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le porte della memoria 2016

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le porte della memoria 2016
Comune di Thiene
LE PORTE DELLA MEMORIA 2016
Iniziative per commemorare
il Giorno della Memoria e il Giorno del Ricordo
Programma
Martedì 26 Gennaio
Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene
MARION KLEIN FISCHER SI RACCONTA
Le persecuzioni, l’esilio, il domicilio coatto ad Arsiero e la fuga in Svizzera: la
testimonianza di Marion Fischer.
Conduce la prof.ssa Nicoletta Panozzo, docente di Lettere dell’Istituto
Comprensivo di Thiene.
Parteciperà il regista Dennis Dellai autore di “Oscar”, il film che narra le vicende
del noto jazzista, fratello di Marion.
Momenti musicali a cura della classe 3D, indirizzo musicale dell'I.C. di Thiene, con
la direzione della prof.ssa Cristina Pasin.
Iniziativa riservata agli studenti delle classi terze delle scuole secondarie di primo
grado dei Comuni di Thiene, Fara Vic.no, Sarcedo e Zugliano
Mercoledì 27 Gennaio
Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene
LA STORIA LEZIONE DI VITA. L’ESEMPIO DI GIORGIO PERLASCA
A cura di Franco Perlasca, custode della memoria del padre, con proiezione di un
video.
Conduce il prof. Francesco Valerio, docente di Storia e Filosofia del Liceo F.
Corradini.
Iniziativa riservata agli studenti degli istituti superiori
Mercoledì 27 Gennaio
Auditorium Città di Thiene - Via Carlo del Prete - Thiene - ore 20.30
LA STORIA LEZIONE DI VITA. L’ESEMPIO DI GIORGIO PERLASCA
A cura di Franco Perlasca, custode della memoria del padre, con proiezione di un
video.
Conduce la prof.ssa Raffaella Corrà, docente di Storia e Filosofia del Liceo F.
Corradini.
Iniziativa per la cittadinanza - ingresso libero
Giovedì 28 Gennaio
Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene
MARION KLEIN FISCHER SI RACCONTA
Conduce il prof. Stefano Secco, docente di lettere dell’ITT Chilesotti.
Iniziativa riservata agli studenti degli istituti superiori
Venerdì 29 Gennaio
Auditorium Città di Thiene - Via Carlo del Prete - Thiene
MARION KLEIN FISCHER SI RACCONTA
Iniziativa riservata agli studenti delle classi quinte delle scuole primarie di Thiene
Domenica 31 Gennaio
Auditorium Città di Thiene - Via Carlo del Prete - Thiene - ore 17
DOPO QUINDICI GIORNI NEMMENO L’ERBA…
Ricordi del lager dell’alpino Antonio Novella e del fante Giuseppe Novella.
Conduce il prof. Daniele Fioravanzo, docente di storia e filosofia del Liceo F.
Corradini.
Con il coro “PassidoroClass”, formato dai genitori degli alunni dell’Istituto
Scolastico Santa Dorotea, diretto dal M.o Lorenzo Fattambrini, che canta alcuni
brani tratti da La Favola di Natale di Giovannino Guareschi, compagno di
prigionia dell’on. Lino Fornale.
In collaborazione con l’Istituto Scolastico Santa Dorotea.
L’iniziativa è dedicata all’on. Lino Fornale, presidente dell’ANEI (Associazione
Nazionale ex Internati) di Thiene, prossimo ai 100 anni.
Iniziativa per la cittadinanza - ingresso libero
Giovedì 4 febbraio
Biblioteca Civica - Sala Conferenze - Via F. Corradini - Thiene - ore 20.30
ETTY HILLESUM: UN VIAGGIO, UN POZZO, UN BALSAMO
Incontro con una testimone attraverso luoghi interiori e reading dai Diari e dalle
Lettere
Conduce il prof. Giulio Osto, docente di Teologia, Facoltà Teologica - Padova
Iniziativa per la cittadinanza – ingresso libero
Giovedì 11 febbraio
Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene
LA TRAGEDIA DEGLI ESULI GIULIANO-FIUMANO-DALMATI: UNA STORIA ITALIANA
con proiezione di un video.
In collaborazione con l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.
A cura della prof.ssa Adriana Ivanov, scrittrice e testimone.
Conduce la prof.ssa Nicoletta Braga, docente di lettere dell'ITET Ceccato.
Iniziativa riservata agli studenti degli istituti superiori
Seguirà un incontro per le classi terze delle scuole secondarie di primo grado di
Thiene e Zanè
Momenti musicali con gruppo Flauti dell'I.C. di Thiene, diretto dal prof. Domenico
Zamboni.
Venerdì 12 febbraio
Aula magna liceo F. Corradini di Thiene
ITALIA E SLAVIA IN ADRIATICO TRA XIX E XX SECOLO
A cura del prof. Egidio Ivetic, docente dell’Università di Padova dove insegna
Storia dell’Europa Orientale.
Iniziativa, in orario pomeridiano, riservata agli studenti del Liceo F.Corradini
Venerdì 12 febbraio
Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene
LA BATTAGLIA DEI PEDALI. GINO BARTALI, UN RAGAZZO CONTROVENTO
di Ketti Grunchi
A cura del centro di produzione teatrale La Piccionaia.
Lo spettacolo è inserito nella rassegna comunale Teatro Ragazzi
Sabato 27 febbraio
Cinema Patronato San Gaetano dei Padri Giuseppini - Via Santa Maria
Maddalena - Thiene
CANTANDO CON LE AQUILE RANDAGIE - Immagini, musiche e canti della
tradizione scout (1928-1945). La memoria di una grande avventura di Resistenza e
di libertà.
MASCI Lombardia e Fondazione “Mons. Andrea Ghetti – Baden”.
Le Aquile Randagie furono un gruppo scout che dal ’43 al ’45 operò il salvataggio
verso la Svizzera di oltre 2000 perseguitati tra ebrei, prigionieri di guerra, dissidenti
politici.
Iniziativa riservata ai Gruppi Scout di Thiene I, Thiene II, Sarcedo e Breganze.
Domenica 28 febbraio
Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene - ore 16
CANTANDO CON LE AQUILE RANDAGIE
Iniziativa per la cittadinanza - ingresso libero
Le leggi istitutive
Giorno della Memoria – 27 gennaio
legge n. 211 del 20 luglio 2000
"Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle
persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani
nei campi nazisti"
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000
Art. 1
1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento
dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah
(sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei
cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte,
nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al
progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e
protetto i perseguitati.
Art. 2
1. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati
cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di
riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è
accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi
nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed
oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi
non possano mai più accadere.
Giorno del Ricordo – 10 febbraio
legge n. 92 del 30 marzo 2004
“Istituzione del “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle
foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale
e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2004
Art. 1
1. La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo” al fine di
conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime
delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo
dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.
2. Nella giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la
conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado.
È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni,
incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali
iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e
artistico degli italiani dell'Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare
ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti,
allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica
ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel
territorio nazionale e all'estero.
3. Il “Giorno del Ricordo” di cui al comma 1 è considerato solennità civile ai sensi
dell'articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n. 260. Esso non determina riduzioni
dell'orario di lavoro degli uffici pubblici né, qualora cada in giorni feriali, costituisce
giorno di vacanza o comporta riduzione di orario per le scuole di ogni ordine e
grado, ai sensi degli articoli 2 e 3 della legge 5 marzo 1977, n. 54.
4. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica.
Art. 2
1. Sono riconosciuti il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata, con sede a
Trieste, e l'Archivio museo storico di Fiume, con sede a Roma. A tale fine, è
concesso un finanziamento di 100.000 euro annui a decorrere dall'anno 2004
all'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata (IRCI), e di 100.000
euro annui a decorrere dall'anno 2004 alla Società di Studi fiumani.
2. All'onere derivante dall'attuazione del presente articolo, pari a 200 mila euro
annui a decorrere dall'anno 2004, si provvede mediante corrispondente riduzione
dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell'ambito
dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di
previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2004, allo scopo
parzialmente utilizzando l' accantonamento relativo al medesimo Ministero.
3. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri
decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
Art. 3
1. Al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti e, in loro mancanza, ai congiunti fino al
sesto grado di coloro che, dall' 8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in
Dalmazia o nelle province dell'attuale confine orientale, sono stati soppressi e
infoibati, nonché ai soggetti di cui al comma 2, è concessa, a domanda e a titolo
onorifico senza assegni, una apposita insegna metallica con relativo diploma nei
limiti dell'autorizzazione di spese di cui all'articolo 7, comma 1.
2. Agli infoibati sono assimilati, a tutti gli effetti, gli scomparsi e quanti, nello stesso
periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi mediante annegamento,
fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati. Il riconoscimento
può essere concesso anche ai congiunti dei cittadini italiani che persero la vita
dopo il 10 febbraio 1947, ed entro l'anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta
in conseguenza di torture, deportazione e prigionia, escludendo quelli che sono
morti in combattimento.
3. Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle
zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni
non a servizio dell'Italia.
Art. 4
1. Le domande, su carta libera, dirette alla Presidenza del Consiglio dei ministri,
devono, essere corredate da una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con la
descrizione del fatto, della località, della data in cui si sa o si ritiene sia avvenuta la
soppressione o la scomparsa del congiunto, allegando ogni documento possibile,
eventuali testimonianze, nonché riferimenti a studi, pubblicazioni e memorie sui
fatti.
2. Le domande devono essere presentate entro il termine di dieci anni dalla data
di entrata in vigore della presente legge. Dopo il completamento dei lavori della
commissione di cui all'articolo 5, tutta la documentazione raccolta viene devoluta
all'Archivio centrale dello Stato.
Art. 5
1. Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri è costituita una commissione di
dieci membri, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri o da persona da
lui delegata, e composta dai capi servizio degli uffici storici degli stati maggiori
dell'Esercito, della Marina, dell'Aeronautica e dell'Arma dei Carabinieri, da due
rappresentanti del comitato per le onoranze ai caduti delle foibe, da un esperto
designato dall'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste,
da un esperto designato dalla Federazione delle associazioni degli esuli dell'Istria,
di Fiume e della Dalmazia, nonché da un funzionario del Ministero dell'interno. La
partecipazione ai lavori della commissione avviene a titolo gratuito. La
commissione esclude dal riconoscimento i congiunti delle vittime perite ai sensi
dell'articolo 3 per le quali sia accertato, con sentenza, il compimento di delitti
efferati contro la persona.
2. La commissione, nell'esame delle domande, può avvalersi delle testimonianze,
scritte e orali, dei superstiti e dell'opera e del parere consultivo di esperti e studiosi,
anche segnalati dalle associazioni degli esuli istriani, giuliani e dalmati, o scelti
anche tra autori di pubblicazioni scientifiche sull'argomento.
Art. 6
1. L'insegna metallica e il diploma a firma del Presidente della Repubblica sono
consegnati annualmente con cerimonia collettiva.
2. La Commissione di cui all'articolo 5 è insediata entro due mesi dalla data di
entrata in vigore della presente legge e procede immediatamente alla
determinazione delle caratteristiche dell'insegna metallica in acciaio brunito e
smalto, con la scritta «La Repubblica italiana ricorda», nonché del diploma.
3. Al personale di segreteria della commissione provvede la Presidenza del
Consiglio dei ministri.
Art. 7
1. Per l' attuazione dell'articolo 3, comma 1, è autorizzata la spesa di 172.508 euro
per l'anno 2004. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione
dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell'ambito
dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di
previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2004, allo scopo
parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero.
2. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri
decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
3. Dall'attuazione degli articoli 4, 5 e 6 non devono derivare nuovi o maggiori oneri
per la finanza pubblica.
Le Porte della Memoria 2016
Marion Klein Fischer si racconta
Le persecuzioni, l’esilio, l’internamento “libero” ad Arsiero e
la salvezza in Svizzera
La famiglia Klein di Eisenstadt (Austria), composta da Alexander, Agnes e dai figli
Oscar e Rosa Marion, visse circa due anni ad Arsiero in internamento “libero” e da
questa vicinanza al nostro centro è nato il desiderio di meglio conoscere la sua
storia di famiglia ebrea costretta a fuggire dalla propria terra per anni, vagando
nella speranza di trovare un rifugio sicuro, dove la barbarie nazista non potesse
colpirla.
Fu per questo che al momento dell’annessione dell’Austria al III Reich cercò di
raggiungere la Palestina, senza successo, in quanto fu respinta appena arrivata a
Cipro e costretta a tornare al porto di partenza, Trieste. Fu quindi la volta del lager
di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, dove rimase circa un anno e che da Marion e
da Oscar, deceduto nel 2006, viene ricordato come un periodo sereno dove, pur
tra ristrettezze, la famiglia visse lontano dal terrore nazista. E arrivò il turno di Arsiero,
tranquillo paese della pedemontana vicentina, dove la famiglia rimase per più di
due anni. Qui si inserì positivamente, stabilì rapporti umani che durano tuttora;
nonostante molti dei protagonisti di allora non ci siano più, Marion e sua figlia
Deborah non smisero mai di amare questa terra.
Con l’8 settembre la vita degli ebrei cambiò radicalmente e con l’occupazione
tedesca tornarono gli incubi della persecuzione razziale. Nella vicina Tonezza del
Cimone fu costituito nel dicembre 1944 il lager in cui dovevano confluire tutti gli
ebrei presenti in provincia; fu solo perché Agnes era incinta all’ottavo mese che la
misura del trasporto a Tonezza fu sospesa e questo rinvio fu provvidenziale, perché
permise a don Antonio Frigo di organizzare la fuga delle ultime due famiglie ebree
rimaste ad Arsiero, i Klein e i Landmann, in Svizzera, servendosi di un esperto
partigiano, Rinaldo Arnaldi di Dueville che già aveva affrontato più viaggi di
questo genere, fra alte montagne innevate, per portare in salvo militari alleati ed
ebrei ricercati dai tedeschi.
La signora Marion non è in grado di riferire sul viaggio per raggiungere da Arsiero
la Svizzera; in soccorso ci è venuto l’ing. Walter Landmann, che nel suo racconto
all’interno del presente fascicolo, si sofferma anche sul viaggio con molti
particolari. Le due famiglie, per raggiungere la salvezza, impiegarono tre giorni.
Viaggiarono in treno da Arsiero a Pisogne, nell’alto lago di Iseo, ovviamente
cambiando più volte treno, poi in pullman fino alle vicinanze di Tirano ed infine il
percorso notturno sulle montagne al confine con la Svizzera, salendo oltre i 2.000
metri. Il racconto del viaggio testimonia che l’organizzazione che preparava le
fughe in Svizzera era molto ramificata e poteva disporre di luoghi per passare le
notti, di vari appoggi e di guide di montagna esperte.
Le Porte della Memoria 2016
In Svizzera la famiglia dovette affrontare anni di duro lavoro, con tante limitazioni e
il dispiacere di non poter rimanere tutti assieme in quanto Oscar e Rosa furono
affidati a famiglie svizzere, fra l’altro non ebree, come i genitori avrebbero
desiderato. Non risulta che famiglie ebree della zona di Basilea, dove erano stati
inviati, avessero dato la disponibilità di ospitare i giovani profughi.
Una storia avventurosa, fortunatamente a lieto fine, ma che ha in sé tutti gli
elementi della persecuzione razziale nazifascista. La Shoah si è sviluppata durante
una decina di anni, con sempre nuove fasi, fino alla “Soluzione finale”.
1) La prima fu il censimento degli ebrei, cosa non facile per l’inserimento
secolare delle comunità ebraiche in Europa, per la presenza di famiglie
miste, perché non tutti gli ebrei praticavano la religione dei Padri, per tanti
altri motivi. Fu una fase dove solerti impiegati comunali e non, compilarono
elenchi dei cittadini su base razziale. Basti pensare che la cosa fu applicata
anche nella scuola, censendo tutti gli insegnanti e gli studenti ed espellendo
gli uni e gli altri.
2) La seconda fase fu l’indebolimento economico delle famiglie ebree, con
mille limitazioni alla possibilità di lavorare; molti lavori erano a loro vietati o
dovevano essere fatti con molti limiti. Espulsi dalla scuola, dall’esercito, dalle
libere professioni, dal commercio e quando mancavano i soldi si doveva
vendere quello che si possedeva compresa la casa e tutto diventava più
difficile.
3) A questo punto era diventato possibile imporre loro il trasferimento in ghetti,
dove
i problemi di ogni giorno si fecero ancora più difficili, e soprattutto era la
dignità ad essere colpita, dovendo essi subire umiliazioni di ogni tipo.
4) Infine la fase finale, la distruzione in lontani lager del Reich, in particolare
della Polonia, ma anche a Mauthausen, nella vicina Austria.
La famiglia Klein visse le prime tre fasi e le fu risparmiata solo l’ultima, la più terribile,
ma questo per merito di antifascisti coraggiosi che affrontarono pericoli e rischi per
aiutare i Klein a mettersi in salvo. In questo caso i nomi degli uomini coraggiosi
sono noti, in particolare quello di don Antonio Frigo, professore di matematica e di
scienze nel seminario di Vicenza, arsierese e di Rinaldo Arnaldi, partigiano che
cadrà in combattimento il 6 settembre dello stesso anno a Granezza. Per questo
aiuto alle famiglie Klein e Landmann Rinaldo Arnaldi figura fra i Giusti di
Gerusalemme e un albero sta crescendo in quel Giardino in suo ricordo.
