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I diversi volti del tradurre

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I diversi volti del tradurre
I diversi volti
del tradurre
Atti del seminario comune ai corsi di traduzione
del Corso di laurea in Lingue e culture europee
Anno accademico 2005-2006
A cura di Giuseppe Palumbo
Materiali di discussione
Collana del Dipartimento di Scienze del Linguaggio e della Cultura
Università di Modena e Reggio Emilia
N. 6 (2007)
ISBN 978-88-902485-7-3
INDICE
Prefazione............................................................................................................................ 3
Emilio Mattioli (Università di Trieste)
La poetica della traduzione ................................................................................................. 6
Marco Cipolloni (Università di Modena e Reggio Emilia)
Effetti speciali linguistici: lo spagnolo intermittente
(tra logica del racconto e cultura della sonorizzazione
e del doppiaggio)............................................................................................................... 14
Giuseppe Palumbo (Università di Modena e Reggio Emilia)
La ricerca in traduzione: la svolta empirica ..................................................................... 30
Franco Nasi (Università di Modena e Reggio Emilia)
Alice & Alice: identità, traduzione, parodia ..................................................................... 40
Vallori Rasini (Università di Modena e Reggio Emilia)
Esperienze di traduzione di un testo filosofico.................................................................. 57
Marco Ciardi (Università di Bologna)
Traduzioni e storia della scienza: il caso della chimica ................................................... 63
Hans Honnacker (Università di Modena e Reggio Emilia)
Camilleri è traducibile?Le traduzioni tedesche
dei romanzi dello scrittore di Porto Empedocle................................................................ 72
Demetrio Giordani (Università di Modena e Reggio Emilia)
Appunti in margine a Corano III:7 ................................................................................... 83
Nota sugli autori ................................................................................................................ 89
Prefazione
Staccatasi (o affrancatasi, direbbero alcuni) dalla linguistica, la traduzione tende ormai a
presentarsi come settore di studi autonomo, e ha più volte dimostrato di riuscire a
difendere tale autonomia: pur in un'ottica di interdisciplinarietà, e nonostante l'estrema
varietà dei campi di studio e delle applicazioni, è oggi possibile individuare, nella
maggior parte delle ricerche sulla traduzione, un nucleo comune di principi teorici e
metodologici. Questo nucleo poggia su una visione del tradurre come atto comunicativo,
e come tale sempre calato in un contesto caratterizzato da determinate coordinate
riconducibili agli attori, alle loro finalità e agli effetti (desiderati o meno) del loro agire. In
questo quadro molto generale, tuttavia, la traduzione può essere descritta e analizzata da
prospettive molto diverse e negli ambiti più disparati: i "diversi volti del tradurre",
insomma, corrispondono tanto alle molte visuali che è possibile adottare nell'osservazione
dei fenomeni traduttivi quanto ai vari ambiti nei quali la traduzione viene praticata (e
studiata): dalla letteratura alla saggistica, dal cinema alla comunicazione pubblicitaria,
dalla localizzazione del software alla traduzione delle pagine web. In ciascuno di questi
settori la traduzione è trasposizione fondamentalmente linguistica, ma in ogni settore tale
trasposizione finisce col sottostare a regole comunicative (e a norme traduttive, che non
sempre coincidono con le prime) di volta in volta diverse.
La linguistica diviene, in quest'ottica, soltanto una delle prospettive dalle quali
analizzare i fenomeni traduttivi: ad essa si affiancano le scienze cognitive, la psicologia,
la sociologia, l'intelligenza artificiale e, naturalmente, le altre discipline che
tradizionalmente si occupavano di traduzione (in primis la critica letteraria e la filosofia).
Da qui, dunque, l'interdisciplinarietà del campo di studi che tradizionalmente
chiamavamo "teoria della traduzione" o "traduttologia" e che oggi viene sempre più
spesso identificato con l'etichetta inglese di Translation Studies (etichetta che pure
originariamente designava una corrente specifica originatasi nell'area degli studi di
comparativistica). Tanto per rendere l'idea del ribaltamento di prospettiva verificatosi
negli ultimi anni, ricordiamo che oggi c'è perfino chi, come Douglas Robinson nel suo
volume Performative Linguistics. Speaking and translating as doing things with words
(2003), vede la traduzione non come uso particolare della lingua ma come paradigma
della comunicazione linguistica tout court.
A rendere problematica, nel senso positivo del termine, la descrizione dei
fenomeni traduttivi, a spingere, cioè, verso una loro comprensione a tutto tondo, hanno
contribuito non poco le necessità legate alla didattica. La traduzione come oggetto di
studio a livello universitario ha conosciuto un vero e proprio boom, favorito dalla
tendenza all'introduzione nei curricula di discipline professionalizzanti. Ma spiegare la
traduzione a chi vi si avvicina per la prima volta (e non ne ha il talento, il "sacro fuoco")
non è impresa facile, soprattutto quando, come accadeva ancora fino a pochi anni orsono,
lo si faccia senza menzione alcuna dei fattori e dei vincoli che intervengono nell'atto
traduttivo, presentandolo come trasferimento in vacuum di significati.
I contributi offerti nel presente volume si basano sui lavori del Seminario sulla
teoria della traduzione tenuto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Modena e Reggio Emilia nell’anno accademico 2005/2006. Gli interventi si pongono
nella prospettiva interdisciplinare fin qui delineata, idealmente ricongiungendosi all’opera
di tanti altri studiosi e ricercatori impegnati nel tracciare le coordinate metodologiche e
interpretative che permettano di ritrarre il fenomeno traduzione in tutti i suoi molteplici
volti.
3
Il contributo di apertura del volume (in un ordine che rispetta quello con cui gli
interventi si sono succeduti nel Seminario) è dovuto a Emilio Mattioli, il quale sottolinea
come una definizione essenzialistica e normativa della traduzione sia del tutto omologa a
un definizione essenzialistica e normativa dell'arte (avvertita ormai come anacronistica), e
che dunque anche in letteratura, e in particolare nella poesia, presupporre un'identità della
traduzione con l'originale è ingenuo quanto postulare la possibilità di una lettura esaustiva
del testo. Per comprendere il testo tradotto e il senso dell’operazione compiuta dal
traduttore va tenuta in conto la particolare poetica di quest’ultimo, anche se il
riconoscimento della pluralità delle poetiche traduttive non può portare a un
giustificazionismo illimitato: partendo dalle poetiche, si può arrivare ad una critica delle
traduzioni adeguatamente fondata, capace di capire quanto la traduzione sia retta da un
progetto consapevole e se abbia realizzato questo progetto.
Il secondo intervento, di Marco Cipolloni, analizza il caso dei film multilingui,
ossia contenenti situazioni di mistilinguismo e/o personaggi poliglotti, evidenziando come
nella loro traduzione si ricorra a effetti volti a da un lato rispettare e valorizzare la varietà
linguistica delle versioni originali e dall’altro a renderla credibile e funzionale,
percepibile ma non ingombrante, il tutto in base a strategie di differenziazione linguistica
dei personaggi che finiscono con l’essere sfruttate anche da film multilingui non doppiati
con lo scopo di stabilire con lo spettatore un “patto diegetico” che faciliti la narrazione.
Nel terzo contributo Giuseppe Palumbo offre una panoramica sugli studi che negli
ultimi anni hanno cercato di analizzare il processo traduttivo basandosi su dati empirici.
Nel tentativo di osservare il comportamento dei traduttori e di descrivere i fattori che
concorrono a determinare le loro scelte, queste ricerche mostrano come la traduzione
possa trarre linfa da teorie e da approcci metodologici propri di una varietà di settori
disciplinari affini.
A seguire, Franco Nasi affronta il tema della traduzione della parodia e mostra, in
evidente sintonia con la posizione di Emilio Mattioli, come trascurare la dimensione
pragmatica e progettuale della traduzione può significare ricadere in una poco proficua
assolutizzazione delle strategie traduttive. Applicando tale prospettiva all’analisi di una
ricca serie di esempi tratti dalle traduzioni italiane di Alice’s Adventures in Wonderland,
Nasi mostra, in modo particolarmente persuasivo, come i traduttori non sempre siano
consapevoli del progetto traduttivo in base al quale stanno operando e come invece tale
consapevolezza potrebbe metterli in grado di far passare in maniera più efficace le
intenzioni parodistiche del testo originale.
Nel quinto contributo, Vallori Rasini, rifacendosi a un’esperienza condotta ‘sul
campo’, illustra alcune delle difficoltà che possono sorgere nella traduzione di un
particolare tipo di testo, il saggio filosofico, e ne trae la conclusione che, se pure la
traduzione espone al rischio (o alla necessità) del tradimento, essa offre anche la “feconda
possibilità della creazione”. La creatività del traduttore, tiene a ricordare l’autrice, deve
essere tuttavia frutto di scelte argomentate in maniera convincente e deve ricercare, per
onestà intellettuale, la collaborazione di un esperto del settore specialistico cui appartiene
il testo da tradurre.
La necessità di una competenza specialistica su cui fondare le scelte operate in
sede traduttiva è sottolineata anche da Marco Ciardi, che nel suo intervento introduce
anche un'altra fondamentale dimensione, quella diacronica. Ciardi mostra infatti come chi
si accinga a tradurre i classici della storia della scienza (come, in chimica, le opere di
Joseph Priestley o di Antoine-Laurent Lavoisier) debba prestare particolare attenzione a
non attualizzare in maniera indebita il sistema di nomenclatura adottato nei testi originali:
così come “Colombo non chiamò mai America le terre da lui scoperte”, oggi sarebbe
4
improprio attribuire agli scienziati del passato l’uso di termini entrati nell’uso corrente in
anni successivi e, soprattutto, in base a teorie di riferimento diverse.
Il settimo contributo, a firma di Hans Honnacker, discute il problema della
traducibilità, con particolare riferimento alle versioni tedesche dei romanzi (gialli e non)
di Andrea Camilleri, autore noto per l’efficacia del suo impasto linguistico che mescola
italiano e forme dialettali, principalmente, ma non solo, di derivazione siciliana. L’ampia
rassegna di Honnacker sulle traduzioni tedesche delle opere di Camilleri, mette in luce
l’impiego di strategie differenziate da parte dei vari traduttori che vi si sono cimentati,
alcuni dei quali appaiono più di altri disposti ad accettare la sfida posta dal testo originale,
del quale si fanno quasi ‘co-autori’.
Il volume si chiude con l’intervento di Demetrio Giordani che illustra le difficoltà
poste dalla traduzione di un particolare versetto coranico, versetto su cui si sono cimentati
nel corso dei secoli diversi commentatori e di cui Giordani analizza le versioni proposte
in varie traduzioni italiane e inglesi del Corano. Il versetto esaminato da Giordani
contiene una delle poche descrizioni che il Corano dà di stesso e ammonisce chiunque a
dare un’interpretazione fantasiosa dei contenuti del Libro. Come mostra Giordani, le
versioni proposte dai traduttori non possono che fondarsi su un’interpretazione del
versetto, ancorché suffragata da un’attenta considerazione della tradizione interpretativa
del testo coranico.
Modena, aprile 2007
Giuseppe Palumbo
5
Emilio Mattioli
La poetica della traduzione
Nell'ambito della teoria della traduzione letteraria persiste ancora l'idea di una poetica
normativa, di una poetica che detta le norme del tradurre. Cercherò di dimostrare che si
tratta del residuo di una idea sbagliata di traduzione, dogmatica e fissa, l'idea cioè di
traduzione come copia, come riproduzione e di una incoerenza del pensiero estetico che
pretenderebbe di conservare un'isola di normatività. Mi sembra che ci sia una linea
maestra lungo la quale procedere, una linea guida: nel momento in cui si è riconosciuta
alla traduzione la dignità di testo, nel momento in cui si è arrivati a concepire la
traduzione come passaggio da testo a testo e non più da codice a codice, idea quest'ultima
tipica della linguistica strutturalistica entrata in crisi insieme alla discipline formalistiche
da cui era nata, non è possibile continuare a pensare che la traduzione letteraria sia
sottoposta a regole prestabilite e fisse; in questo caso la traduzione non sarebbe testo.
Sembra che ci sia una certa timidezza nel procedere lungo questa direzione, che pesi una
tradizione negativa consegnata fra l'altro ad una lunga serie di metafore, ma affermare che
la vera traduzione è una sola è altrettanto dogmatico che pretendere di dare una
definizione dell'arte valida per tutti i tempi.
È importante rendersi conto che la definizione essenzialistica e normativa della
traduzione è del tutto omologa alla definizione essenzialistica e normativa dell'arte. Già
molti anni fa, nel 1965, mi era occorso, rifacendomi all'estetica fenomenologica di
Luciano Anceschi, di proporre anche per la traduzione la conversione della domanda
essenzialistica in domanda fenomenologica: come Anceschi aveva proposto di
trasformare la domanda essenzialistica "che cosa è l'arte?" in quella fenomenologica
"come è l'arte?", così io proponevo di sostituire alla tradizionale domanda "si può
tradurre?" altre domande: "come si traduce?" e "che senso ha il tradurre?", cercando di
sbloccare una situazione ancorata all'estetica di tipo idealistico.
Ora, se ormai è superata quella che viene definita l'obiezione pregiudiziale o
l'obiezione metafisica alla possibilità di tradurre e l'impossibilità del tradurre si è
trasformata in una concezione diversa del tradurre, è rimasta però operante in molti l'idea
che ci sia un solo modo di tradurre valido. Apparentemente la posizione più avanzata
nell'ambito della ricerca sulla traduzione letteraria è quella che, privilegiando l'aspetto
non comunicativo della poesia moderna e contemporanea, teorizza un'idea di traduzione
letterale che, nella fedeltà al significante, salva la poesia. Uno dei più importanti libri
sull'argomento: Beim Wort nehmen Sprachtheoretische und ästhetische Probleme der
literarischen Übersetzung di Annette Kopetzki (Stuttgart, 1996), è tutto orientato in
questa direzione. La conseguenza da trarre sarebbe che l'unico tipo di traduzione valido
per un testo letterario è quello letterale. Cercherò di dimostrare che questa è soltanto una
opzione possibile e che questa opzione si radica in una poetica particolare. Sarebbe
comodo poter dire: si deve tradurre così, ma c'è una confusione di piani, quando si
introduce in ambito letterario la precettistica propria della grammatica. Inevitabilmente la
imposizione di un metodo risulta riduttiva, semplifica un problema complesso, ignora la
storia. Il problema che si pone è quello di arrivare ad ammettere la pluralità dei metodi,
senza cadere in un giustificazionismo illimitato, in un relativismo privo di ogni rigore.
Le poetiche possono costituire lo strumento che evita questo tipo di rischi. Andrà
però qui richiamato quale nozione di poetica è in ballo. Non si tratta, evidentemente, della
6
poetica strutturale e semiotica che viene intesa come scienza della letteratura per esempio
da Lubomír Dolezel. Mi riferisco invece alla nozione fenomenologica che in Italia ha
avuto la sua più raffinata elaborazione da parte di Luciano Anceschi: "nata con la poesia,
la poetica [ ... ] rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare
indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali"3. Quale
strumento straordinario di comprensione per la poesia e per l'arte sia stata la poetica
intesa in questo senso è un capitolo ben noto dell'estetica contemporanea, sviluppatasi
dopo la crisi dell'estetica idealistica, un capitolo nel quale s'incontrano insieme
fenomenologia ed ermeneutica. La possibilità di ascoltare dall'interno le ragioni degli
artisti, di giudicare le opere stando dalla loro parte e non muovendo da una definizione
aprioristica è stata la conquista di uno spazio di libertà che ha arricchito grandemente il
pensiero estetico ed ha anche consentito quel rapporto continuo fra teoria e prassi o, se si
preferisce, fra esperienza e riflessione senza il quale ogni discorso sull'arte cade in quella
astrazione che già il padre dell'estetica, Baumgarten, deplorava: "Quid enim est
abstractio, si iactura non est?"4
Ma non è, per il tema che stiamo affrontando, il riferimento alla poetica dell'autore
a far problema; le reazioni e le opposizioni nascono quando si parla di poetica del
traduttore. Su questo vorrei concentrare l'attenzione e tentare di dimostrare che tener
conto della poetica del traduttore per comprendere il testo tradotto è altrettanto fruttuoso
che tener conto della poetica dell'autore per comprendere il testo originale. Consideriamo
le ragioni per le quali si rifiuta l'idea di una poetica del traduttore: 1) se il traduttore ha
una propria poetica, inevitabilmente elabora un'opera autonoma rispetto al testo di
partenza; 2) il traduttore deve invece il più possibile negarsi, rendersi trasparente; 3) le
regole della traduzione sono iscritte nel testo di partenza, non ne occorrono altre, si tratta
solo di adeguarvisi; 4) la dote principale del traduttore è l'umiltà e il traduttore deve
essere consapevole che la sua è un'attività di second'ordine, destinata per principio ad un
insuccesso più o meno relativo. È evidente che al di sotto di queste obiezioni c'è
fondamentalmente l'idea che la traduzione debba aspirare all'identità con l'originale, ma è
proprio questo presupposto che è sbagliato. La traduzione implica trasferimento,
spostamento, cambiamento, l'identità di due testi in campo letterario è un plagio e, d'altra
parte, anche la logica nega l'identità assoluta, l'idea della copia è la negazione della
qualità artistica e letteraria; insomma, l'identità della traduzione con l'originale è
altrettanto ingenua che quella di lettura esaustiva di un testo. Ora, se tutto questo è un
patrimonio di idee abbastanza comunemente accettato, abbastanza comunemente
acquisito, non si vede come si possa pensare all'idea di un traduttore trasparente, di un
traduttore che si nega. In questo contesto si pone inevitabilmente il problema della poetica
del traduttore, che è quanto dire il problema della sua consapevolezza, della
consapevolezza di quello che si propone di fare traducendo. Riprendiamo in esame
l'opzione per la letteralità che in apparenza sembra nascere dalla esigenza di
identificazione con il testo di partenza: se esaminiamo concretamente la prassi traduttiva
letteralistica, ci accorgiamo subito che può essere intesa in modi diversi ed avere
motivazioni diverse. Letteralità è fedeltà letterale alle singole parole o è la conservazione
del ritmo del testo o è la conservazione della sintassi e via di seguito? In realtà l'opzione
per un procedimento traduttivo acquisisce significato solo in relazione alla poetica del
traduttore: il traduttore che è permeato dell'esperienza di una poesia che tende
all'autoreferenzialità, inevitabilmente tende a un tipo di letteralità che non privilegia la
dimensione comunicativa della parola, ma bensì la riproduzione dei valori ritmici; questo
procedimento può essere applicato anche alla riproduzione di un testo classico perché,
come ben si sa, la traduzione è il luogo dell'incontro fra antico e nuovo.
7
Se esaminiamo però il modo in cui Celan ha tradotto i sonetti di Shakespeare,
tenendo presente quel che Szondi e Apel ne hanno scritto, subito ci rendiamo conto che
non si può parlare né di letteralità né di libertà, almeno in senso tradizionale e questo
proprio in base alla poetica della traduzione che guida Celan, poetica identificata da
Szondi nell’intenzione verso la lingua. Nel caso del sonetto 105 di Shakespeare il tema
della costanza diventa nella traduzione l'elemento formale: se l'originale celebra la
costanza, la traduzione la rende attraverso la sua struttura. "L'intenzione linguistica di
Celan, nella sua traduzione del sonetto 105, è la realizzazione della costanza nel verso"5.
Secondo Apel "le traduzioni di Celan sono al tempo stesso poesia, poetica e
interpretazioni storiche ben definite"!6.
Le singole opzioni traduttive sono dunque motivate da poetiche diverse. Resta da
chiedersi se il riconoscimento della pluralità delle poetiche traduttive porti a un
giustificazionismo illimitato: io credo proprio di no; credo invece che, partendo dalle
poetiche, si possa arrivare ad una critica delle traduzioni adeguatamente fondata, è
possibile infatti capire quanto la traduzione è retta da un progetto consapevole e se ha
realizzato questo progetto. La traduzione-testo ha come presupposto una poetica. Una
poetica che non è solo l'espressione di un individuo, ma della cultura di un'epoca. Per
questa strada si possono individuare quelle traduzioni che hanno radici profonde nella
cultura di un'epoca, che rispondono ad esigenze autentiche. In Italia la traduzione
dell'Iliade di Vincenzo Monti si radica in una poetica neoclassica, così come la traduzione
dei lirici greci di Quasimodo ha fondamento in una poetica ermetica. Sono testi che fanno
parte a pieno titolo della letteratura italiana, della poesia italiana. Di fronte a queste
traduzioni si ripropongono sempre le obiezioni dei filologi e quelle degli estetici, i filologi
pronti a rimproverare le inesattezze, gli estetici a sostenere che si tratta di opere
autonome, quindi non di traduzioni. Ai filologi va ricordato che nell'ambito letterario
esiste una dimensione altra rispetto a quella dell'esattezza filologica, che c'è una
comprensione diversa che passa per vie intuitive, che esiste una vita delle opere della
quale le traduzioni fanno parte e che su questa base si è creata una tradizione traduttiva
dalla quale non si può prescindere; agli estetici si deve obiettare che l'affermazione della
inevitabile diversità, della autonomia del testo tradotto quando artisticamente riuscito è
astratta, aprioristica, dogmatica. In realtà si deve indagare di volta in volta il senso del
rapporto fra testo di partenza e testo d'arrivo e cercare, nel gioco tra le affinità e le
differenze, la specificità delle singole traduzioni. Come da tempo è stato abbandonato il
criterio di rigida distinzione fra poesia e non poesia, così deve essere abbandonata la
pretesa di distinguere in modo rigido fra traduzione e non-traduzione in ambito artisticoletterario.Troppo spesso si dice di una traduzione che non lo è, semplicemente perché non
corrisponde ad un canone che si è stabilito arbitrariamente. Qui è in agguato il pericolo
dell'anacronismo: non è traduzione quella che non corrisponde ai criteri attuali, che per
altro non sono unitari.
L'ultimo passaggio del nostro discorso verte sulla possibilità del rapporto fra la
poetica dell'autore tradotto e quella del traduttore. L'idea non è certo nuova, Valéry la
formulò nel modo più fascinoso nelle Variation sur les Bucoliques: "Le travail de
traduire, mené avec le souci d'une certaine approximation de la forme, nous fait en
quelque manière chercher à mettre nos pas SUl' les vestiges de ceux de l'auteur; et non
pas façonner un texte à partir d'un autre; mais de celui-ci, remonter à l'époque virtuelle de
sa fonnation, à la phase où l'état de l'esprit est celui d'un orchestre dont les instruments
s'éveillent, s'appellent les uns les autres, et se demandent leur accord avant de former leur
concert. C'est de ce vivant état imaginaire qu'il faudrait redescendre, vers sa résolution en
oeuvre de langage autre que l'originel"7. Si tratta di dimostrare l'attualità di questa
8
proposta e la sua applicabilità generale. Dopo la crisi dello strutturalismo e della
semiotica, dopo la crisi dello scientismo in ambito letterario e quindi l'abbandono
dell'illusione di una teoria formalistica della traduzione, è evidente che si porta una
rinnovata attenzione al modo in cui s'iscrive la soggettività nei processi artistici e che la
poetica, nella accezione che abbiamo delineata, è uno strumento privilegiato di questa
riscoperta, per altro anche la poetica nell'accezione di Meschonnic svolge questa
funzione. Ma, in particolare, occorre mettere in rilievo come la centralità assegnata alla
poetica nell'ambito traduttivo consenta di cogliere il rapporto fra testo di partenza e testo
d'arrivo nel modo meno statico, mettendo in contatto due processualità più che due
risultati fermi.
Naturalmente questo discorso ha una valenza duplice: 1) la traduzione letteraria nasce dal
rapporto fra due poetiche; 2) l'analisi della traduzione può essere condotta sulla base di
questo rapporto. Nell'ambito della cultura contemporanea questa prospettiva si trova in
sintonia con fenomenologia, ermeneutica, decostruzionismo; resta da chiedersi se
applicarla al passato sia un anacronismo. Per chi è convinto che ogni artista è portatore di
una poetica esplicita o implicita che sia, la risposta è ovvia, anzi è proprio tenendo conto
delle poetiche che si possono analizzare le traduzioni di epoche diverse dalla nostra,
sottraendosi all'anacronismo. A me sembra che sulla poetica del tradurre l'ultimo Berman,
quello del libro postumo su John Donne: Pour une critique des traductions: John Donne
(Gallimard, 1995) abbia preso una posizione che tende a riconoscerne l'importanza. Se in
La traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain8 Berman indicava la necessità per il
traduttore di sacrificare deliberatamente "sa poétique propre", nel libro postumo su John
Donne, segnalando la necessità di studiare la posizione traduttiva del traduttore, compie
di fatto una riabilitazione della sua poetica. È impressionante la consonanza fra la
definizione di poetica data da Anceschi, che abbiamo citata, e questo passo di Berman:
"Tout traducteur entretient un rapport spécifique avec sa propre activité, c'est-à-dire à une
certaine conception ou perception du traduire, de son sens, de ses finalités, de ses formes
et modes. Conception et perception qui ne sont pas purement personnelles, puisque le
traducteur est effectivement marqué par tout un discours historique, social, littéraire,
idéologique sur la traduction (et l'écriture littéraire)"9. E ancora qualcosa di molto simile
alla distinzione fra poetica esplicita e poetica implicita affiora in questo passaggio: "Une
première analyse se fonde à la fois sur la lecture de la traduction ou des traductions, qui
fait apparaître radiographiquement le projet, et sur tout ce que le traducteur a pu dire en
des textes (préfaccs, postfaces, articles, entretiens, portant ou non sur la traduction: tout
ici nous est indice) quand il y en a. En fait, il y a toujours, quand on cherche bien, parole
du traducteur, parfois à interpréter, sur la traduction. Le silence total est très rare"10.
Altrettanto importante è che in questo testo Berman reciti una palinodia nei confronti
delle accuse mosse al tipo di traduzione praticato a Roma: "En écrivant que la romanité
se défìnit en grande partie par un traductionisme conquérant et sans scrupules [ ... ], j'ai
nettement péché par ignorance et préjugé"ll. A me sembra che questa ritrattazione sia
legata ad una maggiore attenzione prestata alle poetiche del tradurre. Con molta
precisione Berman afferma che "La traduction occidentale est traditionalisante, translative
et augmentative", riferendosi esplicitamente "au résau des mots latins fondamentaux de
traditio, translatio, augmentatio, etc."12.
Adesso è possibile una conclusione. Nell'ambito della traduzione letteraria e
artistica non ha senso una poetica normativa; se la traduzione deve costituirsi come testo,
il traduttore non può seguire regole prefissate, ma deve costruirsele attraverso la sua
prassi traduttiva; anche la opzione per la letteralità che apparentemente è una scelta
oggettiva, è in realtà motivata da una poetica e di fatti acquista un senso solo quando
9
venga definita in rapporto a precise finalità e intenzioni. Vedere la traduzione come
rapporto fra due poetiche non significa dare spazio all'arbitrio traduttivo, ma cercare di
valutare i singoli esiti traduttivi non sulla base di posizioni aprioristiche, ma cogliendone
di volta in volta le motivazioni più interne e profonde e su questa base registrare anche, in
modo non impressionistico, i fallimenti traduttivi.
Questo a me sembra l'esito (attualmente) più accettabile del dibattito sulla
traduzione letteraria, esito ovviamente non definitivo, ma probabilmente gli esiti definitivi
in questo ambito non si danno, come non si danno in generale nell'estetica e nell'arte.
Imparare a convivere con la provvisorietà non è una rinuncia, ma una conquista, significa
infatti riconoscere alla traduzione una partecipazione profonda e una funzione nell'ambito
della vita dell'arte e aprirsi ad una comprensione non pregiudicata di questa attività, la cui
centralità è fortemente presente nella coscienza culturale del nostro tempo tanto da
configurarsi come un punto di riferimento per il riassestamento in atto dei saperi. La
riflessione sulla tradizione traduttiva è un compito importante della cultura
contemporanea, scoprire come l'altro è stato ascoltato, come è risuonata la voce degli
antichi nel corso dei secoli è importante anche per capire l'altro del nostro tempo, la
distanza temporale e quella spaziale sono gli assi lungo i quali la differenza si inserisce
nel processo traduttivo. L'ascolto dell'altro ci sembra diventare più duttile, più euristico,
più creativo, quando avvenga in un rapporto di poetiche.
Note
1 Emilio Mattioli, Introduzione al problema del tradurre, in "il Verri", n. 19, 1965, pp. 107-128; il passo a
cui si fa riferimento è a p. 128. Questo testo è anche stato pubblicato nel volume miscellaneo Arte, Critica,
Filosofìa a cura di L. Anceschi, Bologna, Patron, 1965, pp. 189-214 e in E. Mattioli, Studi di poetica e
retorica, Modena, Mucchi, 1983, pp. 135-163.
2 Lubomír Dolezel, Poetica occidentale. Tradizione e progresso, a cura di A. Conte, Torino, Einaudi, 1990,
p. 4.
3 Luciano Anceschi, Progetto per una sistematica del 'arte, Modena, Mucchi editore, 1983, p. 46. La prima
edizione è del 1962.
4 La famosa interrogazione retorica appare al par. 560 dell'Aesthetica.
5 Peter Szondi, L'ora che non ha più sorelle. Studi su Paul Celan, trad. it. di G.A. Schiaffino, Ferra, Gallio,
1990, p. 92. Il saggio di Szondi sulla Poetica della costanza è stato pubblicato anche su "Testo a fronte", n.
2, 1990, pp. 5-31 nella trad. di A. Larcati.
6 Friedmar Apel, Il movimento del linguaggio, trad. di R, Novello, Milano, Marcos y Marcos, 1997, p. 266.
7 P. Valéry, Oeuvres, Bibliothèque de la Pléiade, Pari s, 1957, val. I, pp. 215-216. 8 AA.VV., Les tours
de Babel, Mauvezin, Trans-Europ-Repress, 1985, p. 58.
9 A. Berman, Pour une critique des traductions: John Donne, Gallimard, Paris, 1995, p.74.
10 Op, cit., p. 83.
11 Op. cit., p. 18, nota 5.
12 Op. cit., p. 18.
10
Appendice
Poeti antichi e moderni tradotti dai lirici nuovi
Un esempio illuminante del rapporto fra poetica e traduzione è dato dall’attività dei lirici
nuovi, antologizzata in un volume curato da Luciano Anceschi e Domenico Porzio per la
casa editrice Il Balcone di Milano nel 1945. Ora l’antologia raccoglie non solo traduzioni,
ma anche dichiarazioni dei poeti traduttori.
Accennerò a due casi. Il primo è famosissimo: i Lirici Greci di Salvatore Quasimodo che,
secondo una parte della critica, sono il suo capolavoro. Su questa traduzione esiste una
ricca documentazione rintracciabile nell’edizione esemplare che ne ha dato Niva
Lorenzini presso Mondadori nel 1985: vi sono anche raccolte le introduzioni di
Anceschi, che fu molto vicino al poeta in questa impresa. Quasimodo ne ha dato una
motivazione altissima: “Fu il desiderio d’una lettura diretta dei testi di alcuni poeti
dell’antichità a spingemi, un giorno, a tradurre per me le pagine più amate dei poeti della
Grecia. Il greco ritornava ad essere ancora un’avventura, un destino a cui i poeti non
potevano sottrarsi. Le parole dei cantori che abitarono le isole di fronte alla mia terra
ritornarono lentamente nella mia voce, come contenuti eterni dimenticati dai filologi per
amore di una esattezza che non è mai poetica e qualche volta neppure linguistica. E la
prima fu Saffo, non popolaresca come alcuni l’avevano ridotta, ma l’isolana a cui Omero
aveva dato la sua cadenza più alta, il grido più disperato della sua umana e provvisoria
giornata. Non aggiunsi mai un aggettivo negli spazi bianchi dei suoi frammenti (si sa
quanto peso abbia un aggettivo nel verso di un poeta), mai una pausa che non fosse nella
sua segreta sillabazione” (Poeti antichi e moderni tradotti dai lirici nuovi, il Balcone,
Milano, 1945, p. 241).
Leggendo questa pagina di Quasimodo ci si accorge immediatamente che la traduzione di
poesia è un fenomeno complesso, che nasce da ragioni che coinvolgono il senso della
vita. Oggi, dopo la crisi dei formalismi, ricuperiamo in pieno il significato di questi
discorsi e possiamo capire il significato della poetica e della poesia per la traduzione.
Il secondo caso è meno noto, ma meritevole di un ricupero. Si tratta di Beniamino
Dal Fabbro che appare nell’antologia di traduzioni dei lirici nuovi appena citata. Qui mi
rifarò a un volume di Dal Fabbro, La sera armoniosa, pubblicato da Rosa e Ballo,
Milano,1944: in questo volume compaiono i 23 paragrafi Del tradurre dei quali
sottolineerò i punti di contatto con le teorie più attuali. Il II paragrafo recita: “Italiani e
latini, come latini e greci, e scambievolmente, i poeti classici con signorile larghezza
s’imprestarono immagini dall’una all’altra lingua e le ricantarono fatte proprie al punto da
renderle momenti di nuova poesia. Non altra si ha da intendere, con l’aggiunta della
coscienza critica, una sempre attuale e futura necessità di tradurre i poeti stranieri nella
nostra lingua e secondo i modi della poetica di ciascuno.” Coscienza critica e poetica sono
i presupposti della teoria attuale della traduzione. Nel III paragrafo Dal Fabbro afferma:
“Una disposizione a tradurre si riconosce autentica quando sia amore di esprimere se
stessi, , naturale amore di se stessi e della letteratura cui si appartiene, piuttosto che amore
ai modelli di un’altra lingua, per grandi che siano.” La polemica contro il luogo comune
della trasparenza del traduttore che nega se stesso è sviluppata oggi da Meschonnic a
Venuti, per la consapevolezza che la traduzione è testo, scrittura con valenza autonoma.
Nel paragrafo V si nega la impossibilità di tradurre: “Dire di un poeta che non si possa
tradurlo equivale a confessare l’incapacità propria, o d’altri, o l’inesistenza di chi sappia
con mano ferma e leggera penetrarne la selva espressiva, bruciarla del proprio fuoco, e
dalle sue ceneri, e da se stesso, per nuovo miracolo, resuscitarla.” Il pregiudizio della
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intraducibilità è stato smantellato nella cultura traduttologica contemporanea. Al
paragrafo VII è sviluppata l’idea che si traduce l’opera, non la singola parola: “La
conoscenza del testo, meglio che minuta, ha da essere plenaria, per quanto riguarda
l’architettura, il tono e lo stile. Gli altri sono modesti problemi di tecnica, e si risolvono
via via che l’esecuzione procede.” Al paragrafo VIII Dal Fabbro polemizza con i
sostenitori della traduzione oggettiva: ”Coloro che sostengono la necessità di una
traduzione oggettiva sembrano ignorare che un’opera di poesia straniera, oltre che un
documento di lingua, è soprattutto una prova d’arte; altrimenti, come credono che un
impersonale meccanismo di sillabe e di costrutti sia pronto a rigenerare quella che fu
l’unica e creata armonia d’una singolarissima voce?” La dimensione della soggettività è
costitutiva della poesia e dell’arte, la sua negazione è stata un misfatto Al paragrafo IX si
afferma: “I calchi, ossia le traduzioni che a calchi orgogliosamente si paragonano,
quand’anche di buona fattura non rendono che un mediocre servigio informativo.” Viene
da pensare alla polemica di Meschonnic contro il calco praticato nella traduzione biblica
da Chouraqui. Importante al paragrafo XII l’individuazione delle traduzioni che non
durano: “Le traduzioni di gusto, ossia quelle che tentano di adeguarsi, per mezzo d’un
diligente spoglio di vocaboli e di costrutti in uso, all’aura stilistica di un certo periodo
letterario condivisa da un gruppo di poeti tra di loro contemporanei, essendo prive di
personali compromissioni rischiano di non superare l’anno, subito cancellate dal volubile
soffio della moda.” Meschonnic ha sostenuto che le traduzioni che invecchiano sono le
cattive traduzioni, quelle che non sono testi. Il paragrafo XXIII sostiene in sostanza
l’affinità fra tradurre e comporre poesia: “Il tradurre poesia, come problema
d’espressione, non si distingue dall’originalmente comporla che per il diverso oggetto: del
poeta, in lui nacque, e da lui fu recato alla luce della forma; del traduttore, è l’opera del
poeta, portata nel proprio dominio ed esaltata salendo sulla propria torre.” Sono molti i
grandi poeti moderni che hanno pensato alla poesia come traduzione a partire da
Baudelaire. Fra di questi vi è anche Paul Valéry di cui Dal Fabbro ha tradotto Charmes,
Incanti (Bompiani, Milano, 1942). Valéry, sia ricordato di passaggio, è anche autore di
quelle Variations sur les Bucoliques che sono uno dei testi più importanti di poetica del
tradurre. Di Valéry leggiamo nella traduzione di Dal Fabbro l’inizio del Cimitero marino
che è uno dei momenti più alti della poesia moderna, un momento classico della
modernità:
Tranquillo tetto dove le colombe
camminano, tra i pini
palpiti, tra le tombe.
