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La ricostruzione economica italiana e il ruolo dello Stato

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La ricostruzione economica italiana e il ruolo dello Stato
A . Lo Stato italiano e la sua dirigenza economica
(1944-1952).
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A1) La ricostruzione economica italiana e il ruolo dello Stato.
Danni di guerra, inflazione, e ripresa economica
La situazione dell’economia italiana uscita dal conflitto era molto seria e il terreno da
recuperare era immenso. Basti pensare ai danni gravissimi subiti da tutte le infrastrutture, dai
ponti alla rete ferroviaria, alla perdita della marina mercantile, alla distruzione del patrimonio
edilizio, al serio impoverimento dell’agricoltura, ai danni a molti impianti industriali. Le
materie prime fondamentali per l’approvvigionamento energetico, carbone e petrolio, erano
insufficienti e occorreva pagarle in dollari, di cui c’era grande scarsità. L’energia elettrica
stentava a fare fronte al crescente fabbisogno (Petri 2002, p. 181-3)
I bombardamenti, per esempio, avevano provocato gravi danni alla rete ferroviaria,
mentre la flotta mercantile era praticamente scomparsa - perdite entrambi gravi per un paese
dalle vie di comunicazioni difficili e dipendente dal mare per la gran parte degli
approvvigionamenti di materie prime. L'attività agricola era stata colpita abbastanza seriamente,
sia per carenza di concimazione e irrigazione adeguata del terreno, che per la perdita di una
parte cospicua (valutata variamente fra il 20 e il 35%) del patrimonio zootecnico. Le distruzioni
avevano inoltre menomato il patrimonio edilizio, sia privato che pubblico, sommandosi a una
almeno decennale carenza di investimenti. Era un aspetto del basso livello di consumi sociali e
civili cui era ridotto il paese.
Lo stato degli impianti industriali nel 1945 risentiva sia degli investimenti effettuati in
precedenza, in regime di economia bellica, che delle distruzioni e della carenza di
ammodernamenti. Massicci investimenti erano stato operati soprattutto nell’industria pesante
meccanica e chimica, nel periodo autarchico e bellico fino al 1943; nell’Italia settentrionale,
inoltre, l’apparato industriale era uscito dal conflitto sostanzialmente intatto, mentre nell’Italia
centro-meridionale - dove il livello di distruzione degli impianti, vedi bombardamenti alleati e
smantellamenti tedeschi, era stato ingente - alcuni progressi nel ripristinarlo vennero fatti già
nel periodo precedente la Liberazione, grazie agli sforzi dell’Amministrazione Alleata.
Un’analisi più ravvicinata dei vari settori rivelava, tuttavia, come la loro operatività fosse
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quella propria di condizioni d’emergenza, mentre i livelli tecnologici, d’organizzazione e
produttività riflettevano sostanziale arretratezza e obsolescenza impiantistica, in paragone allo
stato dell’arte, rappresentato dall’industria americana (Amatori 1999; Scortecci 1961).
La ripresa industriale fu rallentata, come abbiamo detto, da acute difficoltà energetiche.
In particolare carbone e petrolio erano scarsi e si dovette fare ricorso massiccio agli
approvvigionamenti dagli Stati Uniti - per i quali però erano scarsi i mezzi di pagamento, e
difficili i trasporti; così nel 1946 furono assegnate all'industria solo 4,6 milioni di tonnellate di
carbone, contro una media per l'anteguerra di 10,8. L'energia elettrica si trovò a fare fronte a
una domanda accresciuta, disponendo di impianti produttivi rimasti negli anni del conflitto
praticamente immutati. Vi fu tuttavia una pronta ripresa della produzione salita dai 12,6
miliardi di kwh del 1945 ai 17,5 nel 1946 - un quantitativo inferiore solo del 5% a quello del
1939. Iniziò, è vero, un regime di erogazione particolarmente severo con una serie di
razionamenti e sospensioni che intralciarono l'attività produttiva specie nei mesi invernali,
tuttavia nello stesso tempo affluì nel settore un massiccio flusso di investimenti. Un elemento
nuovo fu il potenziamento delle centrali termoelettriche, favorito dai prestiti americani.
Presentavano il vantaggio di un minor tempo di costruzione e inoltre divenne presto possibile
sfruttare la produzione nazionale di metano per la loro alimentazione.
Nel 1947 si dovettero introdurre misure speciali per arginare il processo inflazionistico.
Questo derivava dallo squilibrio fra beni di consumo sul mercato e mezzi di pagamento a
disposizione soprattutto di alcuni ceti quali industriali, commercianti, e contadini. La causa
prima di questo squilibrio, proprio, in varia misura, a tutti i paesi europei, andava cercata nella
grande immissione di liquidità e nella restrizione dei consumi avvenuta durante la guerra. In
Italia, a partire dal 1944-5, furono smantellati una serie di controlli instaurati durante il periodo
bellico e ciò non fu compensato da misure di fiscalità straordinaria. C'erano tutte le premesse
perché l'equilibrio sul mercato fosse spezzato. L'indice dei prezzi all'ingrosso saliva così da
23,8 nel maggio 1946 a 36,7 nel dicembre a 52 nel maggio successivo. Gli effetti si facevano
sentire sulla distribuzione del reddito, sui consumi e sulla struttura dei prezzi, mentre veniva
incoraggiata la formazione speculativa di scorte.
L'incremento molto pronunciato delle
importazioni, produceva allo stesso tempo una crisi valutaria che le condizioni di svalutazione
incontrollata contribuivano ad aggravare.
Le misure che il governo assunse a partire dal settembre 1947 e che presero il nome di
“linea Einaudi”, consistettero, in primo luogo, nell’istituzione di un obbligo di riserva
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consistente per tutte le banche. Fu alzato il tasso di sconto, e si agì sul mercato dei cambi per far
avvicinare il tasso ufficiale, molto basso, a quelli del mercato libero e parallelo - riservato a
certe categorie di esportatori da una provvedimento del 1946 - e a quelli del mercato nero,
molto più elevati. Nella sostanza si trattava di una svalutazione, però controllata, che serviva per
scoraggiare le importazioni oltre che favorire gli esportatori ai quali, comunque, la forte
domanda internazionale consentiva un certo margine. A queste si accompagnarono altre misure
di restrizione. La gestione della spesa pubblica, a partire dal 1947, fu molto cauta, procedendo
per gradi a una riduzione del deficit pubblico compensate però dal rifinanziamento di industrie
pubbliche (vedi aumento del fondo di dotazione dell’IRI) e di industrie in stato di crisi
(costituzione del FIM).
Le misure adottate arginarono l’inflazione. Le scorte speculative furono riversate sul
mercato; le imprese di fronte alla stretta del credito da una parte e alla maggiore stabilità dei
prezzi dall'altra furono spinte a realizzare sui mercati esteri. Ci fu una forte crescita delle
esportazioni a partire dal 1948. La caduta della produzione industriale fu di breve durata. Già
nel 1948 la produzione industriale si riportava sui livelli del 1938, con un incremento di oltre il
5% sull’anno precedente. Più grave la caduta degli investimenti, soprattutto quelli in impianti e
macchinari, che recuperarono pienamente i notevoli livelli già raggiunti nel 1947 (superiori ai
livelli del 1938) solo nel 1950, grazie all’apporto del programma di aiuti ERP, in particolare dei
finanziamenti per grandi progetti industriali. Nel complesso la cura della stretta einaudiana era
stata efficace, aveva rallentato gli investimenti, ma i suoi effetti sull’economia reale furono
meno gravi e drammatici di quanto i commenti negativi dell’epoca lasciassero trasparire
(Lombardo 2000, p. 24 ss.).
Negli anni successivi, chiaritasi e stabilizzatasi la situazione politica con la affermazione
della DC di De Gasperi nelle elezioni del 18 aprile 1948, che marcarono una netta sconfitta
delle sinistre, la situazione economica registrò significativi miglioramenti. Vi fu una rapida
crescita delle esportazioni, la fine delle strozzature dell’offerta interna di materie prime e di
fonti di energia, insieme alla ripresa di efficienza del sistema dei trasporti; aumentò la
produttività delle imprese anche grazie a necessarie operazioni di riconversione produttiva in
settori importanti, quali l’industria siderurgica e meccanica. Dal 1949 presero a crescere gli
investimenti sia in impianti e in abitazioni. Nello stesso tempo l’Italia beneficiava del suo pieno
reinserimento negli organismi economici internazionali, e prendeva parte ai primi passi
dell’integrazione europea.
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Il piano a lungo termine e gli aiuti americani
Già a partire dalla fine del 1945 e nei mesi e negli anni successivi è possibile segnalare
una forte ripresa degli investimenti, con un forte orientamento verso le infrastrutture e nel
campo dell’industria dei beni strumentali. Alcuni recenti studi, da quello di Vera Zamagni a
quello di Rolf Petri, hanno mostrato in modo convincente come il processo di ricostruzione
non fosse privo né di strumenti, per quanto approssimativi, di previsione e co-ordinamento,
né di una cabina di regia, costituita da un nucleo di tecnici formatisi nelle strutture sia
dell’IRI, che della Banca d’Italia, sorretti da alcuni spezzoni di una burocrazia statale di un
buon livello. E’ significativo come gran parte di questo apparato passasse indenne attraverso
l’ondata di epurazioni, dei tentativi di rivincita di tecnici, già emarginati, formatisi
nell’antifascismo liberista, di controffensive di alcuni settori del mondo dell’industria privata.