Le Porte della Memoria 2016
“Giorgio Perlasca un italiano scomodo”
libro uscito nel 2010 a cento anni dalla nascita
Quarant’anni di silenzio
Fino alla primavera del 1990 ben poche persone in Italia conoscevano il nome di
Giorgio Perlasca. Poi, il 30 aprile di quell’anno, andò in onda su Rai Due una
puntata di Mixer a lui dedicata. D’un tratto milioni di telespettatori appresero la
storia del commerciante padovano che nel 1944 a Budapest aveva salvato la vita
a migliaia di ebrei spacciandosi per un diplomatico spagnolo. L’anno successivo
uscì il libro di Enrico Deaglio La banalità del bene (Feltrinelli, Milano 1991), che
ebbe subito un grande successo. Nel gennaio 2002, in occasione del Giorno della
Memoria, fu trasmesso in prima serata su Rai Uno il film “Perlasca. Un eroe italiano”
diretto da Alberto Negrin e interpretato da Luca Zingaretti.
Finalmente gli italiani sapevano, ma per Perlasca era tardi. Nel 1990, quando fu
«scoperto» dalla televisione, aveva ottant’anni; sarebbe morto nel 1992. Per oltre
quattro decenni la sua vicenda era stata sepolta sotto una coltre impenetrabile di
silenzio. Soltanto nel 1987 un gruppo di donne ungheresi si era mobilitato per
rintracciarlo e fare conoscere al mondo il suo ruolo di salvatore degli ebrei.
Grazie ai loro sforzi erano arrivati a partire dal 1989 i riconoscimenti dell’Ungheria,
di Israele (che lo insignì dell’onorificenza di «Giusto tra le Nazioni»), della Spagna e
degli Stati Uniti. In Italia tutto taceva.
Dopo il ritorno dall’Ungheria, nel 1945, Perlasca aveva trascorso una vita
anonima, fatta di precarietà lavorativa e di difficoltà economiche. «Non ho
vergogna a ricordare che tante volte ho avuto difficoltà a mettere insieme il
pranzo con la cena» confidò a Deaglio.
Le istituzioni italiane parevano sorde a qualsiasi appello. Per anni,
nell’immediato dopoguerra, Perlasca si era rivolto ai politici per far conoscere la
sua storia. Poi aveva smesso, stanco di non essere ascoltato. Neppure i suoi
familiari sapevano con precisione che cosa aveva fatto a Budapest in quel
terribile inverno del 1944, quando i nazisti ungheresi incalzati dall’avanzata
dell’Armata rossa erano stati sul punto di incendiare il ghetto che conteneva più
di settantamila ebrei.
Dopo la messa in onda della puntata di Mixer a lui dedicata, l’allora presidente
della Repubblica Francesco Cossiga lo ricevette per un breve colloquio al
Quirinale. Deaglio, che lo accompagnò, racconta che l’ottantenne Perlasca
dovette farsi a piedi un buon tratto di strada perché nessuno era andato a
prenderlo in macchina. Cossiga lo ringraziò «come uomo e come italiano» per ciò
che aveva fatto. Qualche tempo dopo Perlasca ricevette a casa, per posta, il
diploma di Grande Ufficiale della Repubblica, accompagnato da una lettera in
cui si faceva presente che, se voleva la medaglia, avrebbe dovuto acquistarla.
Perlasca era amareggiato dall’indifferenza dello Stato italiano, e fu sul punto di
rifiutare anche il vitalizio che il Consiglio dei Ministri gli accordò nel 1991 per effetto
della legge Bacchelli e che gli fu erogato per pochi mesi prima della morte.
Uno dei fattori che ebbero senz’altro un peso nell’obliterazione della memoria fu
la sua precoce adesione al fascismo, mai rinnegata. Anche se aveva ripudiato fin
da subito le leggi razziali e l’alleanza di Mussolini con la Germania nazista, Perlasca
rimase per tutta la vita un uomo di destra. I riconoscimenti dunque non potevano
Le Porte della Memoria 2016
venire, e non vennero, dalla sinistra: come conciliare dal punto di vista ideologico
il paradosso di un uomo che aveva salvato le vite di tanti ebrei, ma aveva anche
militato nelle camicie nere combattendo nella guerra in Etiopia e dalla parte dei
franchisti in Spagna durante la violentissima guerra civile del 1936-39?
Nemmeno la destra, però, ha avuto il coraggio e la forza di promuovere
Perlasca tra le fila dei suoi uomini migliori.
Nell’Italia del dopoguerra egli era considerato dalla destra italiana un traditore
perché aveva rifiutato le leggi razziali, e dopo l’8 settembre si era schierato dalla
parte del re, contro Mussolini. Il Movimento sociale italiano, il maggior partito
neofascista nel dopoguerra, era stato fondato ed era gestito da uomini come
Giorgio Almirante, Pino Romualdi e Arturo Michelini, che avevano aderito alla
Repubblica di Salò. Il clima ideologico di quegli anni, esacerbato dalla guerra
fredda e dalla violenta contrapposizione politica, non lasciava spazio a figure
«ambigue».
Spicca poi un altro gravissimo silenzio: quello della Chiesa cattolica. Alla fine
della guerra erano tornati in Vaticano tre uomini che a Budapest avevano
sottratto molti ebrei alla deportazione e alla violenza nazista: il nunzio apostolico
Angelo Rotta, il segretario della nunziatura Gennaro Verolino e Ángel Sanz Briz, il
diplomatico spagnolo che aveva dato carta bianca a Perlasca, permettendogli
di agire a nome della Spagna. Tutti e tre avevano conosciuto Giorgio Perlasca a
Budapest nell’inverno 1943-44 ed erano stati testimoni del suo impegno a favore
degli ebrei. Possibile che nessuno si ricordasse di lui?
Anche il silenzio della pubblicistica è sconcertante. I libri che parlano di lui sono
pochissimi. Oltre a quello di Deaglio, si conta solo una raccolta di scritti dello stesso
Perlasca dal titolo L’impostore (il Mulino, Bologna 1987) che contiene un
promemoria stilato su richiesta dello storico ungherese Jeno Lévai, una breve
relazione indirizzata al ministro degli Esteri spagnolo sull’attività svolta a Budapest
durante la guerra per conto del governo di Madrid, e altri scritti minori. L’oblio a
cui Perlasca fu condannato può essere ascritto anche ad alcuni aspetti del suo
carattere: una caparbia e inflessibile volontà di pensare con la propria testa, e un
altrettanto caparbio rifiuto di piegarsi, di scendere a compromessi e di aggregarsi
al carro dei vincitori per ottenere favori.
L’ultima intervista
Questo libro è basato su un’intervista che Perlasca rilasciò nella sua casa
padovana a Dalbert Hallenstein tra giugno e luglio del 1992, un mese prima della
morte. Nel corso di una lunga conversazione Perlasca racconta la sua vita,
soffermandosi in particolare sugli anni di Budapest ma anche sul periodo
precedente, quando soggiornò per lavoro a Belgrado e a Zagabria e fu testimone
dei massacri degli ebrei. Alla voce di Giorgio Perlasca si accompagnano quelle di
altri testimoni, e in particolare quella del figlio Franco, protagonista di un graduale
percorso di scoperta della figura paterna.
Quella di Perlasca è in parte una storia di umanità e di coraggio, in parte il
ritratto di un conservatore che non ha mai negato il suo passato fascista e per
questo ha pagato un prezzo altissimo. La sua vicenda è quella di un uomo solo
che aiutò migliaia di ebrei a salvarsi e poi fu abbandonato da tutti. È la storia
amara di un italiano che ha dovuto ricominciare da capo in un’Italia mediocre e
piccolo-borghese che, impegnata in una faticosa ricostruzione, non ha avuto
Le Porte della Memoria 2016
l’energia, il tempo e la voglia di pensare a ricomposizioni storiche troppo dolorose
e impegnative.
Giorgio Perlasca, tuttavia, è stato un grande italiano, la vittima sacrificale di una
politica e di una storiografia che non lasciano spazio a chi non è vicino al potere.
La sua vicenda va quindi riscoperta e giustamente valorizzata: perché se è vero
che chi non conosce la storia è condannato a ripeterla, la figura di Perlasca si
offre come monito contro i rigurgiti xenofobi di oggi.
Edizioni Chiarelettere 2010
22 gennaio 2010
gli autori Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero
Le Porte della Memoria 2016
La recensione del libro di memorie “Sette anni in grigio-verde” dell’on. Lino
Fornale fu inserita nel fascicolo del 2007 e curata dal prof. Ferdinando Offelli. Ora
la riprendiamo in vista dei 100 anni che l’onorevole compirà il 15 ottobre 2016. A
lui è dedicata una delle iniziative delle Porte della Memoria 2016, quella di
domenica 31 gennaio.
Per l’occasione il Maestro Lorenzo Fattambrini curerà alcuni brani tratti da “La
Favola di Natale” di Giovannino Guareschi, cantati dal coro PassidoroClass
formato da genitori degli studenti dell’Istituto Santa Dorotea.
Con il famoso scrittore e giornalista Giovannino Guareschi, autore della
fortunata saga che vede protagonisti Don Camillo e Peppone, l’on Fornale visse
una parte della prigionia nel Reich e precisamente nel campo di Sandbostel, nella
Bassa Sassonia, vicino ad Amburgo. “La Favola di Natale” fu pensata da
Giovannino Guareschi per risollevare il morale dei propri compagni di prigionia e
fu messa in opera all’interno del lager nella notte di Natale del 1944. In quel
momento l’on. Fornale non era presente in quanto era stato trasferito nel campo
di Wietzendorf, sempre in Bassa Sassonia.
Questo il testo che figura nel fascicolo del 2007.
L’On. Lino Fornale ricorda
Sette anni in grigio-verde
Esperienze di guerra e di prigionia di un thienese
Come per il Vecchio Marinaio di Coleridge, anche per Lino Fornale deve essere
doloroso rivivere nel ricordo le esperienze di vita di giovane sottotenente dei
granatieri e poi di internato militare italiano in Germania, se solo ora, a 60 anni di
distanza, su forte pressione della famiglia, si è risolto a metterle su carta e
stamparle in una pubblicazione uscita sullo scorcio del dicembre 2004.
L’opera, in edizione privata, si intitola “Sette anni in grigioverde” e, oltre che da
interessanti foto storiche e personali, è arricchita da una presentazione del prof.
Giovanni Azzolin.
Il racconto parte dal 1938, anno in cui Lino Fornale, nel dopoguerra più volte
deputato della Democrazia Cristiana per il collegio di Thiene, è ammesso al Corso
Allievi Ufficiali di Complemento che frequentò a Spoleto, superato il quale venne
assegnato al 3° Reggimento Granatieri a Viterbo.
Nel 1939 il reggimento viene trasferito nell’appena occupata Albania, in una
caserma nei dintorni di Tirana; da qui, nell’agosto del 1940, il reparto fu trasferito a
Delvino, in attesa di sferrare l’attacco italiano alla Grecia. Fu in questo periodo
che non solo Fornale ricevette il suo ‘battesimo di fuoco’, rimanendo ferito ad una
gamba, ma anche si rese conto della impreparazione dell’esercito italiano
all’occupazione della Grecia, tanto che a salvarci dalla disfatta militare
intervennero opportunamente due divisioni corazzate tedesche, che fecero la
differenza.
Nella Grecia occupata, e precisamente ad Atene, dopo mesi di relativa
tranquillità, Lino Fornale visse il dramma dell’8 settembre 1943, quando gli alleati
tedeschi, divenuti improvvisamente nemici, presero prigionieri i molti soldati italiani
che il comunicato di Badoglio, si legge, ‘lasciava praticamente nei Balcani senza
alcuna direttiva e quindi ci colpì duramente e non riuscimmo ad accettarlo’.
Le Porte della Memoria 2016
Così il 10 settembre ’43 anche l’ufficiale dei granatieri Lino Fornale salirà con i
suoi compagni sul treno che speravano li portasse a Trieste, ma che purtroppo
prese invece la direzione della Germania nazista.
Qui cominciò il calvario della prigionia di quelli che, per non considerarli
prigionieri di guerra (protetti dalla Croce Rossa), vennero definiti ‘Internati Militari
Italiani’ (IMI); un calvario che nel giro di 2 anni portò Fornale in ben 6 lager diversi,
da quello di Wietzendorf, dove la prigionia cominciò e finì 2 anni dopo, a quello
relativamente più umano di Meppen, ai confini con l’Olanda, fino a quello
terribile di Sandbostel, dove sperimentò il peggio del peggio.
All’inizio della prigionia, attraverso propri emissari, si cercò di convincere i
prigionieri ad arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale di Salò, in cambio
della libertà e del ritorno in patria. Quasi nessuno accettò. Fu solo
successivamente, quando la terribile fame, usata come arma di persuasione, e le
preoccupazioni per le sorti della propria famiglia divennero insopportabili che
alcuni accettarono di arruolarsi e lasciarono il lager. Lino Fornale dimostra
profonda comprensione umana per loro, perché convinto che la scelta sia stata
determinata da pressioni cui umanamente è difficile resistere, soprattutto per chi
sta provando da mesi l’esperienza della fame e le condizioni di vita in un lager.
Nei lager Fornale strinse amicizie che durarono poi tutta una vita, tra cui quella
con Giuseppe Lazzati, in seguito Rettore dell’Università Cattolica di Milano ed oggi
in fase di canonizzazione, con Giovannino Guareschi, lo scrittore che nell’inferno di
Sandbostel compose ‘La favola di Natale’ e persino con l’attore Gianrico
Tedeschi.
I liberatori inglesi sfondarono con i loro carriarmati il cancello del campo di
Wietzendorf il 16 aprile 1945; ma è solo nel settembre di quell’anno che, non senza
ulteriori pericoli e peripezie, Lino Fornale dopo sette anni in grigio-verde tornò a
Thiene, per scoprire che il fratello Manlio era stato fucilato dai partigiani sul
Cansiglio.
Giovanni Azzolin, nella sua presentazione, rileva quale importanza ebbe la fede
per il soldato e il prigioniero Lino Fornale, che ottenne da essa la forza interiore
della speranza e che gli permise di resistere e di sopravvivere. Lui stesso, infatti,
dichiara: ”La fede sostenne sempre il mio morale e mi diede la forza a resistere.”
Sul piano narrativo nel racconto va apprezzata la totale assenza di ogni forma di
retorica; c’è piuttosto una qualche reticenza, per la preoccupazione di non
ostentare forme di eroismo. E, così, si raccontano fatti e si incontrano persone in
una profonda dimensione storica, ma con un parlare quotidiano, diretto ed
efficace, da cui ogni forma di condanna e di acredine verso chi ha provocato
tutte quelle sofferenze è stata assorbita nel tempo in forme di umana
consapevolezza.
Un bisogno sembra comunque trasparire dalla narrazione dell’on. Lino Fornale, e
cioè che non si dimentichi a quale avvilente degradazione dei propri simili può
portare l’odio dell’uomo sull’uomo. Ecco perché dai lager dell’Imi Lino Fornale ci
viene la testimonianza di una terribile sofferenza, nella speranza che anche di noi,
come del giovane che ha ascoltato il Vecchio Marinaio, si possa dire “un uomo
più triste e più saggio, si svegliò il giorno dopo”.
Ferdinando Offelli
Da Il Giornale di Vicenza del 4 gennaio 2005
Le Porte della Memoria 2016
La Favola di Natale di Guareschi e Coppola
Dino Foresio
Tratto da Operaclik Qutidiano di informazione operistica e musicale.
www.operaclik.com/news/la-favola-di-natale-di-guareschi-e-coppola
Il lavoro di ricerca sulla musica concentrazionaria, avviato dai musicisti barlettani
Francesco Lotoro (considerato la massima autorità internazionale del settore) e
Paolo Candido, che insieme a numerosi musicisti pugliesi sono impegnati, da anni,
nella registrazione di 4.000 opere musicali scritte in cattività durante il secondo
conflitto mondiale e pubblicate nell'Enciclopedia KZ MUSIK (giunta al 18mo CDvolume), ha portato di recente ad un’importante acquisizione quella del
materiale originale de La Favola di Natale per narratore, coro maschile e
orchestra, scritta nel 1944 presso il Lager XB di Sandbostel dal celebre giornalista e
scrittore emiliano Giovannino Guareschi (1908-1968), l'autore della celebre saga di
Don Camillo e Peppone, su musiche del compositore sorrentino Arturo Coppola
(1913-1998).
I due, assieme a numerosi soldati e ufficiali italiani, all’indomani dell’armistizio dell’8
settembre 1943, vennero internati nella Polonia occupata presso lo Stalag 367 di
Czestochowa, successivamente presso lo Stalag 333 di Beniaminów (Voivodato
della Masovia) per poi passare nell’aprile del 1944 al Lager XB di Sandbostel/Kreis
Bremervorde dove iniziarono una collaborazione letterario-musicale che portò alla
produzione di una serie di canzoni italiane tra le quali Magri ma sani, Carlotta
(dedicata alla figlia di Guareschi), Dai dai Bepin (laddove Bepin sta per Josef
Stalin ed estesamente le truppe sovietiche che si avvicinavano ai confini orientali
della Germania) per poi giungere a quell’autentico capolavoro che è La Favola
di Natale, scritta tra il 17 e il 19 dicembre 1944.