Giusto il meriggio, un mare
gli compone di fiamma.
il mare eterno e sempre a sé rinato:
dopo un pensiero, o premio
posar lo sguardo alla divina calma.
E’una poesia quella di Valéry sulla quale si è accanita la smania interpretativa al di là del
ragionevole, è stato messo in dubbio anche il significato di tetto nel primo verso che è
chiaramente invece metafora del mare, Dal Fabbro ha scritto nella sua introduzione: “…di
fronte a una lettura pericolosamente ambigua nei significati e nei traslati, non vale tanto
accanirsi sulla lettera quanto assecondare i movimenti metrici e strofici sino a che, per via
di un singolare artificio retorico, le strofe, precisamente e rigorosamente sigillate in se
stesse, s’innestano da ultimo per una lirica perorazione. A questo punto massimo del
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Cimitière marin, e di tutto il libro di “Charmes”, i molti enigmi testuali sembra che si
sciolgano a un tratto per annullarsi in ‘un un pensiero singolarmente compiuto’, e
interamente trasferito nel canto” (Incanti, ed. cit., pp.20-21).
Dietro questa traduzione sta questa consapevolezza.
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Marco Cipolloni
Effetti speciali linguistici: lo spagnolo intermittente
(tra logica del racconto e cultura della sonorizzazione e del
doppiaggio)
1. Gli effetti speciali timidi
Il cinema muto era un cinema linguisticamente universale. Quello sonoro ha dovuto
inventarsi modi per ridiventarlo. In questi ultimi anni, gli studi di e su questi modi, cioè
sui più vari aspetti del doppiaggio e del doppiato, vale a dire gli aspetti linguistici del
sonoro dei film, sono diventati una scatola sempre più grande, includendo un crescente
numero di sottogeneri (lingua del doppiaggio; doppiaggio e sottotitoli; traduzione e
doppiaggio; storia e organizzazione del settore nei diversi paesi; importanza del fenomeno
come modalità di relazione tra industrie cinematografiche e mercati diversi, ecc.). Ciò è
avvenuto, in buona misura, saldando insieme due diversi filoni di letteratura: da un lato
gli studi sulla lingua di scena e sul cosiddetto parlato-recitato (entrambi ridefiniti in
Italia, all’inizio degli anni Ottanta, da studi pubblicati nella collana La Parola Letteraria
dell’editore Zanichelli, come Maria Luisa Altieri Biagi, La lingua in scena, e Giovanni
Nencioni, Di scritto e di parlato: discorsi linguistici) e, dall’altro gli studi sulla storia e la
tecnica del doppiaggio, coltivati da appassionati e promossi sia da associazioni di
professionisti come la AIDAC (Associazione Italiana Dialoghisti e Adattatori
Cinematografici), sia da manifestazioni culturali con giurie e premi come “Voci
nell’ombra” e “Le voci di Cartoonia”. Il risultati, in gran parte raccolti dagli atti di una
serie di convegni promossi dalle Scuole Superiori di Lingue Moderne per Interpreti e
Traduttori di Forlì e di Trieste, sono stati una serie di brillanti case studies e
relativamente poche raccolte di studi di un solo autore (per l’ambito dell’asse traduttivo
spagnolo-italiano si possono ricordare il mio Lingue di celluloide: la traduzione del
cinema spagnolo in Italia; la Spagna e lo spagnolo nel cinema italiano e nel film
multilingue, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1997, e, più di recente, il volume di Sandra
Melloni, Tra immagine e parola: costruzione del racconto e varietà discorsive nella
Fiction cinetelevisiva ispanica, Salerno-Milano, Oèdipus, 2004, entrambi volti a
ricostruire un pluriennale percorso di ricerca). In Spagna l’orientamento prevalente ha
riguardato invece la storia del settore doppiaggio e della sua ideologia, con i lavori di
specialisti come Alejandro Avila (autore di diversi volumi: El doblaje, Madrid, Cátedra,
1997; La historia del doblaje cinematográfico, Barcelona, CIMS, 1997, La censura del
doblaje cinematográfico en España, Barcelona, CIMS, 1997), Rosa Agost (molto attenta
anche alle questioni del doppiaggio verso il catalano e del doppiaggio per la TV) e Ana
Ballester Casado. Un bilancio di questa stagione è contenuto dalla raccolta curata da
Miguel Duro, La traducción para el doblaje y la subtitulación, Madrid, Cátedra, 2001.
Solo in anni recenti si è cercato un approccio più teorico, in genere a partire da
bibliografia di lingua inglese, sia grazie alla collana di studi linguistici della scuola di
traduzione di Granada e della editorial Comares (Ana Ballester Casado, Traducción y
nacionalismo: la recepción del cine americano en España a través del doblaje, Granada,
Comares, 2001), sia con brevi interventi ospitati dalla rivista “Lecturas:Imágenes”,
pubblicata da Mirabel (p.e. Karen Joan Duncan Barlow, Equivalencia, doblaje,
subtitulado, 4, 2003, pp. 427-337).
14
Tanto in Italia come in Spagna, sia lo studio del doppiaggio che quello del
doppiato sono dunque una questione linguistica e tecnica, ma anche storica e di relazioni
culturali. Proprio per questo uno dei temi di ricerca che mi hanno più interessato è stato
l’analisi di come le convenzioni del doppiaggio italiano e in minore misura di quello
spagnolo hanno influenzato il modo di “tradurre” e soprattutto di “rappresentare” (cioè di
mettere e/o rimettere in scena) la convivenza di e tra più lingue e di e tra più varietà di
una stessa lingua (variamente motivate e/o connotate) dentro uno stesso film.
Per ragioni sia tematiche (raccontare un mondo linguistico ed extralinguistico
sempre più articolato al suo interno e sempre più internazionale, sovranazionale e
interculturale, nella retorica e nei fatti), sia economiche (le coproduzioni e/o il
vantaggioso costo delle locations fuori dal primo mondo), sia politiche (il conclamato
plurilinguismo dello “Estado español”, con tanto di doppie versioni e film doppiati da e
verso il castigliano per il mercato interno), sia di prassi e di teoria linguistica (il
progressivo mutamento dell’atteggiamento anche istituzionale nei confronti del
castigliano non standard, con il conseguente sdoganamento della valorizzazione narrativa
e drammaturgica delle diverse varietà della lingua spagnola), tale compresenza di lingue
e di accenti entro quel particolare spazio convenzionale di racconto che è un film
caratterizza ormai una porzione significativa e significativamente crescente, sia per
quantità che per qualità, della produzione cinematografica contemporanea, facendo
emergere aspetti, effetti e abitudini che ‘da sempre’ orientano il nostro rapporto con il
parlato e il sonoro del film.
Schematizzando un po’, la questione parrebbe avere due aspetti e due livelli: uno
è per così dire più documentaristico, nel senso che plurilinguismo e varietà linguistica
mirano a riprodurre dentro il film (anche se non necessariamente in termini mimetici) un
aspetto ritenuto rilevante, poco importa se vero o presunto, riconosciuto o attribuito, della
realtà rappresentata; in questo caso i tratti di differenziazione linguistica e intralinguistica
sono utilizzati, indicati e accettati dallo spettatore come marcatori convenzionali di
realismo (dicono allo spettatore che il film è credibile e che quindi tende a “hablar
variado” perché ci parla di un mondo vario che parla in modo vario); l’altro livello risulta,
a prima vista, più creativo, nel senso che usa il plurilinguismo e la varietà linguistica in
modo meno innocente e più mediato, come un effetto speciale e come una risorsa di
discorso e di stile, frutto di un consapevole (e talvolta esibito) artificio.
In realtà, come capita spesso con questo genere di classificazioni, i tipi puri non
esistono e i due livelli si presentano quasi sempre mescolati in un continuum di
compromessi e sfumature tra documentario vero, marcatore convenzionale di realismo e
stilizzazione creativamente caricaturale e/o antirealista.
Nei casi che analizzeremo, vedremo come sulla base di una motivazione
narrativa credibile, ma in complesso debole e in fondo quasi pretestuosa, si innesta un
percorso di valorizzazione narrativa del plurilinguismo e della varietà linguistica o di
registro introdotto, trasformandolo in una risorsa, da chi riformula il testo per dialogare
con la nostra attenzione. Nei film multilingue e ancor più in quello mistilingue (cioè nel
prodotto in cui due o più lingue si alternano in continuazione), i cambi di lingua
diventano così dei segnali stradali, aggiungendo o addirittura sostituendo alla funzione
referenziale dichiarata e motivata all’inizio, nuove funzioni (spesso di natura diegetica),
legate all’economia interna al film e alla sua efficacia comunicativa. Rendere (cioè
ricostituire e restituire) il multilinguismo e in particolare le situazioni di mistilinguismo
equivale a nascondere e valorizzare, ad un tempo, alcune delle caratteristiche che i film
poliglotti evidenziano.
15
Il problema della resa, in questi casi, non dipende soltanto dal materiale
linguistico, ma anche e forse soprattutto dalla sua funzione (cioè dalla nostra capacità di
valutare, interpretare, riformulare e rendere correttamente percepibile al destinatario la
prevalente intenzione di chi parla).
In complesso, la dimensione documentaristica e ricreativa (nel senso di
riproduttiva) è, almeno in apparenza, più frequente e frequentata (e più frequentemente
evocata) di quella creativa e ricreativa (nel senso di ludica), che, salvo nelle parodie e
nelle macchiette comiche (che però deformano iper-realisticamente una realtà di primo
grado o una convenzione e un socioletto che si suppone siano conosciuti e facilmente
riconoscibili), viene di solito più nascosta che esibita. Questa seconda opzione non gode
infatti di buona stampa: viene considerata ricercata, sofisticata, intellettuale, e dunque
commercialmente pericolosa e poco propizia alla realizzazione di una confortevole e non
spiazzante illusione scenica. C’è insomma il rischio che lo spettatore si senta manipolato
e soprattutto che non si senta linguisticamente a suo agio. Persino nei generi fantastico e
fantascientifico, i singoli film tendono spesso ad affrontare in termini di realismo e
addirittura di esplicito giustificazionismo il problema narrativo della credibilità linguistica
(per esempio dicendoci che un personaggio parla una certa lingua o la parla con un certo
accento perché “è appena arrivato da...”, “ è cresciuto a....”, “ha vissuto per molti anni
in...”, etc.) , sottovalutando così la portata liberatoria del patto diegetico di messa in
parentesi della realtà che ogni spettatore cinematografico implicitamente è disposto a
sottoscrivere (dimostrandosi molto più incline di quanto di solito non si creda ad accettare
che un personaggio “parla così perché parla così, punto e basta”). In virtù di questa
superstizione-tradizione, al cinema la lingua e i materiali linguistici, specie se vari, sono
in prevalenza rubricati nel novero dei ‘recursos realistas’ o quantomeno ‘naturalistas’ e, di
conseguenza, gli effetti speciali linguistici, a differenza di quelli non linguistici, pensati
per far rumore e farsi notare, sono di solito molto discreti e, anzi, sono davvero riusciti
solo se non si vedono troppo. L’artificio viene usato per nascondere l’artificio e far
sembrare tutto non tanto naturale, quanto ‘facile, facile’ (il doppiaggio stesso, tutto intero,
è del resto il migliore esempio di questa strategia). Come ad un dentista, anche ad un
traduttore-dialoghista-adattatore non chiediamo di essere originali, ma affidabili ed
efficaci, di farci stare bene, con un lavoro che non si noti. L’originalità, dei traduttoridialoghisti-adattatori come dei dentisti, ci sembra fuori luogo, deontologicamente
discutibile e addirittura un po’ inquietante (il mito della fedeltà traduttiva esorcizza
l’incubo del dentista pazzo). Si tratta però di un’illusione del senso comune, perché il
lavoro di chi ‘cura’ le versioni italiane dei film è intimamente creativo e ricreativo; è
letteralmente fatto di protesi e di artificio. La vera richiesta è di essere originali in modo
discreto, di guidare e di orientare la nostra ricezione, masticazione e digestione in modo
che sia difficile accorgersene.
Questi ‘effetti speciali timidi’, paiono schiacciati dalle clausole più
‘commerciali’ del patto diegetico, ma sono essenziali al suo funzionamento. Rispetto alla
casistica che oggi ci interessa, sono chiamati, come l’Arlecchino di Goldoni, a fare i salti
mortali per servire contemporaneamente due padroni, cioè per rispettare e valorizzare la
varietà linguistica delle versioni originali, rendendola al contempo credibile e funzionale,
percepibile e leggera, visibile e trasparente, presente ma non ingombrante sullo schermo.
Ne deriva, come vedremo, un interessante ventaglio di soluzioni creative, elaborate per
farsi notare senza dar nell’occhio e dar corpo a mezze voci.
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2. Trattamento e traduzione: come riprodurre multilinguismo e mistilinguismo?
Il tema del trattamento in sede di doppiaggio del plurilinguismo ispanico e della varietà
linguistica dello spagnolo, è complesso perché deve ricollocare e risolvere il problema
della resa traduttiva nel contesto di un mercato industriale di intrattenimento culturale,
destinato, nel caso italiano, ad un pubblico forse non più popolare, ma di fatto ancora
nazionale e monolingue, e nei casi ispanici (cioè dei mercati latinoamericani e dei
segmenti bilingui di quello spagnolo) ad un pubblico riarticolato, che, a torto o a ragione,
si percepisce e si rappresenta ormai come parte di un mercato plurinazionale,
multiculturale e, almeno all’interno dello ‘Stato spagnolo’, anche come un pubblico
plurilingue.
Per affrontare con qualche pretesa di sistematicità ed efficacia un panorama
tanto vario, anche dal punto di vista dei registri (con un peso crescente dei gerghi
marginali, professionali e giovanili) occorre prima di tutto sostituire la nozione di
‘traduzione’ con quella più ampia e graduata di ‘trattamento’ (spesso traduttivo, ma non
necessariamente e non solo traduttivo). In questo caso, ancor più che in altri, il saper fare
del doppiaggio è quasi inseparabile dalle convenzioni e dagli equilibri culturali del
linguaggio cinematografico. Funziona cioè come tecnica dell’esperienza e come
sensibilità artigianale più che come competenza in senso stretto traduttiva e
traduttologica.
Solo prendendo atto di questa intenzione di ‘resa’ e di ‘trattamento traduttivo’
più che di pura ‘traduzione’ interlinguistica possiamo interpretare, comprendere e valutare
correttamente la relativa originalità e la reale portata della scelta di far ricorso a strategie
di intermittenza linguistica, che si rivelano particolarmente redditizie, efficaci ed eleganti
se e quando si tratta di orchestrare il gioco tra due lingue affini ma ben distinguibili come
lo spagnolo e l’italiano. ‘Orchestrare il gioco’ significa, fuor di metafora, redistribuire i
carichi di lavoro tra le lingue coinvolte e ridefinire in termini funzionali prima e più che
mimetici gli equilibri del loro rapporto.
Anche se spesso viene affrontata, gestita e risolta con strategie e soluzioni
mutuate dal doppiaggio, la questione del trattamento del plurilinguismo non riguarda
soltanto i film doppiati, ma rientra tra le opzioni narrative e linguistiche di qualunque
produzione.
Chiunque decida di costruire un film multilingue (con situazioni di
mistilinguismo e /o personaggi poliglotti) deve affrontare, per così dire in proprio, la
problematica di gestire e trattare la convivenza sullo schermo di materiali linguistici
eterogenei. Da questo particolare punto di vista, come vedremo, non è possibile
distinguere in modo netto il ‘trattamento’ della produzione spagnola e ispanoamericana da
quello dei film di altra origine, in cui lo spagnolo o una sua varietà compaiano come
lingua ‘altra’ e di solito ‘non principale’. I problemi sono gli stessi e le soluzioni, anche se
diversamente graduate, finiscono per assomigliarsi molto.
Nel caso del film multilingue, mistilingue e poliglotta l’origine e la lingua del
paese di produzione sono di solito molto importanti in termini di storia e prospettiva, ma
non necessariamente in termini di lingua (la cultura di provenienza, al cinema, tende ad
identificarsi con lo sguardo e il punto di ripresa, più che con le parole e le cose riprese ed
è anche per questo che, indipendentemente dall’ambientazione, possiamo a volte
riconoscere un film francese da un film americano o dire che un certo film è bello o
brutto perché “sembra un film americano”, ecc.).
Sul nostro mercato, la casistica ‘secondaria’ (lo spagnolo e le sue varianti come
lingua altra e non principale, legata all’ambientazione o a singoli personaggi e situazioni)
riguarda principalmente film italiani la cui azione si svolge, in tutto o in parte, in paesi di
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lingua spagnola (come Puerto Escondido e Amnesia di Salvatores, come Tre mogli di
Marco Risi, o come il recente ‘film di natale’ Olé) oppure film provenienti dagli USA
(come Vanilla Sky, Our X-mas, The Mexican, Ho solo fatto a pezzi mia moglie, Le donne
vere hanno le curve, Tre sepolture, Babel, ecc.), sia per l’alto numero di produzioni
‘americane’ che vengono distribuite nel nostro paese, sia per l’oggettiva importanza che
la presenza della lingua spagnola sta assumendo nel recente cinema americano, come
ovvio riflesso, tematico e linguistico, della presenza su quel mercato di una comunità
ispanica sempre più numerosa e influente e di uno star system internazionale che
comprende ormai una buona pattuglia non solo di chicanos, ma anche di immigrati
spagnoli (come Banderas, Bardem, la Cruz, Trueba e Amenábar). In ogni caso, specie
negli ultimi anni, è possibile trovare sul mercato italiano anche numerosi esempi di
produzioni non ispaniche e non statunitensi in cui lo spagnolo compare come lingua non
principale (troviamo infatti produzioni tedesche come Go For Gold e Tropickanita,
francesi come Salsa e L’appartamento spagnolo , orientali come Happy Togheter e
inglesi come Tango Lessons e diversi film di Loach: Ladybird, Ladybird, Terra e libertà,
La canzone di Carla, Il pane e le rose e l’episodio “La lettera” di 11 settembre ).
Il fatto che il fenomeno venga sempre più spesso considerato degno di attenzione
e trattamento in sede di doppiaggio (in Salsa distinguendo con cura tra l’accento vero
dei cubani di Parigi e quello solo simulato del giovane protagonista) è la riprova del fatto
che alla oggettiva e crescente visibilità quantitativa del multilinguismo e del
multilinguismo (e dello spagnolo nel panorama della diglossia e nel repertorio del
mistilinguismo — il cosiddetto ‘Spanglish’) vengono ormai riconosciuti una certa
importanza qualitativa e un certo valore (anche economicamente apprezzabile) in termini
di significato.
Quale che sia il reale peso delle lingue altre e dei relativi accenti nell’economia
della narrazione, è abbastanza difficile che nel doppiaggio tutto ciò venga oggi
deliberatamente ignorato o ridotto a semplice caricatura, più o meno maccheronica (come
spesso accadeva nel secolo scorso, con casi sconcertanti come quello di L’amante
bilingue di Aranda o quello, davvero storico, de Il disprezzo di Godard). Per misurare il
cambiamento di sensibilità basta confrontare il trattamento dell’accento nel doppiaggio di
tre film come L’amante bilingue, Profundo Carmesí e il citato Salsa, caratterizzati da
una situazione narrativa analoga (un seduttore che, per migliorare il proprio sex-appeal
decide di adeguarsi ai canoni dell’esotismo di volta in volta dominante, fingendosi
andaluso in Catalogna, spagnolo peninsulare in Messico e cubano a Parigi). Nel primo
caso il divario catalano/andaluso viene totalmente ignorato, nel secondo lo scarto tra
spagnolo messicano e spagnolo peninsulare viene restituito in parte su altri piani, mentre
nell’ultimo caso il tutto è restituito con un dosaggio abbastanza credibile di accenti e
pronunce (con tanto di lezioni al protagonista sull’assimilazione di b e v).
Sia in Italia che in Spagna, questo nuovo atteggiamento di attenzione porta oggi
a rispettare, censire e riprodurre anche molto plurilinguismo del tutto incidentale e
occasionale (privo o quasi privo di evidenti giustificazioni narrative). Sul segmentato
mercato interno spagnolo, dove
il plurilinguismo è viceversa un tema
propagandisticamente delicato, che solleva questioni di atteggiamento e di ‘political
correctness’, ciò è dovuto ad una sorta di feticismo linguistico e dunque si inserisce in una
cornice che orienta e limita le possibilità di trattamento dei doppiatori, in nome di uno
scrupolo ideologicamente comprensibile (ma commercialmente e artisticamente
mortificante) nei confronti delle diverse integrità linguistiche, intese come norma. Il
risultato è spesso quello di un gioco linguistico non più appiattito, ma trattato un po’ a
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compartimenti stagni e in definitiva poco felice dal punto di vista dell’equilibrio estetico,
della funzionalità narrativa e talvolta persino della comprensibilità.
In Italia, dove multilinguismo, mistilinguismo e poliglossia sono temi neutri e il
settore del doppiaggio ha maggiore peso professionale, i margini di ‘trattamento’ sono più
ampi e i limiti alla ‘creatività’ dei doppiatori sono, almeno per questi aspetti,
sostanzialmente autoimposti e autoregolati. Pur nel rispetto delle esigenze commerciali
della committenza, la sperimentazione di soluzioni creative è più libera e varia (le
soluzioni più comuni ed economiche prevedono una opzione tra l’uso dei sottotitoli e il
ricorso a una pronuncia italiana che simula diversi gradi di accento straniero, ma in altri
contesti, specie comici e parodici, si può arrivare facilmente alla deformazione
intenzionale e alla caricatura linguistico-culturale o addirittura al trasferimento totale o
parziale degli scarti di lingua e registro sulla valorizzazione narrativa e non mimetica di
altri marcatori linguistici, che chiamano in causa, per esempio, la varietà dei dialetti e dei
gerghi italiani1, oppure giocano con gli stereotipi dell’esotismo e la cultura
cinematografica e radiotelevisiva dello spettatore2).
Oltre agli orizzonti di aspettativa legati ad un genere (il comico e il cinema di
animazione sono più aperti alle deformazioni, il cinema d’autore impone una più
rispettosa riproduzione del plurilinguismo), sembrano avere particolare rilievo per
orientare le scelte di trattamento del pluri e del mistilinguismo:
a) la prenotorietà, che a sua volta rinvia ad elementi eterogenei come
l’importanza e la reputazione del cineasta (Our X-mas è stato trattato bene perché di un
autore noto e difficile come Abel Ferrara), la ‘citazione’ di film precedenti (è il caso di
Bechis, che realizza Figli/Hijos dopo il buon successo di Garage Olimpo, o di Ripstein,
che ripropone in La virgen de la lujuria il tema degli esuli spagnoli e dei loro accenti), il
successo ottenuto da un’eventuale fonte letteraria (è il caso, per esempio, di La
gabbianella e il gatto) o cinematografica (nel caso di Vanilla Sky, il film Abre los hojos
di Alejandro Amenábar e Mateo Gil, di cui Vanilla Sky è un remake), oppure
un’immagine troppo ‘consolidata’ dell’attore da doppiare (è il caso di Stefania Sandrelli
in Hijos/Figli, o quello di Penélope Cruz, ancora in Vanilla Sky);
b) la comprensibilità relativa, cioè la maggiore o minore somiglianza tra
le lingue non principali del film da doppiare e l’italiano; schematizzando molto, possiamo
dire che più tali lingue assomigliano all’italiano (nel caso che ci interessa per essere
entrambe neolatine) e più sono dentro a film in cui c’è un’azione che, almeno in parte, si
spiega da sé, più il ventaglio delle soluzioni praticabili risulta flessibile, ampio e
graduabile.
Le due dimensioni della prenotorietà e della comprensibilità relativa possono
ovviamente interagire, assumendo diverse funzioni e obiettivi, più spesso creativi che di
tipo realistico e mimetico. Nella maggior parte dei casi il problema di resa viene trattato e
risolto (più o meno felicemente) con criteri produttivi e non riproduttivi, mettendo un po’
tra parentesi l’idea-ipotesi di una pura e semplice corrispondenza percettiva con la realtà e
sostituendo tale idea-ipotesi con l’utilizzo e in alcuni casi addirittura con la fondazione di
una qualche convenzione narrativa.
1
Un caso famoso è quello dei negri che parlano napoletano in un classico del cinema demenzialparodico come L’aereo più pazzo del mondo. un altro caso è il romanesco coatto e borgataro dei
giovani ‘casseurs’ della periferia di Parigi in L’odio.
2
La voce di Paolo Villaggio, ma in realtà quella di Fantozzi, in Senti chi parla, o il sempre più
frequente uso di voci note per il doppiaggio dei dialoghi dei cartoni (una volta era così solo per le
canzoni).
19
Siccome la presenza di multilinguismo e mistilinguismo è sempre più frequente,
ma, per ovvie ragioni di fruizione, non deve e non può essere troppo pesante, il fenomeno
occupa di solito una porzione significativa, ma relativamente piccola della superficie
linguistica complessiva del film. Questa cogente brevità ed episodicità delle circostanze e
delle situazioni caratterizzate da un esplicito ed effettivo plurilinguismo realista (con
significative eccezioni d’autore come Filme falado di Manoel de Oliveira o Babel di
Alejandro González Iñárritu) costituisce il vero limite del gioco ed è, di conseguenza, il
motore della sua retorica. Da questa sproporzione tra peso e spazio (il multilinguismo e il
mistilinguismo, sia linguisticamente che culturalmente e simbolicamente pesano molto in
rapporto al poco spazio che occupano) traggono origine sia la densità retorica della
stilizzazione che la necessità di fornire allo spettatore, in forma breve e chiara, efficaci
istruzioni per l’uso. La segnaletica testuale che sposta il multilinguismo e il
mistilinguismo dalla mimesi al segno, indicando allo spettatore limiti e regole della
convenzione entro cui si colloca ogni ‘trattamento’ è un tema di grande interesse. Al pari
di ogni altra, anche questa segnaletica deve essere infatti poco invadente, ma ben visibile
(per esempio può essere giustificata narrativamente, fornendo informazioni attraverso un
dialogo precedente) e, soprattutto, facilmente riconoscibile per buona parte dei destinatari
. Inoltre, poiché non è necessario avere la patente per andare al cinema, deve anche
risultare sufficientemente economica ed allusiva da non mettere troppo in difficoltà gli
spettatori che, per difetto di enciclopedia, non sono in grado di interpretare i segnali di
prenotorietà. Al cinema occorre infatti rispettare anche chi va a vedere Titanic senza
sapere che un transatlantico con quel nome è esistito ed è affondato davvero. All’epoca
dell’uscita del film mi ricordo di avere compatito, con ingiusta supponenza, un gruppo di
ragazze che, attirate in sala dal culto di Di Caprio, avevano manifestato nel finale
disappunto e sorpresa non solo per la brutta fine del personaggio interpretato dal loro
idolo, ma anche per l’affondamento della nave! Meno di un anno dopo, in una parodia
demenziale del film, intitolata How Titanic Missed His Iceberg, un altro Titanic,
provvidenzialmente pilotato da Leslie Nielsen, mancava il suo appuntamento con la storia
e non affondava! L’istinto cinematografico delle giovani spettatrici di Titanic, che io
avevo ingiustamente sottovalutato, si era vendicato. Al cinema Cesare può benissimo
perdere la campagna di Gallia e può farlo proprio per le stesse ragioni che, in questo
ipotetico kolossal potenzialmente multilingue, potrebbero metterlo in grado di capire
senza bisogno di un interprete gli insulti dei Galli vincitori, mentre in catene viene fatto
sfilare davanti a Vercingetorige tra le capanne di Alesia (mettendo in scena un incontroscontro tra nemici, spesso divisi da differenze di lingua e civiltà, tutti i film bellici, dalle
origini del cinema fino alla vicenda del soldato russo adottato dai guerriglieri afgani,
raccontata nel recente L’etoile du soldat, 2006, di Christophe de Ponfilly, costituirebbero
in realtà un ottimo corpus per verificare quanto è convenzionale il nostro atteggiamento
verso il multilinguismo e come tale convenzione è cambiata nel tempo).
Le istruzioni che ci provengono dalla segnaletica testuale sono indispensabili
perché la prenotorietà non fa appello alla globalità del nostro sapere, ma è selettiva. Non
tutte le cose che sappiamo o possiamo sapere sull’argomento del film sono ugualmente
pertinenti. A me capita spesso di saltare sulla sedia indignato quando vedo film a sfondo
storico sulla Spagna o sull’America Latina, ma la stessa cosa capita ai colleghi di storia
romana che vanno a vedere Il gladiatore. Sia io che loro, come è ovvio, abbiamo
pochissimi soprassalti se vediamo un western o un film sulla storia del Giappone o della
matematica. Nella nostra professionale indignazione di specialisti, abbiamo torto pur
avendo ragione. La più evidente prova che il nostro sapere, in questo caso, non è del tutto
pertinente risiede nel fatto che tale sapere è sicuramente condiviso dai consulenti storici e
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scientifici dei film che critichiamo, spesso illustri colleghi, pagati bene e preferiti a noi
perché non solo sanno benissimo tutto quel che sappiamo noi e che suscita la nostra
indignazione, ma sanno anche come e quando farne buon uso (ed è magari anche per
questo che hanno fama, in genere meritata, di saperne anche più di noi, come dimostra il
fatto che la produzione li ha contattati e contrattati al posto nostro).
La chiave del rebus è semplicissima: è il film stesso a segnalarci i limiti del suo
gioco. La parodia di Leslie Nielsen rimanda per esempio al precedente film e non alla
vera storia della navigazione; il che ci ricorda come gli obblighi del cinema non siano nei
confronti della realtà, ma del tipo di scenario e di orizzonte di attesa che ogni film, più o
meno liberamente, si propone e ci impone. Una volta assunti, questi obblighi vanno però
onorati fino in fondo. Se l’orizzonte discorsivo di riferimento è la storia della navigazione
(che, sia detto per inciso, è anch’essa discorso, anche se gode fama di realtà), oppure il
genere catastrofico, allora il Titanic deve affondare; se invece l’orizzonte discorsivo di
riferimento è un altro film, la nave può anche salvarsi, ma, poiché la modalità del
rapporto tra i due film è, in questo caso, parodica, il secondo film è tenuto a fare il verso
al proprio originale, riproducendone in modo riconoscibile battute, inquadrature e
situazioni.
Qualunque sia la convenzione che viene scelta come orizzonte di riferimento, il
film ha il dovere di dichiararla e lo spettatore ha il diritto (non il dovere!) di conoscerla e
riconoscerla. Questo e non altro è alla base del patto diegetico, le cui clausole fanno da
cornice al lavoro dei traduttori, dei doppiatori e di tutti coloro che sono chiamati ad
interpretarle (cioè a rispettarle formalmente e a trasgredirle creativamente).
Date queste premesse è evidente che, specie sul piano linguistico (e del
trattamento traduttivo) l’artificio tende a diventare esplicito e consapevole e ad integrare
la mimesi di primo grado (l’effetto-realtà) con elementi di un mimetismo di secondo
grado, non sempre orientato a rafforzare la coerenza interna del testo e, anzi, portato in
genere a sacrificarla a vantaggio di altre istanze, quali la coesione narrativa, la
compattezza simbolica, l’efficacia comunicativa e la valorizzazione, più o meno
dichiarata, di un piano metafinzionale.
In molti casi questo tipo di strategia di trattamento linguistico e traduttivo ha
molte analogie con l’ambito della traduzione intersemiotica, che al cinema comprende i
remake e gli adattamenti da fonte letteraria e teatrale.
Per questa ragione ho scelto come casi esemplari per la parte applicativa film
non ispanici che, oltre ad essere multilingui e/o mistilingui, rinviano in modo esplicito ad
un precedente testo ispanico: Vanilla Sky, di Cameron Crowe, remake di ¡Abre los
ojos!, di Alejandro Amenábar, La gabbianella e il gatto, di Enzo D’Alò, adattamento di
Historia de una gaviota, di Luis Sepúlveda, e Figli/Hijos, di Marco Bechis, collegabile
sia a Garage Olimpo dello stesso Bechis che a documentari argentini sugli apropiadores
come Botín de guerra , H. historias cotidianas e El despertar de Laura (a sua volta
ispirato da un testo narrativo).
3. Un caso di trattamento traduttivo:Vanilla Sky
Il pubblico italiano, per esempio, sente abbastanza poco l’esigenza di vedere restituita sul
piano linguistico la pur marcata ed evidente ispanità di alcuni dei ‘latinos’ di Hollywood
(Robert Rodríguez, Raul Julia, Benicio del Toro, Edward James Olmos, Jennifer López,
Salma Hayek, Cheech Marin, etc.); tende viceversa a percepire e dunque a voler vedere
restituita in modo percepibile quella di alcuni attori spagnoli, come Antonio Banderas e
Penélope Cruz, giunti a Hollywood in tempi relativamente recenti e dopo avere avuto un
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notevole successo internazionale come spagnoli (grazie ai film, distribuiti in Italia, di
registi come Almodóvar, Trueba e Bigas Luna). Dalla consapevolezza di questo
orizzonte di aspettativa nasce l’esigenza di non cancellare in sede di doppiaggio, ma di
“tradurre”, anche per il pubblico italiano, l’ispanità e/o l’accento ispanico dei loro
personaggi, indipendentemente dal fatto che questi tratti siano o no narrativamente
rilevanti. È, per esempio il caso di Vanilla Sky, dove la spagnola Penélope Cruz e la
Cuban-American Cameron Díaz recitano insieme, nei ruoli complementari della spagnola
Sofía Serrano (erede diretta della Sofía interpretata dalla stessa Cruz in Abre los ojos) e
dell’italiana Giuliana Gianni (erede rietnicizzata dell’ispanica Nuria del film di
Amenábar). Ciò significa che, a differenza di quanto accadeva nel film originale, il
protagonista del remake (Tom Cruise/David) costruisce la propria vita e i propri sogni nel
segno dell’esotismo, lasciandosi attrarre da due straniere, una delle quali ha, tra l’altro, le
stesse origini dell’automobile sportiva (una Ferrari) con cui avviene l’incidente che
sfigura il bel giovane di successo, dando di fatto il via al suo calvario nel labirinto dei
paradisi artificiali. Il trattamento dell’esotismo dei due personaggi di Sofía e di Giuliana è
però molto diverso: la Cruz ispaneggia (come fa spesso) e la Díaz no (anche perché non
lo ha praticamente mai fatto, offrendo quasi sempre un’immagine archetipicamente
americana di sé, come prima di lei altre celebri latinas come Rita Hayworth e Raquel
Welch). La cosa strana, però, è che nemmeno italianeggia, pur essendo il suo personaggio
quello di una donna vistosa e con amiche molto ‘etniche’. Dato il contesto, l’accento e le
battute in spagnolo che per tutto il film caratterizzano il personaggio di Penélope Cruz
avrebbero dunque potuto essere facilmente neutralizzati, cioè trasposti in italiano senza
restituire la presenza dei marcatori ispanici, che nell’originale non servono alla storia
narrata, ma soltanto: a) a giustificare narrativamente l’evidente accento non native della
protagonista e b) a sottolineare il legame con il soggetto di Alejandro Amenábar e Mateo
Gil, cioè a qualificare il film come remake hollywoodiano di Abre los ojos. Come si
vede, si tratta di motivazioni in larga misura extradiegetiche, che, passando in italiano, lo
diventano ancora di più, dato che, nel nostro caso, non si tratta di giustificare, ma di
riprodurre ed intenzionalmente esibire l’accento spanglish della Cruz, che, mentre nella
versione originale rappresenta un tratto costante (e perciò coerentemente mimetico, una
volta giustificato, perché è così e solo così che Pé, attrice peraltro molto dotata per le
lingue, come ha di recente dimostrato recitando in impeccabile italiano a fianco di
Castellitto, parla in inglese), in quella italiana viene ricreato (dalla voce di Chiara Colizzi)
in modo molto più convenzionale e soprattutto a intermittenza (cioè in un modo del tutto
antimimetico).
In una storia che è una specie di Faust moderno e calderoniano, tutta giocata
attorno alle piccole sbavature che consentono ad un uomo ricco che ha venduto l’anima al
diavolo (una società di ibernatori) di aprire finalmente gli occhi, prendendo coscienza
che la sua vita è un sogno, il fatto di intervenire alterando la credibilità dei dettagli è un
operazione delicata, che riguarda molto da vicino i meccanismi profondi e le ragioni
segrete di un complicato equilibrio narrativo, concepito per esibire una serie di
contraddizioni e per nasconderne fino all’ultimo la spiegazione (il giovane ricco che
invidia l’amico scrittore e gli ruba le donne, ma non riesce poi a gestire i sensi di colpa).