Ripristinare una industria di base e ricostruire e ammodernare le infrastrutture in un paese
povero di capitali non poteva che riconfermare il ruolo dell’apparato pubblico, con peculiari
forme di flessibilità e semi-autonomia, ma anche di ampi, pervasivi enti pubblici, variamente
intrecciati e interdipendenti, con cui l’interventismo italiano si era configurato negli anni
Trenta. (Petri 2002; Zamagni 1988)
Tra i documenti più significativi per seguire la ricostruzione economica italiana, va
segnalato il Programma a Lungo Termine, presentato all’OECE di Parigi, come documentomemorandum per la strategia italiana nella gestione del programma di aiuti ERP. Esso venne
elaborato dal Centro di Studi e Piani Tecnico Economici, un ufficio fondato dall’IRI in
concorso con il CNR, e approvato dal CIR, il Comitato Interministeriale per la Ricostruzione,
l’organo tecnico-politico di vertice. L’obbiettivo essenziale consisteva nell’indirizzare
l’investimento verso la produzione di energia e di beni di investimento onde aumentarne la
capacità e la produttività. Il ritorno di questa scelta avrebbe dovuto essere la riacquistata
competitività e il forte incremento delle esportazioni di beni manufatti, che diventavano
quindi la chiave della bilancia dei pagamenti, sulla cui voce passiva gravava la dipendenza
dall'estero per approvvigionamenti energetici, materie prime e molti semilavorati.
L’investimento in beni ad alta intensità di capitale, dalle centrali termoelettriche, agli impianti
siderurgici, non avrebbe riassorbito nel breve periodo la disoccupazione – per cui si confidava
ancora nella valvola dell’emigrazione - ma il successo dell’operazione avrebbe portato ad una
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espansione, nel medio-lungo periodo, dell’industria meccanica (Tremelloni 1948; Zamagni
1998).
La filosofia del Piano era ambiziosa, voleva proiettare l’impresa italiana sul piano
della concorrenza europea, attraverso un aumento della competitività e un incremento delle
esportazioni Nel piano vengono previste importazioni di beni di investimento soprattutto nel
settore meccanico e chimico, mentre le esportazioni dovevano essere, almeno in un primo
momento, quelle tradizionali e cioè agricole e tessili, affiancate gradualmente da un flusso
crescente di esportazioni meccaniche. Naturalmente il Piano si inseriva in una prospettiva di
graduale liberalizzazione degli scambi, favorite dal Piano Marshall, e contemplava anche la
eventuale realizzazione di unioni doganali (come quella italo-francese in discussione dal
1947), e lo sviluppo di una forte corrente di emigrazione (Torricelli, 1974, p. 747-749).
Il Piano a Lungo Termine, che incontrò già all’epoca varie critiche, non faceva
concessioni di tipo sociale o
keynesiano, anzi era basata su uno stretto controllo
dell’inflazione e su un uso selettivo della spesa pubblica. Faceva leva anche sul ruolo
preminente dell’intervento pubblico nel mercato dei capitali, e ancora di più sul fatto che gli
investimenti più importanti ricadevano, o direttamente, o tramite azioni consorziali con i
gruppi privati più importanti, sull’industria di Stato. Un rapido esame delle priorità con cui
furono assegnati gli aiuti americani destinati a finanziare gli investimenti (Fondi di
Contropartita, fondi per progetti industriali, prestiti Eximbank) rivela un certo grado di
coerenza con gli obbiettivi prefissati: a beneficiarne maggiormente furono, infatti, l’industria
elettrica, l’industria meccanica, la siderurgia e le fonti di energia (Lombardo 2000).
Un importante fattore per la ricostruzione economica italiana furono, infatti, gli aiuti
internazionali, in grandissima parte provenienti dagli Stati Uniti. I primi programmi, noti
come aiuti pre-ERP, furono lanciati immediatamente al termine delle ostilità e sono divisi in
programma militare, programma FEA, programma UNRRA, programma AUSA e Interim
Aid, per un totale di 1.516,1 milioni di dollari nel periodo 1943-1948 . A questi seguirono gli
aiuti ERP, e cioè, legati al Piano Marshall. L’uso degli aiuti ERP viene generalmente descritto
con la divisione classica tra una prima fase orientata soprattutto all’importazione di generi
alimentari, e quindi di sostegno all’agricoltura e alla stabilità alimentare e monetaria ad essa
connessa, e una seconda fase orientata ai macchinari, e quindi maggiormente diretta alla
modernizzazione industriale. Dai «maccheroni ai macchinari». In termini quantitativi non è
semplice fare stime precise, viste le differenze tra le statistiche italiane e americane, le date di
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riferimento, i tempi di formazione del fondo lire, di invio degli aiuti e di reale spesa degli aiuti
stessi. Anche la classificazione per settori (agricoltura e industria, opere pubbliche e private)
non è molto precisa.
Secondo alcune stime, il complesso degli aiuti ammontò nel
quinquennio tra il 1948 e il 1952 a una somma pari a una media annua del 2,1 % del PIL
(Zamagni 1990, p. 418).
Il ruolo dello stato nell’economia
In quasi tutti i paesi dell'Europa Occidentale si assistette a un processo di accresciuto
intervento dello Stato nell'economia, a sostegno della produzione e a salvaguardia della diffusa
domanda di benessere e giustizia sociale.
In Gran Bretagna l'enfasi cadde sulla piena
occupazione, garantita da un sistema di controlli estesi sugli approvvigionamenti e sui consumi.
Anche i paesi scandinavi gettavano le premesse della costruzione dello Stato sociale
accompagnato, particolarmente in Norvegia, da un forte sviluppo di investimento di base
industriale.
In Francia ci si orientò verso un sistema di pianificazione concertata con
l'obbiettivo di modernizzare l'apparato industriale e sconfiggere le tendenze alla stagnazione
emerse negli anni Trenta. Un'esperienza non molto diversa fu avviata in Olanda.
La situazione in Italia è stata oggetto di analisi, anche contrastanti. Per avere una
dimensione esatta del problema della presenza dello Stato nell’economia conviene partire
dall’eredità degli anni Trenta del Novecento. I pubblici poteri diventarono, allora, responsabili
di intere politiche di settore. E aumentava la discrezionalità dell’amministrazione, anche in
assenza di un potere legislativo democraticamente espresso. Gran parte dell’economia veniva
posta sotto la tutela dell’amministrazione pubblica, diretta o indiretta. Lo Stato si era
impadronito di ampie fette della politica agricola, aveva stabilito una presenza pubblica
preponderante (sia come partecipazione, che come controllo) sul credito, aveva costituito
l’IRI e poi lo aveva reso ente permanente nel 1937,
aveva uno strumento potente di
regolamentazione attraverso la disciplina di autorizzazione degli impianti industriali, con la
guerra etiopica e le sanzioni internazionali si era impadronito totalmente del commercio con
l’estero e della disciplina valutaria, una serie pervasiva e minuta di regolamenti
disciplinavano la produzione industriale, la produzione agricola, il commercio interno. (Melis
1996, pp. 332 e ss)
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Un altro risultato della politica autarchica e del dirigismo crescente fu il moltiplicarsi
negtli anni trenta dei cosiddetti enti di settore o enti corporativi
In sostanza si rilasciò la
qualifica di ente pubblico “a favore di associazioni di produttori o di gruppi particolari di
consumatori, ai quali lo Stato conferì di volta in volta compiti di autonoma regolazione della
produzione e del mercato, controlli sulla qualità dei prodotti (spesso con facoltà di attribuire
un marchio di qualità), funzioni di rappresentanza dell’intero settore, gestione di albi
professionali”. Intere branche produttive venivano così accentrate sotto la direzioni di enti
quali l’Ente Serico (1926), l’Ente Risi (1931), L’Istituto Cotoniero Italiano (1934), l’Ente
Nazionale per la Cellulosa e la Carta, l’Ente nazionale per la Moda e tanti altri (Melis 1996,
p. 367)
Nel dopoguerra non sarebbero mancate le accuse al proliferare degli enti pubblici e del
parastato.
La tesi secondo cui dopo il 1945 si sarebbe abbandonato ogni sviluppo
programmato, e l'azione di politica economica sarebbe consistita puramente nello smantellare
l'apparato di controlli introdotto dal regime fascista per creare una economia "aperta", e
consolidare questi risultati con la ortodossia monetaria, non sembra aver retto all'usura del
tempo. E' emerso, e continua a imporsi sempre di più all'attenzione, il fatto che l'economia
italiana si contraddistinguesse per un'estesa presenza pubblica e che le liberalizzazioni, che pur
furono avviate, non riuscissero ad eliminare, che molto parzialmente, il sistema di controlli e la
proliferazione di enti. L'investimento era dominato in vari settori dallo stato; così il mercato dei
cambi; il regime commerciale fra i più protezionisti.
L’Italia, infatti, si affacciava
all’integrazione europea e alla liberalizzazione commerciale priva di una effettiva tariffa
doganale (quella prebellica aveva perso ogni valore a causa della svalutazione della lira)
cosicchè per manovrare le importazioni e le esportazioni si dovette usare il vecchio e pesante
sistema dei divieti, delle licenze e dei relativi diritti (Torricelli 1974 passim).
Anche dal punto di vista degli schieramenti, non si può dire che l'idea liberista fosse
particolarmente diffusa nel mondo politico uscito dalla Resistenza, se è vero che fra le maggiori
forze resistenziali solo il Partito liberale e il Partito d'Azione, o meglio la sua ala più moderata,
appoggiavano un programma di cauto liberismo. La Democrazia Cristiana annoverava un
ventaglio di opinioni. Al suo interno c’era, tuttavia, una consistente ala favorevole a soluzioni
dirigiste, composta dalla corrente dossettiana, dai sindacalisti, e appoggiata dai tecnici
dell'industria di Stato, i quali si trovarono spesso ad operare in contatto con i partiti della
sinistra.
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Perno dei finanziamenti statali all’industria fu nel dopoguerra l’intervento a favore
dell’IRI, la cui ricostruzione finanziaria fu avviata con l’aumento del fondo di dotazione (d.l.