“Quest’opera - scrive Guareschi nella presentazione dell’opera – nacque
nell’imminenza del secondo Natale di prigionia, come disperato tentativo di
popolare quella gelida solitudine coi fantasmi dei nostri sogni. […] Coppola
alloggiava al piano superiore e, mentre io scrivevo, componeva le musiche che
dovevano commentare la fiaba. Poi le concertò, organizzò un coro, istruì dei
cantanti, inventò un’orchestra. Come abbia fatto lo sa soltanto il buon Dio. I
suonatori avevano le mani intirizzite dal gelo, i violini si spaccavano per l’umidità,
le voci uscivano a stento da quei mucchietti di stracci”.
L’audizione si tenne il 24, 26 e 27 dicembre 1944 nel piccolo teatro del Lager, il 31
dicembre 1944 nella baracca 13B ed infine il 10 gennaio 1945 nella baracca 31A;
la voce recitante era quella del giovane Gianrico Tedeschi destinato a diventare
un grande attore di teatro.
Come per altri Lager civili e militari, La Favola di Natale venne orchestrata
tenendo conto degli strumenti musicali disponibili: ocarina, oboe, 2 clarinetti,
fisarmonica e orchestra d’archi ai quali si aggiunse il “rumorista” che interpretava
con la voce alcuni effetti di scena e alcuni passaggi movimentati.
Le Porte della Memoria 2016
La Favola di Natale verrà riproposta, nella ricostruzione della versione orchestrale
originale di Paolo Candido e Francesco Lotoro, il prossimo 27 gennaio 2011 presso
il Cineteatro Impero di Trani, nel cartellone teatrale allestito dall'Assessorato alla
Cultura del Comune della città pugliese e dal Teatro Pubblico Pugliese.
L'Orchestra Musica Concentrazionaria diretta da Paolo Candido e il Consort
Vocale Diapente di Roma accompagneranno la voce narrante di Angelo de
Leonardis.
Prima della Favola, saranno eseguiti altri brani scritti a Sandbostel da Guareschi e
Coppola ossia la canzone Carlotta, l’allegra Dai dai Bepin e, del solo Coppola,
Polka Merkatall (dedicata all'ufficiale portalettere degli italiani, Mercatali) e lo
struggente corale Treviso, scritta di getto da Coppola a Sandbostel allorché
apprese del bombardamento della sua città avvenuto il 7 aprile 1944 da parte dei
bombardieri Alleati.
Un’operazione di alto profilo culturale tra le poche prodotte in Italia negli ultimi
anni.
Le Porte della Memoria 2016
Giovedì 4 febbraio
Biblioteca Civica – Sala Conferenze - Via F. Corradini - Thiene – ore 20.30
ETTY HILLESUM: UN VIAGGIO, UN POZZO, UN BALSAMO
Incontro con una testimone attraverso luoghi interiori e reading dai Diari e dalle Lettere
Conduce il prof. Giulio Osto, docente di Teologia, Facoltà Teologica - Padova
Iniziativa per la cittadinanza – ingresso libero
ETTY HILLESUM: UN VIAGGIO, UN POZZO, UN BALSAMO
Incontro con una testimone
attraverso luoghi interiori e reading dai Diari e dalle Lettere
Etty Hillesum nasce nel 1914 in Olanda in una famiglia della borghesia
intellettuale ebraica e muore ad Auschwitz nel novembre 1943.
Nel 2012 la casa editrice Adelphi pubblica la traduzione in lingua italiana
dell’edizione integrale del Diario 1941-1942 e nel 2013 le Lettere 1941-1943. Queste
sono le fonti, tutte interamente autobiografiche, che ci consegnano l’esperienza
poliedrica e affascinante di questa giovane donna.
Il percorso esistenziale, la vita interiore, lo stile letterario, la sensibilità profonda, e
molte altre innumerevoli sfumature della vita di Etty, continuano a suscitare
interesse nei lettori più disparati.
Etty Hillesum arriva a essere un punto di riferimento per coltivare fiducia e
speranza nel custodire l’umano in ogni sua situazione, anche la più difficile.
Incontrare Etty Hillesum significa immergersi nel viaggio interiore e biografico di
una giovane donna che scopre le profondità della vita, che attinge al pozzo
profondo del suo cuore e che immersa nell’atrocità di una persecuzione
totalmente disumanizzante desidera essere, come scrive nelle ultime righe del suo
diario, un balsamo per molte ferite.
Pressoché infiniti possono essere gli itinerari nel paesaggio dell’esperienza
consegnata dagli scritti della Hillesum, ma la scelta migliore è quella di ascoltare
la sua stessa voce dando spazio alle parole consegnate alle pagine che
possediamo. Luoghi interiori, immagini, espressioni sintetiche, citazioni diventano la
trama per una riflessione e un ascolto che intreccia il nostro orecchio con la voce
di Etty.
All’interno delle Porte della Memoria 2016 ecco dunque l’opportunità di un
momento di incontro con una testimone che continua a indicare l’eccedenza
dell’umanità dell’uomo oltre ogni possibile violenza disumanizzante.
Le Porte della Memoria 2016
IL GIORNO DEL RICORDO COMPIE 12 ANNI
Ogni anno, a febbraio, una fiammella si accende, poi purtroppo tende ad
affievolirsi, lasciando una scia di luci e di ombre su cui riflettere.
Sono passati dodici anni da quel 30 marzo 2004 che con l’ istituzione del Giorno
del Ricordo ha fatto tornare alla luce la tragedia dell’ esodo dei giuliano-dalmati,
sepolta da oltre sessanta nella foiba dell’oblio, della rimozione, della damnatio
memoriae. Noi esuli dall’ Istria, da Fiume, dalla Dalmazia vittime, noi costretti a
lasciare le nostre terre per saldare il conto della guerra perduta per tutti gli italiani,
noi rifiutati, non solo talora all’ arrivo in patria, ma più subdolamente
nell’immaginario collettivo, noi imputati di colpe che servivano solo ad assolvere la
coscienza di altri, noi zittiti con formule ideologiche che ci negavano anche il
diritto al dolore, noi rimasti soli con la nostra dignità.
Poi l’evento che ci colse stupiti, increduli, commossi, il riconoscimento che la
Madre non più matrigna ci elargiva con l’istituzione di una Solennità Civile, non di
una generica giornata di commemorazione, la rinascita di uomini ormai adulti che
allora trotterellando avevano seguito i passi affranti dei genitori sui cammini
dell’addio, l’amara, forse rabbiosa, consapevolezza che molti di quei genitori non
potevano ormai neppure ricevere quel tardivo, parziale, simbolico risarcimento
morale.
Dal 2004 ad oggi noi esuli abbiamo intrapreso il nuovo cammino, quello che scava
nel recupero della memoria, che si fa strumento di informazione e di conoscenza
per un intero popolo che non sapeva, perché nessuno voleva che sapesse,
confermando che il politically correct e la real politik possono essere strumenti di
intimidazione d’impatto superiore a quello della violenza materiale. Celebrazioni
ufficiali, commemorazioni, eventi teatrali, interventi di testimoni, pubblicazioni
memorialistiche e saggistiche, inaugurazioni di monumenti ed intitolazioni
toponomastiche si addensano nella cronaca del mese di febbraio, non solo nella
stampa degli esuli, ma anche nei media nazionali. Dunque molto è stato fatto: i
sondaggi sulla conoscenza dei termini foiba ed esodo segnano qualche punto in
più, soprattutto nelle scuole che ne erano le più penalizzate per la censura
operata dai libri di testo, ma molto ancora resta da fare. Fa effetto constatare che
è proprio la generazione più giovane, quella degli studenti, a farsi portavoce della
nostra storia con i genitori una volta rientrati a casa o sentire l’umile ammissione di
quarantenni, cinquantenni o sessantenni che si scusano per non avere cognizioni
in materia: ben altri, politici, autori di testi scolastici, giornalisti, dovrebbero scusarsi
per averci rubato la nostra memoria storica!
E’ con estrema gratitudine quindi che accogliamo l’invito di Enti, Comuni,
Associazioni, Istituti scolastici come quelli di Thiene che ci accolgono come
testimoni della storia del Confine Orientale e ci aprono le porte di casa, le Porte
della Memoria, come pure le braccia, in un simbolico, fraterno abbraccio.
Siamo ancora un popolo in cammino, in mezzo al Mar Rosso della storia che si sta
aprendo per noi, ma che ci chiede di continuare a lottare per trovare il varco.
Le Porte della Memoria 2016
Ora che noi possiamo fare qualcosa per la memoria dei nostri genitori, il nostro
obiettivo etico primario resta il 10 Febbraio: è piccolo, ha solo dodici anni, ha tanti
decenni passati da recuperare e deve ancora crescere.
Buon Compleanno, Giorno del Ricordo!
prof.ssa Adriana Ivanov Danieli – esule da Zara
Le Porte della Memoria 2016
LA BATTAGLIA DEI PEDALI
Gino Bartali, un ragazzo controvento
Una proposta teatrale per gli studenti di terza media inserita nella rassegna Teatro
Ragazzi del Comune di Thiene.
Presentazione fornita da La Piccionaia centro di produzione teatrale.
LA PICCIONAIA centro di produzione teatrale
Drammaturgia e regia Ketti Grunchi
Con Aurora Candelli, Francesca Bellini, Julio Escamilla
scenografia e luci Yurji Pevere
foto Delfina Pevere
età consigliata dagli 11 anni e per adulti
durata 70’
tecnica utilizzata teatro d’attore
Tutto ha inizio in un piccolissimo paese sulle colline toscane. Una chiesa, un’osteria,
una bottega di ciclista, un barbiere senza pretese, un mulino.
Lì, i Bartali li conoscono tutti. Gino. Magro, occhi azzurri e una montagna di riccioli
neri. Torello e Giulia, il papà e la mamma. Poi, le sorelle Anita e Natalina. E infine
Giulio, il più piccolo.
I Bartali stanno in una casa popolare: due stanze come quelle di Geppetto e
Pinocchio:
“Una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato.”
Niente luce, e niente acqua corrente. Il piccolo Gino corre, sempre! Su e giù per
salite, campi, prati e uliveti, tra lunghi corridoi di panni stesi profumati di alloro. Ma
a Gino, più di tutto, piace quella meravigliosa opera dell’ingegno umano che lui
in sogno, ogni notte, cavalca come se fosse uno stallone selvaggio... la bicicletta!
Note di regia: Gino Bartali nel settembre del 2013 è stato riconosciuto come
“Giusto tra le Nazioni” per il suo impegno come corriere durante l’occupazione
tedesca: il ciclista, nascondendo documenti falsi per gli ebrei nella canna e nel
sellino della sua bicicletta, salva ottocento persone dalla deportazione nei lager.
Tre giovani attori raccontano in modo ironico, poetico e a volte commovente i
sogni e le imprese di "Ginettaccio" che incantò l'Italia con la sua bicicletta e le sue
meravigliose imprese. Una vita, fin da bambino, disseminata di salite, scelte difficili
e vittorie conquistate con grande fatica, vissuta attraversando guerra e pericoli.
Rischiando la propria vita in nome dell’umanità.
La vita di un uomo che visse controvento, tenendo segrete fino alla morte le sue
imprese più grandi; un invito alla fatica e al coraggio per le nuove generazioni.
Le Porte della Memoria 2016
LA MEMORIA E LA RESISTENZA DEGLI SCOUT
Nel 1928 il fascismo sopprime tutte le associazioni giovanili.
Il gruppo scout milanese Aquile Randagie sceglie la clandestinità.
Dal ’43 al ’45 opera il salvataggio verso la Svizzera
di oltre 2000 perseguitati tra ebrei, prigionieri di guerra,
dissidenti politici.
Dal ’45 contribuisce attivamente alla rinascita
del Movimento Scout in Italia.
C’è una pagina di storia dello scoutismo italiano non abbastanza nota ma
fortemente significativa per il contributo che portò alla lotta per la Liberazione
dell’Italia.
La Resistenza degli scout cominciò presto, già nel 1928, quando il governo fascista
decretò lo scioglimento di tutte le associazioni giovanili che non facessero capo
alla neonata Opera Nazionale Balilla. Gli scopi educativi che si prefiggeva il
regime si traducevano nel motto “Credere, obbedire, combattere”. I valori dello
scoutismo quali la responsabilità, la fraternità, l’amore per la natura, il servizio al
prossimo, la fede cattolica e soprattutto la libertà di coscienza avevano poco a
che spartire con la mistica fascista e pertanto andavano soppressi. Ma già da
tempo le Camicie Nere assaltavano e devastavano le sedi delle associazioni
cattoliche, come quelle dei sindacati, delle cooperative, dei giornali e partiti di
opposizione.
In quel periodo Don Minzoni, fondatore e assistente ecclesiastico del gruppo scout
di Argenta (FE) venne assassinato perché colpevole di essersi opposto agli
squadristi inviati in parrocchia a “disturbare” un incontro pubblico sullo scoutismo.
Sono anche gli anni delle trattative tra Stato e Chiesa che sfoceranno nei Patti
Lateranensi e in virtù di questo negoziato la soppressione dello scoutismo,
accettata a malincuore da Papa Pio XI, servì alla sopravvivenza dell’Azione
Cattolica, unica associazione non fascista ad essere tollerata dal regime non
senza forti limitazioni.
Nel 1928 i gruppi dell’A.S.C.I. cessarono le attività. A Milano vennero deposte
simbolicamente le bandiere dinanzi all’Arcivescovo, a testimonianza che gli scout
si scioglievano di fronte alla Chiesa e non allo Stato. Ma nello stesso giorno, nella
cripta della chiesa del S. Sepolcro, proprio di fronte alla Casa del Fascio da dove
era partita la marcia su Roma, il gruppo scout Milano II° si ritrovava per la
cerimonia di una nuova Promessa.
- Non è giusto – erano le parole del capogruppo Cesare Uccellini – e noi non lo
accettiamo, che ci venga impedito di vivere insieme, secondo la nostra legge:
legge di lealtà, di libertà, di fraternità. Noi continueremo a fare del nostro meglio
per crescere uomini onesti e cittadini preparati e responsabili. Noi continueremo a
cercare nella natura la voce del Creatore e l’ambiente per rendere forte il nostro
corpo e il nostro spirito. –
Con questa dichiarazione d’intenti il gruppo decise di proseguire l’attività
entrando di fatto in clandestinità. Era una decisione che coinvolgeva non solo i
Le Porte della Memoria 2016
ragazzi ma anche le rispettive famiglie consapevoli dei rischi conseguenti la
disobbedienza civile al regime.
Nel gruppo dei “ribelli” confluirono altri scout di reparti milanesi disciolti con affiliati
a Monza e a Desio. Nascono le Aquile Randagie. Guidato da validi capi-educatori
questo gruppo porta avanti l’attività clandestina per quasi 17 anni. Senza una
sede, cambiando di continuo luoghi di ritrovo, comunicando attraverso messaggi
in codice, con le divise nascoste negli zaini, questi ragazzi dagli 11 ai 24 anni
riuscivano incredibilmente a raggiungere in bicicletta i boschi e le campagne del
milanese e della Brianza durante i fine settimana e ad organizzare i campi estivi
nelle valli alpine. Alcuni di loro vennero riconosciuti e denunciati, più spesso
aggrediti e malmenati. Ma il rischio di giocarsi la vita divenne reale solo dopo l’8
settembre del ’43 con l’armistizio e la conseguente occupazione tedesca. Le
Aquile Randagie, su ispirazione del loro assistente ecclesiastico Don Andrea Ghetti
(nome di battaglia “Baden”) intuirono la necessità di un nuovo senso del servizio
scout: nacque l’O.S.C.A.R. (Opera Scoutistica Cattolica Aiuto Ricercati), sigla che
si diffuse clandestinamente per tutta la Lombardia come ancora di salvezza per
chi cercava di nascondersi e fuggire dalla persecuzione nazifascista. Soldati
italiani, prigionieri, perseguitati politici, renitenti alla leva della Repubblica Sociale,
ebrei, per un totale di 2166 espatri clandestini, vennero aiutati da questa
organizzazione. I Capi scout delle Aquile Randagie si adoperarono, oltre che a
fornire documenti falsi e alloggio provvisorio ai perseguitati, a gestire direttamente
l’accompagnamento, spesso notturno, nei boschi a pochi chilometri da Varese
per passare oltre la rete metallica del confine italo-svizzero. L’episodio più
clamoroso di questa attività fu il rapimento-salvataggio di un bambino ebreo
dall’ospedale di Varese sotto il naso dei nazisti che ne avevano deciso la
deportazione in Germania. Altri episodi simili vedono protagonista Don Giovanni
Barbareschi, l’ultima “Aquila” rimasta in vita oggi a 93 anni, coinvolto nel
salvataggio di numerosi ebrei e per questo incarcerato e torturato a Milano.