In questa trama fatta di indizi (le canzoni, i poster dei film, le copertine dei dischi, ecc.) e
ambientata dentro a scenari ostentatamente artificiali (come quello evocato dal titolo, che
non a caso rinvia ad una celebre canzone pop), il ‘trattamento’ non mimetico dell’ispanità
di Sofía Serrano offre alla versione italiana l’occasione di inserirsi, valorizzando una
circostanza dell’originale, nel cuore del meccanismo che consente agli spettatori di
percepire una nota falsa nella storia d’amore tra David e Sofía. Grazie al ‘trattamento’ del
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modo di parlare di Sofía Serrano, il David interpretato da Tom Cruise doppiato da
Roberto Chevalier ha a sua disposizione molti più indizi di quello originale per
interpretare la sua vita e distinguerla dal sogno.
Appena entrata in scena, subito dopo essere stata presentata al protagonista,
David (Tom Cruise), che le ha appena detto “Vivo il sogno”, Sofía Serrano commette un
piccolo errore (dice “un poco elegante” per “un po’ poco elegante”), ma si corregge
subito e poi non sbaglia più, per cui l’unica vera traccia della sua ispanità per tutta la
scena della festa di compleanno di David risiede in qualche ‘s’ marcata e nel ritmo delle
parole, leggermente più veloce di quello dell’italiano normale (possiamo rendercene
conto molto facilmente, perché la parte di questo dialogo, che ha per oggetto il
personaggio interpretato da Cameron Diaz, viene ripetuta da David a Sofía durante
un’altra scena del film e Sofía stessa lo interrompe per dirgli “Io non parlo così”). Oltre a
parlare poco in spagnolo, in questa scena Sofía non lo fa mai di sua iniziativa (si limita a
rispondere in spagnolo a chi la saluta in spagnolo). Un po’ più marcato e sensibile risulta
l’accento spagnolo nella scena successiva che si svolge a casa di lei e si apre con un “¡He,
Pablo, hola!” rivolto al cane che le corre incontro (come se il comportamento linguistico
rispecchiasse l’ambiente o, cosa più probabile, la funzione narrativa di cominciare ad
informarci sul background ispanico del personaggio). Nel dialogo che accompagna lo
scambio dei ritratti l’italiano= inglese di Sofía Serrano è praticamente perfetto, salvo per
l’unica battuta davvero significativa e per lo “Scusa!” che la segue; il che significa che
l’accento spagnolo non è più solo un modo per connotare ambienti e memorie, ma può
diventare, sempre grazie all’intermittenza, un modo per sottolineare alcuni passaggi
emotivamente importanti e/o narrativamente significativi. La cosa non vale solo per lo
spagnolo, perché nella scena seguente, dove compare in TV l’ibernatore, tutto viene
doppiato, ma resta in inglese e con la pronuncia originale, per nulla italianizzata, la
sequenza chiave “Life Extension”, subito dopo ripetuta, sempre in inglese, dalla voce
fuori campo dell’intervistatore (stavolta con la pronuncia friendly garantita dalla voce di
un doppiatore). Per gran parte delle scene successive Sofía si esprime in un perfetto
italiano=inglese, rispettando in modo quasi stucchevole persino le tipiche pause che il
doppiaggese usa per caratterizzare il dialogato dei film sentimentali americani. L’unico
segnale della sua ispanità è la parola ‘hola’, usata da David per salutarla. Tale
appiattimento (in apparenza basato sull’idea che il pubblico ormai sa che Sofía è spagnola
e non c’è più bisogno di ricordarglielo) si interrompe però all’improvviso per dare spazio
a pochi momenti di significativa intermittenza. Si tratta di una frase non doppiata (in cui
la Cruz parla con la sua vera voce), relativa alla cancellazione di un appuntamento, e
della durata di pochi fotogrammi, inseriti come una visione nel dialogo tra David e il suo
analista, in cui il personaggio di Sofía muovendo le labbra in silenzio dice in spagnolo
“te quiero”. In un’altra scena, poco prima che Sofía ricominci per un attimo a parlare in
spagnolo e poi in francese (sussurrando brevi frasi d’amore non doppiate e rese quasi
inintelligibili da una forte musica di fondo), la voce in off di David ci informa che nei
loro dialoghi le parti importanti (“i momenti giusti”) coincidono con le pause e non con le
cose dette. Subito dopo le frasi sussurrate, l’amico scrittore, che ha presentato Sofía a
David ed è anche lui innamorato di Sofia, chiede a David: “Cosa ha detto?” Al che, David
(che non a caso ha in camera un grande poster di Jules e Jim!) risponde “Non ne ho
idea”. La presenza dello spagnolo è modesta, ma in alcuni punti del film originale viene
sottolineata, amplificata e resa significativa dal fatto che, subito prima e subito dopo,
diventa oggetto di qualche commento che la prepara o la glossa. Questo tratto risulta
molto valorizzato, nella versione italiana, dal fatto di risultare associato all’intermittenza
del doppiaggio.
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I momenti più significativi di presenza dello spagnolo nella parte finale del film,
dove tutto si spiega, riguardano i funzionari della Life Extension e sono un “te quiero”
pronunciato di nuovo, ma senza voce (!), dalle labbra di Sofía, per essere subito dopo
doppiato in campo dalla dottoressa interpretata da Tilda Swinton (che si chiama Rebecca,
come la replicante di Bladerunner!), e una indicazione quasi incidentale nel momento in
cui il supervisore, interpretato da Noah Taylor, si presenta a David come Ventura, che in
spagnolo vuol dire fortuna e che corrisponde perfettamente alla sua funzione nel film.
Rispetto alla versione oiginale viene invece doppiato come “Svegliati!, Apri gli occhi...”
il finale “Open your eyes! ¡Abre los ojos!” della versione originale, giustificato dal fatto
che la frase era stata detta una prima volta a metà film dalla spagnola Sofía, ma anche dal
fatto che in questo modo il film sottolinea il rapporto con la propria fonte spagnola, che si
intitola appunto “ ¡Abre los ojos!”
La prossimità tra le due lingue, permette dunque al ‘trattamento’ di far emergere
con molta chiarezza, in vari punti del film, la dimensione assolutamente convenzionale
(di patto diegetico e di artificio narrativo) del doppiaggio italiano. Il realismo è davvero
meno di un pretesto. Il doppiaggio funziona, in questo caso ancor più che in altri, come
una convenzione creativa. La sua coerenza non rinvia alla realtà, ma ad un mondo
possibile che è tale in virtù del ‘contratto’ che, se il film funziona, si stabilisce
rapidamente (in Italia anche grazie al doppiaggio) tra il mondo proiettato sullo schermo e
il ‘suo’ spettatore. Il fatto che questo meccanismo sia quasi una sinossi della trama del
film, in cui una società (che è il cinema) oltre a vendere sogni, fornisce anche l’assistenza
necessaria (cioè il doppiaggio) a renderli via via più confortevoli, aggiunge alle nostre
considerazioni un insperato ma significativo tocco di labirinto metanarrativo.
Lo spagnolo intermittente di Penélope Cruz in Vanilla Sky, più evidente ed
esplicito nelle prime scene, sostanziato qua e là da marcatori ad hoc (parole spagnole più
o meno ridondanti e/o chiarite dal contesto, collocate in genere all’inizio o alla fine di una
scena, di una battuta o di un dialogo) e richiamato a tratti da una pronuncia o
un’intonazione ispanizzante (con oscillazioni lungo un continuum di competenza che va
da Julio Velasco a Héctor Cúper, passando per Natalia Estrada), ma soprattutto per
lunghi passaggi totalmente diluito in un italiano standard (=inglese) sostanzialmente privo
di accenti e peculiarità articolatorie può dunque funzionare da spunto iniziale e da
esempio di riferimento per la nostra riflessione.
Un altro film con Penélope Cruz, questa volta di Fernando Trueba, La niña de
tus ojos, tradotto in italiano come La niña dei tuoi occhi (titolo che non coglie né il
senso, né il tono proverbiale dell’originale), ci consente di arricchire il quadro. Nel film,
multilingue perché racconta la storia quasi vera di una produzione folklorica nazionalista,
realizzata negli studios nazisti di Berlino da una troupe spagnola negli anni della Guerra
civile, Pé interpreta il ruolo di una stellina del cinema andaluseggiante e parla per questo
con un accento gitano andaluso molto marcato e quasi caricaturale, che nel doppiaggio
viene in gran parte lasciato cadere (evidentemente considerando più che sufficiente per
motivare lo scarto di comportamenti tra personaggi tedeschi e personaggi spagnoli il
divario che, sul mercato culturale italiano, separa i rispettivi stereotipi nazionali,3 senza
bisogno di insistere su tale divario con poco interpretabili riferimenti linguistici al
meridionalismo spagnolo e al mondo gitano). In questo caso il diverso suono delle due
lingue implicate viene facilmente mantenuto sostituendo l’italiano allo spagnolo e
sottotitolando in italiano il tedesco. L’effetto risulta credibile anche perché gli stereotipi
su italiani e spagnoli sono abbastanza simili (mentre il film nel suo complesso rende
3
Sul piano degli stereotipi, fuori dalle frontiere nazionali, gli Andalusi contribuiscono
all’immagine della Spagna quanto i Napoletani a quella dell’Italia.
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omaggio a Vogliamo vivere! di Lubitsch, i modelli di comportamento della troupe
spagnola giocano abbastanza scopertamente con la commedia all’italiana sulle guerre
mondiali, da La grande guerra e Tutti a casa! a La tregua e La vita è bella). In termini
di credibilità, la stessa strategia sarebbe risultata assai meno efficace in un ipotetico caso
opposto (cioè in un film tedesco, con parti in spagnolo sottotitolate o in un film su
ispanici residenti in Germania, come in qualche modo è La gabbianella e il gatto, di cui
parleremo più avanti).
Un caso di utile raffronto può essere il film di produzione tedesca Go for Gold
di Lucián Segura, storia picaresca di un russo letteralmente senza memoria che cerca di
sopravvivere e far soldi nelle località turistiche della Costa del Sol. La traduzione in
italiano dell’asse spagnolo-tedesco è del resto facilitata dal fatto che spesso tale asse, in
complesso poco frequentato e poco valorizzato almeno dal punto di vista linguistico
(culturalmente le cose sono diverse e, da Gonzalo Suárez a La Fura dels Baus, i Faust
realizzati dal cinema spagnolo sono più che numerosi), ha spesso come sfondo situazioni
melodrammatiche, estreme ed estremamente stereotipate (i dialoghi, telefonici e non, tra
il marito di Gloria e Frau Müller in Che ho fatto io per meritare questo di Almodóvar, in
cui la parodia di una devozione ultrasentimentale si intreccia con il delirante progetto di
falsificare la calligrafia di Hitler, per venderne poi i diari apocrifi).
Decisamente più interessante, nel caso di Almodóvar, è il trattamento delle
varietà dello spagnolo. Sia in Tutto su mia madre che in Parla con lei viene infatti
mantenuto, con intermittenza, l’accento rioplatense del travestito Lola, il marito di Cecilia
Roth, e di Marco, il giornalista interpretato da Dario Giardinetti e innamorato della torero
Lidia (il massimo del nom choisi!). Inserito sull’italiano, tale accento suona per la
maggior parte del pubblico più genericamente spagnolo che effettivamente rioplatense,
ma basta e avanza per sottolineare che Lola e Marco sono stranieri e, in particolare,
latinoamericani (cosa che, in entrambi i casi, ci viene anche detta). Spariscono invece sia
l’accento catalano di molti personaggi secondari (il film si svolge quasi per intero a
Barcellona), sia quello canario del travestito Agrado e quello argentino della protagonista
Manuela/Cecilia Roth, che pure ha le stesse motivazioni narrative di quello di Lola. La
ragione è evidente: Lola è un personaggio che parla poco. Agrado e Manuela sono quasi
sempre in scena e parlano molto, ragion per cui gestire il loro accento per tutto il film
produrrebbe un effetto artificiale. In doppiaggio italiano vale spagnolo, ma lo spagnolo
con accento (canario o latinoamericano) è una cosa naturale, ben diversa e decisamente
più tollerabile che non la dilatata presenza di un italiano storpiato o
ispanoamericaneggiante (la migliore soluzione sarebbe forse stata quella di scritturare
doppiatori con un leggero accento, come è accaduto nel caso di La gabbianella e il gatto,
o di altri film di animazione, che però, proprio perché tali, nascono doppiati,
indipendentemente dalla loro origine).
4. Due casi di trattamento non traduttivo: La gabbianella e il gatto e Figli/Hijos
Ragionando un po’ sulle forme, i gradi e le giustificazioni narrative e metanarrative di
questo trattamento intermittente (alcuni personaggi e situazioni sì, altri personaggi e
situazioni no, altri ancora ora sì ora no; alcuni registri sì, altri no, altri ancora in alcuni
momenti sì e in altri no) , e sul patto diegetico che ne spiega l’economia e l’accettabilità,
mi è capitato di vedere impiegate soluzioni analoghe anche in altri film, ufficialmente
“non” doppiati, ma in realtà estremamente vicini agli equilibri e ai meccanismi di quelli
doppiati.
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4.1. La gabbianella e il gatto. Il primo esempio riguarda il film di animazione La
gabbianella e il gatto di Enzo D’Aló, che abbiamo appena citato. I film di animazione
sono, per peculiarità tecniche e per modalità di fruizione, un mondo a parte e
relativamente più creativo rispetto al resto della produzione cinematografica e non solo
perché le loro uscite nelle sale si concentrano soprattutto in alcuni momenti della stagione
o perché la videodistribuzione e il pubblico infantile rappresentano una quota
particolarmente significativa della loro vita commerciale. Tra le molte peculiarità di
questi film c’è anche il fatto che in essi le tecniche della sonorizzazione e della
sincronizzazione, lungi dall’intervenire al momento della traduzione per altri mercati,
partecipano non in incognito e non nell’ombra alla strutturazione delle versioni originali.
Al momento di cercare precedenti per lo spagnolo intermittente e
metafinzionalmente giustificato della Penélope Cruz di Vanilla Sky e del Dario
Giardinetti di Parla con lei, mi è parso di trovare un caso altrettanto interessante nel
cartone animato di D’Alò, tratto, come è noto, da Storia di una gabbianella e del gatto
che le insegnó a volare dello scrittore cileno Luis Sepúlveda, libro di grande successo e
ancor più grande mercato, essendo destinato, secondo l’autore, “a bambini da 8 a 88
anni”. Nel film, come nel libro, la vicenda si svolge ad Amburgo. Poiché Sepúlveda, una
volta scampato alle carceri politiche del da poco defunto Pinochet, ha vissuto per molto
tempo ad Amburgo, poiché nel prologo ci dice di avere scritto il racconto per la figlia e
poiché, in un racconto successivamente pubblicato, ammette di essersi ispirato all’indole
e all’aspetto del suo vero gatto di quegli anni per il personaggio del gatto, è più che
giustificato, ma ancora una volta solo per ragioni extradiegetiche e non per necessità
narrative, che il padrone di tale personaggio venga rappresentato nel film di animazione
da un uomo che assomiglia a Sepúlveda e parla italiano con la voce di Sepúlveda e che, di
conseguenza, lo fa con un riconoscibile e costante accento ispanico e cileno. Il fatto che
questo personaggio sia un poeta e non un romanziere e che scriva poesie di Bernardo
Atxaga e non racconti di Luis Sepúlveda lo distanzia solo in apparenza dall’autore storico
del testo da cui il film è tratto. La cosa più interessante è però lo statuto linguistico di altri
due personaggi, che fanno parte della sua “famiglia”: la gatta di casa, che, grazie alla voce
della costaricana Melba Ruffo, ha un accento ispanico molto leggero e abbastanza
prossimo all’intermittenza, e la figlia Mina, che invece parla un italiano privo di accento e
che ispaneggia solo in sogno e, in particolare, in un importante segmento del suo ultimo
sogno, quando rassicura Zorba con un curioso e un po’ maccheronico: “Non te preocupa,
señor gato”. La strategia d’uso dello spagnolo è dunque quella di un utilizzo graduato, un
po’ diverso da quello intermittente di Vanilla Sky e dei citati film di Almodóvar, ma
anche molto diverso dal criterio seguito, dallo stesso d’Alò, per altri personaggi, come il
gabbiano Igor (che, in quanto russo, parla sempre come le spie dei film di Guerra fredda).
Mentre nel caso di Vanilla Sky e di Tutto su mia madre, dove la Cruz e la Roth
interpretano ruoli principali, con molta presenza in scena e molte battute, possiamo
pensare che il doppiaggio abbia optato per l’intermittenza in un caso e per la quasi totale
neutralizzazione nell’altro al fine di non appesantire il film (usando in modo leggero un
tratto di coloritura e deformazione linguistica da caratterista per un personaggio di
protagonista), nel caso del cartone animato di D’Aló l’ipotesi di una gradualità puramente
strumentale e non drammaturgica non regge. Nel corso del film, lo scrittore, sua figlia e la
loro gatta si vedono e parlano relativamente poco, e dunque, una volta presa, per le già
dette ragioni extradiegetiche, la decisione di attribuire loro un accento ispanico, tutti e tre
avrebbero potuto benissimo conservarlo per tutto il tempo senza appesantire il film. La
spiegazione del gioco linguistico deve, insomma, essere, almeno in parte, un’altra, legata
più al tema della differenza e della tolleranza (cioè al discorso nobile, ma un po’ retorico
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del film in materia di differenze e tolleranze) che non all’idea di documentare la genesi
del testo (anche perché non sono molti i bambini in grado di ricavare informazione e
soddisfazione narrativa dalla somiglianza fisica e linguistica tra il poeta e Sepúlveda,
evidentemente destinata al segmento adulto del pubblico, che, con funzioni di
accompagnatore e di ufficiale pagatore al servizio dei veri destinatari, ha un ruolo
tutt’altro che disprezzabile nelle fortune commerciali dei cartoni).
4.2. Figli/Hijos. Un ulteriore passo in questa direzione ce lo consente il curioso caso di
Figli/Hijos, film realizzato dall’artista cileno-argentino Marco Bechis, giunto in Italia per
ragioni analoghe a quelle che hanno portato Sepúlveda ad Amburgo e i genitori di
Amenábar in Spagna, ma divenuto nel nostro paese un noto e affermato regista
cinematografico, grazie soprattutto a film di coproduzione italo-argentina come
Alambrado e, soprattutto, Garage Olimpo.
Fin dal titolo il film Figli/Hijos
rende del tutto trasparente e quasi
programmatica la problematica della doppia lingua, ma, soprattutto, la risolve in modo
apertamente antinaturalistico. La vicenda, che, salvo un antefatto e un epilogo in
Argentina, si svolge tutta tra Milano e Barcellona, racconta di un giovane, Javier (Carlos
Echevarría), combattuto tra due incompatibili versioni della sua storia personale, una
legata a Rosa (Julia Sarano) che lo crede fratello di sangue e lo aiuta a scoprirsi fratello di
destino (in quanto figlio apropiado di desaparecidos) e l’altra legata alla sua famiglia di
adozione, trasferitasi in Italia dopo la fine della dittatura e composta da un padre
argentino e vocazionalmente dittatoriale (Raúl/Enrique Piñeyro) e da una
compassionevole madre italiana (Vittoria/Stefania Sandrelli).
In questo caso, la struttura del cast produce sulla pronuncia un effetto simile a
quello, prodotto in La gabbianella e il gatto dall’uso delle voci di Sepúlveda e Melba
Ruffo per i personaggi del poeta e della gatta. Dal punto di vista linguistico la maggior
parte dei personaggi di Figli/Hijos è infatti interpretata da attori argentini o italoargentini che recitano in italiano, il che costituisce, nell’insieme, una base abbastanza
coerente con la necessità di riprodurre in modo credibile il comportamento linguistico di
personaggi argentini trapiantati in Italia. Tuttavia, a differenza di quanto avviene in La
gabbianella e il gatto, qui non c’è graduazione intenzionale, per cui il grado di
assimilazione linguistica risulta, di fatto, analogo per le diverse generazioni (mentre a
parità di tempo trascorso in Italia, i più giovani — gli hijos — dovrebbero essersi
assimilati totalmente o comunque molto più e molto meglio dei genitori). Inoltre, Rosa,
che, anche se ha remote origini italiane, è appena arrivata dall’Argentina, parla in modo
molto simile a Javier, che ha la madre italiana e vive in Italia da quando era bambino.
Proprio come il libro di Sepúlveda, anche la sceneggiatura, scritta da Bechis con
Lara Fremder, e pubblicata insieme a quella di Garage Olimpo nel volume Argentina
1976-2001: filmare la violenza sotterranea (Ubulibri, Milano, 2001), non contiene
nessuna indicazione esplicita sul problema di come rendere l’accento ispanico dei
personaggi. La credibilità e il patto diegetico di Figli/Hijos non si basa dunque sul
mimetismo linguistico, ma sul collegamento con Garage Olimpo, che è, nelle sequenze
iniziali, molto esplicito. L’antefatto si svolge, come detto, in Argentina, in una sala parto,
alla fine del 1977. La prigioniera partoriente è Antonella Costa, l’attrice protagonista di
Garage Olimpo. Ana, la giovane madre che con la complicità dell’ostetrica, salva uno dei
suoi gemelli dal destino di apropiado, è davvero, tanto fisicamente quanto per la sua
condizione di prigioniera politica illegale, una gemella di María, la maestrina
desaparecida di Garage Olimpo. Tra le testimonianze che compongono il dossier che
completa il volume delle sceneggiature c’è la storia di una ragazza che si chiama
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Anamaría (Ana + María) e che racconta di aver partorito in prigionia. Se ciò non bastasse,
fuori dalla porta della sala parto aspettano Texas (Pablo Razuk), il Turco (Marcelo
Chaparro) e il Rubio (Adrián Fondari), tre dei carcerieri di Garage Olimpo. Ancor più
forte è, se possibile, il rimando contenuto nel secondo e vero inizio del film (e non solo
perché anche Garage Olimpo aveva un doppio inizio). La storia del film, una volta
concluso l’antefatto, inizia con un aereo nel cielo e con una ripresa del mare visto
dall’aereo, inizia cioè come e dove finiva la versione definitiva diGarage Olimpo, che in
origine aveva un altro finale (anch’esso ora pubblicato, in cui Antonella Costa
sopravviveva e incontrava Chiara Caselli, in fuga anche lei, dopo l’attentato a Tigre). Per
chi vede il film avendo presente quello precedente e tenendo conto dell’antefatto, la
caduta libera di Javier che si lancia dall’aereo col paracadute assume valenze e
connotazioni simboliche fin troppo evidenti (talmente forti che, più avanti, nel corso del
film, Javier rifiuterà di tornare a lanciarsi).
In virtù del suo esibito antimimetismo linguistico e di questi rinvii simbolici al
film precedente, il caso di Figli/Hijos rappresenta così, con le sue scelte di non
doppiaggio e non plurilinguismo, una sorta di provvisorio capolinea, di complemento e di
prova del nove per questa riflessione sui meccanismi di uso in doppiaggio dello spagnolo
intermittente e graduato.
L’uso convenzionale e antimimetico della lingua diventa del resto ancor più
esplicito e consapevole nella seconda parte del film, dove lo stesso impasto linguistico
(relativamente omogeneo, perché composto da un italiano standard, pronunciato con
diversi gradi di accento spagnolo) cambia addirittura statuto. Se nella parte milanese della
vicenda l’italiano ispaneggiante è infatti una lingua narrativamente motivata, nel senso
che vale proprio come italiano parlato da ispanici e non come equivalente convenzionale
di un’altra lingua, nella parte di azione che si svolge a Barcellona assistiamo ad una
radicale risignificazione di questo tratto: l’impasto linguistico non cambia, ma il suo
valore narrativo sì. Lo stesso italiano, velato di accenti ispanici, vale evidentemente come
spagnolo e, paradossalmente, viene reso narrativamente credibile dalla stessa patina
ispanizzante che fino a poco prima aveva accreditato quello stesso modo di parlare come
riproduzione pseudo-mimetica della parlata degli argentini residenti in Italia.
Questo cambiamento di statuto, con il passaggio da una convenzione motivata,
ma debolmente pseudo-mimetica ad una ancor più apertamente antimimetica, viene
gestito con successo e nella quasi assenza di segnali testuali espliciti, diventando, proprio
per questo, attendibile spia di un processo che mi pare estremamente interessante, ma che
avviene in minima parte sullo schermo e in gran parte nella mente dello spettatore. La
forza della convenzione antimimetica è insomma tale che la strategia linguistica del film
può cambiare in corso d’opera, senza conoscere salti, allorché l’azione si sposta in
Spagna.
Con l’ibridismo che ne caratterizza le strategie di significazione linguistica e
culturale, Figli/Hijos ci conferma, per così dire a contrario, che le scelte di doppiaggio
(Vanilla Sky) e di sonorizzazione (La gabbianella e il gatto), lungi dall’essere puramente
“tecniche”, costituiscono in ogni senso un fatto artistico (un artefatto) e un fatto culturale
e come tali configurano un processo di creazione totalmente implicato nei livelli
strategicamente cruciali di fondazione e articolazione della credibilità e della funzionalità
narrativa.
Lo spagnolo intermittente è, con ogni evidenza, la clausola (più o meno
essenziale ed esplicita, ma mai del tutto gratuita o del tutto implicita) di un patto diegetico
nel quale la parvenza di realtà non è che la base (a volte poco più che il pre-testo) sulla
quale poggia e si incardina una segnaletica testuale che, per quanto possa essere
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relativamente semplice nei suoi elementi, rinvia di fatto, più o meno direttamente, ad una
vasta mappa di indicatori intertestuali ed extratextuali, che riorientano la coerenza del
testo non verso la riproduzione della realtà immediata, ma verso la produzione di una
realtà seconda, disegnata in dialogo con gli orizzonti di aspettativa del pubblico e le
convenzioni dei generi.
Oltre ad accettare senza difficoltà un marcatore antinaturalistico come
l’intermittenza o la gradazione e gradualizzazione dello spagnolo, lo spettatore accetta
anche di riconoscerlo come equivalente all’inglese di una spagnola (in Vanilla Sky),
all’accento argentino di un travestito che parla spagnolo (in Tutto su mia madre), al
tedesco di una famiglia cilena (in La gabbianella e il gatto) e infine, dentro allo stesso
film (cioè in Figli/Hijos), prima come specchio dell’italiano degli argentini e poi come
immagine convenzionale di un vero e proprio spagnolo.
Tanta elasticità non sarebbe evidentemente possibile se la lunga storia del
doppiaggio, lungi dall’avere consegnato il pubblico agli agi di un’illusoria parvenza di
immediatezza, non lo avesse abituato (direi quasi educato) ad una raffinata ginnastica
intellettuale delle e sulle convenzioni narrative, se cioè non avesse fatto, a partire da una
tecnica, una vera e propria operazione di cultura cinematografica. Un pubblico non
abituato al doppiaggio, oltre a leggere con difficoltà lo spagnolo intermittente di Vanilla
Sky e quello graduato di La gabbianella e il gatto, accetterebbe con molta fatica un film
multilingue e mistilingue formalmente senza doppiaggio come Figli/Hijos. Le strategie
linguistiche di tutti i film che abbiamo analizzato riposano dunque, sia pure con modi e
gradi diversi, sull’allenamento alla convenzione linguistica che il doppiaggio ha
felicemente fornito al pubblico italiano.
Questo modo di potenziare e valorizzare narrativamente una competenza del
pubblico coincide, nei tre casi analizzati (ma potenzialmente anche in altri, come quello
degli esiliati di La virgen de la lujuria, alcuni personaggi di The Dancer Upstairs, il
León Trotzkij di Frida, la Maribel Verdú di Y tu mamá también, ecc.), con una vera e
propria reinterpretazione del testo o quantomeno di una parte importante del testo.
In ogni singolo caso lo straniamento linguistico prodotto dai marcatori
ispanizzanti e dalla loro antinaturalistica intermittenza assume infatti valore
convenzionale di segnale narrativo, indicando: la frontiera tra realtà e artificio in Vanilla
Sky; la condizione di esuli che predispone il poeta e la sua famiglia a riconoscersi nella
storia della gabbianella Fortunata (¡Ventura!), che cresce tra i gatti in La gabbianella e il
gatto; e infine la condizione di espropriati di ogni credibile identità che caratterizza gli
apropiados in Figli/Hijos. In ciascun film la presenza dei marcatori ispanici e/o
ispaneggianti diventa infatti meno innocente nelle scene che, rivelando il destino a
personaggi e spettatori, contengono in sé una sinossi e un condensato dell’intero film (la
scena quasi finale nella sede della Life Extension in Vanilla Sky, quella del racconto
iniziale in La gabbianella e il gatto e quella dei dialoghi tra i due presunti fratelli in
Figli/Hijos). In nessun caso lo spagnolo è davvero essenziale dal punto di vista mimetico,
ma in ciascuno risulta narrativamente risignificante e significativo, reincidendo in modo
originale sul sistema delle soglie diegetiche.
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Giuseppe Palumbo
La ricerca in traduzione: la svolta empirica
1. Introduzione
Per parlare di ricerca empirica in traduzione possiamo partire dal jazz. E più in particolare
dall’improvvisazione. Lo scopo non è, ovviamente, quello di paragonare la ricerca
all’improvvisazione. Tutt’altro: il tentativo è quello di osservare in parallelo il modo in
cui in musicologia si è arrivati a descrivere l’improvvisazione e il modo in cui negli ultimi
anni le metodologie di ricerca sulla traduzione hanno rimesso a fuoco il problema del
trasferimento linguistico e lo hanno descritto, e ridiscusso, nei termini del saper fare.
Perché partire dall’improvvisazione? Dall’esterno si potrebbe essere tentati di
descrivere il musicista che improvvisa (e lo strumentista jazz è l’improvvisatore per
definizione) come qualcuno che procede a caso: data una melodia di partenza, tutto quello
che il musicista dovrà fare è continuare a suonare allontanandosi in misura maggiore o
minore dalla melodia e rimanendo all’interno delle possibilità offerte dalla scala armonica
di riferimento. Ma una descrizione siffatta non rende conto della capacità del musicista acquisita dopo un lungo periodo di apprendistato - di puntellare la sua improvvisazione su
una precisa serie di coordinate, in tal modo rendendo la sua prestazione originale ma
riconoscibile. La capacità di improvvisare, dunque, è una competenza che si acquisisce e
l’improvvisazione può essere descritta come un processo durante il quale vengono prese
continuamente decisioni: decisioni dettate da un contesto potremmo dire “storico” (la
tradizione musicale cui il musicista più o meno consciamente guarda) e un contesto
immediato (la musica prodotta da chi accompagna il musicista e la musica che egli stesso
produce nel corso dell’esecuzione).
L’improvvisazione può dunque diventare una sorta di metafora del come si prende
una decisione, un esempio, magari estremo, di processo decisionale in cui le coordinate in
base alle quali si procede sono state interiorizzate al punto da diventare invisibili ma
nondimeno ben presenti (cfr. Sparti 2005). Certo, il paragone tra traduzione e
improvvisazione potrebbe non reggere fino in fondo. In particolare, sembrano diversi gli
scopi delle due attività: se obiettivo dell’improvvisatore è quello di costruire qualcosa di
originale, la traduzione è per definizione “copia”. Ma questa è una visione riduttiva, sia
dell’improvvisazione che della traduzione. Abbiamo visto come improvvisare significa
rielaborare materiali consolidati in un gioco che non vuole sempre cercare l’originalità a
tutti i costi. In maniera inversa e speculare, osserviamo invece come spesso la traduzione
si proponga non come riproduzione fedele (ma fedele del resto a cosa?) bensì come
possibilità interpretativa, variazione sul tema.
Il parallelo tra improvvisazione e traduzione, in ogni caso, sembra reggere
soprattutto quando guardiamo ai due fenomeni in quanto esempi di processo decisionale:
così come improvvisando ci si inserisce in un duplice contesto (la tradizione e l’“attimo”),
così ogni atto di traduzione si manifesta in riferimento a una “tradizione linguistica” (che
altri non è che il sistema della lingua) e a un contesto più immediato qual è quello
delineato dalla situazione in cui il testo si traduce. Situazione, quest’ultima, che si
manifesta come insieme composito di variabili, ciascuna delle quali è suscettibile di
influenzare le scelte di chi traduce, anche nell’attimo (ossia quando la parola/nota che
30
abbiamo appena scritto/suonato ci spinge a trovare una particolare parola/nota successiva,
diversa da quella che avremmo scelto se ciò che precedeva fosse stato differente).
Ora, la svolta empirica nella ricerca sulla traduzione si è avuta proprio quando
l’interesse degli studiosi si è spostato sulla traduzione come processo decisionale nel
quale entra in gioco una complessa serie di variabili, ciascuna delle quali è in grado di
influenzare le scelte di chi traduce. La traduzione, insomma, non è stata più discussa solo
come operazione di trasferimento eseguita nell’empireo dei significati ma come
fenomeno sempre situato. Lo studio della traduzione è diventato allora (a) osservazione
del comportamento di chi traduce in una data situazione e (b) descrizione dei fattori che
concorrono a determinare tale situazione.
2. Verso la ricerca empirica in traduzione
La traduzione, dunque, si è affermata come disciplina a sé stante solo negli ultimi due
decenni, seguendo un percorso che forse non è ancora stato completato ma che l'ha
portata ad affrancarsi da tutte le discipline affini, a partire dalla linguistica e dalla
letteratura comparativa. A testimoniare di quanto accidentato sia stato il percorso valga
l'incertezza che ancora oggi, e in varie lingue, sussiste nell’etichettare con un termine
universalmente riconosciuto l'insieme degli studi che hanno per oggetto la traduzione:
alcuni parlano di traduttologia, altri di Translation Studies, altri ancora di teoria della
traduzione. Al di là delle oscillazioni terminologiche, tuttavia, resta il fatto che la ricerca
sulla traduzione può ormai dire di disporre di una tradizione propria, certo coniugata
secondo accenti diversificati e posizioni variegate, ma allo stesso tempo poggiante su
principi e acquisizioni teoriche e metodologiche largamente condivisi. Il dialogo con
settori di studio affini continua ad essere fitto, ma la multidisciplinarietà stessa è ormai
considerata uno dei tratti costitutivi della disciplina.
Tra le numerose proposte teoriche che hanno contribuito a delineare il territorio
proprio della traduttologia va indubbiamente segnalata quella di James Holmes (1972;
1994), al quale si deve il primo tentativo di sistematizzazione degli oggetti di studio della
disciplina e degli strumenti metodologici atti ad affrontarli.
Translation Studies
'Pure'
Theoretical
General
Medium
Restricted
Partial
Area
Restricted
Applied
Descriptive
Product
Oriented
Rank
Restricted
Process
Oriented
Function
Oriented
Text-Type
Restricted
Time
Restricted
Translator
Training
Problem
Restricted
Figura 1. La "geografia" dei Translation Studies secondo Holmes
31
Translation
Aids
Translation
Criticism
A proposito dello schema di Holmes è importante sottolineare che le tre branche
della disciplina non equivalgono a compartimenti stagni: tra di esse lo scambio è
continuo. In particolare, va sottolineato il ruolo centrale svolto dagli studi descrittivi
nell'alimentare le ipotesi teoriche, le quali a loro volta possono essere riversate in ambito
applicativo o fornire spunti per nuove ricerche di stampo descrittivo. Gli studi descrittivi
occupano quindi una posizione non secondaria rispetto a quelli teorici, giacché forniscono
a questi ultimi gli elementi utili non solo a verificare una data ipotesi ma anche ad
avanzarne di nuove. Un'impostazione rigorosamente descrittiva, inoltre, consente di non
cadere nella trappola prescrittivista che caratterizzava molti studi sulla traduzione del
passato. Come già ricordava Bassnett-McGuire (1980: 37), l’obiettivo dei Translation
Studies è quello di giungere alla comprensione delle modalità di svolgimento degli atti
traduttivi e non quello di fornire un prontuario per l'esecuzione della traduzione perfetta.1
La traduzione, in altre parole, va studiata per come si manifesta e non per come si ipotizza
debba essere. In tale ottica, l’insieme di osservazioni accumulate nelle ricerche di
impostazione descrittiva può portare a formulare una serie di leggi di natura probabilistica
con cui si esprimono le relazioni intercorrenti tra le variabili considerate pertinenti in una
data situazione traduttiva (cfr. Toury 1995: 16).