5 marzo 1946) da 2 a 12 miliardi, seguiti da una serie di provvedimenti
soprattutto il settore meccanico (Salvati, 1994, p. 462).
a sostenere,
La partecipazione dello Stato
nell’economia, di cui l’IRI era una delle principali espressioni, ma non certo la sola, era
avvenuta per una serie di ragioni tra cui: la necessità di sostenere settori dell’economia
nazionale in periodi di crisi; la necessità di difesa del paese; la politica autarchica; lo svincolo
dai monopoli stranieri nell’approvvigionamento di materie prime essenziali. A partire dalla
Liberazione, nonostante le resistenze liberiste, si formò presto un certo consenso intorno alla
necessità di preservare le partecipazioni dello Stato. Le ragioni che ne erano state alla base non
erano venute cioè meno ed erano ragioni che stavano al centro dei problemi del rapporto fra
Stato, sistema bancario e imprese come si era determinato in seguito alla grande depressione
degli anni Trenta. Dal punto di vista politico, inoltre, era innegabile del resto che la stessa
esistenza dell'IRI rendesse in Italia meno convincente il programma di nazionalizzazioni che la
sinistra perseguiva in altri paesi.
I programmi dell’IRI furono messi a punto nel corso del 1948 in base a studi congiunti
fra l’IRI, le finanziarie e le principali società dipendenti. Il CIR le esaminava in alcune sedute
tenutesi nel settembre 1948, con la partecipazione dei dirigenti dell’IRI e degli esponenti di
varie finanziarie di settore. Vennero esaminate la situazione e i possibili programmi dei
principali settori, definite le future linee di sviluppo dei settori stessi, “prospettati i relativi
fabbisogni finanziari e infine impostato il problema della loro copertura.” (Minindustria,
1955-6, v. 3, p. 79)
Le principali scelte adottate allora riguardarono: a) l’adozione dell’importante piano
Finsider per la ristrutturazione dell’industria siderurgica e lo sviluppo della siderurgia costiera
a ciclo integrale; b) la costruzione di nuove unità navali, per ripristinare i collegamenti interni
e internazionali; c) lo sviluppo del settore telefonico e radiofonico; d) il riordinamento e la
riconversione del settore meccanico da produzioni belliche a produzioni civili; e) cospicui
investimenti nel campo elettrico, con nuovi investimenti e acquisizione di nuove
partecipazioni; f) nuovi investimenti per dare un impulso alla industrializzazione del
mezzogiorno.
L’industria meccanica richiese all’IRI investimenti ingenti. Il settore meccanico IRI si
era molto ampliato durante il conflitto: contava 70.000 addetti all’inizio del conflitto, 100.000
9
alla fine. La grande maggioranza era impegnata in produzioni belliche e dovevano essere
riconvertiti in produzioni civili, senza perdite rilevanti di occupazione. Il 18 marzo 1948 fu
costituita la Finmeccanica, finanziaria di settore che si affiancava alla Finsider, alla Finmare
e alla STET. Uno degli obbiettivi dell’IRI era quello di promuovere le esportazioni in questo
settore, in quanto il mercato interno non poteva certo assorbirne le capacità. Le partecipazioni
elettriche dell’IRI furono, invece, riunite nel 1952 nella Finelettrica a cui vennero apportate
partecipazioni azionarie e creditizie dell’IRI nelle società SIP, SME, Terni e Trentina. L’IRI
poi era attivo nella navigazione aerea - dove nel 1946, erano nate due società la LAI e
l’Alitalia con la partecipazione del governo italiano, che ne affidava la gestione all’Istituto nel campo del cemento, della ricerca nucleare, dell’istruzione professionale ed altro ancora.
Il rilancio dell’IRI con una serie di investimenti pubblici in settori strategici non era
che uno dei tanti aspetti della presenza capillare dell’amministrazione nell’economia. Un
buon esempio ne era la disciplina dei prezzi. Durante la guerra esisteva un regime vincolistico
estremamente capillare. Alla cessazione delle ostilità il regime vincolistico rimase, e venne
confermato da nuovi provvedimenti legislativi, che riguardarono “l’intera gamma dei prodotti
industriali e agricoli”. Ci fu poi una graduale liberalizzazione, pur conservando gli organi
governativi una ampia possibilità d’azione. Alla fine del 1950 erano ancora sottoposti alla
disciplina dei prezzi i seguenti prodotti e servizi: tra i servizi pubblici acqua, gas, elettricità,
telefoni; prodotti petroliferi; i carboni fossili esteri; gli pneumatici per automobili industriali; i
fertilizzanti, fosfatici e azotati; il grano; il risone; il solfato di rame, i prodotti sodici,
l’alluminio, il cemento; i prodotti siderurgici; le specialità medicinali. Inoltre gli affitti erano
sottoposti a un blocco delle locazioni, mentre la disciplina dei canoni era demandata al
Parlamento. 1
Molto significativo era anche il controllo statale sull’apparato creditizio, una parte
importante del quale era in mano pubblica. Esso venne esercitato attraverso il Comitato
interministeriale del Credito, un comitato interministeriale presieduto dal Ministero del
Tesoro.
L’esecuzione delle delibere del Comitato era attribuita alla Banca d’Italia che
ereditava, così, dal 1947 le funzioni, già svolte, dell’Ispettorato per la difesa del risparmio e
per l’esercizio del credito costituito nel 1936.
1
ACS, PCM, CIR,, b. 9, appunto s.d. Legislazione italiana per l’azione governativa nei vari settori
economici, p. 9
10
Industriali privati e amministrazione.
Parallelamente alle operazioni di ricambio nei ruoli dirigenziali e di riassetto
organizzativo, la neonata Confederazione generale dell’industria italiana operò anche un
necessario riposizionamento ideologico. Recuperando il retaggio del periodo prefascista,
gli industriali privati nel secondo dopoguerra tornarono ad essere gli alfieri di una visione
liberale in politica e liberista in economia. Il liberismo difeso dalla dirigenza
confindustriale – che Gloria Pirzio Ammassari ha descritto come «liberalismo di marca
ottocentesca, corretto in vario modo da presunte inderogabili necessità di agevolazioni e
protezioni» (Pirzio Ammassari 1976, p. 63.) – rispondeva, in buona parte, all’esigenza di
ricostruire un rapporto privilegiato col nuovo potere politico, relegando sullo sfondo
l’esperienza del regime e i connessi compromessi col sistema corporativista di governo
dell’economia (Mattina 1991, pp. 57-63). Inoltre, il riferimento al liberismo forniva un
retroterra ideologico, difendibile in alleanza con le forze moderate, contro le minacce che il
fermento politico e sociale del dopoguerra sembrava portare agli assetti proprietari e nel
campo delle relazioni industriali. Nella pratica il liberismo degli industriali assunse tratti
del tutto peculiari, spesso piegandosi alle esigenze dettate dalla difesa degli assetti
consolidati del capitalismo privato. A questo proposito sembra pertinente l’osservazione di
Massimo Legnani, quando parla, piuttosto che di liberismo, di «privatismo», inteso come
ideologia mirante ad escludere in modo radicale l’intervento dei poteri pubblici, e più in
generale della politica stessa, nei meccanismi di mercato (Legnani, p. 180).
Grazie a questa operazione di ridefinizione identitaria la risorta Confindustria riuscì
a consolidare una relazione forte, definita «simbiotica», col Partito liberale e soprattutto,
una volta divenuto evidente il ruolo di forza marginale che il Pli avrebbe giocato nell’Italia
repubblicana, con la Democrazia cristiana, in virtù anche dei buoni rapporti personali
esistenti fin dal 1942 tra Costa e De Gasperi (Speroni 1975, pp. 51-53). Come ha
sottolineato Pirzio Ammassari, da un punto di vista politico «l’indubbio merito» di Costa
fu di scartare la possibilità di appoggiare le formazioni di destra, come ad esempio l’Uomo
Qualunque, che pur avrebbero corrisposto alle attese di una fetta importante del mondo
11
imprenditoriale ostile ed intimorita dai propositi di riforme portati dal cosiddetto “vento del
nord”, e di concedere il sostegno dell’industria privata e della stampa da essa controllata a
De Gasperi (Pirzio Ammassari 1976, p. 30).
Il ruolo della Confindustria nei primi anni della Repubblica è stato dipinto in modi
diversi, a volte contrastanti. Da un lato si è rilevata l’importanza del rapporto DCindustriali privati, fino a farne il cardine delle politiche industriali della prima legislatura
(Martinelli 1981; Mattina 1991); in altri casi, invece, si è teso a ridimensionare le capacità
di condizionamento degli industriali sulle politiche governative, sottolineando la fragilità
culturale della borghesia industriale italiana e la sua arretratezza ideologica, caratteristiche
che avrebbero impedito l’assunzione di un ruolo trainante da parte del capitalismo privato
nel processo di sviluppo del secondo dopoguerra. A proposito del legame privilegiato tra
DC e Confindustria negli anni che vanno dall’uscita delle sinistre dal terzo governo De
Gasperi fino alla fine della prima legislatura, Mattina ha parlato di «duopolio delle
politiche industriali», intendendo così indicare una gestione concertata tra il maggiore
partito di governo e la Confindustria dei temi riguardanti la produzione e lo sviluppo
industriali. Si trattava, secondo Mattina, di una relazione fondata sull’assunto che «il
laisser faire (fosse) il miglior incentivo per far ben operare gli imprenditori nell’interesse
proprio e della collettività e lo Stato rinunciava, perciò, a svolgere un qualsiasi ruolo di
armonizzazione tra le scelte settoriali preferite dal gruppo e gli interessi generali.» (Mattina
1991, p.210). Attorno a quest’asse si sarebbe consolidata la svolta liberista del quarto
governo De Gasperi, secondo una visione che vede nel paradigma del «protezionismo
liberale» (Amato 1972, pp. 27-34) la chiave per leggere lo sviluppo economico dell’Italia
nel secondo dopoguerra.