Trasferito al campo di concentramento di Bolzano, riuscì a fuggire per raggiungere
la formazione partigiana Fiamme Verdi che operava nelle valli di Brescia. Le
Aquile Randagie collaborarono anche alla diffusione del foglio clandestino “Il
ribelle” e si mantennero costantemente in contatto con organizzazioni scout
estere. Essere clandestini non legittimava l’isolamento dalla grande fratellanza
scout: la necessità di un continuo aggiornamento del metodo educativo faceva
superare le difficoltà, enormi a quei tempi, per ottenere il permesso all’espatrio e
partecipare ai Jamboree, i raduni internazionali.
Nel frattempo cominciava a riunirsi in casa di Monsignor Montini (il futuro Paolo VI)
il rinato Comitato Centrale provvisorio e clandestino dell’A.S.C.I. milanese ad
opera di Mario Mazza. La Chiesa, anche tramite il Cardinal Schuster, incoraggiava
gli scout a perseverare nell’attesa di tempi migliori. Uno degli ultimi tragici episodi
della guerra di Liberazione vide l’Aquila Randagia Nino Verri fucilato il 16 aprile del
’45 per aver soccorso un partigiano ferito e braccato dai militari repubblichini.
Il giorno della Liberazione le Aquile Randagie arrivarono in camion da Milano a
Desio per incontrare il rinato gruppo locale, incrociarono per strada una colonna
tedesca in ritirata e….rimasero vivi!
Con la ricostruzione materiale e morale dell’Italia anche lo scoutismo rinasce. Le
Aquile escono dalla clandestinità. Non ci furono trionfalismi da parte loro, rimasero
invece i segni di un’esperienza ricca di contenuti umani e cristiani. Un’esperienza
Le Porte della Memoria 2016
che fu essenzialmente la difesa del diritto dei giovani ad essere educati e a vivere
i loro ideali di fraternità, fede, servizio, libertà. Fu quindi una Resistenza genuina,
perché libera da ogni interesse che non fosse lo sviluppo della personalità umana
e religiosa dei giovani. La Resistenza di una concezione di vita che pone al centro
l’uomo, la sua libertà e la sua Fede contro la statolatria del regime fascista
costruita sulla violenza, la suggestione di massa, sull’intorpidimento morale. A
muovere questi giovani non furono l’ideologia, l’odio o la causa politica, ma la
fedeltà alla Promessa Scout che recita “Con l’aiuto di Dio prometto di fare del mio
meglio per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio Paese, per aiutare il
prossimo in ogni circostanza, per osservare la Legge Scout”.
CANTANDO CON LE AQUILE RANDAGIE
LO SPETTACOLO
Lo spettacolo racconta la storia delle Aquile Randagie attraverso le loro canzoni,
accompagnate da foto e filmati d’epoca.
Durante il periodo di clandestinità, dal 1928 al 1945, sono nate canzoni, spesso
sull’aria di antiche melodie tradizionali o canti scout francesi e inglesi.
Un gruppo di musicisti, giovani e non, scout o amici di scout, ha interpretato
questo antico repertorio in chiave moderna, con nuovi arrangiamenti originali,
non certo per tradire la tradizione ma perché lo spirito scout continui a passare
attraverso la musica e la passione di chi lo ama.
Diceva Gustav Mahler “La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione
della cenere”.
Promosso da Ente e Fondazione Baden e Masci Lombardia lo spettacolo ha
debuttato a Milano nel 2012 collezionando circa 20 repliche in varie città del nord
Italia, approdando al Raduno Nazionale del Movimento Adulti Scout Cattolici
Italiani nel 2014 e all’EXPO Milano nel 2015.
Il nuovo repertorio musicale è stato raccolto in un CD che insieme a diverse
pubblicazioni sul tema vuole contribuire alla memoria storica, nella convinzione
che ciascuno debba, nelle circostanze e nei tempi in cui gli tocca vivere, non
dimenticare la fedeltà agli ideali che ha fatto propri.
Le Porte della Memoria 2016
Dopo quindici giorni nemmeno l’erba…
ricordi del lager dell’alpino Antonio Novella
La presente testimonianza riprende quella curata in precedenza dalla nuora
signora Oriana Zarantonello in occasione dell’ottantottesimo compleanno del
signor Antonio, nel 2011.
E’ Antonio Novella che racconta, in prima persona.
L’8 SETTEMBRE CATTURATI DAI TEDESCHI CON
L’INGANNO
Il battaglione Vicenza, del 9° alpini, di cui facevo
parte, della ricostituita Divisione Julia, distrutta una
prima volta in Grecia e poi in Russia, da Caporetto
era stato trasferito ad Aidussina e dopo qualche
giorno trovammo sistemazione a Gracova
Serravalle, piccola frazione di Tolmino nel
goriziano.
Qui mancando una caserma ci siamo sistemati
nelle case e un plotone anche in un
camminamento della Prima Guerra Mondiale,
proteggendosi dalla pioggia con frasche. Io avevo
trovato sistemazione all’interno della scuola.
Arriva l’8 settembre del 19431 e si attendeva
l’ordine imminente per tornare a Caporetto per
istruire le reclute del ’24, quando alle 23.30, io ero
ancora sveglio e facevo compagnia all’alpino di L'alpino Novella con i commilitoni. Sullo
guardia, sono arrivati i tedeschi che hanno risposto sfondo il sacrario militare di Caporetto.
alla parola d’ordine per cui hanno potuto
avvicinarsi, presentandosi da amici. Erano in più di cento, armati di mitra e
bombe a mano e noi solo in trenta, molti col 91. Il loro comandante ci ha detto:
“Consegnate le armi e domani andrete tutti a casa, per voi la guerra è finita!”
Noi non sapevamo cosa stesse accadendo, eravamo isolati e senza informazioni, i
nostri contatti con il comando erano tenuti da un caporale che andava ogni
mattina a prendere ordini: abbiamo svegliato i compagni per annunciare che
saremmo tornati a casa, ma la cosa sembrava strana e per precauzione, chi ha
fatto in tempo, ha gettato gli otturatori nelle acque del fiume Baccia (affluente
dell’Idria che poi si getta nell’Isonzo) e soltanto poi ha consegnato le armi, le quali
erano divenute, in tal modo, inutilizzabili. Poi siamo tornati a dormire compreso
l’alpino che era di guardia e di guardia si sono messi i tedeschi.
Intanto, altri tedeschi si erano recati sulle alture poco lontane, nelle quali era
stanziato il plotone mortai, per disarmare i soldati, ma noi siamo riusciti ad avvisarli
in tempo, affinché fuggissero con le armi. Malgrado i tedeschi ci sparassero
dall’altro paese con le mitragliere, i nostri, attraverso le trincee della Prima Guerra
Mondiale, sono riusciti a fuggire e a raggiungere le compagnie 59,60,61 del nostro
battaglione.
1
Le Porte della Memoria 2016
Alla sveglia ci hanno dato il caffè e a
piedi siamo andati, inquadrati, alla
vicina
stazione
ferroviaria
di
Piedicolle, villaggio poco più a nord
di Gràcova, e abbiamo visto la
tradotta già pronta per noi, con due
locomotori, uno davanti e uno dietro.
Ci siamo chiesti:
“Il treno andrà a Gorizia o in
Austria?”, infatti di lì passava la linea
ferroviaria Gorizia-Villach. Siamo saliti
in sessanta per vagone, con chiusura
dall’esterno e siamo partiti verso
l’ignoto. Subito abbiamo capito che
non ci portavano a casa.
Il trasferimento è stato lungo, dal
mezzogiorno del giorno 9 siamo giunti
a destinazione il 12 settembre a
mezzogiorno in punto, senza né bere
né mangiare niente.
Interno del passaporto provvisorio per stranieri
rilasciato dall’autorità di Rotenburg an der Fulda il 26
ottobre 1944.
DESCRIZIONE DELLA PERSONA
Nazionalità italiana
Professione fabbro ferraio
Luogo di nascita Firenze
(luogo esatto Marano Vicentino)
Data di nascita 12 febbraio 1923
(data esatta 12 dicembre 1923)
Residenza o luogo di soggiorno Bebra, circondario di
Rotenburg H.
Corporatura robusta 170 cm
Colore degli occhi marrone chiaro
Colore dei capelli rosso scuro
Segni particolari nessuno
LA QUARANTENA NEL CAMPO DI
ZIEGENHAIN IN RENANIA PALATINATO
Una volta arrivati a Ziegenhain,
campo principale dello Stalag IX A,
poco lontano da Kassel, siamo scesi,
ci hanno inquadrati per cinque e,
camminando fra due ali di folla che
ci insultava gridandoci “Badoglio
saiser!, Badoglio saiser!” formata da donne, bambini, anziani, riempiti di sputi, ci
siamo diretti al lager che distava 2 Km dalla stazione. Fra noi regnava lo sconforto,
ma una certa porzione di ignoto, che era certamente parte del nostro futuro, ci
offriva la possibilità di nutrire ancora qualche speranza di salvezza. Appena
arrivati, ci hanno dato la prima zuppa di acqua e rape.
Il giorno seguente ci hanno mandati al campo sportivo per essere ispezionati da
cima a fondo, facendoci spogliare e svuotando i nostri zaini per controllare se
qualcuno nascondeva armi. Al termine di questo controllo, una squadra di
tedeschi aveva il compito di scrivere con la vernice sui vestiti, in corrispondenza
della schiena, del petto e delle ginocchia le lettere K G, iniziali della parola
KriegsGefangene, che significa “prigioniero di guerra”. Poi ci hanno tolto le
piastrine di riconoscimento, ne avevamo due trovandoci ad operare sul confine
dell’Isonzo, zona di guerra, contro i partigiani di Tito e le hanno sostituite con il loro
numero di matricola. Io avevo il numero 77.029, e da quel momento il nostro
nome e cognome non esistevano più, ci chiamavano solo col numero
assegnatoci. Siamo rimasti nel campo per 30 giorni in quarantena, in isolamento
per controllare se portavamo malattie infettive; tutto il giorno rinchiusi nella
baracca con un litro di acqua e rape, 200 g di pane con un po’ di margarina o
marmellata. Ci facevano uscire due volte al giorno per un massimo di due ore, e
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in quel momento tutti approfittavano per mangiare l’erba. Dopo appena 15 giorni
l’erba era sparita: neppure un filo, e nemmeno le radici, perché le raccoglievamo
per cucinarle. Il campo era recintato da sei file di filo spinato, di queste, quelle
situate al centro erano state elettrificate, in esse passava l’alta tensione. Agli
angoli del campo sorgevano le torrette con il faro per l’illuminazione e fornite con
una mitraglia. Fuggire era impossibile. Di notte il campo era illuminato a giorno, in
questo modo gli alleati riconoscevano i campi di prigionia e non li
bombardavano. Però i tedeschi non sempre rispettarono questa regola, alcune
volte illuminavano le principali fabbriche e spegnevano le luci nei campi, perché
per loro era più importante salvare le fabbriche di armi dai bombardamenti. Le
baracche erano di legno, ogni camerata conteneva cinquanta persone e si
dormiva su letti a castello tutti di legno. Per materassi c’erano sacchi pieni di pezzi
di carta. La sveglia era alle sette in punto; ci si lavava e verso le otto i nostri
carcerieri facevano l’appello chiamandoci per numero. Poi si aspettava la zuppa
del mezzogiorno: al venerdì c’era rancio speciale, vale a dire un litro di minestra di
miglio, che, essendo più densa, ci dava l’impressione di mangiare di più.
E così trascorsero i primi trenta giorni: nell’ozio e con tanta fame. Il mio peso, infatti,
si era ridotto di 42 Kg, da 80 a 38.
Separati da una strada c’erano i prigionieri francesi con cui si poteva anche
parlare e che quando incontravamo per strada, con tono di scherno, ci
gridavano:
“Messieurs, vous avez terminé la guerre!”
Al termine del primo mese ci hanno destinati in vari paesi e città. Senza chiederci
niente, neanche la professione, l’interprete un giorno è entrato nella baracca e
chiamando i numeri, ci hanno divisi a gruppi a seconda delle richieste di lavoratori
che venivano dai Comuni o dalle aziende della zona. In un centinaio ci hanno
fatto salire su di un treno passeggeri, destinati a Lispenhausen, vicino a Bebra,
distante 60 Km.
AL CAMPO DI LAVORO A LISPENHAUSEN, KOMMANDO N. 3022
Al campo di lavoro il trattamento culinario era il medesimo, ma non oziavamo
tutto il giorno: ci costringevano a lavorare duramente. Dieci, dodici ore di duro
lavoro lungo la ferrovia per ripristinare le rotaie, quando venivano bombardate.
Il campo era situato in una ex filanda, nelle vicinanze della stazione ferroviaria,
recintata da filo spinato, con guardie, ed eravamo in circa 100, tutti italiani.
Ogni mattina alle sei c’era la sveglia, mezz’ora di tempo per le pulizie e poi si
partiva in treno fino a Bebra, solo 3 Km, e poi proseguivamo a piedi per recarci
dove era richiesto il nostro lavoro, lungo la ferrovia, percorrendo a piedi anche 4/5
Km, una guardia ci precedeva e una chiudeva la fila. Ci dividevano in due
squadre, una proseguiva a sud di Bebra e una squadra andava a nord verso
Rotenburg.
Vicino a noi c’era una fabbrica, che vedevamo passandole vicino in treno, diretti
al lavoro, dove 100 prigionieri italiani costruivano autoblinde, ne facevano 7 al
giorno, ma dopo il bombardamento, di cui dirò dopo, la produzione era diventata
di una autoblinda alla settimana. Prima di iniziare il lavoro li facevano correre a
torso nudo attorno al recinto dello stabilimento.
I primi giorni ho lavorato col piccone per sistemare i sassi sotto le traversine, ma
dopo qualche settimana il capo, accorgendosi che incominciavo a capire la loro
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lingua, mi ha tolto da quell’incarico per assegnarmi un lavoro più leggero, cioè
mettere le binde sotto il binario, alzarlo e controllarlo con la bolla, mentre gli altri
picchiavano sotto i sassi. I capi erano tre: uno controllava i lavori una volta
ultimati, un altro era di guardia (stava attento e ci avvisava quando giungeva il
treno) e l’ultimo dava ordini e controllava che nessuno tentasse di scappare
quando giungeva il treno a bassa velocità. Noi però, sempre affamati,
attendevamo il passaggio del treno munito di ristorante, con la speranza che ci
avrebbero gettato le bucce di patata per raccoglierne più che potevamo. Io ne
mangiavo di più perché per il lavoro che facevo mi trovavo sempre davanti alla
squadra e quindi quando buttavano le bucce ne prendevo di più.
Il lavoro era più leggero, ma eravamo sempre all’aperto e quando pioveva al
ritorno in baracca prendevamo calzoni e giacca e in due li strizzavamo per bene
per fare uscire l’acqua e dopo averli stesi sul letto ci dormivamo sopra per
asciugarli del tutto!
E pregare il Signore che non ci fosse la nebbia, perché la nebbia bagnava di più
della pioggia.
Quasi ogni settimana venivano i fascisti a chiederci di firmare per poter tornare in
Italia.
Ci lusingavano in ogni modo. Ma noi eravamo stati messi in allerta. Ricordo che
passavano delle tradotte di soldati italiani, durante il nostro lavoro sulla ferrovia, e
quando rallentavano perché c’era il semaforo rosso, i nostri connazionali, vestiti da
tedeschi e con la bandiera tricolore, ci gridavano:
“Non state mai a firmare, vi dicono di portarvi in Italia ed invece noi ci stanno
mandando verso il fronte russo!”
In verità i primi che hanno firmato sono effettivamente tornati in Italia, conosco
anche uno di Marano, era un fascista, ed è tornato; la maggior parte però di
quelli che hanno firmato quando sono rientrati sono passati con i partigiani o si
sono nascosti; sono pochi quelli che sono andati con i Fascisti.
Dei 110 prigionieri che erano nella filanda, il nostro campo, solo uno ha firmato, mi
pare fosse un finanziere, che al primo bombardamento è rimasto ucciso sotto le
macerie.
Una mattina mi sono svegliato che non mi sentivo bene, allora ho avvisato la
guardia, che mi ha controllato la febbre. Il termometro segnava 39,4°C, ma per
rimanere in baracca e non recarsi al lavoro avrei dovuto avere 39,5 °C di
temperatura corporea. “Lavorare”, mi ha detto la guardia e fin che mi vestivo,
con la punta della baionetta mi colpiva, tanto da lasciarmi un segno - Antonio
mostra una cicatrice sul collo. Così sono stato costretto, mio malgrado, ad andare
lo stesso a lavorare. Una volta giunto ai binari, il capo, al quale ero simpatico,
vedendo i mio stato di salute, mi mandò nella baracca perché sostituissi i manici
di picchi, badili e forche. Potei accendere la stufa e così almeno ero al caldo! Per
quattro giorni ho avuto la febbre alta, sempre 39,4°: a partire dal quinto,
gradualmente, è scesa da sola, e quindi ho ripreso il lavoro normale. In questo
modo sono trascorsi i primi sei mesi.