La branca degli studi descrittivi, cui gli studiosi si riferiscono come Descriptive
Translation Studies (DTS), è forse quella che ha conosciuto un maggior sviluppo nel
periodo successivo alla proposta di Holmes. Il fatto che essa a sua volta sia divisa in tre
aree (studi product-oriented, studi process-oriented e studi function-oriented) non deve
tuttavia lasciar pensare, di nuovo, che l’analisi di un fenomeno traduttivo ad uno dei tre
livelli possa essere condotta senza fare riferimento agli altri due. Come ricorda Toury
(1995: 11), infatti,
individual studies of whatever denomination emerge as a twofold enterprise: each
one is a local activity, pertinent to a certain corpus, problem, historical period, or
the like […], as well as part of an overall endeavour, an attempt to account for
ways in which function, process and product can and do determine each other.
E il bisogno di tener conto delle relazioni tra funzione, processo e prodotto si è
fatto più vivo proprio in conseguenza dell'introduzione di metodi autenticamente
sperimentali. Come sottolinea ancora Toury (1995: 12), un esperimento non può giungere
a conclusioni significative se in esso non sono stati correttamente identificati i parametri
pertinenti e le relazioni che sussistono tra tali parametri. Per fare un esempio concreto,
nell'analizzare un dato corpus di traduzioni andando alla ricerca delle regolarità nella
traduzione di un determinato elemento della lingua di partenza, non si potrà non fare
riferimento alla funzione di quell’elemento, e più in generale, di quei testi nella
lingua/cultura di arrivo e al processo in base al quale i testi sono stati tradotti (intendendo
qui per processo l’insieme delle caratteristiche della particolare situazione in cui il
traduttore o i traduttori hanno svolto il proprio compito; per dirla in termini linguistici, il
“contesto di situazione”).
Accordata la dovuta importanza alle ricerche descrittive gli studiosi si sono resi
conto che in molti casi mancava la materia prima per poter eseguire tali ricerche:
mancavano, cioè, i dati da osservare per poter descrivere la traduzione secondo le
1
Nello schema di Holmes è il polo applicativo ad assumere uno stampo prescrittivista; come
sottolinea Toury (1995: 19), anzi, il versante applicativo è prescrittivista per definizione: sia nella
didattica della traduzione che in tutti gli altri settori applicativi, non si studiano fatti ma si
suggeriscono comportamenti.
32
prospettive delineate da Holmes. In particolare, mancavano dati riguardanti la traduzione
come processo, ossia ciò che avviene allorché si affronta un testo da tradurre a livello
cognitivo e psicologico. Non così lacunosi erano stati tradizionalmente gli studi sulla
traduzione come prodotto, ossia sui testi tradotti. Anche qui tuttavia le ricerche peccavano
spesso di scarso rigore e sistematicità; le generalizzazioni infatti si basavano su
considerazioni intuitive non suffragate da un’adeguata verifica empirica. In entrambi i
casi, ossia sia per la traduzione come processo che per la traduzione come prodotto, i
progressi compiuti per quanto riguarda la raccolta di dati hanno consentito di iniziare a
colmare le lacune appena descritte.
Se, come suggerisce lo schema di Holmes, la traduzione non è più vista come atto
di trasposizione sul piano meramente linguistico ma come atto di comunicazione cui
sottende un processo cognitivo, sorge il problema di come descrivere e analizzare tutti i
fattori che concorrono a configurarlo. In tale prospettiva, la traduzione è vista come
processo interpretativo di riformulazione testuale in un'altra lingua, processo che si svolge
in un determinato contesto socio-culturale e con una determinata finalità. Il testo tradotto,
e una analisi di quest’ultimo condotta in rapporto al testo di partenza e alle due lingue
come sistemi, non bastano più, in altre parole, a dare una descrizione esauriente del
processo in base al quale il traduttore vi è arrivato.
L’attenzione degli studiosi si sposta sull’attività del tradurre, la quale viene
osservata secondo prospettive interne ed esterne. Quelle interne si incentrano sul processo
cognitivo, ossia sui modi in cui il traduttore porta a termine il compito che gli è affidato.
Quelle esterne vanno invece a osservare quali sono, in prospettiva che possiamo definire
essenzialmente sociologica, le caratteristiche attribuite da un lato alla traduzione come
attività e dall’altro alla figura del traduttore: in altre parole, il tentativo è quello di capire
cosa si intende per traduzione in una data comunità (gli addetti ai lavori, il pubblico) e
quali sono i tratti che contraddistinguono coloro che si presentano e vengono riconosciuti
come traduttori. Non mancano, inoltre, ambiti nei quali le due prospettive, quella
cognitiva e quella sociologica, arrivano a integrarsi o a procedere in parallelo: esemplari
sono, a tale proposito, gli studi sulle competenza traduttiva e sulla sua acquisizione.
3. Questioni metodologiche
L’esigenza di descrizione dei fenomeni traduttivi ha portato gli studiosi a tentare di
delineare un quadro metodologico adeguato, laddove per metodo si intende il
procedimento seguito per acquisire conoscenze circa una realtà osservabile. A tale
proposito si può ricordare la formulazione di Carl Hempel (1952: 1; cit. in Toury 1995: 9)
circa gli obiettivi delle scienze empiriche:
Empirical science has two major objectives: to describe particular phenomena in the
world of our experience and to establish general principles by means of which they can
be explained and predicted. The explanatory and predictive principles of a scientific
discipline are stated in its hypothetical generalizations and its theories; they characterize
general patterns or regularities to which the individual phenomena conform and by virtue
of which their occurrence can be systematically anticipated.
Il procedimento conoscitivo si articola dunque in una fase descrittiva e in una fase
esplicativa: descritto un fatto occorre infatti chiedersi come esso possa essere spiegato. E
la spiegazione può incentrarsi su aspetti diversi: può essere infatti di natura causale
(“perché accade X?”), di natura procedurale (“come accade X?”) o finalistica (“a cosa
serve X?”). Alla descrizione e spiegazione di un fatto segue poi l’elaborazione di una
33
previsione, che in discipline come quella della traduzione non può che essere
probabilistica: date certe premesse, in altre parole, è probabile, ma non sicuro al 100%,
che si verifichino determinate conseguenze. Dalla previsione si giunge poi alla
formulazione di ipotesi, ossia al tentativo di generalizzare, di identificare delle regolarità
in un dato fenomeno. Nel caso della traduzione, ad esempio, si può ipotizzare che tutti i
tradotti presentino determinate caratteristiche (quelle che nella ricerca recente sono state
definite gli “universali” della traduzione).
Se optiamo per l’adozione di un procedimento conoscitivo come quello appena
esposto e, contemporaneamente, accettiamo la visione della traduzione come di un settore
per definizione multidisciplinare, ci troveremo di fronte al problema di adottare un quadro
metodologico parimenti multidisciplinare senza tuttavia snaturare i fenomeni osservati. È
questo, in sostanza, il percorso su cui si è avviata la ricerca sulla traduzione negli ultimi
due decenni. Il tentativo, in altre parole, è quello di identificare gli strumenti metodologici
più adatti a descrivere un fenomeno complesso e sfaccettato inserendoli in un quadro
armonico e riconoscibile, distinto da quello che caratterizza ciascuna delle discipline
affini (linguistica, pragmatica, sociologia, filosofia, letteratura, ecc.). In particolare,
l'attenzione di molti studiosi si è spostata sui seguenti aspetti (cfr. Hurtado Albir 2001:
172):
- necessità di raccolta di dati empirici;
- individuazione dei metodi di raccolta dei dati, i quali devono essere i più adatti a
spiegare i fenomeni su cui si incentra un determinato studio (ad es. modalità
traduttive, specifici problemi di traduzione, strategie impiegate dai traduttori,
caratteristiche delle procedure di lavoro, ecc.);
- illustrazione dei modi in cui la descrizione dei fenomeni si ricollega alla
riflessione teorica e questa a sua volta, secondo un moto circolare, influenza gli
studi descrittivi;
- capacità di riportare i fenomeni specifici osservati nell'alveo della disciplina in
generale, segnalando similitudini e differenze con i fenomeni osservati in altri
studi.
3.1 Tipi di ricerca empirica: studi naturalistici e sperimentali
Seguendo Gile (1998; v. anche Williams & Chesterman 2002) possiamo suddividere gli
studi empirici in due grandi categorie: gli studi naturalistici e gli studi sperimentali. I
primi poggiano sull’osservazione di un fenomeno così come esso si manifesta nella realtà,
senza interventi (per quanto possibile) dello studioso. Lo scopo può essere, ad esempio,
quello di osservare il metodo di lavoro di uno o più traduttori professionisti, magari
concentrandosi su un determinato aspetto (quando viene effettuata la revisione del testo
tradotto? Come vengono utilizzati i materiali di consultazione? Cosa cambia se il
traduttore traduce verso la lingua straniera?). Gli studi di questo tipo possono avere
carattere esplorativo o partire da un ipotesi specifica che il ricercatore intende verificare.
L’osservazione avviene secondo metodi diversi (talvolta usati in combinazione):
registrazione video o audio, somministrazione di questionari, registrazione della
digitazione del testo su computer, ecc.
Gli studi sperimentali sono quelli nei quali il ricercatore interviene
deliberatamente nella situazione che intende studiare; lo scopo è quello di isolare una
particolare caratteristica della situazione (quella appunto da studiare) e di fare in modo
che le altre rimangano costanti. Si può, ad esempio, studiare come viene eseguita la
revisione del testo in gruppi diversi di traduttori (di professionisti l’uno, di studenti
l’altro) che svolgono la traduzione in condizioni di lavoro identiche. Come per gli studi
34
naturalistici, esistono diversi metodi di raccolta dei dati. Tra quelli che attualmente
godono di maggior favore tra i ricercatori vi sono i Think-Aloud Protocols, ossia le
trascrizioni di quello che i partecipanti a un esperimento dicono nel verbalizzare i propri
pensieri durante l'esecuzione di un campito. Si tratta, com’è facile immaginare, di un
metodo non esente da controindicazioni (cfr. Bernardini 2001); attualmente tuttavia è uno
dei pochi strumenti a disposizione degli studiosi per osservare direttamente cosa
determini una scelta traduttiva (in altre parole, perché un traduttore traduce in modo
anziché in un altro, a patto ovviamente che della motivazione sia rimasta traccia nel
protocollo).
3.2 Tipi di ricerca empirica: ricerca qualitativa e quantitativa
Obiettivo della ricerca qualitativa è quello di illustrare le caratteristiche di un fenomeno,
descrivendolo e ponendone in risalto le potenzialità. Gli studi qualitativi non mirano a
conclusioni di carattere generale né probabilistico ma si preoccupano di evidenziare e di
interpretare ciò che è possibile osservare nelle varie manifestazioni di un fenomeno.
Mirano in altre parole a dare un’idea delle caratteristiche essenziali dell'oggetto di studio.
Gli studi quantitativi, invece, mirano a generalizzare un fenomeno dopo averlo
analizzato tramite misurazioni o confronti statistici. Oggetto di studio nelle ricerche
quantitative sono dunque tutte le caratteristiche di un fenomeno che possono essere
analizzate in termini di frequenza, regolarità e distribuzione. Tipico esempio di studio
quantitativo sono le ricerche basate su corpora.
I due poli metodologici non vanno considerati in opposizione reciproca ma come
parti integranti di un continuum o come metodi complementari. La decisione di adottare
l’uno o l’altro metodo dipende dall’oggetto di studio e dalla finalità della ricerca. In molti
studi recenti sulla traduzione gli studiosi hanno optato per il cosiddetto metodo della
triangolazione, ossia l’adozione di due o più metodi diversi di raccolta di dati, grazie alla
quale è possibile effettuare verifica incrociate delle ipotesi che emergono
dall'applicazione di ogni singolo metodo.
4. Una panoramica sugli studi empirici in traduzione scritta
Avendo delineato a grandi linee, e in maniera giocoforza sbrigativa, i principi
metodologici cui si ispirano le ricerche empiriche sulla traduzione, passiamo ora ad
illustrare sommariamente i vari studi che nel corso degli ultimi vent’anni si sono inseriti
in questo filone di ricerca. In via generale, possiamo osservare, per quanto riguarda la
traduzione scritta, una ripartizione dell’interesse degli studiosi su due distinti versanti: da
un lato quello della traduzione come processo, ossia attività nella quale entrano in gioco
fattori di tipo cognitivo (cosa succede nella mente del traduttore? Quali sono le
componenti della specifica competenza traduttiva?) e situazionale (quali sono le
caratteristiche dell’attività del traduttore
e come influiscono sul compito di
riformulazione linguistica?); dall’altro, quello della traduzione come prodotto (quali sono
le caratteristiche dei testi tradotti in generale o relativamente a una determinata coppia di
lingue?).
In generale, possiamo dire che si fa ricorso a dati empirici quando si cerca di dare
una risposta non intuitiva e impressionistica a una domanda iniziale che può essere
generica come quelle del paragrafo precedente (nel qual caso abbiamo bisogno di una
mole di dati notevole, pena la scarsa significatività dei risultati che otteniamo) o a
35
domande via via più specifiche. Ad esempio potremmo chiederci (cfr. Williams &
Chesterman 2002: 70):
• “Come è stata affrontata in questo insieme di testi la traduzione dei nomi propri?”
• “Qual è la frequenza relativa delle proposizioni principali e delle proposizioni
relative in queste traduzioni e in un insieme comparabile di testi non tradotti?”
• “Perché in questa traduzione/insieme di testi tradotti ci sono molte più frasi
relative di quelle che ci si potrebbe attendere?”
• “In che modo i traduttori professionisti che affrontano testi medici utilizzano gli
strumenti di consultazione online?”
Nel rispondere a domande di queste genere gli studiosi avanzano ipotesi di diversa natura
e di validità generale o limitata. In particolare, possiamo distinguere tra ipotesi
interpretative, descrittive, esplicative e predittive (cfr. Williams & Chesterman 2002: 7377). Esempi di ipotesi descrittive generali sono i seguenti:
- i testi tradotti sono più espliciti dei testi di partenza
- nelle traduzioni ci sono meno ripetizioni di elementi lessicali
- i testi tradotti sono più lunghi dei testi di partenza
Ecco invece qualche esempio di ipotesi descrittiva di validità limitata:
- nelle traduzioni dall’inglese in italiano aumenta il numero delle proposizioni
subordinate
- le traduzioni dei libri per bambini sono più “libere” di quelle di altri tipi di testo
- i traduttori professionisti usano gli strumenti di consultazione in modo diverso da
quelli non professionisti
- i traduttori tecnici vengono pagati di più di quelli letterari
4.1 Le ricerche basate su corpora
Gli studi sulla traduzione come prodotto si sono avvalsi dei progressi compiuti nel campo
dell’informatica, in particolare per quel che riguarda la raccolta di corpora testuali di
grandi dimensioni e l’analisi quantitativa di tali corpora condotta mediante apposite
applicazioni software. Nelle ricerche in traduzione si è soliti distinguere tra corpora
paralleli, ossia costituiti da un insieme di testi in una data lingua e dalle traduzioni di quei
testi in una seconda (ed eventualmente in altre lingue), e corpora comparabili, composti
da un insieme di testi in una determinata lingua e da testi analoghi (quanto a tipologia,
genere, funzione o argomento) in una o più altre lingue.
Sia un tipo che l’altro di corpus si presta ad analisi di tipo descrittivo. In
particolare i corpora paralleli si prestano a verificare la già citata ipotesi degli universali
traduttivi. Secondo questa ipotesi i testi tradotti presenterebbero delle caratteristiche
ricorrenti che li distinguono dai testi non tradotti senza tuttavia essere il risultato
dell’interferenza con il sistema linguistico della lingua di partenza (cfr. Baker 1993;
Mauranen & Kuyamaki 2004). Tra gli universali traduttivi annoveriamo l’esplicitazione,
la semplificazione, la tendenza ad evitare le ripetizioni e/o le parti ridondanti del TP, la
normalizzazione e l’uniformità (“levelling out”).
I corpora comparabili, invece, possono prestarsi ad analisi di tipo contrastivo che
possono poi trovare applicazione sia nella didattica della traduzione che nella didattica
delle lingue in generale. È importante ricordare, a proposito dei corpora, che, se studiarli
significa osservare la traduzione come prodotto, allo stesso tempo essi possono darci per
via indiretta informazioni sulle regolarità nelle scelte operate dai traduttori e sul processo
di traduzione. In altre parole, osservando come viene tradotto più e più volte un
determinato elemento della lingua di partenza (non solo una singola parola, ma un
costrutto sintattico o un elemento dotato di particolare valore pragmatico) possiamo fare
36
ipotesi sulla strategia che è alla base di quella particolare scelta traduttiva e di scelte
analoghe (si ricordi, a tale proposito, quanti si diceva sopra sulla necessità di considerare
le tra branche degli studi descrittivi non come compartimenti stagni ma come vasi
comunicanti).
4.2 Studi sulla traduzione come processo
Oltre a procedere a una descrizione più rigorosa e sistematica dei testi tradotti e delle
caratteristiche che li contraddistinguono, gli studiosi hanno voluto, negli ultimi quindici,
venti anni, osservare più da vicino i traduttori “in azione” per poter fare ipotesi su quello
che differenzia la traduzione da altre attività di natura linguistica e comunicativa. In
questo ambito di studio possiamo distinguere da un lato le ricerche di impronta
essenzialmente psicolinguistica, ossia quelle che cercano di capire come funzionano a
livello cerebrale, i meccanismi che sovrintendono alle operazioni di trasferimento
linguistico. Dall’altro, abbiamo invece studi di carattere essenzialmente sociologico, i
quali osservano la traduzione in quanto attività professionale e cercano di identificare i
tratti caratterizzanti di chi in una data comunità viene definito traduttore, distinguendolo
da chi solo estemporaneamente o per esigenze contigenti si trova a eseguire traduzioni da
una lingua all’altra. A cavallo tra le due prospettive si collocano studi quali quelli sulla
natura delle competenze traduttive e sull’acquisizione di tali competenze, un filone molto
vivo anche per la sua evidente utilità in ambito applicativo, e più in particolare in sede
didattica.
Le questioni che più hanno interessato gli studiosi relativamente alla traduzione
come processo (cfr. Krings 2005: 345-346): sono:
- i fattori legati al traduttore: la sua “expertise” (ossia la competenza specifica); la
sua competenza specialistica relativa al settore cui appartiene il testo da tradurre;
le strategie che sembra preferire
- i fattori legati al compito traduttivo: il tipo di testo; la consegna; la coppia di
lingue considerata; il “verso” della traduzione
- i fattori “ambientali”: gli ausili tecnici; gli strumenti di consultazione; altri fattori
situazionali
Per quanto riguarda invece la natura e i metodi di raccolta dei dati, gli studi sulla
traduzione come processo impiegano si rifanno a due grandi categorie (cfr. Krings 2005:
348):
- i dati “off-line”: essenzialmente i prodotti dell'attività di traduzione, con ciò
intendendo non solo i testi finiti ma anche le annotazioni scritte e le revisioni; in
questa categoria rientrano anche eventuali questionari sottoposti ai traduttori o
interviste retrospettive condotte a posteriori dal ricercatore
- i dati “on-line”: registrazioni della digitazione su tastiera, misurazioni
oculometriche, misurazioni dell’attività cerebrale, protocolli verbali (TAP,
protocolli dialogici).
4.3 Esempi di ricerche empiriche
Per concludere riportiamo, a titolo puramente esemplificativo, i risultati di alcuni studi
condotti negli ultimi anni utilizzando i vari metodi di raccolta dei dati illustrati in
precedenza.
Jääskeläinen (1999) utilizza dati ricavati da TAP per identificare una eventuale
correlazione tra atteggiamento del traduttore rispetto al compito che gli è stato affidato e
37
qualità del testo tradotto. Lo studio tiene conto di tre variabili: una testuale (ossia le
caratteristiche delle traduzioni) e due contestuali (i protocolli verbali da un lato e il di
qualità sui testi espresso da valutatori esterni). Risultato dello studio è che, all’aumentare
della complessità sintattica di un testo, la qualità della traduzione, anche a parità di
contenuti, diminuisce.
Olohan and Baker (2000) mettono a confronto la frequenza di relative con omissione di
that in un corpus comparabile composto da testi inglesi tradotti e non tradotti, osservando
come nei testi non tradotti (assunti come norma) l’omissione risulti più frequente.
Breedveld (2002) è uno studio basato su TAP dal quale emerge come sia difficile
ipotizzare una netta separazione e un sequenziamento stabile delle attività cognitive svolte
da un traduttore impegnato nella trasposizione di un testo. Lo studio mostra come ogni
fase del processo traduttivo veda una alternarsi ciclico delle attività basilari di lettura,
formulazione, scrittura e revisione testuale, ciascuna delle quali, tuttavia, assume una
nuova valenza funzionale ogni volta che viene ripetuta. La collocazione temporale di
ciascuna attività all'interno del processo, in altre parole, cambia la funzione e gli obiettivi
dell'attività stessa.
Halskov Jensen (2002) illustra i risultati di uno studio sperimentale il cui scopo era
quello di capire cosa rendesse difficile un testo per un gruppo di traduttori. L’esperimento
è basato sulla traduzione di testi di argomento simile ma con caratteristiche stilistiche
diverse. I dati raccolti sono: TAP, resoconti retrospettivi, keyboard logs, questionari,
valutazione esterna dei testi tradotti. I risultati mostrano come l’appartenenza di un testo a
un dato genere (e dunque il fatto che esso presenti specifiche caratteristiche stilistiche)
influisce sulla qualità delle traduzioni.
5. A mo' di conclusione
L'area degli studi basati su dati empirici è quella in cui, negli ultimi due decenni, i
Translation Studies hanno visto uno dei loro maggiori sviluppi teorici e metodologici.
Snell-Hornby (2006) e altri studiosi sono persino arrivati a parlare di una vera e propria
"svolta empirica", alla quale si sarebbe arrivati grazie ad un'intensa riflessione operata sì
"from within the field" (Snell-Hornby 2006: 115) ma anche traendo linfa da teorie e da
approcci metodologici propri di una varietà di settori disciplinari affini. L'impressione che
si ricava da uno sguardo d'insieme come quello gettato, sommariamente, in questa sede è
che comunque tale svolta non sia per il momento che un punto di partenza verso un più
sicura definizione di strumenti metodologici e paradigmi teorici.
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Applications”, in M. Baker, G. Francis & E. Tognini-Bonelli (eds.) Text and Technology:
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38
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Williams, J. & Chesterman A. (2002), The Map. A Beginner’s Guide to Doing Research
in Translation Studies, Manchester, St. Jerome.
39
Franco Nasi
Alice & Alice: identità, traduzione, parodia
Tu che mi leggi,
sei sicuro di
intendere
la mia lingua?1
1. La domanda in esergo non è solo una provocazione. Borges la formula verso la fine del
racconto La Biblioteca di Babele, in cui descrive una biblioteca-labirinto infinita, formata
da gallerie esagonali, corridoi, scale a spirale, pozzi, specchi. In essa sono contenuti tutti i
libri, scritti in tutte le lingue. Alcune lingue, apparentemente identiche, impiegano le
stesse parole, ma con significati diversi:
Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune, il simbolo
biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di
gallerie esagonali, ma biblioteca sta qui per pane, o per piramide, o per qualsiasi
altra cosa, e per altre cose stanno le sette parole che la definiscono.2
Per Borges, dunque, il rapporto tra parole e cose è arbitrario, forse unico e irripetibile. Si
può persino ipotizzare che ciò che è scritto da uno scrittore in un certo tempo, in un certo
luogo, se riscritto da un secondo autore, esattamente nello stesso modo, ma in un tempo e
in un luogo diversi non significherà la stessa cosa. In un altro famoso racconto/saggio
(Pierre Menard, autore del “Chisciotte”) Borges descrive l’opera letteraria e filosofica di
un fantomatico scrittore francese vissuto, nella mente di Borges, fra Otto e Novecento.
L’opera “visibile”, pubblicata di Menard è composta da diciannove volumi, saggi,
trasposizioni, versi di varia natura, fra cui un articolo sulla possibilità di rendere più
interessante il gioco degli scacchi eliminando uno dei pedoni di torre (proposta poi
confutata nello stesso scritto), oppure la trasposizione in alessandrini del decasillabico
Cimitière marine di Valery. Ma più originale e bizzarra è l’opera “sotterranea” e
incompiuta di Menard, in particolare il suo tentativo di riscrivere il Don Chisciotte. La
stravaganza dell’impresa consiste nel fatto che Menard non intende ricopiare
semplicemente il Don Chisciotte né scriverne uno parallelo né parafrasarlo, tradurlo,
attualizzarlo, rielaborarlo, dargli un seguito. “Non volle comporre un altro Don Chisciotte
– ciò che è facile – ma il Chisciotte. (...) La sua ambizione mirabile era di produrre alcune
pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de
Cervantes”3. L’impresa è titanica e paradossale allo stesso tempo. Per comporre il
Chisciotte bisogna possedere la lingua di Cervantes, professare la stessa religione,
condividere la stessa visione del mondo, dimenticare la storia dopo il 1602: in una parola,
“essere Miguel de Cervantes”. Questa strategia camaleontica di “simulazione” (fingere
cioè di essere Cervantes nel XX secolo) è perseguita all’inizio da Menard, ma presto
abbandonata perché ovvia e troppo facile. Meglio restare Menard, uomo del XX secolo, e
1
Borges (1984), p. 688.
Ibid.
3
Ivi, p. 653.
2
40
cercare di “giungere al Chisciotte attraverso le esperienze di Pierre Menard”.4 Il risultato
apparentemente non cambia. Alla fine ciò che Menard scrive sono due capitoli interi (IX e
XXXVIII) e un frammento del capitolo XXII della prima parte. Sono verbatim gli stessi
che aveva scritto Cervantes, eppure, per Menard, sono un’altra cosa.
Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz’altro rivelatore.
Il primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):
... la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni,
testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.
Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ “ingenio lego” Cervantes,
quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro,
scrive:
... la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni,
testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire.
La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di
William James, non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine.
La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che
avvenne. Le clausole finali – esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire
– sono sfacciatamente pragmatiche.5
Le frasi scritte da Cervantes e Menard sono identiche ma non tautologiche. Quella di
Menard è letta alla luce dei fatti accaduti dal 1602 in poi. La lettura è “più sottile”, se non
altro perché “sono passati trecento anni, carichi di fatti quanto mai complessi: tra i quali,
per citarne uno solo, lo stesso Chisciotte”.6 Borges mette al centro del processo
ermeneutico il lettore e si prende gioco delle certezze della scienza della critica orientata
al testo e alla lettera.
Alla luce di questa pagina fantastica di storia della critica letteraria, dovrebbe
essere più chiaro il senso della domanda paradossale dalla quale siamo partiti. Paradossale
perché tutti pensiamo, essendo native speaker italiani, di intendere perfettamente la nostra
lingua. Ma l’esperienza ci mostra, forse sorprendendoci, che la lingua a volte fa brutti
scherzi: ci spiazza, ci inganna, ci nasconde cose che per alcuni sono invece evidenti.
Ciascuno di noi usa una lingua condivisa quando parla o scrive a un interlocutore o a un
lettore, come faccio io, in questo momento. Eppure la lingua che sto usando è la mia
lingua, il mio modo di intendere la lingua. Uso espressioni, figure, ritmi che mi
assomigliano o che mi appartengono, che sono parte del mio idioletto, del mio modo di
partecipare alla lingua italiana. Ricondurre l’idioletto all’idioma, la lingua privata a quella
della comunità è sempre banalizzare, ridurre, uniformare. Dietro ogni frase,
intenzionalmente o meno, c’è un’infinità di rimandi, di possibilità semantiche che non
sempre l’interlocutore coglie. Se nel pronunciare una parola qualunque, ad esempio
“appartengo”, ho presente e sento la sua radice (l’essere parte), allora la frase “le
espressioni mi appartengono”, che ho appena usato, non vorrà dire che io possiedo le
4
Ibid.
Ivi, pp. 656-57.
6
Ivi, p. 655.
5
41
espressioni, ma che esse sono parte di me, mi costituiscono. Se sono abituato ad associare
il verbo appartenere a frasi del tipo: “queste terre appartennero a Matilde di Canossa”,
quel verbo avrà un certo colore; se invece mi ronza in testa una frase di Nietzsche “Io
appartengo all’essere e non lo so dire”, ripresa e ripetuta in una poesia come un mantra
ossessivo da Mariangela Gualtieri, quello stesso verbo assumerà un significato diverso.7
Polisemia è solo la formula, sintetica e riduttiva, che indica la natura del problema, ma
che non fa giustizia di una gamma di sfumature di significato di fronte alla quale ci si
sente quasi impotenti. È il problema di ogni interpretazione: le chiose, le note, i saggi
servono appunto a rendere più consapevole il lettore di significati altri che il testo può
assumere. Il testo così si moltiplica, si manifesta in modi diversi, si frammenta e si
riassembla, come le figure geometriche sempre varianti di un caleidoscopio.
Quando ci troviamo a dover tradurre un testo da una lingua ad un’altra, il
problema diventa ancor più complesso e stringente. È come se tutte le sfumature, le
connotazioni, i colori della parola (che naturalmente variano anche in riferimento alla
relazione che ciascuna parola ha con le altre che l’accompagnano), assieme alle note, le
chiose e i saggi dovessero essere risolti nella scelta di un termine, una scelta spesso secca,
unica, senza appello. Meglio dunque arrivare alla scelta, non eludibile nel processo
traduttivo, con la maggior consapevolezza possibile delle molteplici valenze di significato
del testo, piuttosto che banalizzare, riducendo la traduzione a una corrispondenza lessicale
omologante. Da ciò discende la prima qualità del traduttore: l’incertezza, ovvero il
dubbio come metodo. Quando leggiamo un testo è necessario mettersi in ascolto, liberarsi
per quanto possibile dalla presunzione di conoscere perfettamente la lingua che stiamo
leggendo, anche se quella lingua fosse la nostra lingua madre. Non basta essere bilingue
per essere buoni traduttori: bisogna anche essere umili e attenti ascoltatori. Bisogna
lasciarsi infettare da quella che Ortega y Gassett nelle sue Meditazioni sul Chisciotte
chiama “brama di comprendere”,8 perché niente nuoce alla traduzione quanto la rigidità:
“Convien mantenerci in guardia contro la rigidità” che, ci ricorda ancora Ortega y
Gassett, è la “tradizionale livrea delle ipocrisie”.9
2. È luogo comune della traduttologia contemporanea affermare che non si traduce mai
parola per parola né frase per frase, ma testo con testo. È luogo comune anche che la
traduzione non è un fatto solo linguistico (e intendo qui linguistica nel senso stretto di
disciplina che ha lo scopo di descrivere, con il rigore della scienza, i modi in cui si
struttura sincronicamente e diacronicamente il linguaggio, individuandone e
catalogandone le norme), non coinvolge cioè solo la lingua ma la cultura: non si traduce
da una lingua a un’altra ma da una cultura a un’altra. L’evidenza di questa centralità della
cultura (per cui ogni mediazione linguistica è e non può non essere mediazione
interculturale, a meno di non rischiare di non essere affatto mediazione) si vede assai bene
considerando le traduzioni endolinguistiche, le riscritture o riformulazioni di un testo
nelle stessa lingua (penso ad esempio alle riscritture recenti dei classici italiani del
medioevo e del rinascimento). Un altro ambito in cui queste considerazioni sembrano
vincolanti è quello della traduzione delle parodie, dove i testi rimandano, in virtù della
loro stessa natura di testi derivati, ad altri particolarmente significativi per la cultura e
l’identità della comunità.
La parodia è un controcanto, una composizione (musicale, letteraria, figurativa)
che nasce e che vive accanto a un testo presupposto. Di solito s’intende con parodia una
7
Gualtieri (2003), p. 27.
Ortega y Gasset (2000), p. 34.
9
Ivi, p. 36.
8
42
riscrittura comica, sarcastica, ironica, di un verso, una frase, un discorso, un libro, un
genere letterario. Così “E l’alluce fu”, pronunciato da Dio durante un improbabile ma
esilarante dialogo con San Pietro, è parodia di Roberto Benigni del biblico “E la luce
fu”.10 Molto più articolata è la Batracomiomachia che Leopardi traduce dal greco a più
riprese e che nasce come parodica rivisitazione dell’Iliade, dove le battaglie anziché da
achei e troiani sono combattute da rane e topi.
Lo spettro delle possibilità della parodia è ampio sia in riferimento ai generi (dal
verso ad un intero romanzo, come nel caso dell’Ulysses di Joyce) sia rispetto alle
intenzioni del controcanto. Si parla in genere di regime ludico della parodia, ma esiste,
ampiamente attestato dalla critica e dalla storia della letteratura, una parodia con intento
edificante. Nel Cinquecento, ad esempio, sono composti numerosi Canzonieri spirituali,
testi che prendevano spunto o si riferivano al Canzoniere di Petrarca, ma lo riscrivevano
sostituendo alla storia della passione amorosa e del “giovanil errore” di Petrarca per
Laura, la storia di una passione per Gesù, unico fine degno delle ansie dell’uomo.11
La parodia può avere queste due direzioni (ludica o edificante), può esercitarsi su
tutti i generi e su testi di varia lunghezza. Ma la cosa che accomuna tutte le parodie è che
il lettore riconosce nel testo che ha di fronte un testo originario, un ur-text, ripreso
intenzionalmente dall’autore. Così “E l’alluce fu”, che chiamo ipertesto seguendo
Genette, sarebbe solo un non-sense o tutt’al più un enigma se non ci fosse un ipotesto (“E
la luce fu”) che lo fa essere quello che è, e cioè prima di tutto un testo parodico, un testo
che ha come sua caratteristica peculiare quella di essere un testo di secondo grado, un
testo cioè riflettente e deformante.12 La parodia nasce dalla condivisione da parte
dell’autore e del lettore della conoscenza di un ipotesto: senza questo presupposto
l’enunciato perde la propria caratteristica metatestuale. Come scrive Bachtin:
Se noi non conosciamo l’esistenza di questo secondo contesto del discorso altrui e
cominciamo a percepire la stilizzazione o la parodia come si percepisce il discorso
solito – diretto solo sul proprio oggetto – noi non comprendiamo questi fenomeni
nella loro realtà: la stilizzazione sarà da noi percepita come stile, la parodia
semplicemente come opera mal riuscita.13
3. Veniamo finalmente al cuore del nostro problema: la traduzione della parodia. Come si
può tradurre il titolo del libro di Benigni? Immaginiamo il traduttore alle prese con questo
compito. Se è buon conoscitore della lingua italiana saprà che “alluce” è il nome di un
dito del piede. Ma solo se riuscirà a “leggere” fra le righe (o oltre la lingua) capirà che si
trova di fronte a una deformazione del passo biblico. È ovvio che esistono dizionari, ma
nessuno dirà al traduttore del rapporto fra “l’alluce” e “la luce”. La prima difficoltà nel
tradurre la parodia è ovvia: capire di essere di fronte a una parodia. Questi scritti, come le
barzellette, i motti di spirito, le battute ironiche, sono di gran lunga i più problematici da
comprendere in una lingua straniera.
10
Benigni (1996), p. 136.
La bibliografia sulla parodia è assai ampia. Rimando, per una prima introduzione
all’argomento, ai testi di Freund (1981), Hutcheon (1984), Gorni e Longhi (1986), Rose (993),
Billi (1993), Bonafin (2001), Agamben (2005) e al reader a cura di Bonafin (1997). Si veda anche
il numero monografico di «Moderna», VI, 1, 2004 e in particolare di Massimo Bonafin e Gilda
Policastro l’utilissimo Repertorio bibliografico ragionato sulla parodia (1977-2004), pp. 151197.
12
Genette (1997), pp. 10-13.
13
Bachtin (1969), p. 240.
11
43
La seconda difficoltà è decidere la strategia traduttiva da adottare, scegliendo fra
due direzioni forse antitetiche: privilegiare la corrispondenza lessicale, aderendo alle
immagini, oppure privilegiare l’aspetto parodico, preservando la natura deformante e
riflettente del testo. “And the big-toe was” oppure “And there was Sprite” (dove “Sprite”,
che è foneticamente vicino a “Light”, può essere ironicamente sia folletto che il nome di
una bibita) sono due soluzioni legittime ma opposte e che rispondono a intenzioni
traduttive diverse.
Vediamo un esempio dall’inglese all’italiano. Se dico “Two bees or not two bees”
immagino che tutti capiscano immediatamente che qui si sta giocando parodicamente con
l’Amleto di Shakespeare. Lo capiamo perché condividiamo l’ipotesto (o almeno quel
passo particolare: “To be or not to be”). Come tradurre una breve parodia come questa?
“Due api o non due api” è una traduzione preoccupata dell’aderenza lessicale; “Esser re o
non esser re”, “Tessere o non tessere”, “Etere o non etere” segnano invece la parodicità
del testo. Ma ancora quest’ultima soluzione è possibile solo perché in italiano “essere o
non essere” è proverbiale, culturalmente condiviso e parte del bagaglio identitario della
cultura occidentale.