Tuttavia alla luce di più recenti contributi storiografici sulla storia economica
italiana e sul nesso nazionale-internazionale (Petri, 2002, Gualtieri 2004), appare
eccessivamente semplificatorio uno schema che pone al centro degli assetti postbellici per
quanto riguarda le politiche industriali l’intesa Dc-Confindustria. Così facendo si trascura
il fondamentale apporto dato da altre forze e personalità.
Fabrizio Barca ha evidenziato come le linee di politica economica e più in generale
lo sviluppo della penisola nel secondo dopoguerra siano stati determinati da un
«compromesso straordinario» tra una pluralità di attori, tra i quali figurano certo gli
industriali, ma sono da annoverare anche la tecnocrazia pubblica (i “nittiani”), la
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componente cristiano-sociale presente nella DC, il Pci e, ultimo ma non meno importante,
il punto di vista di Washington (Barca 1999, cap. III). In questo contesto la Confindustria
può essere vista non come l’interlocutore esclusivo delle forze di governo in materia di
politiche industriali, ma come un attore tra altri, con a disposizione però un rapporto
privilegiato con una parte importante dello schieramento politico e con settori
dell’amministrazione pubblica, grazie al quale il padronato riusciva ad esercitare un grado
di influenza sull’azione dell’esecutivo che per un lungo periodo rimase senza eguali
rispetto agli altri enti di rappresentanza di interessi. Questa influenza si esercitava sia in
modo indiretto, attraverso i rapporti anche finanziari con le forze politiche, sia in modo
diretto con un coinvolgimento dei vertici e delle strutture confederali nel processo di
decisione e di applicazione delle politiche riguardanti più da vicino il mondo industriale.
L’opera di lobbying degli industriali si concentrava soprattutto sul governo e in misura
minore sul Parlamento, dove comunque era presente un discreto numero di deputati e
senatori vicini agli ambienti confindustriali, quando non direttamente provenienti da essi
(Mattina 1991, cap. VII).
Vanno ricordati, infine, anche alla luce di quanto abbiamo detto precedentemente sulla
forte presenza dello Stato nell’economia, alcuni episodi in cui le posizioni di Confindustria, e
quelle di ambienti finanziari privati, in sostanza il “quarto partito” evocato da De Gasperi,
furono relegate in secondo ordine. Basterebbe citare il fermo controllo esercitato dalla Banca
d’Italia sull’allentamento dei vincoli sull’attività finanziaria e sui movimenti di capitali, il
privilegiamento di canali amministrativi finanziari pubblici per la gestione degli aiuti
americani, il freno allo sviluppo del credito mobiliare privato e a una valorizzazione delle
transazioni di Borsa. (Battilossi 1996 e altri). Da un’altro punto di vista, va ricordata anche la
sostanziale sconfitta di Costa e della Confindustria rispetto alla liberalizzazione degli scambi,
e particolarmente ai provvedimenti varati nel novembre 1951 dal ministro del Commercio
Estero, Ugo La Malfa. La Confindustria aveva tentato di rappresentare una linea diversa da
quella del governo, tentando “di imporre” “le condizioni ritenute basilari e imprescindibili per
<appoggiare e difendere> la linea governativa di fronte ai propri associati”, una linea che tra
l’altro comprendeva il rifiuto di una diminuzione dei dazi, oltre ad altre misure di tipo
protezionistico (Battilossi 1996, p.324).
La politica economica dei governi centristi
13
La conduzione della politica economica dopo il 1948 fu, in larga misura, dominata da
qualle che viene descritta come linea Pella. In realtà, occorrerebbe anche ricordare, come uno
dei suoi principali artefici, Donato Menichella, Governatore della Banca d’Italia a partire dal
1948. Si trattava di un politica di rigore sui conti pubblici e di ortodossia sul piano monetario,
ma anche di sostegno agli investimenti strategici, particolarmente quelli guidati dall’industria
pubblica, e sul piano commerciale, di una cauta apertura alla liberalizzazione, in funzione
soprattutto di un forte sostegno alle esportazioni. All’interno di questo quadro ci fu spazio per
una dialettica fra varie posizioni sul rilievo da dare ad alcuni interventi pubblici, più
contenuto secondo le correnti liberali, più marcato secondo altri. Molti osservatori, dal
Bottiglieri al Daneo, concordano nell'individuare il punto di svolta tra la seconda metà del
1949 e l'inizio del 1950, allorché si apriva quello che nel tortuoso lessico politico
democristiano veniva definito come "terzo tempo sociale" (Bottiglieri 1984a).
Le tensioni programmatorie e le sollecitazioni ad un uso meno cauto della spesa
pubblica che non avevano mancato di emergere di fronte alla linea dei liberisti, di cui Pella
era allora il capofila, trovarono un punto di coagulo più consistente all'atto della formazione
del sesto governo De Gasperi (gennaio 1950), nel quale, pur riconfermandosi la gestione di
Pella al Ministero del Tesoro, venivano inclusi alcuni ministri dichiaratamente legati ai
programmi di investimento, quali La Malfa e Campilli.
Poco dopo vennero votati sia
l'istituzione della Cassa del Mezzogiorno che un primo piano di riforma agraria accompagnata
da un programma di lavori di bonifica e di assistenza tecnica. Alla fine del 1949 risaliva
invece il Piano Fanfani, che segnava un ingresso del governo nei programmi di edilizia
sovvenzionata. Le agevolazioni all’edilizia avevano lo scopo di ripristinare il parco edifici
dopo le distruzioni belliche, di favorire l’edilizia popolare e economica, di riassorbire la
disoccupazione. Nell'aprile del 1950 inoltre ben 50 milioni di sterline (circa 90 miliardi di lire
pari circa al 15% degli investimenti lordi nell'industria dello stesso anno) delle riserve
ufficiali furono destinate a finanziare a tassi di interesse agevolati le importazioni di beni di
investimento dall’area della sterlina. Continuavano, inoltre, a dispiegarsi gli investimenti delle
finanziarie IRI di cui abbiamo parlato.
La Cassa del Mezzogiorno, i cui progetti erano maturati negli ambienti
meridionalistici dell’IRI e della Svimez, aveva il compito di dotare il Mezzogiorno delle
infrastrutture minime per attirarvi investimenti industriali e rivitilazzare l’agricoltura con
14
investimenti e irrigazioni. Lanciava, pertanto, un piano decennale di opere pubbliche in una
pluralità di settori, con un’ampia dotazione di fondi preventivamente assicurata. Importanti
furono anche i provvedimenti di agevolazioni all piccole e medie industrei, e rispetto ai
settori in crisi: meccanica e cantieristica-armamento.
A favore della cantieristica furono
varati, con una legge del marzo 1949, nota come legge Saragat, contributi a fondo perduto,
crediti agevolati e esenzioni fiscali per favorire il riammodernamento della flotta (Pugliese,
p.172 e ss).
A2) Linee di storia dell’amministrazione pubblica nel secondo dopoguerra
A.2.a) L’amministrazione e il retaggio del ventennio
I tempi della storia delle amministrazione non coincidono sempre con la
periodizzazione degli eventi politici e sociali. Molte delle novità introdotte durante gli anni
del regime fascista, erano maturate in precedenza. Altre erano destinate a produrre frutti nel
dopoguerra. Inoltre gli studi sulla storia dell’amministrazione durante il fascismo lasciano
ancora alcune zone d’ombra, importanti, una per tutte il regime corporativo, che, per quanto
fallimentari i suoi esiti, lasciò indubbiamente tracce importanti nel rapporto fra categorie
economiche, interessi sociali e l’organizzazione dello Stato. Ci limitiamo pertanto, qui, a
sottolineare brevemente, e senza alcuna pretesa di completezza, alcuni dei cambiamenti più
importanti destinati a lasciare più di una traccia sulla riorganizzazione dello stato dopo la
Seconda guerra mondiale.
Un primo elemento riguarda l’espansione della burocrazia. Un primo allargamento
significativo se ne era avuto durante il periodo giolittiano. Nel primo dopoguerra, con le
riforme introdotte da De Stefani nel 1923 si era tentato di arrestarla e nello stesso tempo di
introdurre una rigida disciplina della carriera. La riforma ripristinò, pertanto, il sistema degli
organici rigidi, limitando il numero dei posti; introdusse un ordine gerarchico uniforme dei
gradi e degli stipendi, prendendolo a prestito dall’ordinamento militare (i gradi furono
tredici); rese uniformi le carriere nei vari ministeri; stabilì che nelle promozioni vi fosse un
15
adeguato processo di selezione; divise gli impiegati in tre categorie o <gruppi> a seconda che
per l’ammissione nei ruoli si richiedesse la laurea,il diploma di scuola superiore, il diploma di
scuola inferiore. Fu un corpo di leggi che rimase in vigore per più di trent’anni. La crescita
del personale, però, temporaneamente arrestata, ricominciò a partire dal 1931. Per un
decennio l’incremento del personale si sviluppò a un ritmo medio annuale del 10%: dai
509.000 dipendenti statali del 1931 si passava ai 990.045 del luglio 1940. Fu una crescita
generale che interessò sia i ministeri che le aziende autonome (Cassese 1984, p. 24 ss;
Mozzarelli, Nespor 1984, p. 271; Melis 1996, p. 329-330).
Uno dei primi elementi della costruzione della dittatura non poteva essere che il
rafforzamento e la personalizzazione del potere esecutivo. Il Presidente del Consiglio
diventava, pertanto, in base a una legge del 1925, capo del Governo. L’Art. 3 della legge 24
dicembre 1925, precisava, infatti, che il Primo Ministro.. “dirige e coordina l’opera dei
Ministri, decide sulle divergenze che possono sorgere fra di essi, mantiene nel Ministero
l’unità di indirizzo e di azione”.