UN NUOVO LAVORO NELLA FABBRICA DI BEBRA, KOMMANDO N. 3042
Una sera, fatto il contrappello (al nostro rientro dal lavoro ci contavano e prima di
dormire ci contavano di nuovo, questo era il contrappello), tre che lavoravano
presso l’officina meccanica “Bebrit”2, a Bebra, a tre Km dal campo, Giuseppe
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Bordin da Padova, Giuseppe Zerbin da Bergamo, Leone Tosini da Roma, hanno
chiesto se qualcuno di noi sapesse lavorare al tornio, e io risposi di sì; il giorno
seguente mi sono recato in officina con i tre, anziché andare in ferrovia. Mi hanno
dato subito il nuovo numero di matricola. Appena arrivato il capo-officina ha
voluto controllare se sapevo lavorare al tornio e mi ha messo in mano un pezzo e
un disegno e mi ha ordinato di lavorare il pezzo secondo il disegno. Dopo un’ora è
tonato a vedere e in tedesco mi ha detto ”va bene”. Il capo conosceva solo una
parola di italiano “patate” nonostante avesse conosciuto prigionieri italiani
durante la Prima Guerra Mondiale. Dopo qualche ora si è presentato il mio capo
di prima, quello della ferrovia, per riprendermi, ma è stato inutile; io sono rimasto lì,
poiché il padrone dell’officina ha avuto la meglio sull’altro: era il federale delle SS
della zona di Kassel, un fanatico, che gli ribadì la necessità di avere un tornitore. Il
lavoro consisteva nel fare gli stampi per interruttori, porta-lampade, rasoi da
barba, bicchieri e piatti, tutti in bachelite. Nell’ultimo mese di lavoro, in marzo
furono prodotte delle parti dei panzerfaust, armi anticarro in grado di perforare la
corazza di qualsiasi carro armato. Ma noi non sapevamo a cosa servisse quella
produzione.
I primi giorni di lavoro in officina, mentre guardavo fuori dalla finestra, le lacrime mi
rigavano il viso dalla commozione, pensando che ora potevo stare al caldo e
all’asciutto mentre fuori c’era sempre tanta nebbia e disperazione.
Per un certo tempo il lager è rimasto quello della filanda, poi noi quattro siamo
stati trasferiti al lager della fabbrica che si trovava a poche centinaia di metri dalla
fabbrica stessa nella periferia di Bebra, una baracca recintata da filo spinato e
controllata da guardie.
Il trasferimento dalla baracca alla fabbrica avveniva sempre accompagnati da
guardie; si raggiungeva la fabbrica marciando come quando si era a militare, e,
se qualcuno perdeva il passo, veniva picchiato con la baionetta e col calcio del
moschetto. Lungo il percorso i tedeschi ci insultavano e ci sputavano e noi zitti ed
impassibili, continuavamo a marciare, altrimenti, se qualcuno mormorava
qualcosa fra i denti, alla sera si doveva aspettare delle bastonate. Una volta giunti
in officina dovevamo aspettare fino alle sette e mezza, orario di inizio lavoro. Il
portinaio firmava la nostra presenza.
Fra noi, dentro lo stabilimento, non si poteva mai parlare in italiano, anche per
cose che riguardavano il lavoro e neppure gesticolare per poter comunicare,
senza parlare. Di fianco a me lavorava uno delle “SS”, il quale ogni giorno col
martello di gomma si batteva la testa quando sbagliava un pezzo. Abbiamo
capito che era un gesto per autopunirsi: egli provava molta invidia nei confronti di
noi italiani, perché non sbagliavamo mai. Noi, però, non potevamo permettercelo
di sbagliare e facevamo molta attenzione perché non accadesse. Molte volte,
infatti, i tedeschi usavano l’arma della minaccia, dicendoci che, qualora
avessimo commesso degli errori, ci avrebbero spedito ai campi di punizione, che
erano cinque.
Uno di noi, che aveva ottenuto anche il diploma di infermiere, quando
avvenivano i bombardamenti andava a soccorrere i feriti. Mi ricordo che un
giorno, in cui gli americani avevano mitragliato un treno, è ritornato molto
provato, bianco come un lenzuolo ed è rimasto senza parlare per tutto il giorno.
Assieme a noi quattro tornitori, io e i tre che mi avevano proposto il nuovo lavoro,
lavoravano al pomeriggio tre studenti tedeschi di sedici anni. Essi ricevevano
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meno soldi di noi: la nostra paga era di 360 marchi al
mese, che tuttavia, non potevamo spedire a casa e
non potevamo spendere perché non c’era nulla da
comperare.
Un giorno abbiamo pensato di corrompere uno di
quegli studenti, proponendogli di scambiare 100 marchi
per 200 grammi di pane. Avevamo i soldi con i quali
non potevamo fare niente e tanta fame. Il ragazzo,
però, dopo aver contrattato, ha rifiutato: era pericoloso
Il sig. Antonio ha conservato
per
loro fare mercato nero, e in un certo senso non ne
alcune banconote da 1 e da 5
Marchi. Soldi che ricevevano avevano bisogno, in quanto erano in possesso della
per il duro lavoro e che non tessera che permetteva loro di mangiare senza ricorrere
avevano alcun valore perché
ad altri stratagemmi. Il lavoro durava dieci ore al giorno,
non c'era nulla da comperare.
compreso il sabato.
La domenica era destinata all’igiene personale, alle pulizie della baracca e al
rammendo del vestiario. Si mangiava in baracca.
IL GRAVE INFORTUNIO DURANTE IL LAVORO E L’OSPEDALE DI DUSSELDORF
Dopo quattro o cinque mesi che lavoravo alla manutenzione, stavo usando il
tornio per ripassare un foro di un tubo, procedendo come mi aveva ordinato il
capo. Io volevo fare il foro con un altro sistema entrando col ferro, ma il capo ha
voluto che facessi il foro come voleva lui, perché il mio metodo avrebbe richiesto
più tempo. Mi ha anche minacciato che se non avessi obbedito mi avrebbe
mandato in un campo di punizione, il che voleva dire non tornare più. Ho ceduto,
ma così ho dovuto lavorare con le mani.
Avevo già fatto una parte del lavoro; stavo rimettendo la contropunta, perché
era terminata la corsa, e dovevo fare altri 10 cm di foro: mentre la stavo
bloccando, devo aver inavvertitamente toccato la leva della frizione con la tuta,
e il tornio mi ha scaraventato la mano destra sopra la torretta, forandomi il palmo
con la testa del morsetto del bullone. Da solo me lo sono tolto, ma subito sono
svenuto e sono caduto a terra. Sono stato soccorso dall’ SS che lavorava al mio
fianco che mi ha fatto annusare dell’ammoniaca e mi ha portato fuori, aiutato
dall’italiano che lavorava alle mie spalle. In seguito sono rinvenuto e sono andato
a piedi dal dottore del paese, che aveva l’ambulatorio a pochi passi dall’officina.
Mi ha subito disinfettato e fasciato. Erano le 11.30 di sabato. Il lunedì sono stato
accompagnato dal dottore preposto ai prigionieri, ma questi, quando ha visto la
mano ben fasciata, con brutta maniera, mi ha fatto uscire dicendomi che me ne
dovevo andare via immediatamente, e così la guardia è stata costretta a
riaccompagnarmi al campo senza medicazione. La stessa scena si è ripetuta
anche il martedì, e intanto le mie condizioni stavano peggiorando sempre più; la
mano stava diventando sempre più gonfia e nera, e anche il braccio si era
gonfiato fino alla spalla. Il mercoledì, senza sfasciarmi, il dottore ha preso il numero
di matricola e ha compilato le carte per il ricovero all’ospedale, non ha mai voluto
disinfettarmi, perché era ancora offeso, in quanto non ero stato accompagnato
subito da lui. Il giovedì, sempre accompagnato da una guardia, siamo arrivati,
dopo un lungo viaggio in treno, all’ospedale di Dusseldorf, un ospedale dove
operavano medici e infermieri, internati italiani, diretto da una donna medico SS.
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Appena entrato, mi hanno fatto il bagno, poi mi hanno tagliato le garze, che
sembravano di gesso, tanto si erano indurite. Di seguito mi hanno fatto una
puntura antitetanica, disinfettato ed infine hanno documentato tutto l’incidente.
Quando sono entrato, pesavo appena 50 Kg. Ogni due giorni mi facevano la
medicazione con cotone imbevuto di tintura di iodio: lo facevano passare
attraverso il foro, poi vi inserivano una specie di coppo di gomma che facevano
bollire, perché utilizzavano sempre lo stesso, che aveva la funzione di drenaggio.
Di notte si dormiva poco a causa delle cimici che uscivano dalle fessure dei letti a
castello di legno e dal pavimento. Tutte le mattine le guardie ci facevano alzare
le mani per vedere se erano fasciate. Bastava che uno non avesse le mani
fasciste e questo bastava per renderlo idoneo al lavoro! Anche in ospedale non si
poteva stare in ozio: il nostro lavoro consisteva nel togliere le bave dai tappi dei
tubetti di dentifricio, non con una lima, ma con un mattone, per timore che
usassimo la lima per tagliare le inferriate delle finestre per fuggire. Anche in
ospedale il cibo era lo stesso : il solito litro di acqua e rapa con 200 g di pane e un
po’ di margarina. Nei due mesi di permanenza in ospedale sono calato di 13 Kg, e
così, visto che la ferita si era di molto rimarginata, su mia richiesta, ho ottenuto di
ritornare al campo di concentramento di Ziegenhain. La responsabile
dell’ospedale è rimasta tutta contenta nel vedermi lasciare l’ospedale; non
succedeva spesso che uno ne uscisse vivo! Ogni giorno ne entravano cinque sei e
altrettanti ne uscivano defunti! Ho assistito personalmente alla morte per fame e
per esaurimento organico di due prigionieri. Ancora adesso me li vedo negli incubi
notturni.
A Ziegenhain ho incontrato il maranese Ennio Bonanni, lui era sergente maggiore
e capo baracca. Vi sono rimasto per quindici giorni a riposo, finché la ferita è
guarita dal tutto, per poi ritornare in officina a Bebra.
Durante questo soggiorno nel campo principale ho saputo da prigionieri francesi,
che erano più liberi di noi di muoversi e quindi erano più informati, che i tedeschi
stavano sperimentando dei nuovi camion con cassone chiuso ermeticamente per
gasare i prigionieri. Come cavie usavano prigionieri che trasportavano nei boschi
per tagliare alberi. Quando arrivavano alla meta i prigionieri erano morti per i gas
di scarico che venivano fatti entrare nel cassone.
Il capo quando mi ha visto ha guardato subito la mano temendo che me
l’avessero amputata, poi è rimasto impressionato per la mia magrezza, pesavo 38
Kg. Si è rivolto a me con queste parole, ovviamente in tedesco:
“Anton non ti dirò più come devi fare un lavoro perché tu ne sai più di me!”
Mi ha assegnato un lavoro e poi è andato via per tornare dopo mezz’ora.
“Venite tutti e quattro con me (anche gli altri tre miei amici), vi accompagno alla
baracca delle russe, così imparate la strada e poi ci tornate da soli”.
Ci accompagnò nel vicino campo dove c’erano 350 deportate russe che
lavoravano anche loro nella fabbrica, tutte giovani donne dai 20 ai 30 anni,
rastrellate durante l’invasione della Russia. Venivano trattate molto male e spesso
prese a frustate con grossi cavi elettrici se nel lavoro facevano qualche errore.
Così a mezzogiorno mangiavamo una zuppa nel campo delle russe e un’ altra al
ritorno al nostro campo, quando i nostri compagni ne mangiavano una sola al
giorno! Per noi fu una grande fortuna! Naturalmente il capo si prendeva la
responsabilità di lasciarci uscire. La distanza fra fabbrica e campo delle russe non
era grande e nel tragitto fra i due campi potevano a vista tenerci d’occhio.
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Ma dove potevamo andare? Scappare era impensabile, con dei vestiti
riconoscibili per le lettere che avevamo disegnate. Ora sui vestiti avevamo le
lettere IMI, che significa Italiani Militari Internati, ma che noi leggevamo Italiani
Maltrattati Ingiustamente o anche Impiccheremo Mussolini Hitler.
E poi pesavo solo 38 Kg, con che forze potevo pensare di fuggire? Con questo
peso sono rimasto un anno e mezzo.
Di domenica si cercava anche di trovare un lavoretto presso le famiglie tedesche
della zona, come tagliare la legna, impilare il carbone, che era a cubetti. Una
volta ho riparato una macchina per tagliere il fieno, erano tutte occasioni per
avere un po’ di pane o qualcosa da mangiare. Mi è capitato di fare l‘operatore in
una sala cinematografica del paese in quanto il titolare si era ammalato. Per
uscire dal campo però si doveva sempre essere accompagnati; veniva il civile
interessato, firmava e ci portava sul luogo del lavoro. Finito doveva riportarci al
campo (n.d.r. il signor Novella è stato per ben 32 anni operatore presso la sala
cinematografica Verdi di Marano Vic.no).
Il capo ha sempre favorito che di domenica facessi qualche lavoretto e che così
potessi recuperare lentamente il peso che avevo prima dell’infortunio.
Conservo ancora una lettera che ho inviato
a casa il 6 novembre 1944 da Debra in cui
lamento che da 5 mesi non ho notizie da
casa, nonostante ogni domenica scrivessi
alla famiglia. Anche del fratello Giuseppe,
internato vicino a Vienna, non avevo da
tempo notizie. Nella lettera accenno anche
alla mano ferita. I pacchi con cibo e
vestiario non si vedevano; in tutta la
prigionia ne ho visto uno, anche se i
famigliari me ne avevano inviati parecchi,
andavano persi, sottratti dai guardiani. Ad
un compagno è arrivato un pacco con 4
Kg di pane biscotto, l’ha finito tutto in poco
tempo, si è gonfiato ed è morto. Parlando
con i prigionieri francesi noi sapevamo che
loro ricevevano pacchi attraverso la Croce
Rossa, ma a noi questo non era concesso.
Per i tedeschi noi meritavamo di morire tutti;
per loro eravamo dei traditori.
IL BOMBARDAMENTO DI BREBA
Il 4 dicembre del 1944, giorno di Santa Barbara, gli aerei americani3 hanno
lanciato dei foglietti scritti in tedesco, con disegnate note musicali. Abbiamo
chiesto che cosa volessero dire e loro ci hanno risposto che presto sarebbero
venuti a farci sentire la “musica delle bombe”. Dopo due giorni, ciò che avevano
annunciato è diventato realtà: gli aerei americani hanno lanciato bombe a
catena, lungo la ferrovia, distruggendola completamente, compresa la nostra
officina. Noi abbiamo fatto appena in tempo a scappare. Di cento, solo uno è
morto: proprio quello che aveva firmato per rientrare in Italia. Il giorno dopo il
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bombardamento abbiamo fatto ritorno in officina. Ci sembrava impossibile essere
ancora vivi, dato che in un’area come un campo sportivo abbiamo contato ben
110 buchi. L’officina era ridotta in macerie: della soffitta che era tutta in legno,
non era rimasto niente. Così fu anche per tutto il deposito a magazzino, che era
andato in cenere. Dopo due giorni abbiamo iniziato i lavori di sgombero delle
macerie. Tutti al lavoro! In quel momento di caos potevamo parlarci in italiano:
tutti d’accordo abbiamo nascosto tutto il materiale che potevamo (come punte
di widia, calibri) e cercavamo di sabotare anche i torni. Ultimato lo sgombero,
abbiamo ricostruito prima il solaio e poi il tetto, tutto di legno. Nel frattempo i
tedeschi avevano già recuperato, dalle varie razzie in Italia, Francia, Belgio e
Polonia, una buona quantità di strumenti e materiali: torni, frese e trapani. In circa
due mesi abbiamo ripreso la produzione di prima.
Sia di giorno, sia di notte, ogni giorno si sentiva l’allarme, anche se bombardavano
i paesi vicini. Quando abbiamo potuto contare i bombardieri, erano sempre da
duemila a tremila fortezze volanti. Un giorno ne abbiamo vista una staccata dalle
altre, forse in avaria: sette caccia tedeschi sono andati per abbatterla, ma la
fortezza, che sembrava in difficoltà, ha fatto fuoco con i cannoni 105, colpendo
cinque caccia tedeschi. Gli altri due sono riusciti a fuggire.
Ricordo che in occasione del bombardamento, fuggendo dall’officina per
mettermi in salvo nei campi, ho visto una casa bruciare e allora sono andato ad
aiutare a spegnere l’incendio. Il giorno dopo nell’armadietto in cui riponevo la
tuta e le mie cose, situato nell’officina, ho trovato due fette di pane. Alla fine ho
saputo che a metterle erano state le persone che avevo aiutato a spegnere
l’incendio.
