
Reggio Emilia, 11-13 ottobre 2007
Il non-estetico ci desensibilizza alle relazioni, quindi se non togliamo l’alfa privativa, il non, ci viene da
dire che l’estetico ci favorisce le razioni.
L’estetica è la cura della nostra sensibilità alle relazioni, che non può essere inventata a tavolino ma
ha bisogno di essere curata, ed è l’effetto e una proprietà emergente di una vita “fatta bene con altri”.
L’estetica in questo senso è il contrario del bello “museificato”: è persino difficile, nel nostro mondo,
fare esperienze autenticamente estetiche davanti a un capolavoro e non è colpa del capolavoro, è colpa
di un contesto anestetizzante, anestetico, che anziché produrre la rinnovata esperienza estetica e creativa
di relazioni, che è stato il colpo di genio dell’artista, riduce questa capacità creatrice. E quindi riduce la
capacità di percepire e di assumerci la leggerezza delle riforma, perché la leggerezza di una riforma, e non
la fatica di una riforma, è la conseguenza di un’esperienza estetica nel fare la ricerca, creativa di relazioni
che connettono le parti separate dei nostri mondi, e che quindi ci fanno fare invenzioni formali, che noi
chiamiamo apprendimenti.
Questa dimensione è propria dell’estetica e dell’epistemologia (perché anche l’epistemologia svolge
lo stesso ruolo): una teoria della conoscenza non può essere a priori se non come indicativa, ma l’epistemolgia consente di comprendere, cioè di prendere insieme nelle dimensioni dell’esperienza della conoscenza, soltanto facendola.
Questa considerazione ci consente di dire una cosa antropologicamente molto interessante, che ci è
consentita forse per la prima volta nella storia umana per la congiunzione di queste due dimensioni che
in modo accelerato, interdipendente e con esiti imprevedibili si intrecciano tra di loro: la globalizzazione
e lo sviluppo forsennato delle tecnologie, che ci hanno reso possibile conoscere una dimensione del
passato umano ignota fino a poche generazioni fa.
Fino al tempo del mio quadrisavolo, cioè quattro o cinque generazioni fa, la comunità scientifica
condivideva l’idea che l’uomo, la Terra e l’Universo fossero nati insieme circa 6.000 anni fa: un grande
astronomo e matematico fa il ’700 e l’800, il Vescovo anglicano James Ussher, calcolò addirittura l’anno
esatto della nascita simultanea: il 4400 a.C. Poi, nel giro di due o tre generazioni, c’è stata una rivoluzione straordinaria nel nostro modo di immaginare la storia dell’uomo sulla Terra, la storia della Terra e la
storia dell’Universo (e anche questo sarebbe interessante da ricercare insieme ai bambini, per evitare o
che sia banalizzato o che appaia troppo sconcertante).
È stato studiato un frammento molto più ampio e profondo del modo in cui noi siamo venuti al
mondo, e ciò ci ha consentito di capire come siamo venuti al mondo nella storia, e come la storia della
nostra umanizzazione può essere riflessa nelle nostre vite personali, quando nasciamo dal pancione della
mamma fino a quando poi veniamo al mondo una seconda volta nelle scuole.
E allora mi piace chiudere con questa considerazione, che rappresenta l’oggetto più specifico della
mia ricerca scientifica tra epistemologia, antropologia e pedagogia: cosa fa la differenza tra un neonato
umano appena venuto al mondo e il neonato di ogni altra specie animale, anche di quelle che noi chiamiamo più evolute perché in qualche modo ci assomigliano?
Il neonato di ogni altra specie animale dopo pochi minuti, poche ore, pochi giorni, zampetta, è autonomo, è completo, in qualche modo è compiuto, è adatto e adattato al mondo, a causa di tutta una serie
di determinismi genetici che sappiamo oggi decodificare molto bene, che gli consentono di nascere quasi
“imparato”, come avrebbe detto Totò, e consentono al piccolo del gabbiano di fare un’operazione “balistica”, pescando il pesce sott’acqua, che non riesce a fare nemmeno il migliore neo-laureato ad Harvard
al MIT, pur con tutti i calcoli matematici e cibernetici che sa fare. L’esperienza con cui noi descriviamo
il venire al mondo di un neonato non umano è l’esperienza dell’adattamento, della completezza, della
compiutezza, dell’autonomia.