Fu solo il punto di inizio. Negli anni successivi si
accrebbero, da una parte, i poteri e le competenze del Capo del Governo e dall’altra la
burocrazia degli uffici che facevano capo alla Presidenza del Consiglio.
Rotelli, in
particolare, definisce l’accentramento alla Presidenza del Consiglio di organi e di attribuzioni
o già di altri ministeri o creati ex nuovo, come il fenomeno più rilevante e significativo
introdotto nell’amministrazione dal regime (Rotelli 1972, p.301 ss, 476; Melis 1996, p. 335).
L’assenza di un potere legislativo democraticamente eletto, l’assenza di ministri con
un minimo di autonomia dal Duce, ebbero come effetto la crescita del ruolo della Presidenza
del Consiglio sia nel processo legislativo vero e proprio che in quello direttivo e
amministrativo.
Melis,
in
particolare,
sottolinea
come
si
accrescesse,
insieme
all’accentramento nelle mani di Mussolini e della Presidenza del Consiglio, il ruolo dei
direttori generali. “La struttura stessa del governo, il ruolo legislativamente predominante che
la presidenza del Consiglio vi occupava, la prassi secondo la quale i direttori generali come i
capi dei grandi enti pubblici si recavano periodicamente <a rapporto> dal duce, persino il
modo particolare di lavorare sulle carte amministrative che caratterizzò lo stile di Mussolini”
alimentava un circuito privilegiato di una elite di grandi burocrati, al di fuori dei normali
canali governativi (Melis 1996, p. 341). L’alta burocrazia, e al suo interno alcuni grandi
16
commis, al cui interno c’erano i Ragionieri Generali dello stato, i presidenti dell’IRI e dei
maggiori enti pubblici, e altre figure di rilievo conquistarono un posto cruciale. 2
Le amministrazioni parallele e gli enti pubblici economici
Già dall’inizio del secolo vi era stata una crescita di strutture organizzative, quali
aziende ed enti autonomi, che si affiancarono ai ministeri. Nel 1905 venne costituita la prima
azienda autonoma, quella delle ferrovie. L’esperimento suscitò dibattiti e polemiche. La
figura dell’azienda autonoma venne messa, poi, in secondo piano, dall’emergere, a partire dal
secondo decennio del 1900, degli enti pubblici, Lo scopo che si voleva raggiungere era lo
stesso: “consentire all’amministrazione dello Stato l’esercizio di imprese senza i vincoli
imposti dalla legge di contabilità, dai controlli ecc” Gli enti pubblici, infatti, si collocavano, al
di fuori dell’amministrazione statale in senso proprio (Cassese, 1984, p. 13).
La stagione d'oro degli enti pubblici furono gli anni Venti e Trenta; dal 1922 al 1940
ne furono costituiti 260. Secondo Cassese, la loro proliferazione fu anche una reazione alla
riorganizzazione centralistica dell'amministrazione operata nel 1923 da De Stefani, infatti si
voleva sottrarre le attività economiche alle rigidità della burocrazia e alla lentezza dei suoi
procedimenti amministrativi. I primi importanti enti pubblici economici furono l’INA (1912),
l’ONC (1918) , l’ICIPU (1923). “Gli uomini che conducono in porto l’istituzione dei primi
enti pubblici –Beneduce, Giuffrida, Attolico – provengono dall’amministrazione e sono
guidati da Nitti. Li contraddistingue un’aspirazione tecnocratica ed efficientistica. Li
accomuna la convinzione che l’amministrazione statale non è in grado di svolgere i suoi
compiti in maniera efficace perché è pletorica, è più strumento di occupazione che di
produzione; ha troppo personale poco preparato, che si presta facilmente al clientelismo e sul
quale bisogna esercitare controlli continui per assicurarne l’imparzialità. Nitti e gli altri,
perciò, vogliono un’amministrazione di <pochi e ben pagati>. Ma, poiché, questo non era
possibile nello Stato, occorre gettare le basi di una amministrazione parallela fuori dello Stato,
2
Sul rapporto diretto fra i massimi dirigenti IRI e Mussolini, vedi la testimonianza di Felice Guarneri, riportata
in Melis 1996, p. 361. Sulle notevoli competenze tecniche dell’alta burocrazia (che tra l’altro assunse anche un
ruolo di supplenza legislativa) vedi Melis 1996, p.330 e ss.
17
che sappia svolgere i suoi compiti con l’efficienza che manca all’amministrazione statale, e
che sia svincolata da procedure e controlli troppo rigidi”(Cassese 1984, p. 14).
Tra i più importani enti pubblici economico-finanziari creati negli anni Trenta ci
furono l’IRI, istituito nel 1933 e reso ente permanente nel 1937, e l’IMI, fondato nel 1931, la
stessa Banca d’Italia trasformata in ente pubblico nel 1936 –si trattava di strumenti di
intervento dello Stato nell’economia, tanto più necessari in un periodo in cui
l’amministrazione era chiamata a rischiosi salvataggi economici, a funzioni di supplenza
rispetto al sistema delle banche e delle imprese (Posner Woolf 1967; Spagnolo 1990; Amatori
1997).
Ma il processo di entificazione fu più esteso Oltre al credito interessò i settori della
previdenza e dell’assistenza, delle assicurazioni, naturalmente dell’agricoltura e dell’industria,
dell’artigianato, della distribuzione, del turismo, dello spettacolo, delle attività ricreative,
dello sport, della cultura ecc. “In pratica, fra il primo dopoguerra e la caduta del fascismo non
vi fu settore esente da accentuati processi di entificazione”… Si moltiplicarono, per esempio,
gli enti di settore, sotto il cui coordinamento furono accentrate intere branche produttive (per
esempio l’Ente Risi del 1931, l’Ente per l’artigianato e le piccole industrie). In questi enti di
settore o “corporativi”, si operava un trasferimento trasferimento a associazioni di categoria di
funzioni pubbliche. Si intrecciarono così stretti rapporti, nell’ambito delle politiche di settore,
fra nuclei specializzati di personale ministeriale e dirigenze degli enti.
Fu una breccia
attraverso cui gli interessi organizzati penetravano all’interno dell’amministrazione (Melis
1996, p. 368).
Un altro fenomeno importante di quegli anni fu la crescita dei poteri, all’interno
dell’amministrazione, della Ragioneria Generale dello Stato. Nelle sue riforme, iniziate nel
1923 e continuate nei due anni successivi, De Stefani aveva operato una concentrazione di
funzioni, accorpandole in alcuni ministeri. Molto significativo fu che gli uffici di ragioneria
dell’amministrazione centrale cessarono di appartenere alle singole amministrazioni e furono
trasferiti alla dipendenza diretta del Ministero delle Finanze (allora unificato con quello del
Tesoro), dove vennero messi alle dipendenze della Ragioneria Generale dello Stato. La guida
dell’amministrazione si spostava, così, dal Ministero dell’Interno al Ministero delle Finanze,
in altre parole al ministero che controllava la spesa, anche se questo processo di
razionalizzazione non riuscì a abbracciare gli enti pubblici, che allora, come abbiamo visto, si
stavano diffondendo. La riforma promossa dal Ministro delle Finanze, Thaon de Revel, nel
18
1939 consolidò e rafforzò ancora il ruolo della Ragioneria Generale su tutta attività della
amministrazione statale vera e propria. Tra l’altro fu affidato alla Ragioneria Generale
l’esame preventivo di tutti i disegni e progetti di legge interessanti la finanza pubblica e si
elevò il Ragionere Generale a un grado gerarchico superiore a quello dei più alti funzionari
dello Stato ([Melis 1996, p. 380)
Estensione delle prerogative economiche dello Stato
L’estensione delle funzioni dell’amministrazione in campo economico-sociale si era
già avvertita nel decennio del 1920 e si accrebbe ulteriormente negli anni Trenta: uno dei ruoli
chiave dello Stato divenne quello di erogatore di servizi dai servizi pubblici, all'istruzione,
all'assistenza sociale, all'assistenza tecnica. Questo processo aveva portatato a un aumento del
numero dei ministeri, affermandosi un principio di specializzazione, a danno delle
amministrazioni generali di coordinamento. Per esempio il Ministero dell'agricoltura,
industria e commercio, comprendeva originariamente anche le competenze poi passate al
Ministero del Lavoro. E inoltre industria e commercio si separarono, poi, dall'agricoltura.
Secondo Cassese, i ministeri crebbero di numero sia "per il crescere delle funzioni, sia per le
pressioni della burocrazia e del corpo politico" (Cassese 1983, p. 142).
Negli anni Trenta lo Stato fu chiamato a interventi sempre più estesi nell’economia,
anche per il progressivo irreggimentarsi degli scambi e dei pagamenti internazionali, e per il
prodursi di vincolismi e dirigismi economici (vedi sanzioni, politiche autarchiche ecc). Nel
1935, in particolare, si era costituita presso la Presidenza del Consiglio la Sovrintendenza agli
scambi e alle valute, con compito di unificare e coordinare i servizi concernenti le valute
estere, le importazioni e le esportazioni, gli approvvigionamenti dall’estero di interesse
statale. Questo organo, incontrava resistenze presso le altre amministrazioni, ed era troppo
debole. Venne, quindi, prima trasformato in sottosegretariato allo Stato presso la Presidenza
del Consiglio e poi nel 1937 in Ministero per gli Scambi e le Valute (Archivio ISAP 1962, p.
344).
Il vincolismo amministrativo nell’economia, insieme all’irreggimentazione delle
categorie nell’interesse nazionale formarono parte integrante dell’esperimento corporativo,
che ebbe anche motivazioni ideologiche e di consenso. Si tratta di un tema molto complesso,
19
dai risvolti ancora inesplorati. Secondo Melis all’interno del sistema corporativo non si
assunsero decisioni importanti circa l’economia e la produzione. Queste erano riservate ai
grandi enti pubblici economico-finanziari del periodo, e alla tecnocrazia che li dominava.