ULTIMI GIORNI PRIMA DELLA RESA E LA FUGA
Quando i tedeschi hanno capito che la situazione per loro stava peggiorando, ci
hanno fatto sospendere il lavoro in officina per portarci a scavare buche anticarro
profonde tre o quattro metri, che si sono rivelate inutili in quanto gli Alleati hanno
usato la rete stradale. Due giorni prima dell’arrivo degli americani, il 30 marzo,
Venerdì Santo, i tedeschi mandarono verso il fronte 100 carri armati “Tigre”, fra i
più grossi di cui disponevano, i cingoli erano larghi 70 cm. Durante la notte
abbiamo visto in lontananza levarsi incendi, il fronte continuava ad avanzare e,
durante la ritirata, i tedeschi costringevano i prigionieri a trasportare munizioni e,
quando erano stremati dalla fatica, li uccidevano. Di 100 prigionieri, nella mia
fabbrica, eravamo rimasti in 10 perché la maggior parte si era data alla fuga.
Sabato 31 marzo, io con altri nove compagni avevamo capito che, se fossimo
stati catturati dai tedeschi, non avremmo avuto scampo, Approfittando del fatto
che nessuno ci controllava e sfruttando il buio della notte, ci siamo nascosti in un
sottopassaggio dello scalo merci di Bebra, adibito a rifugio antiaereo. Sopra di noi
avevamo cinquanta binari, in quanto si trattava di un grande scalo merci di
smistamento dei convogli. Nel rifugio c’erano delle panche e valigie lasciate lì dai
civili, nell’intento di salvare qualcosa. Nel buio più totale, perché mancava la luce
a seguito dei bombardamenti alleati, noi ci siamo nascosti sotto le panche e così,
nonostante dei soldati tedeschi siano scesi a controllare, non ci hanno visto. Lì
sotto siamo rimasti in silenzio, si potrebbe dire senza respirare, per non farci
scoprire. Alle due del mattino abbiamo sentito gli ultimi delle SS che si sono ritirati:
ciò significava che dopo di loro sarebbero arrivati gli americani. Prima che venisse
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l’alba del 1° aprile, quand’era ancora buio, siamo usciti senza essere visti, per
raggiungere il lager della fabbrica. Non c’era nessuno: nemmeno una guardia e
niente da mangiare. Affamati, di buon’ora siamo tornati allo scalo merci per
ispezionare i vagoni. Ce n’erano tanti e in un vagone proveniente dall’Italia,
abbiamo trovato riso, zucchero e carne. Ognuno di noi ha cercato di trasportare
più viveri che poteva nella baracca del lager. Verso le nove siamo ritornati
all’incrocio dove era ubicata l’officina, e proprio lì abbiamo udito dei rumori di
motore. Per paura ci siamo nascosti dietro a delle grosse piante. Sentendo che il
rumore si faceva sempre più vicino, abbiamo sbirciato lungo la strada e abbiamo
visto che si trattava di una jeep munita di mitraglia, ma non era un veicolo
tedesco, aveva una stella bianca; erano americani!
Con gioia, siamo usciti di corsa incontro alla jeep; c’erano a bordo tre americani,
dei quali uno parlava francese. Con la mitraglia ci hanno fatto capire di alzare le
mani, e quando hanno notato che sulla nostra divisa c’era la scritta I.M.I. ci hanno
ordinato di abbassarle e si sono avvicinati. Subito dopo ci hanno chiesto
informazioni sullo scalo merci e sull’esistenza di munizioni e armi. Noi abbiamo
risposto che avevamo visto tre vagoni e delle cisterne di benzina. Loro ci hanno
comandato di fare uscire tutta la benzina. Noi avevamo un’altra idea, quella di
utilizzare quella benzina per muoverci a bordo di un’auto, che avevamo vista ben
nascosta in un pagliaio. Avevamo pensato di tornare a casa con l’auto, ma non
c’era posto per tutti, allora solo quattro di noi hanno tentato il ritorno, ma
inutilmente: gli americani li hanno fermati, e, requisita l’auto, li hanno riportati
indietro. In Italia c’era ancora la guerra e non si poteva tornare. Torniamo al
momento dell’incontro con gli americani, ci hanno dato cioccolata e sigarette e
mentre parlavano con noi avevano la radio aperta da cui arrivava il rombo dei
loro carri armati. Giungevano da ovest e, arrivati al fiume Fulda, erano stati
bloccati perché il ponte era stato bombardato da loro stessi il giorno precedente.
L’avevano bombardato per impedire ogni via di fuga ai carri armati Tigre che due
giorni prima avevano tentato di contrastare la loro avanzata. E in effetti dei 100
Tigre nessuno tornò indietro. Senza il ponte, eravamo curiosi di vedere come gli
americani avrebbero risolto l’attraversamento del fiume Fulda. Siamo andati
convinti che avremmo assistito ad un’impresa spettacolare e la previsione trovò
conferma! Hanno scaricato dai camion e montato sulla strada il ponte, unendo le
varie parti, per una lunghezza di 25 metri: in un quarto d’ora, con l’aiuto di due
carri armati anfibi, lo hanno trascinato sull’altra sponda. Il primo carro armato è
entrato in acqua, ad un certo punto si è gonfiata una camera d’aria tutta
attorno, sopra i cingoli c’era un’ elica, che gli ha permesso di attraversare il fiume,
in quel punto largo 20 m. E’ poi arrivato un secondo carro armato che è pure
entrato in acqua, anfibio pure questo; il primo ha tirato il ponte verso l’altra
sponda, aiutato dal secondo carro armato da cui erano uscite due punte per
tenere sollevato il ponte. I due carri armati hanno poi collaudato il ponte e quindi
è arrivata la colonna di carri armati che correvano più delle jeep.
Nei giorni successivi gli italiani sbeffeggiavano i tedeschi, con frasi del tipo:
“Ora lavorate voi, che avete perso la guerra e avete i debiti di guerra da pagare
e da pagare anche noi”.
Noi non avevamo più paura di loro, anzi ci stavamo godendo il piacere di rifarci
per tutte le umiliazioni che avevamo sopportato. Questo nostro comportamento
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Le Porte della Memoria 2016
ha indotto il sindaco del paese a recarsi al comando americano, perché ci
facessero smettere.
I tedeschi inoltre avrebbero voluto che noi continuassimo a lavorare come prima,
restando chiusi nel campo di concentramento. Io e il mio amico di Bassano, Noè
Mocellin, non avevamo certo intenzione di lavorare per i tedeschi.
PER QUATTRO MESI IL LAVORO PER GLI AMERICANI
Dopo qualche giorno, noi due ci siamo recati al comando americano per
chiedere se potevamo lavorare per loro. Abbiamo trovato un italo americano che
parlava bene italiano e la nostra richiesta è stata subito accolta; ci hanno
accompagnati in jeep al campo di concentramento per salutare i nostri amici e
per prendere le nostre “quattro strasse” perché per quasi due anni avevamo
indossato quello che avevamo al momento della cattura, con toppe, rammendi,
pochi bottoni. Al ritorno abbiamo fatto immediatamente il bagno e indossato la
divisa americana.
Abbiamo avuto il corredo completo di un soldato
americano, quattro paia di scarpe, uno da
ginnastica, uno da libera uscita e due da lavoro, più
una tuta da lavoro e tre divise, con mutande, maglie
e calzettoni.
Il nostro cappello lo hanno messo sopra il sacco del
corredo; preciso che durante l’internamento
dovevamo sempre avere sul capo il cappello, anche
quando eravamo al lavoro.
Ci hanno consegnato nello stesso momento anche
un cartellino di riconoscimento, col quale avevamo
l’autorizzazione di circolare vestendo quella divisa.
La prima notte non ero tranquillo: mi sembrava
troppo bello che tutto fosse finito. Quando gli
americani sono venuti a dormire, dormivamo tutti Antonio Novella a sinistra con
assieme, un po’ brilli per le abbondati bevute di l'amico Noè Mocellin, in divisa
americana.
whisky, si sono accorti che io ero sveglio e quello che Le foto venivano fatte con due
parlava francese mi ha chiesto perché non dormivo. persone alla vota per risparmiare
Gli ho risposto: “Vorrei sapere se siamo vostri pellicola e stampa.
prigionieri o cosa altro”. Lui mi ha risposto: “Amici”.
La sera dopo ci hanno festeggiati con uno spuntino a base di salame americano,
con tanto pepe, bagnato da abbondonate whisky.
Il nostro lavoro consisteva nel tenere in ordine la dispensa e il magazzino, andare a
fare la spesa ogni giorno, per il comando, in un altro paese dove andavano tutte
le compagnie che erano dislocate in quella zona. Nostro compito era anche
distribuire il rancio al mattino, a mezzogiorno e a sera. Inizialmente ci avevano
mandati a distribuire dove c’era meno assortimento per problemi di comprensione
della lingua, poi come gli altri. C’erano sette qualità di vitto. Al giovedì arrivavano
dall’America i polli surgelati, le uova e gli ananas. Ogni giorno c’era il dolce o il
gelato. Dopo una settimana ci hanno fatto visitare dal loro medico, poiché
stavamo aumentando troppo di peso. Il medico ci raccomandò di mangiare un
po’ meno, ma per noi era difficile farlo e non approfittare di tutta quella
abbondanza, dopo aver patito tantissima fame. In due mesi e mezzo eravamo
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Le Porte della Memoria 2016
passati da 50 a 80 Kg: potevamo mangiare quanto volevamo, anche fuori orario!
Gli americani, visto l’affiatamento che si era creato fra noi, si misero in contatto
con il loro comando
dislocato in Italia per far
sapere alle nostre famiglie
che eravamo vivi, ma
soprattutto
perché
desideravano
che
partissimo assieme a loro
per l’America.
Dopo un mese, senza che
arrivasse nessuna notizia
dall’Italia, forse a causa
della guerra che ancora
non
era
finita,
la
compagnia è rimpatriata
senza di noi, che fummo
consegnati
a
quella
Documento di registrazione rilasciato dalle autorità americane ad
successiva.
Antonio Novella in data 30 aprile 1945. Notare che la residenza è il
lager Bebrit.
Abbiamo continuato a
lavorare fino a metà luglio quando è partita per l’Italia l’ultima tradotta. Questi
ultimi non si erano affezionati a noi come gli altri, anche se era brava gente lo
stesso. Ci hanno detto di prendere la nostra roba e in poco tempo siamo partiti
con il comando americano addetto alla tradotta verso l’Italia. L’ultima sera prima
della partenza, ci hanno messo a disposizione la cucina: potevamo mangiare
quello che volevamo. Io sono arrivato a dodici uova, il mio amico a trentasei. Per
riuscire a mangiarle tutte, alternava la birra alle uova. Per il viaggio mi sono
riempito la gavetta di arachidi tostate.
Dagli americani siamo stati pagati con 160 Marchi d’occupazione al mese più
vitto e alloggio.
IL RIMPATRIO
Durante il viaggio per Innsbruck, mangiavo (quando avevo fame) le mie arachidi,
le quali mi hanno sfamato per cinque giorni e cinque notti. Al mattino e alla sera,
senza bisogno di scendere dal treno ci consegnavano biscotti e latte condensato
che io prendevo anche per gli altri. Eravamo ormai poco lontano dalla stazione di
Innsbruck quando nel treno sono accaduti due fatti che non posso dimenticare: il
primo, a seguito di una brusca frenata ad un semaforo, alcuni prigionieri che si
erano sistemati seduti sulla porta colle gambe a penzoloni fuori dal treno, sono
stati colpiti dalla porta che si è chiusa di scatto, non essendo stata bloccata. Uno
ha perso una gamba. A poca distanza di tempo dal primo fatto, uno che si
trovava sul tetto del vagone, subito dietro a dove mi trovavo, non avendo trovato
posto all’interno, intento a cantare, non si è accorto che il treno stava
imboccando un sottopassaggio. E’ stato sbalzato e si è fermato nello spazio fra un
vagone e l’altro. Entrambi sono stati soccorsi e portati in ospedale dagli
Americani. Quale sia stata la loro sorte non posso saperlo. Quando siamo arrivati
ad Innsbruck, gli americani ci hanno condotti con i camion in una caserma: là, per
disinfettarci, usavano il DDT in polvere. Siamo rimasti fermi due giorni, per poi
12
Le Porte della Memoria 2016
ripartire, sempre con i camion, alla volta della stazione, presso la quale la tradotta
era pronta per partire. Si trattava di vagoni merci, come quelli che si usano per il
trasporto del bestiame.
Il 29 luglio 1945, giunti al Brennero, siamo scesi per cambiare locomotore ed
abbiamo atteso un’ora.
Appena posato il piede in terra italiana, tutti indistintamente, dalla commozione di
quel momento tanto desiderato, abbiamo baciato o mangiato la terra: fu una
scena indescrivibile. Ripartiti, abbiamo proseguito fino a Pescantina, dove
abbiamo trovato i volontari della Croce Rossa. Il nostro viaggio finiva lì. Per
proseguire avremmo dovuto arrangiarci come potevamo, con mezzi di fortuna.
Noi del Veneto siamo scesi per strada in attesa che passasse qualcuno. Io,
assieme ad altri, sono stato trasportato fino a Vicenza da un conducente di
camion, che trasportava materiale. Poi mi sono diretto verso la località “Albera”, e
anche lì ho trovato un camionista che mi ha dato un passaggio fino a Thiene,
dalle suore4, presso le quali ho lasciato lo zaino. Infine, a piedi, seguendo la
ferrovia, sono arrivato a casa. Non mi aspettava nessuno, perché non ricevevano
mie notizie da cinque mesi. Avevano saputo che ero vivo dal mio amico di
Santorso, con cui avevo lavorato sulla ferrovia, rientrato a casa tre mesi prima.
I miei genitori avevano conservato tutte le lettere e volevano sapere cosa avevo
scritto nei pezzi che erano stati cancellati, cioè censurati per via della guerra. Io
ho saputo solo al mio ritorno che quello che raccontavo veniva controllato e
manomesso: tra le varie cancellazioni, c’era anche la notizia del mio ricovero in
ospedale. L’unica cosa che si poteva comunicare consisteva nella notizia che
stavamo bene e che eravamo rinchiusi. Non ci era concesso comunicare
nemmeno che ci facevano lavorare. Le cartoline che spedivo disponevano di
una parte bianca che sarebbe servita per la risposta dei miei genitori. Alcune non
mi sono mai giunte indietro.
A casa, con gioia, ho potuto riabbracciare, oltre ai miei genitori, anche tutti i miei
fratelli. Appurato che i miei familiari stavano bene, il mio pensiero andava a un
mio coscritto che si era ammalato di tubercolosi durante il militare, e così sono
andato subito a trovarlo. Purtroppo le sue condizioni non erano buone, e dopo tre
mesi morì.
Il giorno seguente al mio arrivo è venuto a farmi visita il parroco del paese con il
quale ho avuto una piacevole chiacchierata. Poi mi sono recato dai carabinieri
per avvisarli del mio arrivo. Per completare i miei doveri, dopo circa un mese, mi
sono recato al distretto militare di Vicenza, per dichiarare la mia prigionia e
ricostruire la storia di tutto quello che mi era accaduto. Dopo quattro anni, sono
stato chiamato a presentarmi all’ospedale di Padova per un controllo delle
condizioni di salute della mano, bucata durante la prigionia. Fin dalla prima visita,
mi è stata riconosciuta un’invalidità corrispondente all’ottava categoria. Sono poi
state necessarie otto visite di controllo e dieci anni di tempo, perché mi
riconoscessero l’invalidità a vita.
RITORNO ALLA QUOTIDIANITA’
Da questo momento il problema principale era trovare un’occupazione duratura
e il momento era molto difficile. Nella ditta presso la quale ero occupato prima di
partire per il militare, dai “Fratelli Ruaro”, non c’era lavoro, così sono andato a
Zanè, da Corà, dove sono stato assunto subito, poiché avevo la precedenza sugli
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Le Porte della Memoria 2016
altri per essere stato prigioniero di guerra. Purtroppo lì sono rimasto per poco
tempo, perché l’azienda non andava bene, perciò ho chiesto di essere assunto
da “Costa”, a Marano Vicentino, dove mi hanno assunto subito.
Con questo termina il racconto dei miei ricordi di una parte della mia vita che solo
dopo tanto tempo sono riuscito a far riemergere dal profondo, condividendola
anche con i ragazzi delle medie attraverso l’interessamento del prof. Oreste
Graziani (che per molti anni ha chiesto il mio intervento nelle scuole). La mia vita,
però, non ha ricordi solo di guerra, fortunatamente è ricca anche di forti emozioni
provate nel prestare il mio lavoro a favore di popolazioni cosiddette del Terzo
Mondo, ma molto ricche di umanità, dalle quali ho ricevuto molto; ma questa è
un’altra storia…
IL VOLONTARIATO IN AFRICA
Nel 1980 il sig. Antonio ha trovato modo di iniziare un nuovo impegno a favore di
chi ha meno, mettendo a disposizione le sue conoscenze tecniche accumulate in
anni di lavoro. Ha collaborato alla creazione di due centrali idroelettriche, una nel
Congo Zaire e una in Tanzania. Nel periodo 1980-1987 ha passato in questi paesi
molti mesi per lavorare in particolare all’installazione di due turbine donate da
note ditte locali. La prima opera è stata realizzata nella zona di Kiringye nello Zaire,
verso il confine con il Burundi e la seconda a Matembwe, in Tanzania, fornendo
così energia elettrica al villaggio e a un mangimificio collegato ad un
allevamento di polli.
Nel 1987 è stato invitato a tornare in Tanzania per visitare l’impianto completato e
funzionante, assieme alla moglie.