Un terzo esempio: Catch her in the eye è il titolo di un corto dell’australiano
Edward Norton. Qui il problema della traduzione si fa complicatissimo. Un lettore inglese
riconosce subito il gioco di parole con The Catcher in the rye (Il ricevitore nella segala),
titolo del famoso romanzo di Salinger che, com’è noto, è tradotto in italiano con Il
giovane Holden. Il titolo del romanzo in italiano è assai lontano da quello inglese
probabilmente perché il primo traduttore del libro non era riuscito a restituire in italiano
l’originale che derivava da una deformazione del verso di Robert Burns, “When a body
meet a body, comin’ thro’ the rye”, da parte di un personaggio del romanzo che lo
trasforma in “When a body catch a body, comin’ thro’ the rye”. Da quella deformazione
cominciava una invenzione fantastica di Holden che si immaginava di trovarsi in un
campo di segala vicino a un burrone dove giocavano dei bambini e il suo compito era
quello di acchiappare i bambini prima che precipitassero. Dunque catcher, come un
ricevitore di baseball in un campo di segala che ferma bambini. Il titolo del corto (che è a
sua volta storpiatura dell’espressione idiomatica catch her eye: “cattura lo sguardo di lei”)
è quasi omofono (Catch her in the eye – Catcher in the rye): la distanza fra i due titoli è
abissale, ma i rimandi intertestuali sono numerosissimi. Burns, il ragazzino che lo canta,
Holden, Salinger, Norton: siamo davanti a un vero rompicapo traduttivo e culturale.
Lascio al lettore il compito di risolverlo.
Tradurre la parodia, tradurre cioè un testo così profondamente vincolato da un
ipotesto condiviso e convenzionale, mostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che la
traduzione riguarda le culture e non si riduce a un fatto meramente linguistico.14 La
parodia mette in seria difficoltà la pretese di intendere la traduzione come un processo
oggettivo che ammette una e una sola soluzione.
Per quanto il mestiere del traduttore sia difficile e continuamente soggetto a dubbi
e revisioni, non si dovrà gettare la spugna di fronte a frasi come “E l’alluce fu”, “Two
bees or not two bees” o “Catch her in the eye”. Senza dubbio esistono traduzioni difficili,
e la parodia fa parte delle traduzioni ad alto rischio, ma non credo esistano traduzioni
14
Scrive Paola Mildonian, in uno dei pochi saggi dedicati alla traduzione della parodia: “La
traduzione e la parodia sono operazioni letterarie e in senso più lato artistiche per eccellenza, ma
al tempo stesso entrano difficilmente nei rispettivi canoni (...). Sono operazioni che non si
lasciano interamente spiegare né dai sistemi linguistici, né dalle retoriche o dalle poetiche, e
nemmeno dai più ampi sistemi semiotici. Esse esigono una lettura antropologica oltre che
storica”. Mildonian (1993), pp. 73-74.
44
impossibili perché le scelte sono molteplici e mai univoche e definitive. Dal punto di vista
teorico è anzi opportuno mettere tra parentesi il problema di quale sia la traduzione
corretta. Più vantaggioso sarà procedere a una serie di rilievi di tipo fenomenologico sui
diversi modi nei quali la parodia è tradotta, verificandone i vantaggi e gli svantaggi, gli
acquisti e le perdite. La teoria – sempre che sia opportuno utilizzare questo temine per un
attività così profondamente segnata dalla irripetibilità dell’esperienza come la traduzione,
e non invece, come suggerisce Berman, il termine “riflessione” – dovrebbe configurarsi
dal fare concreto di chi traduce e dalla lettura attenta e non pregiudicata del lavoro dei
traduttori, alla luce di una coscienza vigile e continuamente ripresa.15
4. Tenterò qui una breve analisi comparativa di strategie traduttive diverse, messe in atto
su una famosa parodia di Carroll in Alice nel paese delle Meraviglie.
Siamo all’inizio della storia e Alice ha la prima crisi d’identità. Dopo aver bevuto
da una bottiglietta trovata per caso e mangiato un piccolo pasticcino, si accorcia e allunga
a dismisura, “come un cannocchiale”. Durante questo momento di smarrimento, Alice
tenta di ritrovare se stessa, e lo fa via negationis, escludendo di essere una delle sue
amiche. Non è Ada “For her hair goes in such long ringlets, and mine doesn’t” (evidenza
fisica); non è neppure Mabel “For I know all sorts of things, and she, oh, she knows such
a very little” (evidenza intellettuale).16 Passa cioè dalla prova relativa all’identità corporea
a una serie di verifiche culturali. Dopo un test insoddisfacente di matematica e uno
altrettanto disastroso di geografia, Alice, che comincia a sospettare di essere
effettivamente Mabel, di avere cioè perso la propria identità, decide di tentare con la
letteratura: “I’ll try and say ‘How doth the little…’.”17 Il testo che Alice vorrebbe recitare
a memoria è la poesia più nota di Isaac Watts (1674-1748), teologo e scrittore di inni
famosi. Ecco il testo di Watts:
How doth the little busy bee
Improve each shining hour,
And gather honey all the day
From every opening flower!
How skillfully she builds her cells!
How neat she spreads the wax!
And labours hard to store it well
With the sweet food she makes.
In works of labor or of skill,
I would be busy too;
For Satan finds some mischief still
For idle hands to do.
In books, or work, or healthful play,
Let my first years be passed,
15
Berman (2003), p. 16.
Come assaggio dell’analisi comparata delle traduzioni che seguirà propongo due versioni di
questo passo: « “Sono sicura di non essere Ada”, si disse, “perché i capelli di Ada si arricciano in
lunghi boccoli, mentre i miei non si arricciano affatto; e neppure posso essere Gigina perché io so
tante cose che Gigina non sa» (traduzione di Emma Cagli del 1908, in Carroll (1988), p., 17);
“Ada non posso essere di sicuro”, disse, “lei ha tutti quei boccoli e io sono liscia come un olio;
mai più posso essere Mabel, io so un sacco e una sporta di cose e lei, oh! lei non sa un’acca”
(traduzione di Aldo Busi del 1988 ora in Carroll (1993), p. 29.)
17
Carroll (1970), p. 38.
16
45
That I may give for every day
Some good account to last.18
L’andamento ritmico è cadenzato e regolare (quartine di tetrapodie e tripodie con
frequenti rime alternate) e il messaggio molto esplicito: un inno all’operosità dell’ape
nelle prime due quartine; un auspicio che l’Io, soprattutto nella sua prima età, resista alle
tentazioni sataniche dell’inoperosità e dell’ozio. È dunque una poesia con chiari intenti
educativi e didascalici, al punto che l’espressione busy bee è usata nella lingua comune
come un complimento rivolto ai bambini attivi e creativi. Non è casuale che Alice cerchi
di recitare proprio una poesia così moraleggiante, in linea con le istanze di operosità
dell’etica puritana, per dare prova della propria identità, cioè di sapere e di saper
comportarsi. Ma, naturalmente, si assiste a un carnevalesco rovesciamento, e il testo
parodico che ne esce è una specie di non-sense, in verità molto sensato:
How doth the little crocodile
Improve his shining tail,
And pour the waters of the Nile
On every golden scale!
How cheerfully he seems to grin,
How neatly spread his claws,
And welcome little fishes in
With gently smiling jaws!19
È mantenuta la forma chiusa della composizione, l’impianto ritmico è lo stesso, molti
sono i termini invariati; completamente differente è invece il protagonista che da ape
operosa diventa un sadico coccodrillo ittiofago, preoccupato vanitosamente solo della
lucentezza delle proprie squame. Il testo è inoltre tagliato e scompaiono sia Satana che
l’Io, chiamato in giovane età a scegliere fra il bene e il male. Il testo dunque si trasforma
da lezioncina edulcorata e moralistica in beffardo inno all’ozio e all’edonismo. Non
poteva esserci ribaltamento maggiore!
4.1 Teodorico Pietrocòla Rossetti, che per primo, nel 1872, tradusse Alice in italiano,
adotta per questa poesia una strategia traduttiva che annulla la specificità culturale e
identitaria del testo di partenza, privilegiando così il lettore rispetto all’autore. Egli
restituisce il senso della parodia trovando un’equivalenza20 fra la cultura di partenza e
quella d’arrivo. Il traduttore cerca nella letteratura italiana un testo noto quanto la poesia
di Watts, di facile orecchiabilità, che abbia come protagonista un animale positivo. Si
rivolge così a una patetica ballata romantica, spesso mandata a memoria nelle scuole (e
quindi condivisa e identitaria), di Tommaso Grossi tratta dal romanzo storico Marco
Visconti del 1834:
Rondinella pellegrina,
Che ti posi in sul verone,
Ricantando ogni mattina
Quella flebile canzone,
Che vuoi dirmi in tua favella,
pellegrina rondinella?
18
citato in Ivi, pp. 38-39n.
Ivi, p. 38
20
Per la nozione di equivalenza dinamica si rimanda a Nida (1964).
19
46
Solitaria nell’oblio
Dal tuo sposo abbandonata
Piangi forse al pianto mio
Vedovetta sconsolata?
Piangi piangi in tua favella
Pellegrina rondinella (…)
La rondinella, che mostra tanta solidale compassione e simpatia per il protagonista della
ballata, un carcerato che la vede dalle sbarre della finestra, è libera di volare via all’arrivo
dell’autunno. Tornerà dopo l’inverno e le nevi, ma al posto del carcerato “una croce a
primavera / troverai su questo suolo: / Rondinella, in su la sera / sovra lei raccogli il volo:
/ Dimmi pace in tua favella, / Pellegrina rondinella”.21 Come Carroll, Pietrocòla Rossetti
nella sua traduzione addomesticante22 accorcia la ballata, e la riduce a una sola sestina:
Rondinella porporina
Che ti posi sul loggione
Raccattando ogni mattina
La zanzara ed il moscone,
Li vuoi friggere in padella
Porporina rondinella? 23
Sono evidenti le tecniche adottate: è mantenuta una forma chiusa (sestina di ottonari con
schema di rima ABABCC), le deformazioni sono inizialmente minime e consistono in
paronomasici slittamenti fonetici (pellegrina – porporina, verone – loggione, ricantando –
raccattando), poi la storia va per conto suo, così come succedeva nella parodia di Carroll,
e l’animale simbolo positivo diventa un comico predatore. Il processo si può forse
sintetizzare con due semplici proporzioni o equivalenze:
Watts : Carroll = Grossi: Pietrocola Rossetti
ape industriosa : coccodrillo ittiofago = rondinella compassionevole : rondinella insettiofaga
A questo punto delle due storie (in inglese e in italiano) le due Alice sono quasi certe di
aver perso la propria identità: l’incapacità di ripetere una formula rituale condivisa le ha
trasformate in altre persone. Ma queste nuove persone, prive di identità, o con una nuova
identità, sono molto diverse fra loro. La loro differenza non sta più solo nel modo in cui il
loro nome omografo ma non omofono deve essere pronunciato (Alice inglese - pronuncia
ǽlis), ma si pongono nei confronti dei valori etici delle proprie culture di appartenenza in
modo difformi: corrosiva e profondamente sovversiva l’Alice inglese, più giocosa e tutt’al
più antiromantica l’Alice italiana. La traduzione addomesticante di Pietrocola Rossetti ci
21
Grossi (1953), pp. 319-20.
Per la nozione di addomesticamento si rimanda a Venuti (1995).
23
Le avventure d’Alice nel paese delle Meraviglie per Lewis Carroll, tradotte dall’inglese da T.
Pietrocòla-Rossetti; con 42 vignette di Giovanni Tenniel, Londra, Macmillan and Co. 1872, che
riportava dunque le stesse immagini dell’edizione inglese, venne distribuito in Italia con identica
stampa, nello stesso anno, dalla Loescher di Torino. La versione di Pietrocòla Rossetti è stata
recentemente ripubblicata con illustrazioni di Emanuele Luzzati e prefazione di Ferruccio
Giromini da Nuages, Milano 1998. La citazione della poesia si trova a p. 27. A questa edizione si
rimanda. Sul primo traduttore e sulla ricezione di Alice in Italia si veda Vagliani (1998).
22
47
restituisce la perdita di identità di Alice, ma non ci dà alcuna informazione sui valori
morali, comportamentali, che sono stati invece messi alla berlina da Alice. C’è stato un
ribaltamento ludico di un ipotesto, ma non si hanno informazioni sul ribaltamento ben più
pregnante della morale puritana che Alice giocosamente e beffardamente costruisce.
Non dissimile è la strategia addomesticante di Emma Cagli, autrice nel 1908 della
prima traduzione italiana che ottenne un importante successo di vendite e che fece
conoscere ai lettori italiani il libro di Carroll. Intenzionata a mantenere la natura parodica
della poesia di Alice, e decisa per questo anche a ricontestualizzarla radicalmente, Emma
Cagli ricorre alla famosa poesiola per bambini di Luigi Sailer (1825-1885) La farfalletta:
La vispa Teresa
avea tra l’erbetta
A volo sorpresa
gentil farfalletta
E tutta giuliva
stringendola viva
gridava distesa:
"L’ho presa! L’ho presa!".
A lei supplicando
l’afflitta gridò:
"Vivendo, volando
che male ti fò?
Tu sì mi fai male
stringendomi l’ale!
Deh, lasciami! Anch’io
son figlia di Dio!".
Teresa pentita
allenta le dita:
"Va', torna all'erbetta,
gentil farfalletta".
Confusa, pentita,
Teresa arrossì,
dischiuse le dita
e quella fuggì.24
Ed ecco la riscrittura parodica dell’ipotesto scelto dalla Cagli.
La vispa Teresa
Correa tra l’erbetta
Gridando distesa:
Il pranzo m’aspetta.
E tutta giuliva,
Già il gusto sentiva
Del giallo risotto
E dello stracotto.
A questo pensando
Il passo affrettò,
Correndo, saltando,
Col piede inciampò.
24
Sailer (1927), p. 124.
48
Sgualcì il suo grembiale,
Si fece assai male,
Si sa: chi va piano,
Soltanto, va sano.
Il grande banchetto
In pianto finì:
Teresa nel letto
Rimase tre dì.25
Non occorre essere fini lettori per rendersi conto di come il testo leggero ma “edificante”
di Luigi Sailer, preoccupato di insegnare ai bambini a rispettare gli animali, creature di
Dio, al par dell’uomo e dei bambini, anziché venire ribaltato nella parodia, sia soltanto
riscritto in modo parodico mantenendo però alla fine un monito per il bambino: “Si sa: chi
va piano, / Soltanto, va sano”. Il controcanto della Cagli anziché mettere in crisi l’assunto
etico condiviso, come solitamente fa la parodia, lo ribadisce in altra forma. Di nuovo
l’Alice italiana non riesce a graffiare come Alice, e il non-sense irriverente, segno di
quella “regola dell’inversione” di cui parla Carlo Sini in un suo bel saggio sul libro di
Carroll,26 resta fuori dalla porta della letteratura italiana.
Diverso atteggiamento traduttivo hanno invece le versioni più recenti, a
cominciare dalla metà del secolo scorso con quella di Tommaso Giglio (1950) che
vorrebbe garantire la massima fedeltà al testo originale (ma che cade proprio in questi
versi in un imbarazzante misunderstanding di “scale”), di Guido Almansi (1978) che
interviene su una precedente traduzione di Ranieri Carano ritraducendone solo le poesie,
di Marcella Amadio (1989) in una versione per le scuole, e di Aldo Busi (1993) in una
versione cosiddetta “d’autore”:
(Giglio)
Il piccolo coccodrillo
Che se ne va tutto arzillo
Con la sua coda bagnata
Sporca la scala dorata.
E con le unghie e coi denti
Afferra i pesci imprudenti:
prima stringe le mascelle
e poi ride a crepapelle.27
(Almansi)
Com’è che il coccodrillino
Che sprizza e spruzza le acque del fiume
Sulle scaglie dorate del suo codino
Può darsi lustro, onore e lume?
La sua boccuccia spalanca giulivo;
mostra le zanne graziose e taglienti.
Nella sua bocca ha lieta accoglienza
Ogni pescetto che nuota nel rivo.28
(Amadio)
L’industrioso coccodrillo
Migliora la sua coda
25
Carroll (1988), pp. 17-18.
Sini (2006), p.11.
27
Carroll (1978a), p. 67.
28
Carroll (1978b), pp. 15-16.
26
49
Quando la risciacqua arzillo
Del Nilo sulla proda!
Com’è affabile e accogliente
E ride a crepapelle
Quando riceve i pesciolini
Nelle ospiti mascelle!29
(Busi)
Piccol’ape…ste di un coccodrillo
Spruzza e sguazza la tua coda
In crociera lungo il Nillo [sic] fra la densa sua fanghiglia
E ti agghindi scaglia a scaglia con la melma più di moda!
“O soave sogghignare, o sbadigli sopraffini,
zanne senza fil di tartaro son quelle!
È un’autentica delizia per granchietti e pesciolini
Varcar la soglia delle tue mascelle!”30
Ci sono vistose differenze stilistiche e lessicali, ma anche talune scelte inattese. Il
coccodrillo che è indubbiamente “piccolo” in inglese, qui diventa “industrioso” nella
versione di Amadio e una “piccol’ape...ste” in Busi. Entrambi tentano in qualche modo di
immettere nel testo degli indizi che segnalino al lettore un’anomalia. Tutte e quattro
comunque hanno in comune una manifesta e intenzionale aderenza al valore del lessico e
delle immagini, si mantengono all’interno del mondo culturale di Carroll, e spingono il
lettore verso il mondo immaginato da Alice. Tuttavia è fuori di dubbio che la qualità
parodica del testo è smarrita. In queste traduzioni lo sforzo è rivolto unicamente
all’ipertesto anziché al rapporto tra ipertesto/ipotesto. Così viene a mancare un elemento
cruciale: il nuovo testo non è più una parodia, ma un testo comico, di primo grado, in cui
vengono ad arte enfatizzati aspetti performativi per una teatrale ipotetica lettura ad alta
voce (come nella grafia di “Nillo” nella versione di Busi). La segnalazione della natura
parodica del testo avviene con indizi comprensibili solo a chi ha già familiarità con il
testo di partenza (“piccol’ape... ste” o “l’industrioso coccodrillo”) oppure è demandata al
paratesto, a una nota a piè pagina, che spiega diligentemente che cosa succede nel testo in
inglese, ma non nella traduzione.31
In sintesi, per quanto riguarda la strategia relativa alla traduzione delle parole: le
versioni di Pietrocòla Rossetti e di Cagli sono caratterizzate dal tentativo di rendere chiara
al lettore la natura parodica del testo, ricreando in italiano un ipertesto che rimanda a un
ipotesto (o a un genere) noto e condiviso. La scelta dell’ipotesto è arbitraria (Watts-Grossi
oppure Watts-Sailer). Questa strategia, che intende determinare un’equivalenza tra il testo
originale e quello tradotto, oltre a prestarsi a intenzionali manipolazioni ideologiche porta
anche all’annullamento di una grande quantità di informazioni peculiari alla cultura del
29
Carroll (1989), p. 28.
Carroll (1993), p. 31.
31
Così, ad esempio, la nota, molto didattica nel contenuto e nello stile, di Marcella Amadio: “Si
tratta della parodia (cioè travestimento comico di una composizione) della poesia di Isaac Watts;
l’originale (...) parla della piccola ape industriosa, cui ogni bambino dovrà somigliare,
trascorrendo i suoi giorni tra libri, studio, lavoro ecc. Ma Carroll ha trasformato l’ape in
coccodrillo! Egli fu bravissimo in questo genere di composizione e quasi tutte le poesie del suo
primo libro sono appunto parodie di componimenti poetici edificanti, che gli scolaretti del tempo
dovevano memorizzare. Carroll (...) ne ridicolizzò i contenuti, ottenendo effetti esilaranti che gli
procurarono le simpatie dei bambini, ma forse non altrettanto quelle degli educatori”. Carroll
(1989), pp. 28-29.
30
50
testo di partenza. Tale strategia fa capo al “luogo comune, regnante, in materia di
traduzione” che, come afferma Meschonnic, opta «per disidiomatizzare la lingua di
partenza».32 Disidiomatizzare le espressioni e i luoghi comuni del linguaggio comporta
sempre una perdita, spesso una semplificazione e una banalizzazione dell’espressione di
partenza: un’espressione idiomatica, come qualunque figura retorica, perde nella
traduzione il carico di connotazioni che porta con sé e attraverso le quali significa in
modo complesso. Assumere altre immagini o ipotesti propri della cultura e della lingua di
arrivo permette di mantenere un elemento costitutivo del testo, l’essere cioè testo
parodico, di secondo grado, ma dà vita a una diversa significanza, a volte anche più ricca,
che annulla completamente le implicazioni (identitarie) presenti nel testo di partenza.
Le versioni di Giglio, Amadio e Busi cercano di conservare le immagini presenti
nel testo nella loro alterità, con il carico di informazioni implicite, ma annullano la qualità
parodica, trasformando le poesie in non-sense di primo grado. Che si tratti di una parodia
può venire comunicato nel paratesto (note, introduzione), rimandando così in una zona
liminare alla traduzione vera e propria il disvelamento di un aspetto essenziale.
Per quanto riguarda il contenuto (o le immagini veicolate), l’aderenza al lessico e
alle immagini del testo di partenza consente di non disidiomatizzare la lingua partenza, di
far entrare nel testo di arrivo le specificità culturali e linguistiche dell’originale. Una
traduzione di questo tipo è etnodeviante, costringe la cultura di arrivo a spostarsi dalla
propria autoreferenzialità e ad aprirsi all’altro. Un processo di addomesticamento,
sollecitato dal tentativo di trovare delle equivalenze dinamiche che facciano sentire il
testo estraneo assolutamente naturale, sarà al contrario etnocentrico, tenderà cioè a
nascondere l’alterità, l’idiomaticità dell’altro, e a sostituirle con i clichè culturalmente
condivisi della cultura di arrivo.
5. Tutto questo non esaurisce certo i problemi relativi alla valutazione di una traduzione.
Oltre a questi due orientamenti generali, nel processo traduttivo sono implicate le scelte
relative alla forma poetica quali la prossimità alla forma del testo di partenza, alle forme
assunte da quello specifico genere letterario nella lingua d’arrivo, alle eventuali forme
nuove sollecitate dalla materia stessa. Interessante potrebbe essere intrecciare le
preoccupazioni per il mantenimento o meno del gioco ipotesto/ipertesto e cultura di
partenza con il processo decisionale che riguarda l’assunzione della forma poetica.
Particolarmente utile è il ventaglio di forme di “metaletteratura” individuate da James S.
Holmes in un suo saggio sulla traduzione della poesia del 1969.33 In modo molto
sintetico, per Holmes ogni poesia cerca di dar conto di un mondo, ma opera sempre
all’interno di una traduzione poetica che la vincola nelle scelte formali. Allo stesso modo
la metapoesia, cioè la poesia riscritta nel processo traduttivo, non potrà non tener conto
delle modalità convenzionali del fare della tradizione letteraria della lingua di arrivo. Il
traduttore, mediatore delle due tradizioni culturali, o istituzioni poetiche, può decidere:
1.
2.
di conservare la forma dell’originale. In questo caso avremo una forma
mimetica (Fp ~ Fmp, dove Fp indica la forma del verso della poesia originale
e Fmp la forma della metapoesia o della poesia tradotta).
di trovare nella tradizione letteraria d’arrivo una forma per il tipo di genere
testuale a cui appartiene la poesia di partenza (così l’epica in inglese sarà in
versi sciolto mentre in italiano in ottave). In questo caso si parla di forma
32
Meschonnic (2005), pp. 231 sgg.
33
Holmes (1995), pp. 239-256.
51
3.
4.
analogica (Fp: PTsl :: Fmp:PTtl, dove PTsl si riferisce alla tradizione poeticoletteraria della source language e PTtl a quella della target language).
di muovere dal contenuto e di trovare una forma che sia organica a quel
contenuto. Il metatesto assume “una propria specifica forma nel corso dello
stesso sviluppo del processo di traduzione”. La forma derivata dal contenuto o
organica si può così visualizzare: (Fp ↔ Cp) tr → Cmp → Fmp (dove Cp
indica il contenuto del testo poetico e Cmp quello della metapoesia e tr il
processo di trasposizione linguistica.
di mettere in secondo piano la forma e di assumerla in modo indipendente sia
dalla forma primaria che dal contenuto. In questo caso avremo una Forma
deviante o estranea in cui (Fp ↔ Cp) tr → Cmp ← Fmp.
Fra queste forme soltanto la prima (forma mimetica) si mostra attenta all’alterità e alla
estraneità del testo di partenza rispetto alle modalità convenzionali della letteratura
d’arrivo. La storia della letteratura è ricca di esempi in cui l’adozione di strutture metrico
ritmiche estranee alla tradizione della lingua di arrivo, inizialmente viste come elementi
invadenti e criticabili, ha portato a un mutamento delle modalità del fare poetico. Basti
pensare al passaggio tra le odi barbare di Carducci al verso libero novecentesco, oppure ai
lunghi versi salmodianti di Whitman ripresi da Ada Negri, o ancora, in tempi più recenti,
le versioni di Giudici di Puŝkin e Coleridge, con l’adozione di una metrica accentuale e
non sillabica, o, infine, l’adozione della struttura degli Haiku nella poesia occidentale. La
forma mimetica attribuirà alla traduzione un carattere di esoticità.
D’altra parte si è assistito anche ad esempi di completo addomesticamento delle
forme poetiche estranee alla tradizione della lingua di arrivo: prima di Annibal Caro era
impensabile non tradurre in ottave un poema epico come l’Eneide che certo non era stato
scritto in ottave da Virgilio. Lo stesso Leopardi sceglie l’ottava, struttura per eccellenza
dell’epica, per la sua versione della Batrocomiomachia. La scelta di una forma analogica
sottolineerà l’intenzione conservatrice di una cultura che intende mantenersi all’interno
delle proprie convenzioni codificate.
Si va dunque da un massimo di etnodevianza, con il tentativo di ricreare nella
traduzione le forme poetiche di una tradizione straniera, a un massimo di etnocentrismo,
facendo assumere alle forme convenzionali straniere i ritmi e i metri della lingua di
arrivo.
6. Si può forse tentare di visualizzare la complessità delle opzioni con uno schema che
tenga conto sia delle scelte della forma poetica che della aderenza al lessico e alle
immagini.
Forma
→
Contenuto ↓
Traduzione a
corrispondenza
lessicale
Traduzione a
equivalenza dinamica
Mimetica
Deviante
Organica
Analogica
Massimo di
etnodevianza
Massimo di etnocentrismo
Delle scelte relative ai contenuti nelle versioni della parodia di Carroll si è detto a
sufficienza. Per quanto riguarda la forma, le strutture metrico ritmiche assunte da
Pietrocola Rossetti e Cagli seguono l’ipotesto italiano; Giglio invece traduce adottando un
verso isometrico (ottonari a rima baciata): un ritmo facile e frequente nelle filastrocche
italiane. Busi sembra preoccupato di esaltare il ritmo non con scelte isometriche chiuse,
52
ma attraverso suggestioni fonetiche che gli derivano direttamente dalle parole utilizzate
(così le paronomasie “Spruzza e sguazza”, le allitterazioni “O soave sogghignare, o
sbadigli sopraffini” e ancora “fanghiglia”, “scaglia”, “sbadigli”, “soglia” ecc.); l’ottonario
è il metro comunque privilegiato, con molti versi formati da doppi ottonari e chiare cesure
al mezzo. Cinque degli otto versi sono invece italianissimi endecasillabi nella versione di
Almansi che, come quella di Busi, esalta i giochi paronomasici e le rime, a costo anche di
sostituire il nome “Nilo” con il più generico “fiume” per rimare con “lume”. Un ritmo
invece segnato dall’alternanza di versi con quattro e tre accenti forti è quello scelto da
Amadio, che riprende la forma metrica quantitativa della versificazione inglese (tripodia e
tetrapodia). Se alle sei versioni riportate aggiungiamo una versione in prosa, incurante
quindi delle opzioni formali offerte dalle due tradizioni poetiche, e appiattita sulla
corrispondenza lessicale:
Quanto il piccolo coccodrillo migliora la sua coda brillante, e versa le acque del
Nilo su ogni scaglia dorata!
Quanto allegramente sembra sogghignare, quanto apre i suoi artigli, e accoglie i
piccoli pesci, con mascelle che sorridono gentilmente.
avremo un campionario sufficientemente vario da inserire nello schema:
Forma
→
Contenuto ↓
Traduzione a
corrispondenza
lessicale
Traduzione a
equivalenza dinamica
Mimetica
Deviante
Organica
Analogica
Amadio
In prosa
Busi
Almansi
Giglio
Pietrocòla Rossetti;
Emma C. Cagli
La traduzione a corrispondenza lessicale rigorosa, dove anche le espressioni idiomatiche
vengono mantenute alla lettera, che tenta di riprodurre il sistema metrico ritmico
dell’originale dovrebbe essere quella che sentiamo più estraneo, o nella quale sono
presenti più elementi (semantici e retorici) estranei alla nostra cultura e un maggior
numero di remainders, di residui della cultura di partenza, mentre quella a equivalenza
dinamica e a forma analogica o organica dovrebbe risultare la più familiare, talmente
familiare da creare l’illusione che il testo non sia stato scritto in altra lingua e in altro
contesto culturale.
Le varianti e le sfumature sono pressoché infinite e le caselle servono solo come
possibile sistematizzazione orientativa. Dallo schema risulta comunque evidente che nel
Novecento l’opzione relativa ai contenuti va nella direzione di una corrispondenza
lessicale, mentre la maggiore libertà ri-creativa più diffusa nel secolo precedente e
all’inizio del Novecento, e che manteneva la natura parodica, sembra in parte
abbandonata, quasi che il testo si sia come consolidato, sia diventato un testo letterario
classico più da venerare che da rimettere in gioco. Così, perfino nelle versioni per
bambini, dove la parodia dovrebbe essere uno degli accessi al fantastico e dove le
preoccupazioni filologiche dovrebbero essere tenute fuori dalla porta, il coccodrillo che
faceva il verso alle api operose è un coccodrillo del nonsense e non del ribaltamento
eversivo. Più movimentato invece lo spettro delle scelte relativo alle forme poetiche
adottate e al rapporto con le istituzioni letterarie e le opzioni della prosodia.
7. In un momento in cui tra Cultural Studies e Translation Studies si è stabilito un patto di
53
proficua interdisciplinarietà,34 e la negoziazione rispettosa delle diversità è ormai al
centro di ogni strategia relazionale, sembra naturale identificare nella traduzione
etnodeviante il modello più vicino a una traduzione eticamente e politicamente rispettosa
dell’altro, mentre le pratiche etnocentriche sembrano al contrario, proprio perché
annullano ogni differenza, avvicinarsi pericolosamente alle pratiche di un devastante
imperialismo culturale.35 Così Berman definisce la traduzione etnocentrica “cattiva”
perché “generalmente sotto l’apparenza della trasmettibilità, opera una negazione
sistematica dell’estraneità dell’opera straniera”. Una buona traduzione dovrebbe invece
essere capace di “appropriarsi” del “patrimonio” delle altre culture: “l’essenza della
traduzione è di essere apertura, dialogo, meticciato, decentramento. È mettere in
relazione, o non è nulla”.36
Tradurre la parodia mette in seria difficoltà questa dicotomia: come si è
ripetutamente segnalato, una traduzione etnodeviante annulla la natura parodica del testo,
a meno che l’ipotesto originario non sia immediatamente individuabile dal lettore del
testo in traduzione, cosa che avviene soltanto nei casi in cui la lingua da cui si traduce è
dominante rispetto a quella in cui si traduce (può avvenire cioè nel caso di una parodia di
un passo famoso di Shakespeare, difficilmente nel caso di uno scrittore del canone cinese
o arabo).
Ancora una volta l’assunzione di un criterio definitivo e valutativo (etnocentrismo
vs. etnodevianza, disidiomatizzazione vs. mantenimento della lettera) si scontra con
l’esperienza. Per quanto il principio di etnodevianza sia capitale per un traduttore, non
potrà essere l’unico parametro valutativo. Berman stesso riconosce che il traduttore che
addomestica un testo, che lo mutila, che lo integra, che lo ricrea, agisce in modo
legittimo, a patto che lo dichiari, a patto che renda esplicito il proprio operato. Deve
esistere un consapevole progetto traduttivo nel momento in cui si intraprende una
traduzione, e questo progetto deve essere dichiarato.37 Ed è opportuno che al termine della
traduzione l’intento progettuale sia riverificato alla luce delle difficoltà impreviste che
ogni testo pone. Ogni progetto traduttivo determina l’orizzonte delle scelte del traduttore.
Una traduzione filologica di Alice dovrà mantenere ogni riferimento alla lettera, a costo di
nascondere ai lettori non avveduti la parodia. Ci penseranno le note a rendere esplicite le
caratteristiche di un testo parodico. Discorso completamente diverso se i committenti del
lavoro sono gli editori dell’editoria per l’infanzia, e quindi, indirettamente, i bambini, per
i quali le note non possono essere usate.
Vediamo come ulteriore esempio la parodia in Alice della famosa canzoncina
“Twinkle, twinkle, little star / How I wonder what you are” (che peraltro è un’esaltazione
del creato, in cui la stella che brilla nella notte è punto di riferimento per il viandante,
senza il quale egli sarebbe perso). Carroll la fa diventare un giocoso non-sense “Twinkle,
twinkle, little bat / How I wonder what you’re at”. Pietrocòla Rossetti traduce adottando
la strategia dell’equivalenza e dell’addomesticamento e trova come ipotesto equivalente
in italiano un’aria di Donizetti (“Tu che a Dio spiegasti l’ali / O bell’alma innamorata!”)
che diventa nella versione interlinguistica: “Tu che al ciel spiegasti l’ale / O mia testa
soppressata!”. Ben più efficace (almeno per il lettore/bambino moderno) appare la scelta,
sempre ispirata peraltro da una strategia addomesticante, di Almansi che traduce: “Stella
stellina / il vampiro e la vampina”, creando l’immediato gioco con “Stella stellina / la
34
Si veda Bianchi et al. (2002).
Si vedano Spivak (2004) e Mattioli (2006).
36
Berman (1997), pp. 15-16.
37
Berman (2000), p. 77.
35
54
notte s’avvicina…”.38 (situazione concettualmente analoga a quella dell’ape operosa
tradotta da Rossetti, forma analogica e equivalenza dinamica, ma con una maggiore
coincidenza nelle immagini fra i quattro testi).
Trascurare dunque la dimensione pragmatica e progettuale della traduzione può
significare ricadere in una poco proficua assolutizzazione delle strategie traduttive, che
possono portare a considerare come unica vera traduzione ora quella che si appiattisce
sull’originale, ora quella che invece vuole farlo dimenticare. Ma la traduzione non è mai
solo una scelta pregiudicata fra due opzioni (etnocentrismo / etnodevianza, fedeltà /
infedeltà). La traduzione ha a che fare con la mediazione e la comunicazione, con i
contesti culturali e le situazioni contingenti, in cui sono previste corrispondenze
biunivoche ma anche affinità imperfette, percorsi interrotti e paradossali, in cui
all’urgenza del dire si affianca l’impossibilità del dire, al detto ciò che si lascia solo
intendere, alle parole il silenzio.
Riferimenti
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Berman, Antoine (1997) La prova dell’estraneo, tr. it. G. Giometti, Quodlibet, Macerata.
Berman, Antoine (2000) Traduzione e critica produttiva, tr. it. G. Maiello, Oedipus,
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Giometti, Quodlibet, Macerata.
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56
Vallori Rasini
Esperienze di traduzione di un testo filosofico
Poiché devo concentrarmi su problemi riscontrati nel corso della mia personale esperienza
di traduzione, sarà opportuno che delimiti adeguatamente il campo tematico di questo
incontro seminariale: ci dedicheremo esclusivamente all’analisi di alcune difficoltà che ha
presentato un lavoro di traduzione, dal tedesco all’italiano, di un testo filosofico scritto in
età contemporanea, ma non negli ultimi decenni.