Tuttavia gli innumerevoli enti corporativi locali e centrali, con al centro il Ministero delle
Corporazioni permisero “uno scambio di uomini e di esperienze fra la realtà delle categorie
economiche della provincia e il centro del complesso sistema corporativo”. Su questo ultimo
tema ha insistito recentemente anche Petri, che ha rivalutato alcune delle pianificazioni di
investimento di settore assunte all’interno delle Corporazioni (Petri 2002; Melis 1996, p.354).
Non indifferenti sembrano essere state anche le ricadute del sistema sul piano
dell’accentramento delle decisioni economiche. Secondo un appunto della Segreteria
Generale del CIR, elaborato tra il 1949 e il 1950 e volto a gettare luce sui precedenti
amministrativi del coordinamento economico nell’ordinamento italiano, la struttura
corporativa forniva al Capo del Governo ampi ed adeguati strumenti per la realizzazione del
coordinamento economico”. 3 Questi organi erano il Consiglio Nazionale delle Corporazioni
che nel 1930 diventava “il supremo organo co-ordinatore dell’economia del paese”. Il
Consiglio era costituito da una Assemblea Generale, di cui facevano parte numerosi ministri
nonché rappresentanti del Partito Fascista e delle categorie economiche ed era presieduto dal
Capo del Governo. In seno al Consiglio poi era stato costituito un Comitato Corporativo
Centrale, presieduto dal Capo del Governo. L’organismo attraverso cui il Capo del Governo
realizzava il co-ordinamento era il Segretariato Generale delle Corporazioni, che di fatto era il
motore dell’intero sistema.
A.2.b) L’amministrazione dalla Ricostruzione all’ordinamento del dopoguerra
Nella delicata transizione dal fascismo alla democrazia, iniziata nel 1943, continuata
poi sotto tutela Alleata dal 1944, passata attraverso prima la proclamazione della repubblica e
la elezione dell’Assemblea Costituente nel 1946 e culminata, infine, nella promulgazione
della Costituzione e le elezioni per il Parlamento della prima legislatura del 1948, due nodi
storiografici importanti per la storia dell’amministrazione sono quello dell’influenza sulle
nuove forme dello Stato italiano da parte dell’amministrazione Alleata e quello
3
Cir, b.2, fasc, 18, “Appunto per il Segretario Generale. Il coordinamento economico nel periodo prebellico in
Italia”, s.d. ma 1949-50
20
dell’epurazione. Si tratta, tuttavia, di due problemi su cui la ricerca è ancora ai primi passi, tali
da non consentire conclusioni definitive.
Le pressioni degli organismi alleati (Governo Militare, Commissione di Controllo)
sulla amministrazione italiana andarono nella direzione di uno snellimento delle procedure e
di una modernizzazione delle strutture amministrative. Si cercava anche di concentrare alcune
competenze in alcune amministrazioni prescelte, per esempio quelle sugli aiuti nel Ministero
del Commercio Estero, costituito su pressioni americane alla fine del 1945. Si insistette per la
formazione di comitati misti, in cui i funzionari italiani potessero lavorare fianco a fianco con
quelli alleati; si cercò di favorire il coordinamento delle amministrazioni anche attraverso
l’impulso a strutture interministeriali, disegnate soprattutto sul modello britannico. Seguendo
una linea di pragmatismo gli alleati favorirono anche tentativi di riforma in senso federalista,
ma senza successo, in quanto la continuità con il modello di stato centralizzato fu una delle
linee guida dei governi italiani a partire dal 1944, anche di fronte alla sfida dei CLN,
potenzialmente eversiva del vecchio ordinamento (Segreto 2004).
L’epurazione dell’amministrazione fu anche iniziata e favorita dal Governo Militare
Alleato, pur tra iniziali schematismi e con alcune contraddizioni fra le diverse zone del paese.
Presto essa, però, fu presa in mano dal governo italiano, rivelandosi un processo molto
contrastato. Furono, sembra accertato, le resistenze all’interno degli apparati a contenerne, in
modo drastico, gli effetti. Si trattò, in ogni caso, di un processo vasto, che coinvolse ampi
strati della pubblica amministrazione e della sua dirigenza e portò incertezza e difficoltà
interne, particolarmente fra il 1944 e il 1947, ma anche oltre. Poche è vero furono le
condanne, ma molte le indagini, come hanno confermato studi recenti. Significativo il caso
dell’IRI, l’intero organico del quali fu posto sotto processo già alla fine del 1944, con l’accusa
di collaborazione con il governo della RSI. Grazie all’appoggio del governo, già nel 1945
l’azione rientrò ma ebbe strascichi significativi anche in seguito, con alcuni processi che si
trascinarono fino al 1946. Alcuni degli uomini più importanti dell’ente furono indotti a
emigrare o cambiare ruolo (Spagnolo 1986; Melis 2003 e Felisini 2003)
Dopo il 1945 assistiamo a una fase di dibattito politico e istituzionale molto intenso,
nel corso del quale si disegnarono gli ordinamenti dell’Italia post-bellica. Il problema è di
capire quanto questo mutamento riuscì a intaccare la continuità degli apparati burocratici –
una continuità che può naturalmente essere interpretata in due sensi: garanzia di tenuta e
efficienza dell’apparato amministrativo, oppure condizionamento a seguire pratiche e metodi
21
del passato. Tra i punti di osservazione per rispondere a questo quesito si possono scegliere da
una parte i tentativi di riforma dell’amministrazione, dall’altra le innovazioni introdotte dal
nuovo testo costituzionale, nonché il rapporto che si andò instaurando fra potere legislativo e
amministrazione.
Già dal 1944 fu dibattuto ampiamente il problema della riforma della amministrazione.
Sul tema vennero costituite fra il 1944 e l’emanazione della Costituzione ben tre commissioni.
Le prime due - una la, virtuale, continuazione dell’altra -furono presiedute da Ugo Forti, un
accademico giurista. La prima Commissione Forti, Commissione per la riforma della pubblica
amministrazione, iniziò i propri lavori nel gennaio 1945. Essa puntò il dito contro l’eccessivo
accentramento,l’inflazione
di
organi
e
funzioni
e
l’ingerenza
della
politica
nell’Amministrazione. Si preoccupò di fare proposte che facilitassero il coordinamento
dell’attività dei ministeri, proponendo la costituzione di comitati interministeriali, e offrì
anche suggerimenti per rendere più efficiente la amministrazione all’interno dei ministeri, per
esempio con la reintroduzione dell’istituto dei Segretari generali (Mozzarelli-Nespor 1984
p.279-283). 4
La seconda commissione Forti, Commissione per gli studi attinenti alla
riorganizzazione dello Stato, istituita un anno dopo nell’ambito del Ministero per la
Costituente, discusse di una serie di linee guida, su cui orientare l’attività dei costituenti. 5 Fra
l’altro si occupò di enti pubblici, e di Ministeri, suggerendo, fra l’altro, di creare come unità
base non il Ministero ma il gruppo di servizi. Questa proposta ricalcava il modello inglese,
secondo cui i servizi venivano raggruppati in Dipartimenti e non in Ministeri, il che, si
pensava, avrebbe eliminato la confusione di competenze e reso più flessibile
4
Secondo Mozzarelli-Nespor 1984, p.279-384; le raccomandazioni dell’Amministrazione erano conservatrici e
ispirate a una logica liberale, prefascista. Essa voleva limitare la preponderanza del potere esecutivo. La
raccomandazione che essa formulava, e cioè, che l’organizzazione dei Ministeri fosse una prerogativa
parlamentare, e non ministeriale, riprendeva la normativa pre-fascista e fu poi ripresa dalla Costituzione.
5
Il Ministero per la Costituente fu istituito con decreto legislativo luogotenenziale 3 luglio 1945, n. 435. Aveva
il duplice compito di organizzare la convocazione dell'Assemblea Costituente e condurre studi preparatori sui
problemi costituzionali che l'Assemblea avrebbe dovuto affrontare. Questo secondo compito fu assolto dal
Ministero attraverso la raccolta e la elaborazione di materiali su esperienze costituzionali e straniere e la
organizzazione di tre commissioni di esperti: una presieduta da Ugo Forti; una per i problemi del credito,
dell'industria e dell'agricoltura presieduta da Giovanni De Maria e una per i problemi del lavoro, presieduta da
Antonio Pesenti. A partire dal novembre 1945 il Ministero per la Costituente pubblicava un bollettino periodico
di informazione e documentazione e una collana di brevi monografie.Il ministero, insieme alla Consulta
,cessarono la loro attività con l'elezione dell'Assemblea Costituente il 2 giugno 1946.
22
l’amministrazione, liberandola dal rigido modello napoleonico, poi cavouriano e crispino sul
quale si era forgiata (Cataldi 1951, p. 463; Ministero per la Costituente 1946).
Alle due Commissioni Forti seguì la Commissione Persico del 1945-6, (cosiddetta
della “scure” dal nome del suo presidente, sottosegretario al Tesoro), la quale aveva il
compito più prosaico di individuare gli sprechi e i possibili tagli all’Amministrazione. Era
formata da sei sottosegretari, cinque esperti e, fatto significativo, un rappresentante dei
dipendenti, a significare che anche il ruolo passivo dei funzionari e degli impiegati pubblici
era destinato a mutare. I risultati della Commissione sembrano essere stati, dal punto di vista
della riduzione del personale, abbastanza modesti (Sepe 1995, p.234).
La Costituzione : Ministri e Presidente del Consiglio.
La Costituzione si occupava di amministrazione, in due articoli. Essa stabiliva nell art.