Più che meritato il cavalierato della Repubblica Italiana concesso dal Presidente
della Repubblica nel 1986.
Gli incontri con il sig. Antonio Novella sono avvenuti nei giorni 11 e 18 novembre e
2 dicembre 2015, alla presenza della nuora signora Oriana che ringraziamo,
assieme al sig. Antonio, per la disponibilità e l’accoglienza che ci hanno riservato.
B.Gramola e D.Vidale, Sulla giacca ci scrissero IMI, Cooperativa Tipografica degli Operai
– Vicenza, dicembre 2003. Testimonianza di Giulio Rosa di Arzignano, pp. 114 – 118.
2 La fabbrica dovrebbe essere la GmbH di Bebra, conosciuta anche col nome Bebrit
Preβstoffwerke. Bebrit è il nome commerciale della bachelite.
3 Bebra-Wikipedia https:/de.Wikipedia.org/wiki/bebra. Il 4 dicembre 1944 Bebra fu
bersaglio di un bombardamento aereo americano. La stazione, che era l'obiettivo
dell'attacco è stata solo leggermente danneggiata, ma tutte e tre le chiese e 43 case
sono state distrutte, uccidendo 64 persone e causandoüü molti feriti. Come era
consuetudine, è stato vietato alla stampa di riferire dell’attacco e delle vittime. Il 2 aprile
1945, Bebra fu occupata dalle truppe americane.
4 Danilo Restiglian, Orfanatrofi “Chilesotti - Velo”, tipografie G.R. grafiche, Vigardolo di
Monticello C.O., settembre 2003, pag. 45. Presso l’orfanatrofio Chilesotti Velo è stata
predisposto un Posto di ristoro per soldati rimpatriati dai lager del Terzo Reich. Era un luogo
dove potevano trovare un pasto caldo, dove poter riposare, in attesa di raggiungere le
loro case. Erano le suore Eufrosina e Bertilla le più impegnate in questa opera.
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14
Le Porte della Memoria 2016
Non ho subito particolari maltrattamenti, ma ero convinto
che non sarei tornato a casa…
Ricordi di prigionia del maranese Giuseppe Novella, classe 1922
COME HO VISSUTO L’8 SETTEMBRE
L’8 settembre mi trovavo a Bolzano, a Gries dove c’erano due caserme una del
Genio e una del 232° Fanteria, io ero in quella della
fanteria.
Mi trovavo in libera uscita e alle 20 sono rientrato
per sentire cosa si diceva in caserma delle novità in
merito all’armistizio. Ero con altri e siamo stati subito
bloccati e portati in cortile fino a mezzanotte per
aspettare una decisione da parte degli ufficiali, poi
siamo stati mandati a dormire. Alle tre si sentono
rumori e spari, la caserma si trovava ai piedi del
monte e da quella parte non si poteva scappare; è
arrivato al passo carraio della caserma un carro
armato tedesco e ha cominciato a sparare dentro
al cortile pallottole traccianti e ad un certo punto
hanno buttato dentro anche dei bengala per
illuminare il cortile. Hanno demolito il portone di
ingresso e hanno ucciso chi era di sentinella. Hanno
fatto suonare la sveglie e tutti in cortile con lo zaino
con all’interno le “quattro strasse” che avevamo e Giuseppe Novella, l'ultimo a destra
siamo stati fermi in cortile fino alle 6 di mattina. A a Bolzano il 17/10/1942 ( XX E.F.)
gruppi ci portano dentro al torrente Talvera, che
attraversa Bolzano. Siamo stati sorvegliati da due carri armati, uno alla fine e uno
all’inizio del grande gruppo che si era ormai formato e 4 soldati sulla sponda e noi
tutti dentro nell’alveo del torrente, l’acqua era poca. Siamo rimasti lì tutto il giorno,
alla sera hanno cominciato a riempire le tradotte e portarci via; ci portavano in
stazione e poi via, non sapevamo niente. Noi eravamo disarmati e gli ufficiali sono
stati fatti partire per primi assieme a quelli del Corpo d’armata. Io sono stato fra i
primi a partire alla sera, alle 9 del giorno 9.
LA DEPORTAZIONE
Hanno riempito i vagoni fin che ce ne stavano e chiuse le porte, siamo arrivati la
mattina dopo al campo di concentramento1. C’erano dei capannoni molto
grandi per ospitarci con letti a castello a tre piani. Ci hanno ritirato gli zaini, ci
hanno fatto fare il bagno, tagliati i capelli a zero. Il mio numero di matricola era il
90540. Già dai primi giorni sono arrivati dei fascisti italiani per invitarci con le buone
e con le cattive ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ma nessuno di noi ha
aderito. Lì si viveva alla giornata senza fare niente. Dopo qualche giorno ci hanno
portati in una cava di ghiaia; ho lavorato ad estrarre ghiaia e a portarla fuori dalla
cava.
15
Le Porte della Memoria 2016
IL LAVORO NELLA FABBRICA DI GOMMA
Dopo circa due mesi ci hanno portati in una fabbrica che produceva articoli di
gomma, la Semperit2 a Vimpassing im Schwarzatale (a 140 Km circa da Krems e a
80 Km a sud ovest di Vienna). Dal campo, che distava circa un Km dalla fabbrica,
si partiva al mattino, eravamo una ventina, accompagnati da una guardia. Nella
fabbrica lavoravano circa 3.000 operai; venivamo distribuiti nei vari reparti dove si
facevano tutti prodotti in gomma, dalle scarpe, ai copertoni per auto, dai mantelli
Cartolina postale precompilata dove il termine
prigioniero è stato sostituito da "internato militare".
per la pioggia, alle camere d’aria. Io sono stato assegnato al reparto dove
facevano cinghie trapezoidali che si usano in tutte le auto. La vita era sempre
uguale, sveglia e si andava al lavoro dalle 6 alle 6, si facevano 12 ore, una
settimana di giorno e una settimana di notte. Tutti quelli che lavoravano nella
fabbrica erano prigionieri, molti italiani, francesi e dei paesi dell’Est, anche donne.
Il capo del mio reparto era un tedesco sulla cinquantina.
Il lavoro consisteva nell’assemblare del materiale che proveniva da altri reparti,
mettere dei fili di seta all’interno di una guaina di gomma larga 4 cm, si
aggiungeva una fettuccina di gomma e poi si chiudeva e si incollava. Operando
su una ruota bisognava fare tre giri completi per ispessire il prodotto che poi
veniva messo in forno a cuocere. Si ottenevano così le cinghie trapezoidali.
Avevamo dei tempi per fare il lavoro e bastava che li rispettassimo. A seconda dei
turni di lavoro, a mezzogiorno o alla mezzanotte ti davano la minestra. La fabbrica
Semperit è nel paese di Wimpassing, un piccolo paese. Questa fabbrica è ancora
attiva. Il lager era ad 1 Km dalla fabbrica. Il lager era per noi italiani, un centinaio;
poi c’erano degli altri prigionieri, ma erano sistemati in altri luoghi. Eravamo una
ventina per baracca, con letti a castello. Nel settembre 1944 sono diventato
lavoratore libero, ma nella pratica non è cambiato nulla. Da metà del ’44
partivamo da soli dal lager per raggiungere la fabbrica, non più accompagnati.
Ricordo che un carabiniere di Bolzano che sapeva il tedesco, pure lui prigioniero,
ottenne un permesso per tornare a casa per il funerale di un genitore, ma poi si
guardò bene dal fare ritorno.
16
Le Porte della Memoria 2016
Lo rividi alla fine della guerra a
Bolzano.
La fabbrica è stata frequentemente
sorvolata da aerei alleati, ma a
parte qualche modesto danno, gli
aerei sono sempre andati oltre e
non hanno bombardato. Ad ogni
allarme correvamo a ripararci in
una galleria sotto la collina, che era
I prigionieri venivano pagati con i Reichsmark che non
al di là della strada dove sorgeva la
permettevano alcun acquisto in quanto non c'era nulla da
fabbrica. Delle volte ci fermavamo
comperare.
anche a guardare gli aerei
sperando che mettessero fine alla nostra sofferenza. Pensavo che non sarei
tornato vivo; noi interessavamo ai tedeschi solo per il nostro lavoro, per il resto
valevamo nulla!
Da casa non ho mai avuto notizie, neanche da mio fratello Antonio che era pure
lui prigioniero dei Tedeschi e non ho mai avuto pacchi con vestiario e viveri.
LA LIBERAZIONE
Ho sempre lavorato in questa fabbrica, fino al 1° aprile 1945, giorno di Pasqua,
quando ci hanno fatto svegliare prima del solito. Si sentivano forti i colpi di
cannone, provenienti da est, sparati dall’Armata Rossa, ormai vicina.
Ci hanno messo in strada alle 5 del mattino e ci hanno accompagnati per
qualche Km per poi lasciarci proseguire da soli. Abbiamo chiesto a dei contadini
ospitalità per la notte. Il giorno dopo abbiamo continuato ad andare avanti;
qualcuno voleva tornare indietro, al lager. Siamo rimasti in un gruppetto di 4/5 e
abbiamo proseguito cercando di mantenere la direzione verso il Brennero. Per
fortuna che con noi c’era un trentino di Mezzolombardo, un certo Tai, che parlava
il tedesco. Il nostro peregrinare per tornare a casa è durato ben 16 giorni.
Abbiamo vissuto così, chiedendo ospitalità e qualcosa da mangiare nelle case
isolate di contadini.
Siamo arrivati a Innsbruck. Lungo la strada non abbiamo mai incontrato gli Alleati;
l’unico incontro che ricordo è stato con un gruppo di deportati scortati da soldati
tedeschi, ma noi siamo rimasti alla larga. Da lontano abbiamo potuto vedere che
quando qualcuno dei deportati non riusciva a proseguire, veniva ucciso.
A Innsbruck c’era un centro di raccolta, gestito dai tedeschi. Ci hanno fatti
sistemare in attesa che alla sera partisse una tradotta per l’Italia. Ad un certo
punto ci hanno portati in stazione e ci hanno fatti salire su un treno. Eravamo già
partiti quando uno, che parlava italiano, ci ha avvertito che quel treno non era
diretto in Italia, ma verso ovest, in direzione della Svizzera, mentre quello per l’Italia
partiva più tardi. Ci ha invitato a scendere alla prima stazione con queste parole:
“Scendete fin che siete in tempo perché vi stanno portando a scavare fossi
anticarro per fermare i carri armati alleati”.
Così siamo scesi alla prima fermata, siamo tornati al centro di raccolta e
finalmente abbiamo preso il treno giusto per il Brennero. Al Brennero siamo scesi e
abbiamo dormito in dei capannoni e alla mattina abbiamo preso il treno per
proseguire verso sud. In alcuni tratti la ferrovia Brennero Bolzano funzionava
ancora e alla sera, dopo una giornata di viaggio, siamo arrivati a Bolzano. Nel
17
Le Porte della Memoria 2016
centro di raccolta ci hanno dato una minestra e un pomo. La sera stessa i
tedeschi ci hanno portati in un luogo dove era in partenza un camion rimorchio
pieno di fusti di benzina e noi, eravamo in 5, con me c’era un certo Stocchero che
abitava “in fondo a Marano”, uno di Verona, uno di Mantova, e uno di
Mezzolombardo, siamo saliti. Ad un certo punto il camion, per evitare di essere
colpito dagli aerei alleati, ha spento i fari e così siamo arrivati a Mezzolombardo
dove è sceso Tai. Arriviamo a Verona, il camion rimorchio era diretto a Milano, io e
Stocchero siamo scesi. Abbiamo chiesto notizie del treno per Vicenza, ma ci è
stato risposto che la linea Verona Vicenza non funzionava, funzionava invece il
trenino a scartamento ridotto Verona San Bonifacio. Ora questa tratta non c’è più.
Ad un certo punto c’è un allarme e tutti scendiamo scappando nei campi. Arrivati
a San Bonifacio non si poteva più proseguire e allora abbiamo proseguito a piedi
fino ad Arzignano. Abbiamo trovato un compaesano di Marano, un certo Pento,
che faceva attività di trasporto e sul carretto aveva su due sacchi di sale e più
avanti doveva caricare dell’altro e così abbiamo proseguito con lui fino a
Castelgomberto. Lì ci siamo dovuti fermare per l’entrata in vigore del coprifuoco.
Siamo stati accolti da una famiglia di contadini che Stocchero conosceva; ci
hanno dato una scodella di latte con un po’ di pane e abbiamo dormito in stalla.
All’indomani abbiamo ripreso il cammino per Priabona e finalmente in mattinata
siamo arrivati a casa.
Così Giuseppe, il fratello maggiore, tornò a casa il 16 aprile, prima della
Liberazione, e il minore, Antonio, il 31 luglio 1945.
Gli incontri col signor Giuseppe Novella sono avvenuti assieme al fratello Antonio,
alla presenza della signora Oriana, nei giorni 18 novembre e 2 dicembre 2015.
Anche al sig. Giuseppe il nostro grazie per la disponibilità e l’accoglienza che ci ha
riservato.
Si tratta del campo Stammlager XVII di Krems an der Donau sul Danubio, 70 Km a ovest di Vienna.
Era solo un campo di transito in attesa di una destinazione dove lavorare.
2
Semperit è un termine che deriva dal latino “semper est” col significato esteso di “corre sempre”.
L’azienda fu fondata nel 1850 a Wimpassing, in Austria, e fu la prima fabbrica europea di articoli in
gomma. La produzione di pneumatici inizia nel 1900 e da allora il marchio Semperit è stato
sinonimo di qualità e sicurezza.
1
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Le Porte della Memoria 2016
Il Gruppo Huomologando
impegnato a far conoscere
fra i giovani le figure dei Giusti
Lo scorso 6 marzo è stata celebrata la terza
Giornata Europea dei Giusti e per questo il
gruppo giovanile Huomologando ci ha dato
appuntamento sabato 7 marzo nel Giardino
dei Giusti di via Basilicata. Quello che segue è
l’intervento di Abramo Tognato che a nome
del gruppo ha introdotto l’incontro che ha
richiamato la presenza di molte persone e di
molti giovani, fra cui i Giovanissimi della
Parrocchia dei Cappuccini.
Ringraziamo
il
gruppo
Huomologando
sempre pronto a dare la disponibilità ed
impegno ad animare momenti di riflessione
per far crescere fra i giovani una cultura di pace, di legalità e dei diritti umani.
Essere Giusto secondo noi non è esigere la giustizia, nel senso di applicare le mere
leggi, anche perché le leggi stesse possono essere inadeguate, ingiuste appunto.
Il concetto di Giusto non si applica ad un gruppo di uomini che hanno deciso di
vivere insieme ponendosi delle regole.
Il concetto di Giusto invece si applica al singolo uomo che decide di vivere
insieme ad altri uomini, che ci siano o meno già delle regole di convivenza.
Il concetto di Giusto richiama la sua arcaica etimologia, ovvero "la persona che
vuole e fa il bene e che rifugge il male". E per bene non si intende certo l'egoistico
bene personale, ma piuttosto "quello che si desidera in quanto è conveniente alla
natura umana".
Non è il singolo al centro, non sono io che cerco il bene per me, è la natura
umana che ci offre il dono, il talento, la spinta per affrontare la paura: in fin dei
conti è proprio così, gli animali di
fronte
ad
un
evento
potenzialmente
pericoloso
scappano, il loro istinto non dà
spazio a null'altro se non alla fuga.
L'uomo no, l'uomo di fronte al
pericolo ha una forza in più, può
valutare se il pericolo è dannoso
solo per sé o anche per gli altri. E
può anche decidere di affrontare
la paura o con l'istinto alla fuga
come gli animali, o con una re19
Le Porte della Memoria 2016
azione, cioè un'azione che va contro l'istinto. Tutti agiamo spesso con l'istinto, non
tutti invece sanno valutare se reagire con il coraggio. Di sicuro, se sappiamo che
anche altri hanno deciso di non fuggire davanti al pericolo, ci è molto più facile
scegliere di reagire anche noi senza scappare.
Ed ecco quindi la seconda virtù dell'uomo, la collaborazione con altri uomini. E
non a caso il Giusto che vogliamo
ricordare quest'anno, Gino Bartali, ha
vissuto entrambi i talenti, prima
scoprendo
che
fare
il
bene
significava aiutare chi era veramente
in pericolo di vita, e secondo che
l'aiuto è molto più valido se a reagire
non si è da soli. Ed è anche per
questo che abbiamo scelto Gino
Bartali come uomo da scoprire,
perché per non sentirci soli quando
facciamo il bene per gli altri ci torna
utile il ricordo del suo esempio e della sua vita. L'essere umano può scegliere di
affrontare il pericolo ma anche la vita di tutti giorni, cercando, chiedendo o
offrendo l'aiuto agli altri, anche perché non dimentichiamoci che "ci vogliono due
pietre focaie per accendere un fuoco".