Cominciamo con alcune considerazioni di carattere generale. Così come è insieme
tanto vero quanto ovvio che ogni traduzione sia una cosa a sé stante, un’esperienza unica,
lo è anche che ogni settore culturale attinga a un gergo specifico che ogni traduttore deve
essere in grado, necessariamente, di riconoscere e dominare. La giurisprudenza,
l’ingegneria o la culinaria richiedono dimestichezza con un certo linguaggio, con un
determinato tipo di termini e concetti. L’ambito filosofico, naturalmente, non fa
eccezione, e anzi, le cose per lo più si complicano: si tratta infatti di un campo assai vasto
e variegato, in cui si incontrano diverse direzioni del pensiero e molteplici tradizioni
culturali. La filosofia del 1300 rimanda a un bagaglio concettuale sicuramente diverso da
quello della filosofia del 1800; lo stile della filosofia «analitica» si discosta notevolmente
dal pensiero speculativo «continentale»; il lessico utilizzato dai pitagorici antichi o
dall’ermetismo rinascimentale non è certamente quello del cartesianesimo moderno. Non
è dunque sufficiente appellarsi alla necessità di acquisire un linguaggio tecnico, e talora
non è sufficiente neppure avere dimestichezza con un certo settore: è invece necessario
avere una vivace «consapevolezza culturale», essere in grado di capire «dove» ci si trova,
a quale «incrocio intellettuale», perché solo così sarà possibile un orientamento nella
immensa sfera della produzione filosofica.
Ma veniamo all’esperienza specifica del mio lavoro. I riferimenti saranno alla
traduzione dell’opera fondamentale di Helmuth Plessner, uno dei maggiori rappresentanti
dell’antropologia filosofica tedesca contemporanea. Il titolo originale del libro è Die
Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische
Anthropologie.1 Questo voluminoso saggio è stato pubblicato in Germania nel 1928, in
un’epoca quindi di grande fermento intellettuale e nella quale il continuo e assai proficuo
confronto tra filosofia e scienza produceva una significativa comunanza (ovvero
commistione) di termini e di concetti. Si svolgeva inoltre un acceso dibattito tra correnti
filosofiche diverse, talora in grado di collaborare e far confluire in sforzi comuni i
rispettivi conseguimenti, talaltra schierate su fronti risolutamente contrapposti o
comunque notevolmente distanti.
Questo il ricco panorama in cui si colloca l’esperienza dalla quale trarremo
questioni e argomenti. Come dicevamo, le difficoltà riscontrate durante i lavori di
traduzione di questa opera di Plessner non sono esclusivamente di carattere tecnico. Al
contrario, esse riguardano principalmente proprio la «complessità culturale» intrinseca al
saggio. Senza una consapevolezza lucida del quadro globale in cui si colloca l’opera non
è possibile rendere giustizia al testo, ma neanche – in molti casi – renderlo comprensibile
in traduzione. Una traduzione realmente «consapevole» deve tenere conto non solo di chi
1
L’opera è stata tradotta con il titolo I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione
all’antropologia filosofica, a cura di Vallori Rasini, Torino, Bollati Boringhieri, 2006.
57
sia l’autore, di quali siano i termini in cui si esprime e di quale sia il ruolo da lui giocato
nel contesto storico e filosofico della sua epoca, ma anche delle linee generali del suo
pensiero, della sua posizione nei confronti di altre correnti e di altri autori e possibilmente
si dovrebbe conoscere anticipatamente (almeno in parte) anche il contenuto del testo
stesso da tradurre prima di dare inizio al lavoro. L’insieme delle coordinate che si
possono tratteggiare grazie a questa molteplicità di dati consente di indirizzare le
decisioni del traduttore. Quanto più accurata è la raccolta delle informazioni sul contesto,
tanto più adeguata potrà essere la scelta dei termini e dello stile da adottare.
È vero, senza dubbio, che una buona traduzione dipende principalmente da una
corretta interpretazione sintattica e grammaticale del periodo, esente da pregiudiziali
«contaminazioni concettuali». È però altrettanto vero che senza una conoscenza
contenutistica adeguata si rischia di produrre un lavoro corretto dal punto di vista formale
ma non in grado di trasmettere l’autentico messaggio dell’autore. In un simile caso, la
traduzione sarebbe di fatto un fallimento. Poiché entrambi i momenti del lavoro risultano
indispensabili, occorre pensare alla necessità di un (almeno) «doppio binario» di
elaborazione del testo. Praticando una sorta di «dissociazione» da se stesso, il traduttore
deve riuscire a porsi su piani di lavoro differenti, a valutare il testo attraverso lunghezze
d’onda talora discordanti, al fine di produrre un risultato di convergenza adattato secondo
l’esperienza contestuale di cui si diceva precedentemente. Sarà cioè la somma delle
molteplici competenze e dei diversi dati acquisiti (ovvero l’equilibrio instaurabile tra essi)
a consentire una scelta responsabile ed eventualmente a permettere l’appianamento delle
incertezze e la definitiva risoluzione dei dubbi.
A questo proposito, mi sembra utile individuare e opportunamente valutare alcuni
problemi di carattere più specifico:
I. occorre effettuare una traduzione informata e «culturalmente consapevole»;
II. non deve essere trascurata l’eventuale esistenza di una tradizione di traduzione;
III. possono presentarsi casi di intraducibilità dei termini o di ambiguità della resa in
traduzione;
IV. possono darsi casi di impossibilità di resa a causa della inesistenza nella lingua
italiana di termini o di espressioni corrispondenti.
Consideriamo qualche esempio concreto.
I. Soprattutto nella parte iniziale dell’opera Die Stufen des Organischen und der Mensch
ricorre con una certa frequenza il termine «Erlebnis». Se – ignari del contesto teorico in
cui si muove l’autore (benché in grado di determinare un contesto significativo) –
consultiamo un dizionario professionale e specializzato,2 troviamo come eventuali,
possibili traduzioni corrispondenti a tale termine le opzioni seguenti:
1. Esperienza; 2. avvenimento, evento, vicenda, episodio, fatto; 3. ricordi,
memorie; 4. avventura
(anche avventura amorosa o esperienza
amorosa); 4. esperienza o fatto importante; 5. esperienza di vita vissuta.3
Chiunque si aspetta di trovare una molteplicità di opzioni; e cercare di individuare il
termine maggiormente attinente è ovviamente parte del compito di qualunque traduttore.
Ma in questo caso non si tratta solo di garantire un contesto coerente e significativo:
l’autore del testo si riferisce qui a un «Erlebnis» di tipo particolare; si richiama a un
preciso dibattito filosofico e ad almeno due correnti di pensiero attraverso le quali questo
2
Si veda, ad esempio, il dizionario Sansoni in due volumi, Dizionario delle lingue italiana e
tedesca, Parte seconda: tedesco-italiano, 2° ed. corretta e ampliata, sotto la direzione di V.
Macchi, RCS Scuola, Sansoni, Milano/Brandstatter Verlag, Wiesbaden, 2001.
3
Ivi, p. 367.
58
concetto ha avuto una speciale valorizzazione: il pensiero fenomenologico di Edmund
Husserl (da cui è derivata una importante e ricca tradizione filosofica) e il pensiero
storicista, in particolare quello di Wilhelm Dilthey. In relazione a dette correnti, le sole
traduzioni accettabili risultano essere: «esperienza di vita» e «vissuto» (che – si badi bene
– hanno a che fare solo con le battute finali della proposta del dizionario).
II. È di grande importanza avere presenti eventuali altre traduzioni dell’autore o degli altri
autori richiamati nel testo, anche perché spesso il dibattito intorno alle diverse posizioni
filosofiche si affida all’uso di una terminologia italiana consolidata, dietro la quale –
proprio perché oramai tradizionale – rimane visibile quella della lingua originale.
Naturalmente non è detto che la traduzione non sia passibile di modifiche o di
miglioramenti, ma – a maggior ragione proprio a questo scopo – essa va tenuta ben
presente (e il suo rifiuto eventualmente motivato). Per quanto riguarda nello specifico la
traduzione del volume Die Stufen des Organischen und der Mensch, anche se non
esisteva affatto una tradizione nella resa del pensiero di Plessner,4 ne esistevano
molteplici in rapporto alle correnti e ai filosofi ai quali egli si richiama o con i quali
interloquisce. Ma vediamo qualche esempio. In un’epoca in cui sono fiorenti scuole di
pensiero che si definiscono «Neokantiane» o che costringono a un confronto diretto con il
pensiero di Immanuel Kant (ad esempio la fenomenologia), è comprensibile che la
terminologia specifica che ricorre nei testi dei pensatori più attenti e «integrati» nel
dibattito attuale faccia sovente riferimento a espressioni tipiche di questi movimenti o del
filosofo di Königsberg. Così, quando Plessner usa il termine «Anschauung» si richiama al
concetto kantiano che indica «la conoscenza che si riferisce immediatamente agli
oggetti».5 Ebbene, il sopra menzionato dizionario, come traduzione di «Anschauung»,
propone:
1. il guardare; 2. contemplazione; 3. opinione, idea, punto di vista,
concezione, concetto; 4. esperienza; 5. visione; idea, immagine.6
Neanche l’ombra del termine con il quale viene generalmente tradotto
«Anschauung» nel contesto del pensiero kantiano, cioè «intuizione». Eppure è
esattamente con questo significato che Plessner utilizza la parola. In questo caso, dunque
(e come questo se ne sono verificati a decine), solo conoscendo la consuetudine nella
traduzione del concetto kantiano (ovvero la concezione kantiana dell’Anschauung) è
possibile evitare il ricorso a locuzioni fuorvianti. Un altro esempio – questa volta meno
eclatante – ce lo offre l’aggettivo «abgeschattet». Nel definire in questo modo i vissuti
percettivi, Plessner si richiama espressamente al pensiero fenomenologico di Husserl.7
4
Se si esclude una raccolta di saggi di stampo sociologico apparsi in traduzione negli anni
Sessanta (Diesseits der Utopie. Ausgewählte Beiträg zur Kultursoziologie, tradotto con il titolo Al
di qua dell’utopia. Saggi di sociologia della cultura , Marietti, Genova, 1967), i soli testi di
Plessner già tradotti erano al momento: Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del
comportamento umano (Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen
Verhaltens), Bompiani, Milano, 2000, da me stessa curato, e I limiti della comunità (Grenzen der
Gemeinschatt), Laterza, Roma-Bari, 2001, a cura di B. Accarino.
5
I. Kant, Critica della ragion pura, tomo secondo (trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice),
Laterza, Bari, 1985, glossario, p. 738.
6
Dizionario delle lingue italiana e tedesca, II, cit., p. 68.
7
«Insofern erscheint das Ding notwendig abgeschattet, wie Husserl sagt»: H. Plessner, Die Stufen
des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie, W. De
Gruyter, Berlin, 1975, p. 83 (trad. it. I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p.109: «Di conseguenza,
la cosa necessariamente appare adombrata, come dice Husserl»).
59
Ora, consultando il nostro dizionario, consapevoli che l’aggettivo in questione altro non è
se non il participio del verbo «abschatten», troviamo le seguenti indicazioni:
1. sfumare; 2. ombreggiare, creare penombra; 3. disegnare la silhouette di
qualcosa o qualcuno;8
da cui possiamo trarre gli aggettivi «sfumato» e «ombreggiato». Purtroppo nessuno dei
due corrisponde al termine italiano entrato oramai nell’uso «tecnico» della terminologia
fenomenologica, che caratterizza i vissuti come «adombrati».9 A ragione o a torto, questo
è il termine oramai accreditato nel contesto della filosofia husserliana, e solo utilizzando
questo termine si può essere certi di un rimando diretto a quello specifico carattere dei
vissuti determinato con grande precisione nell’ambito del pensiero fenomenologico.
III. Nel lavoro di traduzione ci si può anche trovare nella condizione di dover distinguere
tra concetti per i quali la lingua italiana difetta di termini. Insomma, può accadere di
trovarsi «sprovvisti di parole» e di dover ricorrere a espedienti lessicali (o grafici) di tipo
particolare. Plessner, ad esempio, distingue livelli differenti di soggettività biologica
denominandoli rispettivamente «Selbst» (il più elementare) e «Sich» (quello
maggiormente evoluto). Come rendere la differenza in lingua italiana tra i due sostantivi
(perché di fatto si trattava di particelle pronominali sostantivate), quando sia l’uno sia
l’altro termine si traducono generalmente con «sé»? L’unica soluzione praticabile è parsa
una diversificazione «grafica» dei due termini. «Selbst» è stato allora tradotto con «Sé»,
mentre «Sich» con «Se stesso» (con la maiuscola in entrambi i casi).10 Un altro caso di un
simile problema è costituito dai termini «Leib» e «Körper». L’inglese (come il tedesco)
può generalmente contare su due termini distinti per indicare da un lato il corpo vissuto,
attivamente governato, gestito dall’ente organico stesso (body), e dall’altro il corpo in un
senso più oggettivo e cosale (corpus). L’italiano sembra, da questo punto di vista,
piuttosto svantaggiato: disponendo propriamente solo della parola «corpo», dovrebbe
contare sulla parafrasi, ma la cosa non è agevole, specie dove i due termini ricorrano con
una certa frequenza. Per questo, la decisione finale è stata di riservare la parola «corpo»
alla traduzione di Körper e di utilizzare per il «Leib» un termine magari non «elegante» e
forse non perfettamente calzante ma tuttavia in grado di marcare la differenza tra i due
concetti: quello di «corporalità».11 In casi di questo genere, comunque, penso che sia
assolutamente prioritario non perdere di vista il senso teorico del testo e subordinare la
creatività nella traduzione allo scopo di trasmettere nel modo più fedele il senso del
pensiero dell’autore. Ma questo esempio ci offre l’opportunità di fare anche una ulteriore
considerazione. Talvolta, al contrario di quanto abbiamo asserito al punto II, può risultare
opportuno discostarsi da una certa «tradizione» nella traduzione. Con riferimento al
8
Dizionario delle lingue italiana e tedesca, II, cit., p. 19.
Si veda E. Husserl, Ricerche logiche (Logische Untersuchungen), vol. 2, «Nota terminologica»,
p. 549: Abschattung,, «adombramento».
10
H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 400.
11
Nella traduzione del saggio di Plessner Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen
menschlichen Verhaltens (Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, a
cura di V. Rasini, Bompiani, Milano, 2000), per rendere il termine Leib avevo usato «corporeità»,
sicuramente meno singolare e più gradevole, ma quando si è trattato di lavorare alla complessa
opera del 1928, Die Stufen des Organischen und der Mensch, in cui ricorrono anche termini come
«Körperlichkeit» e «Leiblichkeit», si è resa necessaria la disponibilità di una rosa più ampia e
variegata di termini, all’interno della quale comunque marcare la differenza specifica sussistente
tra «Körper» e «Leib». In questa mutata situazione, mi è parso opportuno adottare «corpo» per
«Körper» e «corporalità» per «Leib».
9
60
pensiero di Husserl, ad esempio, il termine «Leib» è stato tradotto con «corpo proprio»;12
ma una simile traduzione non appariva conveniente in questo caso, per il fatto che
Plessner, oltre al termine «Leib», fa un uso frequente (con diverso significato)
dell’espressione «eigene Körper»,13 traducibile solo come «corpo proprio» (o «proprio
corpo»): trovare un’alternativa era dunque indispensabile.
IV. Può accadere di trovarsi di fronte a termini intraducibili perché propriamente
inesistenti. Mi riferisco a termini che non si trovano nei dizionari e che non sono
generalmente presenti nelle espressioni del senso comune. E’ risaputo che la lingua
tedesca è capace di molteplici e variegate costruzioni linguistiche; di solito però è
sufficiente «sciogliere» queste costruzioni (naturalmente facendo attenzione al contesto)
per ritrovare significati, diciamo, consueti. Ma può accadere – e in ambito filosofico la
cosa è abbastanza frequente – che costrutti linguistici singolari abbiano lo scopo di
introdurre concetti nuovi: allora è richiesta un’analisi dettagliata e articolata della loro
origine e del loro valore. Nel lavoro a cui faccio riferimento, un caso particolarmente
delicato hanno rappresentato i termini «Zeithaftigkeit» e «Raumhaftigkeit». E’ evidente
che l’intento della coniazione è quello di produrre una distinzione rispetto ai termini
codificati «Zeitlichkeit» e «Raumlichkeit» (che si possono tradurre rispettivamente con
«temporalità» e «spazialità»). Trattandosi, per Plessner, di differenziare il rapporto della
cosa inanimata dal rapporto dell’ente organico con il tempo e con lo spazio, i nuovi
termini si caricano di notevole pregnanza concettuale. Una parafrasi, sicuramente più
idonea di una parola unica per precisare una simile distinzione, non poteva essere
utilizzata per la modalità e la frequenza dell’uso dei termini.14 Restava dunque solo la
strada dell’inventiva. L’idea da trasmettere è che mentre un semplice corpo fisico «è»
nello spazio e nel tempo, l’organismo vivente piuttosto «ha» uno spazio e un tempo,
poiché si trova attivamente «in relazione» con una dimensione spaziale e temporale (non
semplicemente collocato in essa). Dopo lunghe riflessioni e molteplici tentativi, la
decisione presa è stata di optare per i termini «temporalizzazione» e «spazializzazione» (e
corrispondentemente per gli aggettivi «temporalizzante e «spazializzante» che, mi pare,
rendono l’idea di una «creazione» di spazio e di tempo). Non so quanto felice sia la
scelta; ma una importante prerogativa della traduzione credo che sia proprio la possibilità
di essere perfezionata. E in ogni caso, si deve considerare che anche termini di per sé
decisamente inusuali, se entrano nel circuito virtuoso della identificazione di specifici
concetti, finiscono, nel tempo, per trasformarsi in vocaboli familiari (si pensi ad esempio
a certe locuzioni caratteristiche del pensiero di Heidegger).
Le quattro difficoltà illustrate esemplificano in realtà snodi importanti (che si
presentano per lo più intrecciati) nel lavoro di traduzione; e in qualche modo
puntualizzano alcuni aspetti del noto problema: «tradurre è sempre anche tradire». Ma se
la traduzione espone al rischio (o alla necessità) del tradimento, offre altresì la feconda
possibilità della creazione. Va da sé che creare implica una buona dose di responsabilità,
e la decisione tra una religiosa adesione alla lettera e la scrupolosa fedeltà al senso
(sempre che si sia realmente compreso il testo) rimane affidata alle decisioni individuali.
12
Si veda E. Husserl, Meditazioni cartesiane, con l’aggiunta dei discorsi parigini, a cura di F.
Costa, Bompiani, Milano, 1989.
13
Si veda ad esempio H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch, cit., p. 52; trad.
it. Id., I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 76.
14
I termini hanno anche un uso aggettivale, e talora sono accostati ad aggettivi più consueti dai
quali vogliono discostarsi. Si veda, ad esempio, a pag. 105 di Die Stufen des Organischen und der
Mensch, cit.: «Für dieses doppelaspektive physische System, Einheit aus zeitlich-räumlichen,
raumhaften und zeithaften Relationen, hat er den Begriff Ganzheit vorbehalten» (trad. it, p. 132).
61
Ciò che intendo dire è che, in ultima analisi, rimane essenziale la scelta del traduttore: per
questo credo che sia indispensabile insistere sull’importanza di una certa onestà
professionale (anche qualora si tratti di una attività «occasionale», cioè – come nel mio
caso – non si sia traduttori professionisti). Non si può improvvisare; occorre adottare un
principio di accortezza e accuratezza, che può dover ricorrere alla collaborazione di
esperti di diversi settori, di scienziati, letterati, psicologi, artisti. E non si deve occultare:
al contrario, è sempre buona norma rendere esplicite le motivazioni delle proprie scelte.
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Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie).
62
Marco Ciardi
Traduzioni e storia della scienza: il caso della chimica
1. La storia della scienza e le competenze linguistiche
La storia della scienza ha conosciuto un indubbio sviluppo nella seconda metà del
Novecento, sia a livello professionale che istituzionale. Ancora «nel 1950», ha scritto
Arnold Thackray, «il Nord-America poteva vantare forse cinque storici della scienza di
professione».1 In Italia le prime cattedra di storia della scienza sono state messe a
concorso soltanto nel 1980.2 Oggi, invece, la storia della scienza è una disciplina presente
in quasi tutte le università italiane e fa parte di numerosi percorsi di laurea. Anche nella
scuola secondaria la richiesta di avviare gli studenti ad una conoscenza della storia della
scienza viene formulata con sempre maggiore frequenza, attraverso l’attivazione di
progetti da realizzarsi parallelamente all’attività scolastica ordinaria.
Lo sviluppo della storia della scienza, tuttavia, ha coinciso con il predominio della
storiografia anglofona sulle tradizioni storiografiche di altri paesi. Non diversamente da
ciò che è accaduto nell’ambito relativo ai prodotti della ricerca scientifica,3 anche la
storiografia della scienza ha subito una tendenza alla ‘anglificazione’. Per questo motivo,
l’apparente ruolo secondario nell’ambito della storia della scienza di scuole e tradizioni di
ricerca non appartenenti ad un contesto anglofono è in realtà dovuto all’incapacità degli
storici di confrontarsi con fonti per loro non accessibili, prima di tutto, dal punto di vista
linguistico. Non deve quindi sorprendere che molti contributi di storia della scienza in
lingua italiana, di indiscusso valore a livello internazionale, vengano sistematicamente
ignorati dalle bibliografie inglesi. Se certamente è doveroso per uno studioso italiano
cercare di far circolare le proprie ricerche in una lingua che sia accessibile alla comunità
internazionale degli storici, non dovrebbe tuttavia essere consentito agli studiosi di
trascurare pezzi rilevanti di storia soltanto perché non hanno a disposizione gli strumenti
linguistici per capirla.
Anche la filosofia non è rimasta immune da questa problematica, come è stato
bene illustrato da Paolo Rossi: «Non sono molti i filosofi americani che conoscono altre
1
A. Thackray, Il passato prossimo della scienza ha un futuro? (1970), in Storiografia delle
scienze e storia della psicologia, a cura di N. Caramelli, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 85. Per
un’introduzione alla storia della scienza nel Novecento si vedano G. Barsanti, Filosofia e storia
della scienza, in La filosofia, diretta da P. Rossi, Torino, UTET, 1995; vol. II: La filosofia e le
Scienze, pp. 501-550; P. Corsi, Storia della scienza, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed
arti. Appendice quinta, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1995, pp. 677-687.
2
F. Abbri, La storia della scienza in Italia, in Storia della scienza e della medicina. Bibliografia
critica, a cura di P. Corsi e P. Weindling, Roma-Napoli, Theoria, 1990, p. 569.
3
A. Carli, E. Calaresu, Le lingue della comunicazione scientifica. La produzione e la diffusione
del sapere specialistico in Italia, in Ecologia linguistica. Atti del XXXVI Congresso
Internazionale di Studi della Società di Linguistica Italiana, a cura di A. Valentini, P. Molinelli,
P. Cuzzolin, G. Bernini, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 27-74. Cfr. Sull’argomento cfr. anche S.
Gaetani, Le lingue della comunicazione scientifica, Modena, Dipartimento di Scienze del
Linguaggio e della Cultura, 2006 («Materiali di discussione», n. 4). Disponibile anche in rete:
http://www.linguaggioecultura.unimo.it/materiali.php?uplink=0
63
lingue oltre l’inglese. In molti graduate programs non è seriamente richiesta la
conoscenza di una qualche altra lingua per conseguire il Ph.D». Tutto ciò si riflette
inevitabilmente sulla produzione scientifica, dal momento che «i classici della filosofia
non leggibili in inglese» vengono «pochissimo studiati e tagliati fuori dalle esposizioni
dei manuali e dalle genealogie codificate». Inoltre «ci sono temi e argomenti
relativamente ai quali, negli Stati Uniti e anche nel Regno Unito si continuano a
pubblicare articoli e libri come se, nel resto del mondo, non fosse stato pubblicato nulla».
Un esempio paradigmatico:«Sul tema dell’impatto che ebbero le scoperte americane sulle
teorie e sulle idee dei filosofi europei del Seicento e del Settecento esiste una letteratura
vastissima. Sul tema, i due lavori in assoluto migliori pubblicati nell’ultimo cinquantennio
sono di due autori italiani: I filosofi e i selvaggi di Sergio Landucci (1972) e Adamo e il
Nuovo Mondo di Giuliano Gliozzi (1977). E’ semplicemente indecente che in qualche
parte del mondo si ritenga di poter scrivere qualcosa sull’argomento senza tener conto di
questi due lavori e senza discuterli».4
Il discorso non vale ovviamente solo per l’italiano, ma anche per il tedesco, lo
svedese, il russo. Senza considerare, ma è un’altra questione, il problema della
conoscenza del latino e del greco. Come è stato giustamente sottolineato, «è illusorio
pensare che i “prodotti” della ricerca si impongano all’attenzione allargata delle comunità
scientifiche indipendentemente dalla qualità degli strumenti di diffusione del sapere», fra
cui spicca naturalmente quello della lingua. Tuttavia, «sappiamo che alcune lingue sono
più potenti di altre per effetto della diversificata valutazione sociale a cui non è dato
sottrarsi. Per questo motivo le nuove acquisizioni «si impongono, a volte, più
diffusamente e più capillarmente secondo il veicolo linguistico usato».5 Ciò è all’origine,
tra l’altro, anche nell’ambito degli studi di storia della scienza, di non poche mode
storiografiche, che spesso acquisiscono importanza grazie ad un criterio di valutazione del
tutto autoreferenziale.
Il predominio della tradizione linguistica anglofona non limita soltanto la
diffusione dei contributi di quegli storici che scrivono in lingue diverse dall’inglese, ma
può essere all’origine di veri e propri abbagli storiografici. Uno dei casi più importanti
nell’ambito della storia della chimica è stato quello relativo al processo di formazione
della cosiddetta rivoluzione chimica di fine Settecento. Studi recenti hanno dimostrano,
infatti, come l’analisi di questo evento storico non possa essere più riducibile al contrasto
fra Joseph Priestely e Antoine-Laurent Lavoisier, ma sia necessario prendere in esame il
dibattito che si svolse in tutta Europa, e le continue relazioni che intercorsero fra la
maggior parte degli scienziati del vecchio continente.6
La rivoluzione chimica, tuttavia, non è importante soltanto sotto il profilo
storiografico, ma costituisce un punto di riferimento privilegiato per tutte le
considerazioni da farsi sul corretto modo di tradurre un testo di chimica scritto prima
della del 1787, anno di pubblicazione della Méthode de nomenclature chimique, proposée
par MM. de Morveau, Lavoisier, Berthollet, de Fourcroy.
4
P. Rossi, Un altro presente. Saggi sulla storia della filosofia, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 255256.
5
A. Carli, E. Calaresu, Le lingue della comunicazione scientifica, cit. p. 60. Anche se l’articolo in
questione tratta in maniera specifica delle «nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche»,
l’analisi è sicuramente estendibile alla produzione storiografica nell’ambito degli studi di storia
della scienza.
6
Cfr. ad esempio Lavoisier in European Context. Negotiating a New Language for Chemistry,
edited by F. Abbri and B. Bensaude-Vincent, Canton MA: Science History Publications, 1995.
64
2. La chimica prima di Lavoisier
Già nel 1935 Ludwik Fleck sottolineava come gli oggetti di cui si è occupata la scienza
nel passato non fossero gli stessi di cui si occupa la scienza contemporanea.7 È la
specializzazione delle discipline scientifiche che conduce ad assumere
quest’atteggiamento nei confronti della propria storia. Infatti, gli scienziati (ma non solo)
tendono a collocare la loro attività sotto il segno di una «concezione lineare del
progresso»; in questo modo «le teorie e le posizioni superate appaiono loro sempre o
come veri e propri errori o come verità parziali o come gradini dai quali bisognava
passare per giungere alla verità»; essi, perciò, «riscrivono continuamente una storia
all’indietro»,8 perdendo la dimensione storica delle problematiche scientifiche.
I chimici settecenteschi conoscevano ben poche delle sostanze oggi definite come
elementi; molte di tali sostanze erano già conosciute nell’antichità: rame, oro, argento,
piombo, stagno e ferro tra i metalli, carbonio e zolfo fra i non metalli. Altri elementi,
come zinco, arsenico, antimonio e bismuto furono individuati dagli alchimisti medievali.
Per il ritrovamento di un elemento collegabile direttamente con il nome del suo scopritore
bisogna attendere il 1699, quando l’alchimista tedesco Hennig Brand, nel tentativo di
rintracciare l’oro nell’urina, venne in contatto con una sostanza luminosa che denominò
fuoco freddo. Il bagliore era naturalmente dovuto alla combustione spontanea del fosforo
nell’aria.
Fin dai tempi di Aristotele l’aria era stata considerata una sostanza di tipo
elementare e primario.9 Nella teoria del più importante chimico fra Sei e Settecento,
Georg Ernst Stahl, professore di medicina all’Università di Halle, essa costituiva, assieme
al fuoco, uno strumento del cambiamento chimico, mentre soltanto l’acqua e la terra
erano elementi (oltre al sale e allo zolfo). Stahl propose anche l’impiego di un nuovo
agente chimico denominato flogisto (dal greco, infiammabile) in grado di spiegare in
maniera coerente ed unitaria i processi di combustione e di calcinazione.10 Secondo Stahl,
il flogisto abbandonava i corpi durante queste operazioni, che costituivano processi di
scomposizione. La reazione in senso inverso (quella che oggi viene comunemente
indicata con il termine riduzione) costituiva invece una combinazione. Questo schema
teorico si scontrerà tuttavia con una difficoltà sperimentale ben nota ai chimici del
Settecento. Le calci (ovvero gli ossidi, ma solo dopo Lavoisier) risultavano più pesanti dei
metalli; dunque, alla perdita di flogisto (calcinazione) era associato un aumento di peso,
mentre la combinazione del flogisto produceva una diminuzione di peso.
Nel 1727 il medico inglese Stephen Hales, nell’opera dal titolo Vegetable
Staticks, dedicata allo studio della fisiologia delle piante, segnalò che l’aria poteva fissarsi
nei vegetali, con i quali si combinava dando luogo ad una modificazione chimica. Questo
fatto, perciò, violava palesemente la teoria di Stahl. Hales non si rese ben conto della sua
scoperta e non ritenne opportuno approfondire la questione.
7
L. Fleck, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico (1935), Bologna, Il Mulino, 1983.
P. Rossi, La scienza e la dimenticanza, in «Iride», 8, n. 14, 1995, p. 156. Su questo tema cfr.
anche P. Rossi, La scienza e l’oblio, in Il passato, la memoria, l’oblio, Bologna, Il Mulino, 1991.
9
Per un’introduzione alla storia delle teorie della materia mi permetto di rimandare a M. Ciardi,
Breve storia delle teorie della materia, Roma, Carocci, 2003.
10
Termine utilizzato per indicare l’operazione che sottopone una sostanza ad elevata temperatura
per allontanarne tutte le sostanze volatili, oppure il processo applicato ai metalli per ottenere una
calce, ovvero un ossido.
8
65
Nel 1752 il medico scozzese Joseph Black ritornò sull’argomento. Scopo delle
ricerche di Black era quello di stabilire se la cosiddetta magnesia alba (ovvero carbonato
di magnesio, MgCO3) potesse costituire un rimedio efficace nella cura di problemi quali
l’acidità di stomaco o la pietra, cioè il calcolo urinario. I risultati delle esperienze,
descritti nella sua tesi di dottorato e in una memoria letta nel 1755 alla Royal Society di
Edimburgo, condussero Black ad una scoperta rivoluzionaria: sottoponendo la magnesia
alba ad un forte calore, egli ottenne non soltanto una nuova sostanza, denominata
magnesia usta (ossido di magnesio, MgO), ma anche una sostanza aeriforme specifica,
diversa dall’aria comune. Black la denominò aria fissata o fissa e ne descrisse le proprietà
(aveva scoperto l’attuale anidride carbonica). Tale aria (CO2) risultava coinvolta anche
nelle trasformazioni della calce (carbonato di calcio, CaCO3) in calce viva, o quicklime
(ossido di calcio, CaO). Ciò cominciò a far sorgere il dubbio che l’aria, così come la si era
intesa sino ad allora, potesse costituire realmente una sostanza di tipo primario.
La scoperta di Black suscitò le attenzioni dei medici e dei fisici sperimentali, che
si dedicarono con un’attenzione inedita allo studio dell’aria e del suo comportamento. Nei
decenni successivi vennero scoperte rapidamente molteplici arie.11 Ciò determinò la
nascita di un nuovo filone di ricerca, la chimica pneumatica. Nel 1766 Henry Cavendish
presentò una serie di ricerche grazie alle quali annunciava la scoperta di un’aria
infiammabile (si trattava dell’idrogeno), che era riuscito ad ottenere facendo reagire degli
acidi con dei metalli. Cavendish riteneva, grazie alla scoperta di questa nuova aria, di
essere finalmente riuscito ad isolare il flogisto, ovvero il principio infiammabile sul quale
era costruita la teoria chimica di Stahl. Nel 1772 lo scozzese Daniel Rutherford annunciò
quindi la scoperta di una nuova aria, detta mefitica o flogisticata (che oggi sappiamo
essere l’azoto).
Come per i casi precedenti, l’utilizzazione di tali nomi non deve sorprendere. Per i
chimici della seconda metà del XVIIII secolo, ovvero per coloro che operarono prima
della rivoluzione chimica di Lavoisier, le nuove sostanze aeriformi non possedevano in
alcun modo le caratteristiche che oggi la chimica contemporanea attribuisce ad esse.
Infatti, per spiegare il comportamento delle diverse arie, vennero formulate innumerevoli
teorie strutturate sull’esistenza del flogisto, che spesso andò a ricoprire una funzione ben
diversa da quella che gli era stata originariamente attribuita da Stahl. In ognuna di queste
teorie, infatti, la parola flogisto rappresentò oggetti estremamente diversificati fra loro.
Proprio nel 1772, un membro della Royal Society di Londra, il teologo e filosofo
naturale Joseph Priestley, presentò il primo trattato interamente dedicato all’esame del
nuovo settore della chimica pneumatica. Nelle Observations on Different Kinds of Air,
non solo descrisse le caratteristiche chimiche e fisiche dell’aria fissa, infiammabile e
flogisticata, ma individuò l’esistenza di altre nuove arie.
Intorno alla natura dell’aria fissa, in particolare, si aprì una accesa controversia
nella comunità scientifica dell’epoca. Una controversia nella quale si inserì anche un
giovane chimico francese, Antoine-Laurent Lavoisier. Lavoisier analizzò i processi di
combustione e di calcinazione, sui quali Stahl aveva costruito la sua teoria. Nel 1772 si
convinse che tali processi non potevano essere dovuti alla perdita di flogisto, ma
andavano attribuiti alla fissazione nei corpi di una specifica aria, sicuramente diversa da
quella atmosferica. Il primo novembre di quello stesso anno, Lavoisier depositò
all’Académie des Sciences di Parigi una nota sigillata nella quale annunciava di aver
scoperto che lo zolfo, sottoposto a combustione, aumentava di peso e si convertiva in
11
Uno dei testi migliori sull’argomento continua ad essere F. Abbri, Le terre, l’acqua, le arie. La
rivoluzione chimica del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984. Purtroppo anche questo testo non è
mai stato tradotto in inglese, come ho segnalato anche in «Isis», 96, 2005, p. 117.
66
acido vitriolico (oggi SO2), assorbendo una notevole quantità d’aria che si fissava in esso
e che era all’origine del suo aumento ponderale. Anche il fosforo si comportava allo
stesso modo. Inoltre, era probabile che lo stesso fenomeno fosse alla base dell’aumento di
peso dei metalli sottoposti a calcinazione.
Consapevole che la questione dell’aria fissa fosse destinata a produrre degli effetti
rivoluzionari sugli sviluppi della chimica, il 20 febbraio del 1773 Lavoisier annotò sul
proprio registro di laboratorio un piano di indagini sperimentali, i cui risultati videro la
luce nel primo grande libro di Lavoisier, gli Opuscules physiques et chimiques, che
apparve a Parigi nel dicembre 1773, pur recando la data gennaio 1774.
Lavoisier, tuttavia, non aveva ancora compreso la differenza tra l’aria che si
fissava, ad esempio, nei carbonati e quella che aveva a che fare con l’aumento di peso
delle calci metalliche. Ma la soluzione al problema non sarebbe tardata ad arrivare.
Proprio nell’agosto di quello stesso anno Priestley, scaldando l’ossido rosso di mercurio
sotto una campana rovesciata, raccolse un nuovo gas che aveva la capacità di mantenere
in maniera vivace la combustione. Si trattava dell’ossigeno, che egli avrebbe chiamato
aria deflogisticata. Nel frattempo, la stessa aria venne isolata, in maniera del tutto
indipendente, dal farmacista svedese Carl Wilhelm Scheele, che la chiamò Feuer Luft.