Per converso possiamo descrivere l’esperienza attraverso la quale noi veniamo al mondo come piccoli
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Mauro Ceruti
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Infanzia: cultura, educazione, scuola
Reggio Emilia, 11-13 ottobre 2007
Sapiens Sapiens in questo modo: noi veniamo al mondo facendo l’esperienza del disadattamento, nasciamo al mondo di fatto, e oggettivamente, allo stato embrionale, come embrioni extra-uterini che vengono al mondo prima del tempo, molto probabilmente per i misteri dell’evoluzione biologica che non
consentirebbero anatomicamente alla madre di partorire un neonato troppo grande. Quando nasciamo
siamo dei feti extra-uterini, veniamo al mondo attraverso l’esperienza del non adattamento al mondo,
nasciamo facendo l’esperienza della dipendenza da qualcuno senza il quale non abbiamo la possibilità di
sopravvivere. Quindi non esperienza di autonomia ma di eteronomia: il nostro inprinting primario venendo al mondo è dato dall’esperienza della mancanza, non della pienezza. Sostanzialmente noi facciamo
l’esperienza dell’incompiutezza, nasciamo come incompiuti.
Una parte della nostra tradizione culturale in qualche modo ha tenuto conto, ha concepito e intuito,
pur senza conoscere bene, le molteplici dimensioni di quest’incompiutezza originaria dell’individualità
umana, che consegna fin dall’inizio l’uomo alla relazione: ne ha tenuto conto dicendo che il divenire adulti, e quindi lo scopo dell’educazione e della formazione, sia quello di portare un neonato privo di autonomia ad acquisire autonomia, farlo diventare in grado, come dicevano i Greci, di darsi il nomos, la norma, la
regola, di tradurre un vuoto in un pieno, un mancante in un autosufficiente. Molta letteratura popolare,
ma anche molta letteratura scientifica, pur nella sua maggior sofisticatezza, va in questa direzione.
Però questa direzione ha largamente nascosto quella che è l’autentica cifra dell’umano e che oggi, con
un gran lavoro transdisciplinare, oltre che esperienziale, siamo in grado di concepire: la cifra dell’umano
è costitutivamente, non provvisoriamente, la sua incompiutezza; l’opportunità dell’umano non sta nella
sua pienezza, ma nella sua mancanza; la formazione a cui è consegnato l’umano (e “formazione” è un
termine dinamico, “genesi di una forma”) non coincide, come ha voluto anche tanta psicologia dello
sviluppo, con il periodo che va dalla nascita all’età adulta (oggi anche la psicologia dello sviluppo, pur in
modi semplificati per altri scopi, pensa che lo sviluppo vada dalla nascita alla morte).
Quindi questa costitutiva incompiutezza dell’umano consegna la forza dell’umano alla debolezza
dell’umano, che in qualche modo è la conditio sine qua non, se curata e accudita, per consentire quel prolungamento dell’età della formazione non soltanto nell’intero arco di vita, ma anche quel prolungamento
qualitativo dell’idea di formazione che le nostre società, pur bambinocentriche, hanno diluito anche
nell’osservazione della relazione di insegnamento-apprendimento nelle scuola elementare e nella scuola
dell’infanzia.
Ecco quindi che l’indicazione delle Indicazioni sta proprio nell’incompiutezza costitutiva che deve avere ogni indicazione generale sulla scuola, ogni pedagogia, è l’invito a trovare nell’incompiutezza la cifra
della creatività, la condizione della possibilità di una ricerca che può essere fatta e rifatta continuamente
solo nei luoghi in cui l’educazione si declina al singolare, in un io-tu singolare che si guarda.
Prima qualcuno di voi chiedeva all’esperto di spiegarmi che cosa avrei incontrato percorrendo l’atelier
“Raggio di Luce”, e io ho citato, anche per toglierlo dall’imbarazzo, un’affermazione di Isadora Duncan,
che alla domanda di un giornalista che chiedeva “Maestra, ci dia una definizione di che cos’è la danza”,
con grande mitezza rispose “Se fosse possibile dirlo, non ci sarebbe bisogno di danzare”.
Penso sia una buona risposta anche per la ricerca educativa, perché le Indicazioni non siano programmatiche ma paradigmatiche.
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Mauro Ceruti
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