95, 3 c. che “ la legge provvede all’ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il
numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri”. Nell’art 97, 1 c, stabilisce che “i
pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il
buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione” mentre lo stesso articolo al secondo
comma dice: “nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le
attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari”. Essa ribadiva, quindi, un modello di
amministrazione, ben ordinata e neutrale, propria dello Stato liberale, mentre, per quanto
riguarda i ministeri, pose un argine alla moltiplicazione arbitraria dei Ministeri, la istituzione
dei quali avrebbe dovuto essere determinata per legge (Archivio ISAP 1962, I, p. 13).
L’art. 95, 2 c., regolava il principio di responsabilità dei ministri: mentre ciascun
ministro era individualmente responsabile degli atti del proprio dicastero, i ministri erano
responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri. La norma si prestava alla
interpretazione, per cui, a livello politico, la responsabilità dei ministri non poteva essere
invocata senza coinvolgere, tramite mozione di sfiducia, l’intero Consiglio dei Ministri
(Archivio ISAP, I, p. 22).
Più in generale, la Costituzione introduceva un ordinamento profondamente diverso,
non solo come era ovvio dalla dittatura “strisciante” introdotta dal fascismo, ma anche dallo
Statuto Albertino. Dalla norme costituzionali, “il governo del Re è divenuto Governo della
Repubblica. La sua responsabilità verso il Parlamento è stata sancita da norme specifiche,
23
come l’esistenza del Consiglio dei Ministri e del Presidente del Consiglio” (Rotelli 1972, p.
478). Si riconosceva la funzione di coordinamento del Presidente del Consiglio e si statuiva
che la Presidenza del Consiglio come tale doveva essere dotata di un proprio ordinamento,
non identificabile, con i ministeri veri e propri. Il ruolo centrale assunto già da tempo dagli
uffici della Presidenza veniva, così, avvalorato, anche se l’indicazione costituzionale che
affidava al legislatore l’ordinamento della Presidenza del Consiglio non fu attuata per
lunghissimo tempo.
Sui poteri del Presidente del Consiglio si aperse, nell’Assemblea Costituente un duro
scontro politico, fra chi voleva sancire una figura di Presidente del Consiglio forte e
autorevole, con funzioni di guida del governo (la DC con l’appoggio dei liberali e di alcuni
azionisti) e chi invece voleva un Presidente del Consiglio debole (i comunisti, con l’appoggio
dei socialisti). Il risultato fu, inevitabilmente,un compromesso. Da una parte il Presidente del
Consiglio “viene riconosciuto per la prima volta nella costituzione formale quale organo
individuale che, assieme ad altri organi individuali,i singoli ministri forma il Consiglio dei
Ministri”(Rotelli 1972, p. 440). Egli (art. 95, 1 c) “dirige la politica generale Governo e ne è
responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e
coordinando l’attività dei ministri”. Dall’altra parte, però, nei fatti il sistema di governi di
coalizione determinati dai partiti che si andò affermando in seguito indebolì il ruolo del
Presidente di fronte ai suoi ministri, rendendolo più che altro un esecutore e un mediatore e
togliendoli ogni vero potere di coordinamento. 6
Ovviamente un ruolo centrale nel nuovo ordinamento sarebbe spettato al Parlamento,
nella sua capacità di interloquire con l’amministrazione stessa. Purtroppo, anche su questo
aspetto, si deve registrare una carenza di indagini dettagliate. E’ certo che la prima legislatura
vide un forte protagonismo del parlamento: in particolare moltissimi furono i disegni di legge
presentati per impulso dei principali Ministeri economici, e della Presidenza del Consiglio.
Non è quindi attendibile quindi l’analisi secondo cui nella prima legislatura il Parlamento
sarebbe stato confinato in un ruolo di fiancheggiamento passivo dell’esecutivo. Particolare
significativo e vivace il ruolo della Commissioni parlamentari, veicoli per sia per sveltire la
legislazione che per esercitare controllo diretto sull’amministrazione. E’ in commissione che
il dibattito poteva uscire dagli steccati delle contrapposizioni ideologiche di schieramento, e
6
Sulla organizzazione della Presidenza del Consiglio, vedi il capitolo sulla Presidenza del Consiglio nel presente
rapporto.
24
questo avveniva spesso sui temi economici e sociali. Molti, sembra quindi fossero i casi in cui
i disegni di legge subirono emendamenti sia da parte dei parlamentari della maggioranza che
anche integrazioni da parte dell’opposizione, con “intese su aspetti anche non marginali”
(Calandra 1978, p. 365; Melis 2004, p. 40). 7
Nuovi e vecchi ministeri
All’inizio della seconda guerra mondiale i Ministeri erano 15 e cioè: Esteri, Interni,
Africa Italiana, Grazia e Giustizia, Finanze, Guerra, Marina, Aeronautica, Educazione
Nazionale, Lavori pubblici, Agricoltura e Foreste, Comunicazioni, Cultura Popolare, Scambi
e Valute. Tra il 1944 e il 1947 vennero istituiti e poi soppressi 5 ministeri: il Ministero per
l’Italia occupata, il Ministero per la Ricostruzione, il Ministero per l’Assistenza Post-Bellica,
(istituito nel 1945 e soppresso nel 1947) il Ministero per l’Alimentazione, il Ministero per la
Consulta Nazionale e il Ministero per la Costituente.
Vennero, invece, istituiti in
permanenza: il Ministero dei Trasporti e il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, per
scissione del Ministero per le Comunicazioni (1944); il Ministero del Commercio con l’Estero
(1945) e,
per scissione del Ministero dell’Industria Commercio e Lavoro, il Ministero
dell’Industria e Commercio e il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (1945).
Venne poi istituito il il Ministero del Bilancio (1947), il Ministero della Marina Mercantile
(1946) e, per accorpamento di tre precedenti ministeri, il Ministero della Difesa (1947)
(Mozzarelli, Nespor 1984, p. 283-285; Archivio ISAP 1962, 1, p. 14-15; Serrani, 1979,
p.111).
Quasi tutti i nuovi ministeri, tranne quello della Difesa, avevano attinenza alla sfera
economica, un chiaro segno che in questo settore furono più forti e contraddittorie le pressioni
sull’amministrazione a riorganizzarsi. Al termine di questi mutamenti, all’inizio degli anni
Cinquanta, i ministeri erano sedici: Affari Esteri, Interni, Giustizia, Bilancio, Finanze, Tesoro,
Difesa, Pubblica Istruzione, Lavori Pubblici, Agricoltura e Foreste, Trasporti, Poste e
Telecomunicazioni, Industria e Commercio, Lavoro e Previdenza Sociale, Commercio con
l’Estero e Marina Mercantile. Il Ministero dell’Africa Italiana venne soppresso, solo, nel
7
Qualche indicazione sul ruolo del Parlamento nel controllare e seguire la politica estera in Negri 1967; l’esame
del ruolo del parlamento naturalmente lascia aperto il tema, di grande importanza, del ruolo dei partiti, e in
particolare della DC, nell’operare pressioni sull’amministrazione pubblica in questi anni (Salvati 1983, p. 202).
25
1953. Accanto ai Ministri veri e propri, tuttavia si affacciava la figura del Ministro senza
portafoglio, le cui funzioni venivano stabilite dal Presidente del Consiglio. Si trattava di una
sorta di organo governativo di riserva, introdotto informalmente, e la cui funzione rispondeva
a esigenze di “elasticità e informalità”, oltre a essere utile per eventualmente allargare la base
politica del governo.
E’ possibile, quindi, collegare tra loro tre fenomeni. Da una parte, una certa
confusione nelle attribuzioni ministeriali, soprattutto nel campo economico. Se è vero che la
situazione sembra stabilizzarsi all’inizio degli anni Cinquanta e che i grandi ministeri
economici come il Tesoro, le Finanze, gli Esteri e l’Industria riaffermarono una loro
predominanza, le disfunzioni, le rivalità di competenze, fino a veri e propri conflitti
burocratici, permasero. 8 Questo aiuta a spiegare l’emergenza, da una parte dei ministri senza
portafoglio, dall’altro dei comitati interministeriali, di cui il più importante, per la molteplicità
di aree di intervento, per la autorevolezza della composizione era, il Comitato
Interministeriale per la Ricostruzione, CIR. I Comitati interministeriali si configurano, in
questi anni, come vera e propria cabina di regia del coordinamento governativo in campo
economico, snodo essenziale fra politica e pubblica amministrazione (Quadri 1997, p.l 28-9).
Scendendo più in basso nella scala gerarchica, troviamo una tendenza all’aumento dei
Direttori generali. I sedici ministeri del 1950 contavano ben 93 direzioni generali, e il numero
era destinato a salire, insieme a quello delle Divisioni e di altre strutture intermedie (Serrani
1979, p. 33-34). 9 I direttori generali rimanevano, pertanto, il perno dell’amministrazione, la
cui carriera direttiva, per la massima parte, continuava ad essere regolata dalle leggi di
anzianità interne. Tra l’altro, molti di essi, sopravvissuti all’epurazione, erano ascesi alla
dirigenza negli anni Trenta in età ancor giovane, spesso per nomina politica. I funzionari di
carriera, però, erano affiancati da staff politici portati direttamente dai ministri, per coordinare
l’attività amministrativa (capi gabinetto, membri della segreteria del ministro, capi uffici
8
Cataldi, Referendario della Corte dei Conti, scriveva nel 1951, che esisteva “un problema generale del
coordinamento delle attività svolte dai vari ministeri in quanto nell’ordinamento attuale manca qualunque
coordinamento di competenza; ciò si nota non solo tra i vari ministeri, ma persino fra le varie direzioni generali
di uno stesso ministero. Le soluzioni fin’oggi tentate hanno portato quasi sempre ad un compromesso e cioè che
la competenza in determinate materie , invece di essere assegnata ad un ministero piuttosto che a un altro, a una
piuttosto che a un’altra direzione generale, è stata assegnata a entrambi i ministeri od a più direzioni generali. In
questi casi si verifica che non viene seguito un comune indirizzo e che si generano delle interferenze le quali si
ripercuotono sulla tempestività e sulla efficienza dei provvedimenti. Però non è sempre possibile, data la natura
di talune materie, lo spezzettamento delle competenze e giungere all’unificazione degli affari nell’ufficio
maggiormente interessato e idoneo” (Cataldi 1951, p. 462-3).