Lavoisier comprese che le caratteristiche dell’aria deflogisticata consentivano di
risolvere la questione enunciata nella nota sigillata del novembre 1772. Nella primavera
del 1775 stabilì la differenza esistente tra le varie arie fino ad allora scoperte (fissa,
infiammabile, flogisticata, deflogisticata, ecc.). Il 26 aprile 1775 lesse all’Académie des
Sciences una celebre memoria nella quale definì l’aria responsabile dell’aumento di peso
delle calci metalliche, ovvero degli ossidi: «il principio che si unisce ai metalli durante la
loro calcinazione, che ne aumenta il peso e che li costituisce nello stato di calce, non è
altro che la parte più salubre e più pura dell’aria. Infatti, se l’aria, dopo essere stata in una
combinazione metallica, ritorna libera è in uno stato eminentemente respirabile ed è più
adatta dell’aria atmosferica a mantenere l’infiammabilità e la combustione dei corpi».12
Nel Mémoire sur la combustion des chandelles dans l’air atmosphérique et dans l’air
éminemment respirable (1777), offrì quindi una precisa descrizione della composizione
dell'aria atmosferica, stabilendo che essa era un miscuglio di gas, composto
principalmente da ossigeno e azoto.
Lavoisier fu sicuramente la prima persona al mondo a definire l’ossigeno così
come oggi lo conosciamo, inventando anche la parola che designa tale sostanza, insieme a
molte altre che sarebbero andate a costituire il nuovo linguaggio della nuova chimica.13 L’
aria deflogisticata di Priestely e la sostanza denominata Feuer Luft da Scheele, dunque,
non erano nient’altro che l’ossigeno.
Sarebbe tuttavia corretto, avendo a che fare con la traduzione di un testo di
Preistely, tradurre il termine aria deflogisticata con la parola ossigeno? Certamente no.
Indubbiamente si tratta dello stesso ‘oggetto’, che tuttavia assume proprietà e
caratteristiche diverse a seconda della teoria di riferimento. Costituirebbe perciò un grave
errore utilizzare la parola che oggi definisce un ente al quale si è attribuito un ruolo ed un
significato ben diverso rispetto a quello attuale. Questo errore è tipico nei testi che si
12
F. Abbri, La chimica del Settecento, Torino, Loescher, 1978, pp. 177-178.
Cfr. Méthode de nomenclature chimique, proposée par MM. de Morveau, Lavoisier, Berthollet,
de Fourcroy, a cura di B. Bensaude-Vincent, Paris, Editions du Seuil, 1994. Sulle questioni aperte
dalla riforma linguistica lavoisieriana, cfr. P. Corsi, Il prezzo della politica: ascesa e caduta di
una nuova lingua per la scienza, 1795-1802, in Atti del X Convegno Nazionale di Storia e
Fondamenti della Chimica (Pavia, 22-25 ottobre 2003), a cura di M. Ciardi e F. Giudice, Roma,
Accademia Nazionale delle Scienze, 2003, pp. 203-222.
13
67
occupano di divulgazione scientifica. Ad esempio, si può trovare scritto che nel 1774
Priestely «compie un esperimento che consiste nello scaldare ossido di mercurio. Ottiene
un gas, l’ossigeno, che viene così isolato per la prima volta».14 Purtroppo, Priestley non
aveva alcuna idea di ciò che l’ossigeno diventerà per la chimica moderna, né mai utilizzò
quel termine per disegnare l’aria che aveva scoperto, allo stesso modo in cui Colombo
non chiamò mai America le terre da lui scoperte.
3. Un caso di intraducibilità: la craie
Mentre alcune traduzioni del celebre Traité élémentaire de chimie (1789), il testo con cui
Lavoisier fondò definitivamente la chimica moderna, risalgono più o meno all’epoca della
sua pubblicazione, e numerosi passi del Traité sono stati riproposti in varie antologie,
anche recenti, gli Opuscules physiques et chymique non erano mai stati tradotti in lingua
italiana, nonostante rappresentino uno dei classici della storia della scienza di tutti i tempi.
Per questo motivo ho ritenuto doveroso, insieme al collega Marco Taddia del
Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” dell’Università di Bologna, affrontare la
sfida della traduzione di un testo così importante.15 La collaborazione fra uno storico ed
un chimico ci è parsa essenziale per raggiungere un risultato se non altro dignitoso, date
le numerose e complesse problematiche inerenti, come ho cercato di spiegare nella pagine
precedenti, alla traduzione di un testo scientifico del passato.
Una particolare attenzione è stata riservata a una delle sostanze fondamentali per
gli esperimenti di laboratorio di Lavoisier, la cosiddetta craie.16 Un termine che alla fine
abbiamo deciso di non tradurre.17 Vediamo perché.
Oggi sappiamo che il termine craie (in inglese chalk e in tedesco Kreide) designa
un sedimento calcareo incoerente, biancastro, formato da gusci di foraminifere,
contenente almeno il 98% di CaCO3 (con impurità di allumina, silice e composti di ferro).
Tale sedimento caratterizza il Cretaceo (per l’appunto da craie) superiore del Bacino di
Parigi. Lavoisier aveva sostanzialmente compreso la vera natura della craie. Non a caso,
nel momento in cui si accinse ad effettuare la revisione generale della nomenclatura
chimica, nel 1787, utilizzò per essa la denominazione carbonate calcaire.18
La traduzione della parola craie con il termine utilizzato a partire dal 1787, oppure
con calcare bianco, oggi chimicamente corretto e utilizzato in mineralogia, è stata
tuttavia subito scartata in quanto tale termine non rientrava in alcun modo nella
nomenclatura di Lavoisier all’epoca degli Opuscules. Altrimenti, seguendo questo
criterio, saremmo incorsi subito nel tradizionale errore di utilizzare un termine
contemporaneo per designare un oggetto del passato.
14
G. Rivieccio, Enciclopedia cronologica delle scoperte e delle invenzioni, Milano, Rusconi,
1995, p. 41.
15
A.-L. Lavoisier, Opuscoli di fisica e di chimica, a cura di M. Ciardi e M. Taddia, Bologna,
Bononia University Press, 2005.
16
Su questi esperimenti, oltre al saggio di Taddia contenuto nella traduzione degli Opuscoli, si
veda, sempre di M. Taddia, La storia insegna…anche la stechiometria. Esercizi dagli ‘Opuscules’
di Lavoisier, in «CnS - La chimica nella scuola. Giornale di Didattica della Società Chimica
Italiana», 28, n. 3, 2006, pp. 149-153.
17
Per un’introduzione al tema della intraducibilità (senza tuttavia alcun riferimento alla
problematica del confronto con i testi scientifici del passato) cfr. R. Bertazzoli, La traduzione:
teorie e metodi, Roma, Carocci, 2006, pp. 82-97.
18
Méthode de nomenclature chimique, cit., p. 211.
68
Si è anche deciso di non utilizzare per la traduzione il termine gesso, per non
contribuire alla perdurante confusione fra calcare (CaCO3) e gesso (CaSO4·2H2O),
entrambi utilizzati per produrre il cosiddetto gesso da lavagna. Il termine chalk viene
utilizzato nella lingua inglese per indicare i piccoli cilindri di polvere rocciosa bianca
compressa con cui si scrive sulle lavagne. Questo perché la roccia impiegata per
fabbricarli è proprio il calcare bianco del Cretaceo. In Italia, invece, tali cilindretti sono
chiamati gessi perché sono composti per l’appunto da gesso, ovvero solfato di calcio.
Dunque la traduzione che troviamo nei dizionari di chalk come gesso, è sbagliata. Inutile
estendere l’errore anche al francese.
Al tempo di Lavoisier il termine craie era tradotto in italiano con la parola creta.
Si trattava, tuttavia, anche in questo caso, di un grave errore; creta, infatti, è un sinonimo
di argilla, una roccia sedimentaria composta prevalentemente da idrosilicati di alluminio.
Quindi niente a che vedere con la composizione della craie. Per questo motivo ho trovato
poco comprensibili le osservazioni di Raffaella Seligardi relative alla scelta di non
tradurre il termine craie: «Risultano discutibili le ragioni per la scelta di non tradurre un
termine importante per la chimica lavoisieriana come craie (nota 11, p. 282), che nel
Settecento veniva frequentemente, anche se non unanimemente tradotto con ‘creta’, così
come acide crayeux veniva tradotto con ‘acido cretoso’. I curatori scrivono che oggi il
termine ‘creta’, del quale peraltro forniscono una precisa descrizione, risulterebbe
fuorviante; ma questo argomento risulta contraddittorio; infatti, una volta chiariti e
contestualizzati opportunamente i significati, i termini delle scienze del passato possono e
devono venire tradotti, soprattutto nei confronti di un pubblico di non specialisti; i
glossari e le note servono appunto a questo».19
Naturalmente sono d’accordo che i termini delle scienze del passato debbano,
dove possibile, essere tradotti. Ma certamente non tradotti in maniera sbagliata. Inoltre,
tradurre oggi craie con creta non significa in alcun modo rispettare il contesto storico,
perché già nel Settecento la craie lavoisieriana non corrispondeva in alcun modo alla
creta delle traduzioni italiane.20 Un errore di traduzione resta un errore di traduzione. E
credo sia giusto per un traduttore del XXI secolo tentare di essere fedeli nel modo più
rigoroso possibile al testo di Lavoisier e non alle errate traduzioni settecentesche. Anche a
costo di prendere atto della sua «sconfitta».21
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Abbri, F. (1984) Le terre, l’acqua, le arie. La rivoluzione chimica del Settecento,
Bologna, Il Mulino.
19
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M. Taddia, Bologna, Bononia University Press, 2005, in «Nuncius», 20, fasc. 2, 2005, p. 490.
20
Non a caso anche Ferdinando Abbri, nel suo Le terre, l’acqua, le arie, cit., decise di non
utilizzare alcun corrispettivo italiano per designare la craie, che nel corso di tutto il libro continua
ad essere indicata con il termine francese, ovvero l’unico possibile.
21
«Ci sono delle perdite che potremmo definire assolute. Sono i casi in cui non è possibile
tradurre, e se casi del genere intervengono (…) il traduttore ricorre all’ultima ratio, quella di porre
una nota a piè di pagina – e la nota a piè di pagina ratifica la sua sconfitta»; U. Eco, Dire quasi la
stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003, p. 95.
69
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70
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Storiografia delle scienze e storia della psicologia, a cura di N. Caramelli, Bologna, Il
Mulino.
71
Hans Honnacker
Camilleri è traducibile? Le traduzioni tedesche
dei romanzi dello scrittore di Porto Empedocle1
Il successo editoriale di Andrea Camilleri a livello europeo, se non mondiale, dopo quello
di Umberto Eco e, in parte, anche di Susanna Tamaro, è oramai sotto gli occhi di tutti ed è
stato già analizzato in un recente lavoro di vari autori: Il caso Camilleri, Letteratura e
storia.2 Cito questa miscellanea anche perché vi sono contenuti alcuni interventi di
traduttori che hanno trasposto in diverse lingue i romanzi dello scrittore di Porto
Empedocle. Uno di questi è di Moshe Kahn, che ha tradotto in tedesco alcuni dei romanzi
del cosiddetto filone storico.3 Sulle traduzioni di Kahn si tornerà in seguito, anche perché
è stato citato positivamente dallo stesso Camilleri in un’intervista del 2001,4 in cui
quest’ultimo sembra lamentarsi di tanti mediocri traduttori dei suoi romanzi, soprattutto
dei suoi gialli. “Ob die [Übersetzer] immer alles richtig verstanden haben?”, si chiede
dubbioso Camilleri.5
La questione che, a questo punto, si impone quasi automaticamente, è evidente:
Camilleri è traducibile, dal momento che è non sempre comprensibile per gli stessi lettori
italiani? E ancora, i suoi romanzi non sono troppo italiani, o meglio siciliani, per poter
essere tradotti, per esempio in tedesco?6 Non è solo una domanda retorica come potrebbe
sembrare a prima vista, dal momento che è ancora assai dibattuta la questione della
traducibilità o intraducibilità di testi in via di principio,7 non solo di testi di poesia, ma
anche di quelli plurilinguistici come possono essere quelli di Camilleri.
In questo contesto è interessante anche il giudizio che esprime Umberto Eco in
un’intervista a proposito della difficoltà, se non impossibilità, di tradurre il suo ultimo
romanzo (Eco 2004a): “‘Poveri traduttori, però’ ... ‘Sì, veramente eroici: debbono
tradurre “Pippo non lo sa” e cose del genere in modo che conservino anche nella loro
lingua lo stesso sapore di canzonetta e tuttavia non deve essere una canzonetta loro ma
una canzonetta italiana’.”8 In una postfazione alla sua traduzione tedesca di questo
romanzo, Burkhart Kroeber ha descritto queste difficoltà del tradurre, dovute a
1
Questo contributo apparirà, con qualche modifica al testo, sulla Festschrift, di prossima
pubblicazione, in onore di Johann Drumbl.
2
Per il successo editoriale europeo, si confrontino Klüver (2001), p. III, e S. Quadruppani, Il caso
Camilleri in Francia. Le ragioni di un successo, in Il caso Camilleri (2004), pp. 200-205.
3
Ivi, pp. 180-186. Le traduzioni di Moshe Kahn sono, fra le altre, le seguenti: Camilleri (1999a),
Camilleri (2000a), Camilleri (2002a), Camilleri (2003a) e Camilleri (2005). L’unica traduzione di
gialli da parte di Moshe Kahn è finora: Camilleri (2003b).
4
Klüver (2001).
5
Ibidem. Si confronti a tale riguardo anche la mia lettera al giornale, in risposta all’articolo di
Klüver (Honnacker (2001)).
6
In seguito mi occuperò solo delle traduzioni tedesche dei romanzi di Camilleri. Per le loro
traduzioni in altre lingue europee (inglese, francese e spagnolo), rimando alla miscellanea sopra
citata (Il caso Camilleri (2004), pp. 187 sgg.).
7
Basti pensare ad esempio al Convegno Internazionale Les enjeux de l’intraduisible, Parigi, 24-25
Novembre 2002 (cfr. la recensione di Maddalena de Carlo a tale convegno (De Carlo (2003)).
8
Cfr. Lilli (2004), p. 44.
72
particolarità della cultura italiana, che l’hanno indotto a lasciare le poesie e le canzoni
citate da Eco in italiano, per aggiungerne successivamente una traduzione letterale.9
1. Possibilità vs. impossibilità della traduzione
In questo contesto non potendo addentrarmi nel campo complesso della questione
controversa della traducibilità o intraducibililità, rimando a quanto detto in altra sede.10 Al
posto delle riflessioni teoriche sulla problematica della traducibilità in generale vorrei
invece citare qui un bonmot di Daniel Pennac che, in Ecco la Storia, mette in bocca ad
uno dei suoi personaggi la seguente considerazione sull’atto di tradurre:
“Oh, ma io sono un interprete e un traduttore” avrebbe risposto Manuel Callado
Crespo. “Nelle sette od otto lingue in cui navigo correntemente non ho mai
incontrato due parole che significhino esattamente la stessa cosa. Non ho alcun
merito nell’individuare i sosia: con la caccia alle epsilon io mi guadagno il pane.”11
9
“In diesem Buch geht es an vielen Stellen um spezifisch italienische Befindlichkeiten, das heißt
um gedankliche Assoziationen, kulturelle Prägungen, Bildungszitate, wie sie charakteristisch für
Italiener der Generation des Erzählers sind [...]. Diese wie auch die meisten Zitate mußten daher
in der Übersetzung weitgehend erhalten bleiben. Wo es darüber hinaus um sprachliche Feinheiten
geht, also besonders bei Zitaten aus Gedichten oder Liedern, zumal mit Reimen, mußte sogar die
italienische Sprache beibehalten werden. In solchen Fällen blieb also gar nichts anderes übrig, als
die italienische Originalfassung zu übernehmen und ihr eine möglichst exakte, allein dem
Verständnis des Originals dienende (daher in der Regel reimlose) Übersetzung beizugeben [...].
Leitlinie bei all diesen Verfahren – und bei der ganzen Verdeutschung – war, den Text so nah wie
möglich am Original zu übersetzen, also ein Maximum an italienischen Duktus beizubehalten,
und ihn dennoch möglichst flüssig wiederzugeben. Verzichtet werden mußte freilich auf die
Wiedergabe einiger südpiemontesischer Dialektausdrücke in den Reden der Bäuerin Amalia: Für
diese Form von Italianità gibt es keine glaubwürdigen Äquivalente, die man einer solchen Figur
in den Mund legen könnte” (Eco (2004b), pp. 497-498). Parlando di espressioni sudpiemontesi,
Kroeber si riferisce probabilmente a brani come per esempio i seguenti: “Ossignur bel, invece di
andar fuori, che oggi è stato un pomeriggio di una bellezza che basta” o “Ma santapulenta, non
sono mica in solaio!” (Eco (2004a), pp. 117 e 168) che Kroeber traduce con “Herr im Himmel,
anstatt daß Sie rausgehen an die frische Luft, wo doch heute ein so schöner Tag war, daß es
schöner nicht geht” und “Ja heiliger Strohsack, die sind ja gar nicht auf dem Dachboden!” (Eco
(2004b), pp. 130 e 185). D’altronde, nel suo recente libro sulla traduzione, Eco aveva
rimproverato in particolare a Kroeber di non aver tradotto adeguatamente il lessico erotico e le
bestemmie nel romanzo Baudolino. Nella sua traduzione di questo saggio (Eco (2003), pp. 132
sgg.), Kroeber si difende contro quest’accusa, a suo dire ingiustificata: “Einspruch, Euer Ehren:
Man hätte natürlich »ejakulieren« oder »einen Orgasmus kriegen« sagen können, aber woher
sollte der mittelalterliche Bauernbub Baudolino diese akademischen Ausdrücke kennen? Und
derbe Slangausdrücke hätten entweder zu modern oder zu regional geklungen. »Lust« hat dagegen
durchaus die gewünschte Konnotation [...]” (Eco (2006), p. 160, nota 31).
10
A tale riguardo si vedano Honnacker (cur.) (2005), pp. 9-21 e la bibliografia ivi riportata.
11
Pennac (2003), p. 44. Per altre riflessioni teoriche sulla traduzione, immanenti alla finzione di
un romanzo e/o di un racconto si confronti ad esempio Banda (2001): “Il libro però che l’aveva
veramente impressionato, il suo libro era Der Keller. Ne mormorava, a volte, come fra sé, il
sottotitolo Eine Entziehung e chiedeva: - Ma tu come lo tradurresti questo, questa Entziehung... un
sottrarrsi a... una sottrazione... un venir meno... una via di fuga... una via di scampo? Eh, come lo
tradurresti?” (ivi, p. 21). Tra parentesi, la problematica traduttiva e comunicativa è perfino entrata
nel mondo del cinema; mi riferisco al film di Sofia Coppola, figlia di Francis Ford Coppola, “Lost
in Translation” del 2003, il cui titolo è stato tradotto in italiano – in modo fuorviante – con
73
Per vedere come la questione della traduzione sia entrata perfino nella finzione della
narrativa, è interessante anche la seguente riflessione metanarrativa dell’io narrante del
libro di Pennac: “È vero ancora che Yasmina Melaouah [la traduttrice di questo romanzo
di Pennac; nota dell’autore], Manuel Serrat Crespo, Evelyne Passet e alcuni altri dei miei
amici traduttori dubitano che “la finestra”, “la janela”, “das Fenster”, “the window” o “la
fenêtre” indichino esattamente la stessa cosa, poiché nessuna si affaccia sugli stessi
rumori né si richiude sulle stesse musiche”.12
2. Il caso specifico dei romanzi di Camilleri
Nel caso dei romanzi di Camilleri il problema specifico della traducibilità consiste nel loro
plurilinguismo. Scrive Moshe Kahn sulle difficoltà traduttive che si è trovato ad affrontare:
Quando si tratta di due lingue diverse, il traduttore se la cava ancora, in qualche
maniera. Con tre lingue il problema diventa un vero problema, e secondo la mia
esperienza bisogna fare una scelta chiara.13
2.1 I romanzi cosiddetti storici
Nel caso dei cosiddetti romanzi storici si pone quindi il problema di dover rendere tre
lingue e/o dialetti diversi: l’italiano, il siciliano e il genovese. Nel caso de La mossa del
cavallo ad esempio, Moshe Kahn ha trovato la seguente soluzione:
Per La mossa del cavallo mi sono, dunque, deciso a trattare il genovese come
italiano, e a lasciare il siciliano tale e quale anche nella versione tedesca. Perché
questo? Camilleri racconta che il protagonista del romanzo è di origine siciliana, ma
ancora molto piccolo, i suoi genitori, in cerca di una sorte migliore, lo portarono con
loro a Genova dove era cresciuto, e lì aveva imparato a parlare, a ragionare e perfino
a sognare in genovese. Poi arriva in Sicilia, da adulto, a Montelusa e Vigàta, e viene
a confronto per la prima volta con la lingua siciliana che lui non capisce nonostante
sia di origine siciliana. Per lui è una lingua straniera, all’inizio, e si deve
reimpadronire di questa lingua se vuole portare a termine con successo il lavoro per
il quale era stato inviato in Sicilia. C’è un unico momento nel romanzo in cui potevo
fare capire al lettore tedesco che esso non si limita solamente a rendere in italiano
l’impronta genovese del suo protagonista, ma che si trova oramai in un vero e
“L’amore tradotto” e che rappresenta, in chiave ironica, i problemi traduttivi ed i disturbi
comunicativi che ne nascono. Per fare solo un esempio, in una delle scene iniziali, “È tempo di
Santoria”, la traduttrice giapponese sceglie di non tradurre o tradurre solo in parte quanto detto in
giapponese dal regista, che sta girando uno spot pubblicitario per un whisky giapponese, al
protagonista del film, interpretato da Bill Murray, lasciando quest’ultimo perplesso sul da farsi: il
lungo discorso del regista in giapponese (che, secondo la mia collega giapponese Izumi
Hashimoto, può essere parafrasato nel modo seguente: ‘Signor Bob, Lei sta seduto nel Suo studio,
davanti a Lei c’è un tavolo con un bicchiere di whisky. D’accordo? Con il cuore, lentamente deve
guardare la telecamera come se raccontasse qualcosa ad un Suo amico, come Humphrey Bogart,
quando in Casablanca dice a Ingrid Bergman «Guardami negli occhi, piccola»’) nella traduzione
viene sintetizzato dalla traduttrice con un lapidario “Guardi verso la telecamera”. Non a caso Bob
si meraviglia della traduzione sintetica (“Tutto qui? Ha detto solo questo?”).
12
Pennac (2003), pp. 48-49.
13
M. Kahn, Il dialetto nelle traduzioni di Andrea Camilleri, in Il caso Camilleri (2004), p. 183.
74
proprio conflitto esistenziale tra il suo essere genovese e la sua nuovamente
assimilata esistenza siciliana. Quel momento è la cavalcata notturna quando il
protagonista ritorna a casa. Vede la luna splendere sui campi, sente dei cani abbaiare
in lontananza, avverte in sé una grande felicità e contentezza. E tutto questo vede e
sente e avverte in genovese. Allora ho deciso di spezzettare questi periodi in brevi
unità, inserendo nella versione tedesca questi brevi periodi in genovese, facendoli
subito seguire dalla traduzione tedesca per continuare poi con il successivo periodo.
Così anche il lettore tedesco si poteva rendere conto di quello che stava accadendo in
quel personaggio, cioè una lotta tra due culture, una lotta tra la perdita di una cultura
familiare e la non ancora del tutto avvenuta assimilazione della nuova cultura
d’origine. Potevo lasciare il siciliano all’inizio tale e quale perché era come una
lingua straniera per il protagonista, quindi anche lingua straniera per il lettore
tedesco.14
Per Il re di Girgenti, per fare un altro esempio,15 il problema si presenta ancora più
complesso. Spiega Moshe Kahn:
Il problema de Il re di Girgenti, che vedo in questo momento, è quello dei vari
linguaggi. Abbiamo a che fare precisamente con quattro strati ben distinti: con un
siciliano antico reinventato, con l’italiano, con lo spagnolo corrotto, e con il latino
corrotto. Per quel che riguarda il siciliano antico reinventato, penso di potermela
cavare, perché in questo periodo sto rileggendo un romanziere della fine del ’700 e
l’inizio dell’800 che all’epoca era molto molto famoso e tenuto in grande stima.
Parlo di Jean Paul, un romanziere di grande successo: in qualche maniera si potrebbe
dire che era l’Andrea Camilleri tedesco dell’epoca. Oggi è meno conosciuto, ma
devo dire che mi serve molto la rilettura dei suoi romanzi, per ispirarmi a una certa
linea linguistica per la mia traduzione. Credo che potrò adattare l’italiano a questo
stile. Ma quando penso alle parti spagnole e quelle latine mi cresce dentro l’invidia
terribile per i miei colleghi traduttori, inglese e francese, perché loro hanno molto più
facilità di giocare sia con la sintassi che con la grammatica soprattutto dei verbi,
perché non sono mai troppo lontani dall’italiano.16
Sono interessanti le osservazioni di Moshe Kahn non solo a proposito delle difficoltà
concrete peculiari che si è trovato ad affrontare nello specifico dei romanzi di Camilleri,
ma anche riguardo alle traduzioni in altre lingue, come l’inglese e francese.17 In questa
sede non posso dilungarmi su questo aspetto, ma rimane il fatto della ben nota diversità
sintattica e grammaticale del tedesco rispetto all’italiano che costituisce un’oggettiva
difficoltà di traduzione.18
14
Ivi, pp. 183-184.
Il libro è uscito solo nel 2005 in tedesco con il titolo König Zosimo pur essendo stato annunciato
per il 2003. La complessità del lavoro traduttivo ha evidentemente richiesto un tempo di
elaborazione più lungo.
16
M. Kahn, Il dialetto nelle traduzioni di Andrea Camilleri, in Il caso Camilleri (2004), pp. 184185.
17
A tale proposito è tuttavia interessante notare come anche il collega francese lamenti
l’inadeguatezza e la mancanza di elasticità del francese standard per tradurre i romanzi di
Camilleri (cfr. D. Vittoz, Quale francese per tradurre l’italiano di Camilleri? una proposta non
pacifica, in Il caso Camilleri (2004), pp. 187-199, in particolare p. 187 e ss.).
18
A tale riguardo si confronti Handschuhmacher (2003) con gli esempi ivi riportati.
15
75
2.2 Il ciclo del commissario Montalbano (e Collura)
Nel caso dei romanzi di Camilleri, appartenenti al filone del ciclo di Montalbano (e
Collura), si tratta normalmente solo di due strati linguistici diversi (con l’eccezione di
qualche frase in milanese o genovese ad esempio): l’italiano e il siciliano, lingua del
protagonista, ma soprattutto dell’ambiente vigatese. Si tratta quindi del caso più semplice
in cui, come diceva Moshe Kahn, il traduttore “se la cava ancora, in qualche maniera”.
Tuttavia, forse le cose non sono poi così semplici, se si vedono le soluzioni proposte da
due traduzioni diverse dei gialli di Camilleri. Siccome non esistono in questo caso,
almeno per quanto io abbia potuto vedere, riflessioni teoriche in forma di saggi o pre- e/o
postfazioni, dobbiamo evincere le loro strategie traduttive dalla traduzione stessa.
Vediamo quindi più nel dettaglio le traduzioni sia del filone ‘storico’ sia del ciclo di
Montalbano (e Collura) a confronto.
3. Le traduzioni tedesche a confronto
Forse si tratta solo di una coincidenza, ma la maggioranza dei romanzi cosiddetti storici di
Camilleri sono stati tradotti da Moshe Kahn, ed i gialli del ciclo di Montalbano da
Christiane von Bechtolsheim.19 Nell’intervista sopra citata, Camilleri si oppone
all’etichetta di giallista, e l’autore dell’articolo in cui viene riportata l’intervista, Henning
Klüver, avanza l’ipotesi che la mediocrità delle traduzioni, in particolare quelle tedesche,
con l’eccezione di quelle di Moshe Kahn, abbia a che fare con il fatto che i romanzi di
Camilleri, in particolare i gialli, vengano considerati paraletteratura, cioè letteratura
‘dozzinale’.20 Naturalmente con questo non vorrei già dare un giudizio più o meno
positivo sulle varie traduzioni tedesche21 (dicendo, ad esempio, che quelle di Moshe Kahn
sono ben riuscite, in quanto riguardano ‘vera’ letteratura, mentre quelle di Christiane von
Bechtolsheim lo sono meno, in quanto sono traduzioni di gialli), ma intendo invece fare
qualche analisi puntuale comparativa tra le traduzioni per quanto concerne il ‘pasticcio’
linguistico nell’originale (italiano, siciliano, genovese, ecc.).22
19
Con la sola eccezione del primo romanzo del ciclo di Montalbano La forma dell’acqua, tradotto
da Schahrzad Assemi (Camilleri (1999b)). Le traduzioni di Christiane von Bechtolsheim sono:
Camilleri (2000b), Camilleri (2001a), Camilleri (2001b), Camilleri (2001c), Camilleri (2002b) e
Camilleri (2003c). L’unico romanzo cosiddetto storico che finora Christiane von Bechtolsheim ha
tradotto, è: La scomparsa di Patò (Camilleri (2003d)).
20
Klüver (2001). Si confronti anche Kautz (20022), p. 51.
21
Si veda a tale riguardo la mia lettera al giornale già citata: “Schließlich noch ein Wort zu den –
nach Klüvers Darstellung meist zweitklassigen – deutschen Übersetzungen der Werke Camilleris:
Ich glaube, dass ihre so genannte “Zweitklassigkeit” auf objektiven Gründen beruht. Jeder, der
sich selbst beruflich an literarischen Übersetzungen versucht hat, kennt die Schwierigkeiten einer
adäquaten Translation, die dann zu einem fast unmöglichen Unterfangen wird, wenn die
Quelltexte, wie Camilleris Romane, in einer Mischung aus Dialekt und Hochsprache verfasst
sind” (Honnacker (2001)).
22
Un aspetto interessante di indagine potrebbe essere anche la traduzione più o meno fantasiosa
dei titoli originali dettata sicuramente anche da strategie editoriali. Questo fatto riguarda sia i
cosiddetti romanzi storici di Camilleri che quelli gialli. Per fare qualche esempio: A. Camilleri,
Der zweite Kuss des Judas (titolo originale: La scomparsa di Patò), Id., Der Kavalier der späten
Stunde. Commissario Montalbano wundert sich (titolo originale: L’odore della notte) e Id., Das
76
Se si prende come esempio Il cane di terracotta, si possono fare le seguenti
osservazioni: la traduttrice Christiane von Bechtolsheim ha optato per tradurre le parti in
dialetto siciliano in modo diverso dai brani in italiano standard: non con un dialetto
tedesco, ma con una Umgangssprache sovraregionale, rinunciando però di solito a
particelle modali, spezzamenti, ripetizioni per compensare la vivacità e spontaneità del
dialetto nell’originale.23 Per fare un esempio: “Sissi, nun c’è nuddru. E c’è n’autra cosa
stramma, le chiavi stanno appizzate al loro posto, il primo che passa può mèttiri in moto e
arrubbarselo”24 viene reso con “Ja, da ist keiner. Und noch etwas ist komisch, der
Schlüssel steckt, der erstbeste, der vorbeikommt, steigt ein und fort ist er.”25
Inoltre von Bechtolsheim non traduce certe parole in italiano, lasciandole tali e
quali come nell’originale perché di facile comprensione, per lo più “i saluti, i titoli e le
forme allocutive, i cibi e le bevande tipiche”,26 quali ‘panini’, ‘pronto’, ‘dottore’,
‘commissario’, etc. o brevi frasi, in particolare esclamazioni, quali ‘per l’amor di Dio’ e
così via.27 Questo vale soprattutto per le passioni culinarie del commissario: quasi tutti i
piatti non vengono tradotti, ma elencati e spiegati in appendice dalla traduttrice: ad
esempio “alici con cipolla e aceto” e “triglie fritte”.28 In un’altra appendice la traduttrice
spiega luoghi e personaggi menzionati nel romanzo, ma poco conosciuti al pubblico
tedesco, quali “Asinara” e “Delio Tessa”.29 Probabilmente per rendere il ‘colorito’ vivace
del linguaggio parlato e dialettale, rimangono tali e quali alcune espressioni o brevi frasi
in siciliano, quali “u grecu”, “duttù”, “ciccino, ma cu è a chist’ura” etc.,30 il cui significato
viene successivamente spiegato in tedesco o può essere intuito dal lettore per inferenza
dal contesto.
Infine il “taliàno”31 maccheronico del collaboratore di Montalbano, Catarella, non
viene reso con un registro linguistico differente rispetto alle altre parti dell’originale in
siciliano, e si perde così nella traduzione una fonte non indifferente di comicità. Forse
poteva essere tradotto con un tedesco colloquiale sgrammaticato o con un tedesco
substandard più marcato32 per rendere il nonsense dei discorsi del fidato collaboratore. Si
pensi solo all’esilarante dialogo tra Montalbano e Cagarella riportato di seguito:
Spiel des Patriarchen. Commissario Montalbano lernt das Staunen (titolo originale: La gita a
Tindari). Per la traduzione dei titoli di testi letterari si veda Rega (2001), pp. 158 sgg.
23
Contro l’uso di un corrispondente dialetto/regioletto nella lingua d’arrivo e per l’uso di un
linguaggio colloquiale per rendere un dialetto/regioletto del testo di partenza nelle traduzioni
anche multimediali, per esempio nel film, si confronti Ch. Heiss / L. Leporati, Non è che ci
mettiamo a fare i difficili, eh? Traduttori e dialoghisti alle prese con il regioletto, in Bollettieri
Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (cur.) (2000), pp. 43-66, in particolare pp. 45-46 e 63.
24
Camilleri (200020), p. 37.
25
Camilleri (2000b), p. 37.
26
Ch. Heiss / L. Leporati, Non è che ci mettiamo a fare i difficili, eh? Traduttori e dialoghisti alle
prese con il regioletto, in Bollettieri Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (cur.) (2000), p. 45.
27
Camilleri (2000b), pp. 10, 12, 61, 138, 146, 158, e passim.
28
Ivi, pp. 350-351. In Germania è anche uscito un libro con le ‘ricette’ dei piatti preferiti da
Montalbano (cfr. Klüver (2001)).
29
Camilleri (2000b), p. 349.
30
Ivi, pp. 13, 26, 117, 139, e passim.
31
Camilleri (200020), p. 25.
32
Per alcuni esempi di come possa essere reso un regioletto piuttosto marcato nella traduzione si
confronti Ch. Heiss / L. Leporati, Non è che ci mettiamo a fare i difficili, eh? Traduttori e
dialoghisti alle prese con il regioletto, in Bollettieri Bosinelli/Heiss/Soffritti/Bernardini (cur.)
(2000), pp. 50 sgg.
77
“Dottori, lei putacaso mi saprebbi fare la nominata di un medico di quelli che sono
specialisti?”.
“Specialista di cosa, Catarè?”.
“Di malattia venerea”.
Montalbano aveva spalancato la bocca per lo stupore.
“Tu?! Una malattia venerea? E quando te la pigliasti?”.
Io m’arricordo che questa malatia mi venne quando ero ancora nico, non avevo
manco sei o sette anni”.
“Ma che minchia mi vai contando, Catarè? Sei sicuro che si tratta di una malattia
venerea?”.
“Sicurissimo, dottori. Va e viene, va e viene. Venerea”.33
Nella traduzione tedesca, invece si legge il corrispondente brano in un tedesco colloquiale
– con l’inserimento di qualche parola siciliana:
“Dottori, kennen Sie vielleicht zufällig einen Arzt, so einen Spezialisten?”
“Spezialist für was, Catarè? ”
“Für Geschlechtskrankheiten.”
Montalbano war vor Staunen der Mund offen stehengeblieben.
“Du?! Eine Geschlechtskrankheit? Wo hast du dir denn die eingefangen?”
“Ich weiß noch, daß ich krank geworden bin, als ich noch klein war, höchstens sechs
oder sieben.”
“Was redest du da für einen Mist, Catarè? Bist du sicher, daß es eine
Geschlechtskrankheit ist? ”
“Klar, Dottori. Erst geht’s mir gut, und dann geht’s mir plötzlich schlecht. Eine
Geschlechtskrankheit.”34
La traduttrice rende qui bene l’assonanza (“schlecht ... Geschlechtskrankheit”), in parte
anche l’anafora, mentre risulta meno efficace il gioco di parole (“Va e viene, va e viene.
Venerea”), che può essere reso difficilmente in tedesco, ma forse meritava di essere
spiegato in una nota a piè di pagina (“schlecht ... Krankheit ... Geschlechtskrankheit”).
Per riassumere, Christiane von Bechtolsheim rende l’italiano con un tedesco
standard ed il siciliano dei gialli di Camilleri con un tedesco colloquiale sovraregionale,
ma cerca anche di dare un’idea della veste linguistica dell’originale, inserendo dei
frammenti in italiano e/o siciliano, come abbiamo visto prima. In questa strategia
traduttiva, la traduttrice si colloca sulla scia della traduzione di Schahrzad Assemi del
primo romanzo del filone di Montalbano, La forma dell’acqua, ampliando le parti in
italiano e/o siciliano (che, in parte, vengono poi spiegate in tedesco) ed anche il numero
delle appendici.35
Nei cosiddetti romanzi storici, ad esempio ne La mossa del cavallo, Moshe Kahn
ha optato, come si era riportato sopra, per parti di dialogo in dialetto siciliano,36 non tanto
33
Camilleri (200020), pp. 25-26.
Camilleri (2000b), p. 28.
35
Nella traduzione de La forma dell’acqua si riscontra solo un’appendice con poche annotazioni
(Camilleri (1999b), p. 249). In questa traduzione mancano anche le note a piè di pagina; nella
traduzione de Il cane di terracotta ce ne sono invece due (Camilleri (2000b), pp. 110 e 133).
Anche Assemi traduce le parti siciliane dell’originale con un tedesco colloquiale. Per le parole
italiane o dialettali rimaste tali e quali nella traduzione di Assemi si vedano per esempio: “la
liggi”, “pupo”, “pronto”, “segretario provinciale”, ecc. (Camilleri (1999b), pp. 17, 21, 41 e
passim).
36
Camilleri (2002a), pp. 44, 60, 66 e passim.
34
78
per dare un’impressione della veste linguistica originale del testo, quanto per evidenziare
le difficoltà di comprensione del protagonista stesso che, benché siciliano di nascita, deve
‘riacquistare’ questo dialetto, in quanto cresciuto a Genova. Si tratta di una scelta audace
ma, a mio avviso, efficace per rendere in modo adeguato il testo originale:
“Beddru? Schön? Im ganzen Gebiet von Sizilien gibt’s kein gleiches! Und euer
Ehren kann sogar mit ihm sprechen, denn es versteht alles! Besser als ein
Christenmensch!”
“Wie heißt es?”
“Stiddruzzu.”
Er hatte den Dialekt noch nicht ganz wiedergefunden, es gab Worte, deren
Bedeutung ihm nicht gleich einfiel. Er mußte sich anstrengen, wenn er verstehen
wollte.
“Stiddruzzu? Kleiner Stern?”
“Ja, genau. Wegen dem sternförmigen Fleck auf seiner Stirn.”37
Come le parti dialettali vengano qui trattate, più che semplicemente tradotte, emerge
ancora più chiaramente dal monologo centrale del protagonista in genovese, spezzato
dalla traduzione delle singole frasi in tedesco:
Wie schön diese Nacht war! O ciæo da lunn-a o s’allargava in sciâ campagna, der
Mondschein breitete sich über das Land, paiva de giorno, es war wie Tag, non
passava unna fìa de vento, kein Lüftchen regte sich, giusto quarche baietto de can,
nur Hundegebell irgendwo, quarche grillo cantandô, das Zirpen von Grillen ...38
Nella sua traduzione, Moshe Kahn rinuncia a note a piè di pagina e ad annotazioni
in fondo al testo, inserendo spiegazioni all’interno del testo. Interessante è il fatto che il
traduttore cerchi di rendere l’italiano ottocentesco dell’originale con un corrispettivo
registro in tedesco, usando un tedesco oramai desueto: Kahn lavora quindi su più registri
linguistici – oltre al tedesco standard e colloquiale, anche quello ottocentesco etc.39
37
Ivi, p. 44. Nel testo originale si legge: “Beddru? In tutta la terra di Sicilia non ci nn’è unu
eguali! E voscenza ci pò macari parlari pirchì iddru tuttu capisci! Meglio di un cristianu è!”
“Come si chiama?” “Stiddruzzu.” Il dialetto ancora non era stato completamente ritrovato,
c’erano parole delle quali gli mancava il significato. Dovette fare uno sforzo per capire.
“Stellino?” “Sissi, accussì. Per via della macchia a forma di stiddra ca teni nella fronti” (Camilleri
(20045), p. 58).
38
Camilleri (2002a), p. 79. Il corrispondente passo del testo originale è il seguente: “Che bella
nottata! O ciæo da lunn-a o s’allargava in sciâ campagna, paiva de giorno, non passava unna fïa
de vento, giusto quarche baietto de can, quarche grillo cantandô...” (Camilleri (20045), p. 101).
39
Ad esempio “Küßdiehand”, v. Camilleri (2002a), p. 57 e passim. Degno di interesse è anche il
modo in cui Kahn modifichi il latino ‘sicilianizzato’ in un latino ‘tedeschizzato’:
“Dominivobisco”. “Etticummi spiri totò” risposero una decina di voci sperse nello scuro profondo
della chiesa, rado rado punteggiato da qualche lumino e da cannìle di grasso fetente. “Itivìnni, la
miss è” (Camilleri (20045), p. 11) viene tradotto da Kahn con “Dominovobisdu.” “Ettkumm spiri
tutuho”, antworteten an die zehn Stimmen, die sich im tiefen, nur hier und da gelegentlich von
übelriechenden Talglichtern durchbrochenen Dunkel der Kirche verloren. “Ite, missa jetzt.”
(Camilleri (2002a), p. 7). Cfr. anche Camilleri (20045), p. 43 e Camilleri (2002a), p. 33.
79
Infine, per riportare brevemente anche un esempio lampante dalla traduzione di
Moshe Kahn de Il re di Girgenti, romanzo in cui Camilleri mescola addirittura quattro
varietà linguistiche (il siciliano e l’italiano antichi del ’700 e il latino e lo spagnolo
maccheronici): “Zwischen dentencíon y verschleppungcíon gibt es eine gewaltige
Diferencia, Señor Duca”40, che traduce il “Tra detencíon y sequestro c’è una bella
diferencia, signor Duca”41 del testo originale. Sorprendente e molto azzeccato suona il
termine, inventato da Moshe Kahn, verschleppungcíon, visto che rappresenta l’unione
originale tra il sostantivo tedesco Verschleppung (rapimento, sequestro) e il suffisso
spagnolo -cíon. Interessante è anche che Kahn utilizzi anche altri standard del tedesco, ad
esempio quello austriaco per rendere il siciliano antico de Il re di Girgenti: ““Jetzt im
Jänner, wird es in Strömen regnen” versuchte Filònia ihn zu beruhigen”42, che traduce
““A ghinnaro venturo si metterà a chioviri a retini stese” cercò di tranquillizzarlo
Filònia”43. Così, se ghinnaro è tipicamente siciliano, Jänner è la variante austriaca del
tedesco standard Januar. 44
4. Conclusioni
Dalle osservazioni finora fatte emergono due dati fondamentali. In primo luogo, ci sono
varie possibilità di tradurre un testo complesso, quali sono i romanzi di Camilleri,
soprattutto a causa del plurilinguismo e del gioco con vari strati linguistici che, benché in
modo diverso, ricordano lo sperimentalismo di Carlo Emilio Gadda nel suo Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana.45 Nessuna di queste traduzioni può essere
considerata la traduzione-modello che d’altronde, a mio parere, non esiste.46 Come
abbiamo visto ci sono varie strategie, più o meno esplicitate, volte a ‘trattare’ più che
‘tradurre’, per usare le parole di Moshe Kahn, i dialetti nei romanzi dello scrittore
siciliano. Tra i vari traduttori delle opere di Camilleri, il più convincente sembra essere
proprio Kahn, che non solo in un saggio rende conto del suo operato, ma che, forse più di
altri, è anche sempre alla ricerca di un registro adatto anche nella lingua di arrivo, in
questo caso il tedesco. Questo presuppone un lungo lavoro di ricerca linguistica e non, di
cui parla lo stesso Moshe Kahn – ad esempio la lettura delle opere di Jean Paul per la
traduzione de Il re dei Girgenti.
In secondo luogo, confrontando le varie versioni traduttive, emerge chiaramente
che tradurre vuol dire produrre un nuovo testo, un nuovo ‘originale’ (nella lingua
d’arrivo) di cui il traduttore o la traduttrice diviene autore o autrice.47 La traduzione non
potrà mai del tutto rispecchiare fedelmente il testo nella lingua di partenza48 – volontà
spesso dettata da una “nostalgia per l’originale” –49 ma può invece riprodurre dei
meccanismi narrativi e procedimenti linguistici analoghi nella lingua di arrivo. Una
traduzione parola per parola è spesso impossibile; una traduzione creativa ed esplicativa è
40
Camilleri (2005), p. 52.
Camilleri (2001d), p. 60.
42
Camilleri (2005), p. 148.
43
Camilleri (2001d), p. 169.
44
Variantenwörterbuch des Deutschen (2004), p. 373.
45
Per Gadda si vedano ad esempio Pasolini (1960) e Romanelli (1988).
46
Cfr. anche Mattioli (2003), in particolare p. 176.
47
A tale riguardo si confrontino Osimo (1998), p. 27 e Eco (2003), p. 69.
48
Per l’irraggiungibilità dell’originale cfr. Mattioli (2003), p. 174 e Rega (2001), p. 54.
49
Per questo termine si vedano Eco (2003), p. 185 Rega (2001), p. 43 e Nasi (2001), pp. 139 sg.
41
80
invece possibile, se si parte (come Umberto Eco) dal presupposto, che, sebbene
incommensurabili, i sistemi linguistici siano pur sempre comparabili.50
Riferimenti
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Camilleri, A. (2000b) Der Hund aus Terracotta. Commissario Montalbano löst seinen
zweiten Fall, Bergisch Gladbach, Lübbe.
Camilleri, A. (2001a) Der Dieb der süßen Dinge. Commissario Montalbanos dritter Fall,
Bergisch Gladbach, Lübbe.
Camilleri, A. (2001b) Das Paradies der kleinen Sünder. Commissario Montalbanos
kommt ins Stolpern, Bergisch Gladbach, Lübbe.
Camilleri, A. (2001c) Das Spiel des Patriarchen. Commissario Montalbano lernt das
Staunen, Bergisch Gladbach, Lübbe.
Camilleri, A. (2001d) Il re di Girgenti, Palermo, Sellerio Editore.
Camilleri, A. (2002a) Die Mühlen des Herrn, Frankfurt a. M., Fischer.
Camilleri, A. (2002b) Die Nacht des einsamen Träumers. Commissario Montalbano
kommt ins Grübeln, Bergisch Gladbach, Lübbe.
Camilleri, A. (2003a) Der vertauschte Sohn, Berlin, Wagenbach.
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Camilleri, A. (2003c) Die Rache des schönen Geschlechts. Commissario Montalbano
lernt das Fürchten, Bergisch Gladbach, Lübbe.
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50
Eco (2003), pp. 351-352 e Honnacker (2005), p. 12.
81
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82
Demetrio Giordani
Appunti in margine a Corano III:7
Chi legge il Corano, in Occidente, normalmente si serve di una traduzione; pochi hanno la
possibilità di accedere direttamente al testo arabo, e le traduzioni, anche le migliori, non
riescono mai a essere sempre efficaci, specialmente perché, in un testo complesso come
quello coranico, le parole racchiudono una molteplicità di sensi e di sfumature che
soltanto un’analisi rigorosa dei singoli termini può far comprendere.
Una traduzione di per se stessa orienta il lettore verso un’unica interpretazione e
non lascia spazio ai molteplici sensi delle parole originali, né a quello che viene sottinteso
tra una parola e l’altra, tanto meno alle varianti di lettura che un testo così antico contiene.
Quindi, come già ho avuto modo di osservare in conclusione ad un precedente
intervento,1 il testo coranico non va semplicemente letto ma va soprattutto interpretato.
Nello sforzo esegetico di un qualsiasi autorevole commentatore appare sempre la
volontà di prendere in esame e rendere esplicite, una dietro l’altra, tutte le possibilità
interpretative che possono essere racchiuse in ogni singolo passaggio; nel far questo
adotterà le opinioni di altri commentatori, oppure riflessioni introdotte dalla lettura di
tradizioni profetiche (hadîth) o dal confronto con altri passi coranici. In molti casi quindi,
non si tratta di una sola e univoca interpretazione, ma di una gamma di spiegazioni che
vengono ritenute probabili, fino a prova contraria.
Proprio per questa ragione, per mostrare il raffinato metodo comparativo alla base
della scienza tradizionale del tafsîr, il commento al Corano, vorrei qui riprendere l’analisi
di un versetto già accennata nell’intervento precedente, e questa volta intendo esporre
ordinatamente i differenti punti di vista che alcuni tra gli autori più importanti hanno
espresso in merito.
Partiamo innanzitutto da alcune traduzioni del versetto 7 della “Sura della
Famiglia di Imrân”, il terzo capitolo del Corano, uno dei più lunghi dell’intero libro sacro.
Come molte altre, questa sura prende il suo nome da un indizio che nel testo è spesso
marginale; ‘Imrân è, secondo i commentatori il marito di Anna e il padre di Maria, la
vergine madre di ‘Isâ al-Masîh, Gesù il Messia. La famiglia di ‘Imrân, da cui prende il
nome la sura, viene citata nel versetto 33, laddove viene detto che Iddio l’ha eletta
assieme ad Adamo, ad Abramo e alla famiglia di Abramo, al di sopra dei mondi.
L’intero capitolo conta esattamente 200 versetti e appartiene al cosiddetto periodo
medinese della rivelazione del Corano, ovvero a quel gruppo di sure, in genere tra le più
lunghe e dense di precetti religiosi, come quello sul bando dell’usura (III:130), che furono
rivelate al Profeta dall’emigrazione dalla città di Mecca a Medina (al-hijra, l’ègira del
622 d.C.) in poi.
Il versetto III:7 ha suscitato molte discussioni sulle interpretazioni da dare ad
alcuni termini e soprattutto alle sue modalità di lettura. Contiene inoltre una delle preziose
descrizioni che il Corano dà di se stesso, e, cosa particolarmente rilevante, ammonisce
chiunque a dare delle interpretazioni fantasiose dei suoi contenuti. Questa è la versione
che ne dà Alessandro Bausani:
1
Demetrio Giordani: “Traduzioni e traduttori del Corano” in Materiali di discussione, Modena
2005, pp. 23-30.
83
Egli è colui che ti ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi, che sono
la madre del Libro, sia versetti allegorici. Ma quelli ch’hanno il cuore traviato
seguono ciò che v’è di allegorico, bramosi di portar scisma e di interpretare
fantasiosamente, mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che
Dio. Invece gli uomini di solida scienza diranno: “Crediamo in questo Libro; esso
viene tutto dal Signore nostro!” Ma su questo non meditano che gli uomini di sano
intelletto.
Padre Federico Peirone traduce invece:
Egli è colui che ti ha mandato la scrittura: in essa ci sono versetti precisi (madre
della scrittura!) ed altri invece talmente sibillini che si prestano al cavillo. Coloro
nei cui cuori c’è un inclinazione all’errore sono sempre alla ricerca di cavilli, di
sottigliezze, di interpretazioni differenziate, si attengono alla parte meno sicura
(ma soltanto il Dio sa interpretare bene il tutto!) Coloro che hanno saldo
fondamento nella scienza affermano invece: “Noi prestiamo fede, tutto viene dal
Signore nostro”. Si ricordano solo quelli che hanno un’intelligenza perspicua.
La traduzione francese di Jacques Berque propone:
Lui qui a fait descendre sur toi l’Écrit.
Mentre in quella inglese più accreditata, Yusuf Ali traduce la prima frase nel modo
seguente:
He is Who has sent down the Book.
Si noti che sia Peirone che Berque traducono Kitâb con “scrittura”, mentre Yusuf Ali e
Bausani hanno preferito tradurre letteralmente “Libro”. La differenza sembra innocua ma
in questo contesto è fondamentale. Come si può vedere, in questo versetto non si parla
semplicemente del Corano ma della Ummu-l-Kitâb, la “Madre del Libro”, ovvero
l’archetipo celeste della Scrittura divina, elemento fondamentale nella dottrina teologica
islamica.
Una delle principali questioni relative al versetto è l’interpretazione che viene data
ai due termini arabi ayât muhkamât e ayât mutashâbihât, che Bausani traduce fedelmente
con “versetti solidi e versetti allegorici”. Il termine muhkam, plurale muhkamât, è un
participio di ahkama (che deriva dalla radice h-k-m, da cui deriva anche la parola hikma,
sapienza); ha il senso di “fissare”, “consolidare”, ma anche di “conoscere bene”.
L’aggettivo mutashâbih, plurale mutashâbihât, deriva invece da tashâbaha,
“rassomigliare l’uno all’altro”, per cui anche “confondersi uno con l’altro” e quindi
“essere oscuro” o “essere ambiguo”.
Federico Peirone traduce “versetti espliciti” e “versetti sibillini”. Jacques Berque
traduce signes péremptoires e ambigus, laddove signe è la traduzione letterale di aya
ovvero “segno (divino)”, che in arabo è il modo consueto per dire “versetto coranico”.
Yusuf Ali invece traduce “basic or fundamental (of established meaning)” e
“allegorical”, che corrisponde di più alla versione italiana di Bausani.
Secondo Tabarî (m. 923 d.C.) che è considerato universalmente il principe della
prima generazione dei commentatori del Corano, il termine muhkam indica il concetto di
solidità, e si riferisce ai versetti che hanno in sé elementi assolutamente chiari e
comprensibili a tutti, espressi in una forma grammaticale che non può essere alterata né
diversamente interpretata. Questi versetti contengono prove irrefutabili di cose o da
84
affermare o da negare, in campo giuridico come in quello dottrinale. In particolare, nei
versetti muhkamât sono espressi i concetti di lecito e proibito, la minaccia e il castigo.
Invece i versetti mutashâbihât sono quelli la cui sintassi può essere diversamente
interpretata e sui quali è possibile discutere.
Anche secondo Ibn Kathîr (m. 1373 d.C.), uno dei commentatori medievali più
autorevoli, i cosiddetti versetti solidi del Corano, o muhkamât, sarebbero quelli che
contengono le prescrizioni legali, l’ordine e il divieto, il lecito e il vietato, e
costituirebbero quindi la Madre del Libro, perché sono scritti in tutti i libri celesti e sui
quali nessun popolo e nessuna religione sono in disaccordo. Al contrario i versetti
mutashâbihât sono quelli che possono essere semplicemente “non chiari”; egli lascia così
intendere che essi possono non essere ambigui per tutti.
Secondo il persiano Al-Baydâwî (m. 1291) essendo la Ummu-l-Kitâb l’origine dei
“versetti solidi”, l’interpretazione (ta’wîl) di ciascuno di essi è unica e inconfutabile,
mentre per ciò che concerne i “versetti allegorici” di cui non si comprende
immediatamente il senso, per la loro apparente genericità o contraddittorietà, la loro
spiegazione dev’essere affidata alla perizia dei dotti (‘ulamâ’), affinché ne ricerchino il
senso più coerente ed elevato. Si deve invece diffidare dell’interpretazione di coloro che
hanno «il cuore traviato».
Secondo lo spagnolo Al-Qurtubî (m. 1273 d.C.) il termine muhkam “solido”
indica quel versetto che ha soltanto un’interpretazione e che quindi non ha bisogno di
nulla oltre a sé per poter essere compreso correttamente; al contrario il termine
mutashâbih, indica un versetto che ha più di un significato, e che per essere compreso
appieno ne ha bisogno di un altro che gli serva da “appoggio” e ne spieghi il contenuto.
Un tipico esempio di versetto universalmente giudicato come muhkam è quello
che recita: «No v’ha simile a Lui cosa alcuna ed Egli è ascoltante veggente» (Corano
LXII:11).
Un esempio di versetto ambiguo, sulla cui interpretazione si è a lungo dibattuto tra
le varie correnti della scolastica islamica, è contenuto nella sura Ta-Ha che dice
enigmaticamente: «Il Misericordioso s’è assiso sul Trono» (Corano XX:5). Secondo i
commentatori sunniti, questo ‘sedere sul Trono’ non va indagato, non possiamo
interrogarci – dicono – sulle modalità di questo segreto, dobbiamo solamente accettare il
fatto senza cercare di capire come ciò avvenga, senza cioè ricadere o in un crasso
antropomorfismo, immaginando cioè le membra di un Dio che si siede, né supporre un
Trono esterno a Lui stesso, sul quale Iddio materialmente si siede, ciò che sarebbe
impossibile, e neppure affidarsi ad un’astrazione o ad un’interpretazione allegorica che
neghi semplicemente il fatto affermando che si tratta di tutt’altro. La risposta del grande
giurista Malik ibn Anas a colui che chiedeva una spiegazione del versetto, conteneva in
sintesi l’atavica sfiducia sulle semplici capacità razionali umane; rispondendogli aveva
indicato la modalità del credere “senza come” (bi-lâ kayfa), un cardine dell’ermeneutica
adottato dall’ortodossia sunnita dei secoli a venire: «Che si è seduto è noto, il come non è
intelligibile, credervi è obbligatorio, far delle domande in proposito è un’innovazione».
Si comprende, quindi, come tutto ciò sia coerente con il senso di condanna del
versetto in questione: «Ma quelli ch’hanno il cuore traviato seguono ciò che v’è di
allegorico, bramosi di portar scisma e di interpretare fantasiosamente». Secondo alcuni
commentatori, infatti, solamente ciò che è ambiguo permette a coloro che hanno il cuore
traviato di alterare il senso del Libro e di adattarlo ai loro fini ignobili. Ovvero quelli che
pensano di poter interpretare, nonostante la loro ignoranza, ciò che nel libro è ambiguo,
facendo deviare coloro che li seguono, facendo credere di poter provare la loro eresia per
mezzo del Corano stesso.
85
E ancora Fakhr ad-Dîn Râzî riporta il detto profetico secondo cui: «Chi commenta
il Corano secondo la propria individuale opinione, si accomodi nel posto che gli spetta nel
fuoco infernale».
La parola chiave nel contesto del versetto è fitna che etimologicamente ha il
significato di eccesso, sfrenatezza. Nell’uso comune i significati del termine si basano sui
concetti di ‘disordine’ e ‘turbamento’. Nei rapporti tra uomo e donna la fitna è la
‘seduzione’, il turbamento che una persona esercita su di un’altra a causa del suo fascino
e della sua malizia. In ambito politico è la sedizione, la volontà di sconvolgere l’ordine; in
campo religioso la fitna è l’azione esercitata dalle sette eterodosse, che consiste nella
ribellione alle autorità e ai principi tradizionali.
Giustamente Bausani traduce in questo contesto il termine fitna con “scisma”,
Peirone “ricerca di cavilli”, Berque “trouble”, Yusuf Ali “discord”. La parola in questo
contesto potrebbe essere anche tradotta anche con il termine “disordine”, senso che si
avvicina di molto all’interpretazione di Bausani e Yusuf Ali, ma si allontana decisamente
dal termine scelto da Federico Peirone.
Secondo alcuni dei commentatori antichi, in questo passaggio del versetto, «quelli
ch’hanno il cuore traviato seguono ciò che v’è di allegorico, bramosi di portar scisma e di
interpretare fantasiosamente», il riferimento sarebbe ai Kharijiti (al-khawârij), una setta
che si affermò nei primissimi anni dell’era islamica, cioè nella seconda metà del VII
secolo, emergendo nel confronto armato allora in atto tra il Califfo ‘Alî, genero e cugino
del Profeta, e Mu‘awiya ibn Abî Sufyân governatore omayyade di Damasco. Molti
commentatori, Al-Qurtubî in testa, insistono nel ricordare come al suo apparire molti
Compagni del Profeta riferirono a tale setta il monito contenuto nel versetto qui preso in
considerazione.
La setta kharijita è caratterizzata da un eccessivo letteralismo, dall’odio per le
autorità spirituali e dall’affermazione del diritto di eliminare chiunque le si opponga. Per
le loro posizioni estremistiche, che prevedevano tra le altre cose l’eliminazione fisica del
musulmano, e della sua famiglia, nel caso si fosse macchiato di una colpa grave, essi
furono severamente castigati all’epoca dal califfo ‘Alî ed anche successivamente.2
L’intransigenza senza compromessi tipica dei Kharijiti è molto simile nella forma
all’atteggiamento estremista di molte sette islamiche moderne, a cominciare dalle frange
più politicizzate ed estreme dei Salafiti egiziani e algerini, agli Wahhabiti della penisola
arabica, ai fondamentalisti pachistani, ecc.. Costoro infatti non si fanno scrupolo di
accusare i loro correligionari avversari di kufr, “eresia” e di combatterli per questo,
accanitamente.
Resta ora da analizzare quella parte del versetto che recita «La vera
interpretazione di quei passi non la conosce che Dio». È qui realmente la vexata quaestio
del versetto III:7 che riguarda in primo luogo alcune varianti di lettura. Per capire questo
dobbiamo tenere a mente che il Corano non è diventato subito il libro che abbiamo ora: la
versione odierna è il risultato di una lunga elaborazione, che è terminata solo con
l’edizione standard stampata a caratteri mobili al Cairo nel 1923. In questa edizione il
testo appare completo in tutte le sue parti (vocalizzazione, segni per la recitazione
salmodiata) ma manca di punteggiatura. All’assenza di punteggiatura, la scienza
tradizionale della lettura ha provveduto con un sistema di piccoli segni che indicano vari
tipi di pausa nella recitazione, pausa facoltativa, pausa breve trattenendo il respiro, pausa
lunga rilasciando il respiro ecc. Questa parte del versetto viene letta da taluni, e dalla
2
Sulla setta dei Kharigiti vedere Henry Laoust: Gli scismi nell’Islâm, Genova 2002, pp.51-61.
86
maggior parte dei traduttori che abbiamo qui preso in esame, come se a un certo punto vi
fosse una sospensione fra le due frasi:
«Mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio. Ma gli
uomini di solida scienza diranno: “Crediamo in questo Libro; esso viene tutto dal Signore
nostro!” Ma su questo non meditano se non gli uomini di sano intelletto».
Mentre per altri il versetto doveva essere letto eliminando la pausa tra le due frasi
e spostandola più in là, nel seguente modo:
«Mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio e gli uomini
di solida scienza. Diranno: “Crediamo in questo Libro; esso viene tutto dal Signore
nostro!”».
La questione della lettura di questo versetto non è di secondaria importanza. Per
alcuni, infatti la spiegazione dei versetti mutashâbihât fa parte di quelle cose la cui
conoscenza appartiene solo a Dio, come l’avvento dell’Ora finale, il perché del numero
stabilito delle preghiere giornaliere e cose del genere; per altri tale spiegazione è invece
alla portata degli uomini più sapienti. Quest’ultima interpretazione è uno degli argomenti
cardine della formulazione teorica del grande teologo e riformatore sufi Shâh Walî Allâh
di Delhî (m. 1762) il quale nel suo trattato sul commento al Corano Al-Fawz Al-Kabîr,
opponeva alla scienza del commento classico un metodo esegetico più diretto e personale,
e proprio in base all’eliminazione di quella pausa nella lettura del testo egli pensava che
gli uomini “di solida scienza” potessero ben comprendere i versetti mutashâbihât; ed
anche che gli studiosi seri e determinati potessero raggiungere il grado degli uomini “di
solida scienza” e comprendere infine il significato recondito che giace sotto la superficie
del senso letterale.
Esaminando poi il resto del versetto: «Gli uomini di solida scienza diranno quindi:
“Crediamo in questo Libro; esso viene tutto dal Signore nostro!», c’è ampia concordanza
tra i commentatori che esso intende dire che gli uomini di solida scienza credono nel
Libro nel suo insieme, sia in ciò che vi è di “solido” che in ciò che in esso vi è di
“ambiguo”.
Infine la questione più importante riguardo alla frase finale: «Ma su questo non
meditano se non gli uomini di sano intelletto (ûlû-l-albâb)» riguarda il termine
“intelletto” che di norma rende la parola araba ‘aql, ma in questo caso è invece la
traduzione di albâb, plurale di lubb, una particolare espressione che indica il “nocciolo”
di frutti come la noce, la mandorla ecc... Il termine ûlû-l-albâb che appare frequentemente
nel Corano, sarebbe quindi letteralmente “quelli dotati di noccioli”. Bausani traduce ûlû-lalbâb con “gli uomini di sano intelletto”, Peirone parla di “quelli che hanno
un’intelligenza perspicua”, Jacques Berque traduce letteralmente “ceux dotés de moelles”,
mentre Yusuf Alî “men of understanding”.
Nel linguaggio della spiritualità islamica lubb ha un’accezione particolare, si
intende con esso la parte più interiore del cuore, l’organo dell’intuizione spirituale e della
meditazione; in questo è differente da ‘aql che è invece l’intelletto vero e proprio,
l’organo dell’indagine razionale. Lubb è in genere opposto a qishr, che significa “scorza”
e che designa al contrario quel che nella meditazione è esteriore e vano. Lubb si
differenzia anche dal termine cuore (qalb plur. qulûb), che è il termine con il quale nel
versetto vengono qualificati “quelli ch’hanno il cuore traviato” (alladhîna fî qulûbihim
zaygh-un), che sono coloro la cui meditazione non raggiunge il “nocciolo” del cuore ma si
ferma alla scorza di esso. Si potrebbe concludere, quindi, che la scienza dei versetti
ambigui e dei versetti solidi è prerogativa solo di coloro che meditano con l’organo
dell’intelletto puro, ovvero del lubb: costoro sono a tutti gli effetti gli “uomini di solida
87
scienza” di cui parla il testo; a chi non fa parte di costoro, ovvero tutti quelli che non
hanno sbucciato il proprio “nocciolo” dalla scorza delle passioni, tale scienza è preclusa.
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Zamboni, Ludovico (2005) La Sura della Famiglia di Imran nella sapienza islamica,
Reggio Emilia.
88
Nota sugli autori
MARCO CIARDI è ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna dove
insegna Storia della scienza e della tecnica; all’Università di Modena tiene il corso di Scienza,
tecnologia e ambiente. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste italiane e straniere e curato
edizioni delle opere di Avogadro (1995), Galilei (1997), Lavoisier (2005) e Spallanzani (2005).
Fra i suoi volumi più recenti Atlantide. Una controversia scientifica da Colombo a Darwin
(Roma, 2002); Breve storia delle teorie della materia (Roma, 2003). Attualmente si sta
occupando di storia dei viaggi scientifici, della politica della ricerca scientifica in Italia e della
storia dell’ecologia, dell’ambiente e delle risorse energetiche.
DEMETRIO GIORDANI, dottore di ricerca dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di
Parigi, insegna Storia dei Paesi Islamici come ricercatore presso l’ateneo modenese. Da
segnalarele sue seguenti traduzioni: Abd Al-Rahmân Al-Sûlamî (932-1021), Introduzione al
Sufismo (2001)(traduzione dall’arabo in italiano); L’inizio e il ritorno di Ahmed Sirhindi (2003)
(traduzione dall’arabo e dal persiano in italiano e francese); Appunti per un Commento alla Sûra
CII (1992) + XCIV. Inoltre si ricorda il suo saggio Traduzioni e traduttori del Corano in H.
Honnacker (cur.), Dieci incontri per parlare di traduzione, “Materiali di discussione” 3 (2005),
pp.
23-30
(http://www.lettere.unimo.it/dipslc/materiali/Honnacker%
20Modena%20%20seminario%20-%20 pubblicazione.pdf).
HANS HONNACKER si è laureato in italianistica con una tesi sull’Orlando Furioso all’Università
di Firenze nel 1996. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Freie Universität Berlin nel
2000 e ha tradotto vari saggi della critica tedesca sulla letteratura italiana. Attualmente insegna
Traduzione Lingua Tedesca all’Università di Modena e Reggio Emilia. Tra le sue pubblicazioni si
ricordano i seguenti saggi: Der literarische Dialog des primo Cinquecento.
Inszenierungsstrategien und ‘Spielraum’(Baden-Baden, Koerner, 2002), ‘Renaissance’ della
traduzione nella didattica delle lingue straniere. La traduzione e la sua rivalutazione come
processo interculturale di trasformazione in H. Honnacker (cur.), Dieci incontri per parlare di
traduzione,
“Materiali
di
discussione”
3
(2005),
pp.
10-22
(http://www.lettere.unimo.it/dipslc/materiali/Honnacker%20Modena%20-%20seminario%20%20 pubblicazione.pdf). Infine si segnala la sua traduzione di K.W. Hempfer, Letture discrepanti.
La ricezione dell’Orlando Furioso nel Cinquecento. Lo studio della ricezione storica come
euristica dell’interpretazione, trad. di H. Honnacker, Modena, Panini, 2004.
EMILIO MATTIOLI, già professore ordinario di Estetica all’Università di Trieste. Oltre a importanti
studi sul Sublime e su Luciano di Samosàta (Luciano e l’Umanesimo, Bologna, Il Mulino, 1980),
Emilio Mattioli ha pubblicato molti saggi sulla traduzione fin dal 1965, fra gli altri: Introduzione
al problema del tradurre, apparso sulla rivista “Il Verri”, 19 (1965), in cui venivano discusse e
criticate posizioni teoriche allora molto diffuse come quelle di Benedetto Croce o Roman
Jakobson; Contributi alla teoria della traduzione letteraria (Palermo 1993), Per una critica della
traduzione (“Studi di estetica”, 14 (1996) e Ritmo e traduzione (Modena, Mucchi, 2001), La
traduzione letteraria (“Il confronto letterario”, 39 (2003), pp. 171-179) in cui Mattioli tira le
somme delle sue riflessioni sulla traduzione, proponendo, sulla scia di Henri Meschonnic, una
poetica della traduzione. A tale proposito è da segnalare anche la traduzione italiana di un’opera
fondamentale del filosofo francese (H. Meschonnic, Un colpo di Bibbia nella filosofia, Milano,
Medusa, 2005), introdotta dallo studioso modenese. Altre iniziative importanti di Mattioli sono la
creazione e la direzione della più importante rivista di traduzione letteraria in Italia, “Testo a
fronte”.
89
FRANCO NASI è ricercatore di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’ateneo modenese. Dal
1998 al 2001 è stato Visiting Lecturer alla University of Chicago. Attualmente insegna Letteratura
Italiana e Traduzione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha tradotto e curato opere
di estetica e teoria letteraria di S.T. Coleridge, W. Wordsworth, J.S. Mill, e raccolte di poesie di
Roger McGough e Brian Patten. È curatore della raccolta di saggi Sulla traduzione letteraria.
Figure del traduttore – Studi sulla traduzione. Modi del tradurre, Ravenna, Longo, 2001 ed
autore di Stile e comprensione. Esercizi di critica fenomenologica sul Novecento, Bologna,
CLUEB, 1999 e Poetiche in transito. Sisifo e le fatiche del tradurre, Milano, Medusa, 2004.
GIUSEPPE PALUMBO è ricercatore di Lingua e Traduzione Inglese presso l’ateneo modenese; si
occupa di traduzione specializzata e ha lavorato sia come traduttore che come lessicografo. Fra le
sue pubblicazioni ricordiamo gli articoli “La localizzazione dall’inglese in italiano dei prodotti
software: problemi e tendenze” (1999), “Il contributo della prospettiva sociologica sulla
traduzione alla formazione e all’ethos professionale del traduttore specializzato” (2006) e
“Explaining errors and difficulties in LSP translation – beyond content?” (2007). Ha inoltre
collaborato alla realizzazione del dizionario Collins GEM italiano-spagnolo/spagnolo-italiano
(2002).
VALLORI RASINI è ricercatrice presso l'Università di Modena e Reggio Emilia, dove tiene corsi di
Filosofia morale (come titolare) e seminari di Storia della filosofia (in affidamento). Si occupa di
filosofia della natura, antropologia filosofica e filosofia morale contemporanea. Ha pubblicato
numerosi saggi in raccolte e in riviste specialistiche e due volumi dal titolo Divenire (Firenze, La
Nuova Italia, 2001) e Teorie della realtà organica (Modena, Sigem, 2002). Per il Mulino ha
curato la nuova edizione di A. Gehlen, Prospettive antropologiche (2005); ha inoltre curato la
versione italiana delle opere di H. Plessner: Il riso e il pianto (Milano, Bompiani, 2000) e I gradi
dell'organico e l'uomo (Torino, Bollati Boringhieri).
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TITOLI GIÀ PUBBLICATI IN QUESTA COLLANA
1. Massimiliano Spotti, Constructing native speakers to be in the multilingual
primary classroom – A case study of the discourse of a monolingual teacher in
Belgian Flanders, 2004, ISBN 978-88-902485-9-7
2. Maria Chiara Felloni, Il plurilinguismo istituzionale all’interno dell’Unione
Europea, 2004, ISBN 978-88-902485-8-0
3. Hans Honnacker (a cura di), Dieci incontri per parlare di traduzione. Seminario
sulla teoria della traduzione, 2005, ISBN 978-88-902485-5-9
4. Silvia Gaetani, Le lingue della comunicazione scientifica, 2006, ISBN 978-88902485-6-6
5. Hans Honnacker (a cura di), Seminario sulla teoria della traduzione, 2006, ISBN
978-88-902485-4-2
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