9
Si accrescevano anche gli uffici della Presidenza del Consiglio, il cui personale raddoppiava fra il 1948 e il
1976, Mozzarellli Nespor, 1984, p. 286-7.
26
legislativi). Era uno spoils system, elastico e duttile, che insieme al crescente numero degli
incarichi di sottosegretario, 10 costituiva la naturale testa di ponte del nuovo sistema dei partiti
e delle correnti, vera “costituzione materiale” dell’ordinamento repubblicano (Salvati 1983;
Salvati 1994, p. 424 ss). 11
Un altro fenomeno che testimoniava dell’allargamento della sfera amministrativa,
soprattutto in campo economico-sociale, era la moltiplicazione di organi consultivi. Nel 1951
le commissioni, i consigli, comitati e collegi esistenti presso le varie amministrazioni centrali
raggiungevano il numero di 604, di cui 304 in attuazione di norme legislative o regolamentari,
253 per semplice disposizione ministeriale e 47 di fatto. Attraverso questi strumenti
l’amministrazione si apriva alla voce delle categorie economiche, sociali, professionali e degli
enti (Archivio ISAP,1962, v. 1, p. 50 ss) 12 .
Secondo alcuni storici di tendenza marxista questo fenomeno rivelava una pericolosa
porosità dell’amministrazione agli interessi privati. Scrive per esempio Battilossi, (1996, p.
249) “…nella ricostituzione di quel reticolo amministrativo di vertice, destinato a mediare tra
gli indirizzi politici (spesso contrastanti) dei diversi ministeri, e nella formazione delle
numerose delegazioni internazionali investite di importanti responsabilità negoziali, i
funzionari dello Stato vennero sistematicamente affiancati dagli ‘esperti’ espressi dai vari
poteri economici e dagli interessi organizzati”.
La Confindustria, in particolare, si assicurò
un ruolo di “coadiutore” economico del governo.Va sottolineato, tuttavia, come, tra gli
interessi organizzati, vanno compresi quelli delle aziende e degli enti pubblici, i quali
occupavano uno spazio autonomo rispetto all’amministrazione. Da un punto di vista
pragmatico, si potrebbe, inoltre, osservare come l’apertura alle istanze degli interessi da parte
dell’amministrazione era inevitabile. Il problema è di valutare se essa fosse accompagnata
dalla capacità di selezionare e distinguere fra le varie istanze. In questo senso il meccanismo
di selezione era consegnato, non tanto alla sfera ministeriale, ma ai comitati interministeriali,
10
Nel governo De Gasperi del 27-1-1950 vi erano 27 sottosegretari, nel governo De Gasperi del 26-7-51 ve ne
erano 35, Archivio ISAP, v. I, 1962, p. 25.
11
Il passaggio di funzionari di carriera nei gabinetti dei ministri era, fra l’altro, un modo della classe politica per
selezionare il personale dirigenziale, accellerandone la carriera.. Sul ruolo chiave dei direttori generali dei
ministeri economici nel dopoguerra la Salvati cita la loro presenza negli interrogatori preparati per la stesura del
Rapporto della Commissione Economica del Ministero per la Costituente. La loro matrice secondo la Salvati era
di tipo liberale. Molti democristiani erano sospettosi della permanenza nella dirigenza di una vecchia mentalità
massonica. Salvati 1994, p.424
12
Questo non era, certo, un fenomeno nuovo: aveva preso corpo già in età giolittiana e durante la prima guerra
mondiale, vedi Melis, 1995, p.201; Sepe 1995, p. 246.
27
che erano, come abbiamo visto, l’anello vitale di congiunzione fra tecnica e politica nel
dopoguerra. 13
Enti pubblici e tecnocrazia.
La congiunzione fra sfera economica e tecnica e sfera politica continuò, anche nel
dopoguerra, a essere assicurata dagli enti pubblici economici, o almeno dai più significativi ed
efficienti, che continuarono a funzionare come strumenti paralleli alla amministrazione
pubblica. Dopo anni di discussioni e di scontri, e nonostante le polemiche insistite dei
liberisti, prevalse infatti una tesi continuista, volta a rilanciare l’IRI, e a rilanciare, con
ambiziosi programmi di investimento, le sue finanziarie di settore, creandone, fra l’altro di
nuove, come Finmeccanica nel 1948 e Finelettrica nel 1952. All’IRI si aggiunse nel 1953
l’ENI di Enrico Mattei. Intanto nel 1949, il piano decennale di interventi per la casa venne
affidato non al Ministero dei Lavori Pubblici ma a un nuovo ente pubblico, la gestione INAcasa.. Analogo percorso avviene nel 1950 con la Cassa del Mezzogiorno. Furono creati,
inoltre, nuovi enti agricoli legati alla riforma agraria, gli istituti di credito speciale per le tre
aree del Mezzogiorno continentale, siciliano e sardo (ISVEIMER, IRFIS, CIS). Sopravvissero
anche alcuni degli enti consortili, già emersi negli anni Trenta, che, paradossalmente se si
considera la diffidenza americana per gli enti pubblici, trovarono un nuovo ruolo nelle
esigenze di funzionalità, rappresentatività di settore imposte dalla gestione degli aiuti
americani (Salvati 1994, p.428). 14
13
La situazione confusa dell’organizzazione dei ministeri, insieme a problemi di personale e di carriera,
rimaneva il tallone d’Achille della amministrazione italiana ed geneò ulteriori tentativi di riforma a partire dal
1950.Nella primavera del 1950 De Gasperi nominò Raffaele Pio Petrilli Ministro s. portafoglio per la riforma
amministrativa e burocratica. Nacque poi l’Ufficio autonomo, poi Ufficio per la riforma burocratica presso la P..
del Consiglio, responsabile il vicepresidente del Consiglio, Attilio Piccioni, sottosegretario Roberto Lucifredi.
L’Ufficio di Lucifredi ebbe un ruolo importante soprattutto per le proposte, meno per le realizzazioni, dove trovò
resistenze molto forti. Esso si componenve di una ventina di collaboratori (Melis, 1995, p.230-1) Il lavoro,
particolarmente fra il 1951 e il 1953, trovò una sintesi in tre corposi volumi, “Stato dei lavori per la riforma della
Pubblica Amministrazione”. Tra i risultati concreti di questo lavoro, vi furono provvedimenti per il riassetto del
Ministero dei Trasporti, dei Lavori Pubblici e dell’Industria e Commercio, sui servizi delle Poste e Telegrafi, la
soppressione del Ministero per l’Africa Italiana, oltre a provvedimenti sul decentramento e norme relative allo
stato giuridico dei dipendenti pubblici - provvedimenti di rinnovamento, miglioramenti economici e normativi,
che rappresentavano una evoluzione rispetto alla disciplina del 1923 - che sfociarono nel testo unico del 1957.
14
Nonostante le diffidenze americane per gli enti pubblici, la Salvati (1994, p. 428), osserva come “nel
complesso del periodo della ricostruzione, la politica degli aiuti internazionali (programmi militari, UNRRA)
operi nel senso di una rivalutazione de facto, se non de jure, degli organismi consortili, Comitati di Settore,
Federconsorzi, ECA, Onmi. Le necessità della razionalizzazione degli scambi e della distribuzione
dell’assistenza favoriscono il recupero di queste <agenzie> accentrate di origine corporativa o burocratica in
qualità di strutture <tecniche> (utilizzate come sostituti delle agenzia funzionali secondo il modello
28
Il fenomeno si presta a una lettura complessa, tra motivi di continuità, imperativi di
ricostruzione, ambizioni di nuovi orizzonti di sviluppo guidati da una tecnocrazia efficiente e
collaudata. Il sopravvivere in regime di democrazia di enti pubblici paralleli, che per quanto
gestiti secondo criteri privatistici, afferivano, in un’ultima analisi, alla finanza pubblica, non
poteva che far nascere delle forti controspinte politiche. Così, nel 1949, appena un anno dopo
la riforma, impostata in continuità con il passato, dello Statuto dell’IRI, si cominciò già a
parlare di un Ministero per le aziende statali, un idea che venne ripresa nel 1951 dal Ministro
Ugo La Malfa in sede governativa e nel 1954 da una relazione parlamentare di maggioranza
presentata dal democristiano Orio Giachi, al termine dei lavori di una apposita commissione.
Nel 1956 questo dibattito approderà alla costituzione del Ministero delle Partecipazioni
Statali. Intanto, intorno agli enti pubblici, si era riannodata la tecnocrazia pubblica di origine
nittiana, che costituì la vera risorsa di competenze tecniche ed umane che permise di guidare,
con un certo successo, la macchina economica attraveso gli anni del dopoguerra, dai modelli
autarchici e dirigistici, agli imperativi della liberalizzazione e dell’integrazione europea. Si
trattava di una classe di manager, di banchieri, di imprenditori sorretta da staff di consulenti,
quali gli uffici studi dell’IRI, del CNR, della Banca d’Italia, della Segreteria Generale del
CIR, vere e proprie cerniere del funzionamento dell’amministrazione.
anglosassone) al momento non eliminabili. Non sempre si tratterà di una rivalutazione effimera: il loro
immediato riutilizzo, suggellato dal crisma americano, consente a queste strutture ….di sopravvivere con la
semplice sostituzione del vertice politico…”
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