Il gruppo Huomologando ha deciso di iniziare con
questa lettura il breve spettacolo teatrale in
memoria del campione toscano: per la Giornata dei
Giusti, 6 marzo 2015, non c'era luogo migliore del
giardino dei Giusti di Thiene, sito in via Basilicata. Uno
spettacolo che ha messo al centro non tanto
l'eroismo di Bartali nel compiere centinaia di
chilometri al giorno
nascondendo preziosi
documenti,
quanto
invece la semplicità e
la naturalezza con cui
ha
compiuto
tali
gesta. Non a caso a
fine
spettacolo
i
ragazzi del gruppo
hanno distribuito un
semplice adesivo qui
riprodotto
20
Le Porte della Memoria 2016
Nel fascicolo delle Porte della Memoria 2007 abbiamo riportato questa importante
testimonianza di Angelo Raffaello, purtroppo deceduto nel 2012. La riprendiamo
nuovamente per sviluppare una parte che a Lui stava molto a cuore e che più
volte sollecitò perché se ne scrivesse: la detenzione nel Forte di San Leonardo di
Verona, dal maggio al luglio 1944, che Lui ricordò fino alla fine dei suoi giorni per la
durezza bestiale.
Come ho vissuto i 20 terribili mesi dall’8 Settembre 1943
al 5 Maggio 1945
di Angelo Raffaello.
8 settembre 1943. L’Italia è allo stremo e cede le armi. I tedeschi hanno ormai già
invaso tutto il Paese; con la loro ferocia e potenza hanno eliminato in poco tempo
le ultime sacche di resistenza. I fascisti stanno risorgendo, sono povera gente e,
invece di collaborare per mettere fine alla guerra, massacrano, rubano, stuprano.
Non amano la Patria, danno sfogo ai loro istinti bestiali, armati e appoggiati dai
tedeschi. Tanti sono i fatti da ricordare.
Molta, tanta era la gente da aiutare; nelle nostre valli erano confinati centinaia di
ebrei senza nessun diritto. Se fossero stati presi, sarebbe stata la loro fine. Ma molta
gente coraggiosa e dal cuore buono, rischiando la propria vita e quella dei
familiari, li aiuta a fuggire, per lo più in Svizzera, e a mettersi in salvo1.
A seguito di questa situazione cominciarono a nascere, attorno a uomini guida e
di grande esempio, delle formazioni di resistenza e difesa. L’ing. Giacomo
Chilesotti fu uno di questi, figlio di una grande famiglia. Assieme ai fratelli Rocco,
ex ufficiali di Belvedere di Tezze, e ad un ufficiale italo-americano, con una
stazione radio tenevano informati gli alleati di tutti i movimenti tedeschi e fascisti.
Io fui presentato a Chilesotti da Mario Saugo2 l’ 8 dicembre 1943 e fui ben
accettato. Gli alleati stavano preparando un lancio di varie cose; partimmo il 2
gennaio ’44 per la val Galmarara di Asiago. Faceva molto freddo e c’era un
metro di neve.
Ero con Chilesotti, i fratelli Rocco, Mario Saugo, due prigionieri inglesi, uno sudafricano e uno neozelandese, l’ing. Carli e i fratelli Rigoni di Asiago. Restammo
nascosti in una baita per cinque giorni ad aspettare, ma a causa del cattivo
tempo il lancio non avvenne.
Fu fatto poi in val di Nos, sempre sull’Altopiano, il 19 e 21 Marzo.
Aiutai Chilesotti e Saugo a portare una parte delle armi a Thiene, ma durante uno
di questi viaggi io e Saugo fummo catturati, il 5 Aprile, dai fratelli Caneva di
Asiago. Per fortuna addosso non avevamo nulla. Ci consegnarono ai tedeschi e
da qui cominciò il mio calvario.
Fummo portati prima in prigione a Thiene, poi a Vicenza a San Biagio. Il carcere
era strapieno, molti erano genitori anziani, tenuti come ostaggi perché i figli erano
renitenti; molti di questi erano disperati perché non avevano notizie dei figli.
Nel frattempo a Thiene era stato ucciso il Commissario Prefettizio Dal Zotto. Per
mettere in atto una rappresaglia furono portati da Thiene a San Biagio vari
ostaggi, conosciuti come antifascisti, tra i quali Vecelli, Fontana, Tagliapietra, Berto
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Le Porte della Memoria 2016
e Costa da Marano. A volere la rappresaglia era il famigerato capitano Polga, ma
fu fermato in tempo e più tardi sarà ucciso a Priabona.
Vicenza subì alla metà di maggio un terribile bombardamento, come qualche
settimana prima Treviso. Molte bombe caddero attorno alla prigione.
Il 20 maggio fui trasferito a Verona al forte San Leonardo, uno dei più duri luoghi di
prigionia dei nazifascisti. Eravamo stipati in 70-80 in due camerate. Per i nostri
bisogni c’erano i cosiddetti “boioli”, mastelli di legno dall’odore tremendo che alla
mattina andavamo a svuotare e lavare; per l’aria c’erano tre feritoie e l’anzianità
di prigione dava diritto a stare più vicini ad esse. Accanto alla nostra c’era la cella
degli ufficiali, tra i quali il generale Caracciolo3, da noi era chiamato il “fantasma
del castello” per la sua presenza austera e marziale, barba e favoriti (basette
folte, lunghe fino all’altezza del mento) bianchi e abbondanti. Altro ufficiale
imprigionato era il colonnello dei carabinieri Giorgi4 con suo figlio, trattenuti per un
mese al comando delle SS e poi deportati a Dachau, dove il figlio morì di stenti. Il
padre si salvò e divenne più tardi comandante generale dell’Arma.
Il nostro passatempo era quello di uccidere pidocchi e cimici che infestavano i
nostri materassi e ci tormentavano notte e giorno, finché i tedeschi non decisero di
procedere alla disinfestazione, con la conseguenza che per settimane il nostro
Il Forte San Leonardo, prigione nazista dal
1943 al ’45.
e oggi Santuario della Madonna di Lourdes
letto era un tavolato che ci procurò ematomi alle anche.
Al pianterreno c’erano le donne e la cella dei condannati a morte. Questi ultimi
nella mezz’ora d’aria quotidiana, giravano attorno al pozzo e si sentiva il rumore
degli zoccoli e delle catene. La chiamavamo la “danza della morte”. Ricordo una
russa di bassa statura, che parlava correttamente cinque lingue, accusata di
spionaggio. Fu fucilata al forte San Procolo, dove vennero giustiziati i gerarchi del
“processo di Verona”.
Ricordo la cantante lirica che alla sera cantava per il suo uomo, un ingegnere
della Fiat in cella con me. Fucilati entrambi. Di giorno si chiacchierava del più e
del meno, ma sempre con cautela e diffidenza reciproca; non si sapeva mai
come poteva andare a finire! Ma quando si sentivano le voci delle SS era un
silenzio totale. A chi sarebbe toccato ?
Dopo l’ interrogatorio i prigionieri venivano riportati in cella massacrati dalle torture
e venivano gettati dentro come fossero stracci, oppure dovevano prendere le
proprie cose e passare di sotto andando così incontro alla morte.
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Le Porte della Memoria 2016
La notte era un tormento, chi chiamava la mamma o i famigliari, chi urlava, chi
piangeva.
Una notte bombardarono San Zeno e Borgo Trento5, dove erano situati i comandi
militari. Vidi attraverso il lucernario la piazza illuminata a giorno dai bengala, le
donne che scappavano con i loro fagotti e i bambini per mano; all’improvviso udii
un grande scoppio e vidi saltare tutto in aria. L’ospedale militare fu colpito in
pieno con 32 morti; dopo una settimana furono
incarcerati il colonnello medico e il suo assistente
perché secondo le SS avevano trascurato l’assistenza.
Devo un riconoscente ricordo alle persone, inviate dal
Vescovo di Verona6, che ci portavano con regolarità
cibo e perfino caramelle dissetanti!!
A fine luglio fui trasferito nel lager di Bolzano7 e dopo
una settimana fui destinato alla deportazione. Il nostro
convoglio era formato da 320 persone e comprendeva
un gruppo di ebrei provenienti dalla Liguria e dalla
zona di Como, sette preti, 25 donne8.
I convogli arrivavano alla meta sempre di sera, con
l’oscurità.
La località si chiamava Mauthausen, il fiume era il
Danubio, in cima alla collina la fortezza. Ci fecero Angelo Raffaello al tempo
scendere con urla e botte e a salire a piedi fino alla della prigionia.
fortezza; ci fecero stare tutta la notte all’esterno. Alla mattina abbiamo potuto
vedere la desolazione: alte mura con il filo spinato con la corrente elettrica ad
alta tensione, carcerati che si trascinavano avanti a fatica, ridotti a pelle e ossa.
Vidi anche qualcuno a terra che non ce la faceva più. Due camini fumavano in
continuazione.
Pensavo fossero le cucine! Erano invece ben altro: erano i forni crematori.
Ad un certo punto accadde una cosa impressionante: a ciascuno diedero 50 g di
pane nero e ammuffito. Noi che eravamo ancora in forze e abbastanza nutriti, lo
abbiamo pulito dalla muffa, lasciando cadere delle briciole. La
cosa non sfuggì ad un condannato che si buttò per terra e
malgrado che il kapò lo riempisse di botte con il bastone sulla
testa e sul corpo, continuò a raccogliere le briciole, finché si
girò da una parte svenuto.
Dopo una decina di giorni9, al momento dell’appello ci dissero
che eravamo ritenuti abili per lavorare, a condizione che
firmassimo un documento bilingue10 in cui ponevano le loro
condizioni. Traduceva un avvocato ebreo di Como arrivato
con il mio convoglio che poi morì di stenti nel lager. Accettai.
Fummo trasferiti a Linz in uno stabilimento chimico11 con 12 ore La dichiarazione di
di lavoro al giorno, sotto vari bombardamenti, tra i quali quello impegno che i
del 30 Aprile, l’ultimo della guerra, che durò quattro ore. Nella deportati dovevano
zona erano arrivati dal Friuli i cosacchi filo nazisti dell’armata sottoscrivere per
del generale Vlasov con i loro cavalli e i lunghi fucili, poter lasciare il lager
ed essere avviati al
accompagnati dalle famiglie su carrette. Il bombardamento lavoro coatto.
provocò fra loro una carneficina.
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Le Porte della Memoria 2016
Finalmente il 5 Maggio arrivarono gli
Americani!
I superstiti del campo di prigionia furono
trasferiti all’ospedale di Linz per essere
curati, visto che le loro forze erano ormai
al limite per la denutrizione. Tra i ricoverati
riconobbi Marcante Pietro di Zanè
gravemente malato. Lo rividi anche in
ospedale a Thiene dove morì tre giorni
dopo l’arrivo dall’Austria. Alla liberazione
il mio peso era di 42 Kg.
Tutte queste sofferenze sono dedicate al
nuovo modo di vivere, nella Libertà e nel
sistema democratico, dove tutti possono
dare il meglio di se stessi. W LA LIBERTA’!
Tessera intestata a Raffaello Angelo, in data 1
gennaio 1945, per poter accedere ai servizi Ricordi di Raffaello Angelo, classe 1923,
mensa ed altro, del campo per lavoratori scritti per il Giorno della Memoria 2006
stranieri a cui era assegnato e che si trovava
nel quartiere Lustenau di Linz.
I Forti San Leonardo e San Mattia di Verona, fra i luoghi di
reclusione degli oppositori durante la Repubblica Sociale
Italiana
Del sistema carcerario nazifascista di Verona ci sono alcuni testi che riportano
documenti e testimonianze, in particolare abbiamo trovato interessante “Prigionia
e deportazione nel veronese” di Gracco Spaziani e Paola Dalli Cani, Cierre
Edizioni, ANED, maggio 2012, testo a cui si sono riferiti anche gli studenti dell’Istituto
Professionale Sanmicheli di Verona per una recente ricerca (anno scolastico 2013‘14) sui luoghi di detenzione a Verona durante la Repubblica Sociale Italiana. Fra
questi luoghi figura anche il loro istituto, nel cui interrato erano state ricavate delle
celle gestite dalle Brigate Nere per rinchiudervi gli oppositori. Dopo l‘8 settembre
Verona divenne un punto di importanza fondamentale per l’occupazione
tedesca, per la sua posizione strategica all’imbocco della val d’Adige e quindi
per il suo diretto collegamento con il Reich: proprio a Verona avevano sede uffici,
comandi e tribunali delle varie articolazioni politiche, militari, repressive, con cui si
manifestava il potere tedesco e fascista della RSI.
Furono adattati a carceri molti luoghi della città, in particolare i forti di San Mattia,
Santa Sofia, San Leonardo, il palazzo dell’I.N.A, le scuole Sanmicheli, la sede
dell’UPI, il carcere degli Scalzi, la sede rionale del Fascio vicino a Porta Vescovo, le
Casermette di Montorio. Erano luoghi dove veniva praticata su grande scala la
tortura e per i prigionieri, nella gran parte, non c’era scampo: o la fucilazione o la
deportazione nei lager della Germania.
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Le Porte della Memoria 2016
Si stima che più di diecimila
persone
siano
state
imprigionate in questi luoghi.
Solo in parte furono veronesi.
Tra costoro ci furono, oltre ad
Angelo Raffaello, i nostri
concittadini Carollo Antonio,
Mario Zanella12 e Giovanni
Zanchi. Tutti e tre conobbero
la prigionia al Forte San
Mattia. Giovanni Zanchi vi
rimase dal novembre 1943 al
marzo 1944 e perse per
sempre la salute. La moglie,
con
il
figlio
minore
Gianfranco, si recava spesso
a
trovarlo
per
portargli Forte San Mattia
vestiario e cibo. Gianfranco
ricorda che le visite erano quindicinali e per avere l’autorizzazione dovevano
andare in via Porta Nuova al comando delle SS dove c’era anche il comando
generale delle SD, polizia per la Sicurezza, che aveva sede presso l’ex palazzo
I.N.A. Istituto Nazionale assicurazioni.
Una volta accadde un fatto strano: la richiesta della madre di far visita al marito
fu respinta e allora il figlio chiese di poter visitare Mario Zanella che sapeva in
carcere con il padre e con Antonio Carollo “Viola”. Questa richiesta di visita fu
accolta e Gianfranco poté incontrare Zanella. In questo modo vide il padre che in
quel momento era con i due amici thienesi e stava scendendo dalle scale che
davano al cortile interno. Gianfranco si diresse rapidamente verso il padre, senza
badare alla guardia e gli consegnò il pacchetto. Nessuno si preoccupò di
controllare cosa ci fosse dentro. Sempre Gianfranco ricorda che il padre in certi
momenti doveva fare dei lavori fuori dal forte.
Carollo Antonio13 fu catturato nel dicembre 1943 mentre accompagnava in treno
tra Vicenza e Bassano del Grappa una decina di ex prigionieri alleati. Fu portato
prima a Vicenza a san Biagio e dal gennaio 1944 al forte San Mattia, dove subì
pesanti torture affinché facesse i nomi dei suoi collegamenti a Padova. Rischiava
la vita. In occasione di un interrogatorio si presentò con sulla divisa, ben visibile, il
nastrino della campagna di Russia. Il comandante tedesco, avuta conferma che
Viola aveva combattuto nella campagna di Russia, annullò la condanna a morte.
Rimase in prigione per altri due mesi e poi fu trasferito a Padova ai Paolotti, quindi
a Piove di Sacco dove fu processato e assolto per insufficienza di prove.
Questi numeri furono possibili perché nelle celle venivano ammassate dalle 50 alle
80 persone dove ne potevano stare dieci! Si trattava di ambienti di dimensioni 5
per 10 metri, con volta a botte con un’unica finestra a luce riflessa. I letti a castello
erano di tre piani.
La capienza complessiva dei tre forti sarebbe stata di circa trecento individui, ma i
tedeschi riuscirono ad ammassarvene contemporaneamente fino a
milleottocento, col sistema dei castelli che moltiplicava la capacità normale di
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Le Porte della Memoria 2016
ogni cella, costringendo i reclusi a vivere accatastati l’uno sopra l’altro, senza la
minima possibilità di movimento e quasi di respiro.
Al comando dei tre forti c’era un maggiore delle SS e in ogni forte un maresciallo
esperto nel turpe mestiere dell’aguzzino.
Gli agenti di custodia erano armatissimi, e ogni possibilità di evasione eliminata
mediante un complesso sistema di grossi cancelli ferrati, di reticolati, di fili spinati,
e di altri ostacoli e trabocchetti di ogni genere disposti dentro ed intorno ai forti.
Forte San Leonardo era circondato da 7 massicci cancelli che dividevano la
prigione dall’esterno.
I detenuti al loro arrivo erano rinchiusi in una stanza piccola e lurida, dove
avveniva l’accettazione. Dopo l’immatricolazione, venivano trasferiti nelle celle,
sovraffollate oltre ogni limite. Ogni detenuto aveva per dormire uno spazio
inferiore al metro e per usufruire in due di una coperta dormivano uno vicino
all’altro; in mezzo alla stanza si trovavano 2 buglioli che venivano svuotati una
volta al giorno senza alcuna disinfezione. Nella stanza penetrava dalle piccole
finestre scarsa luce.
Il regolamento del forte consisteva in una serie di punti che mettevano in grande
rilievo l’esigenza del decoro, delle pulizie e dell’ordine, ma tutto rimane sulla carta;
mancava l’acqua per lavarsi anche il viso, non era possibile cambiarsi il vestito,
non c’era nulla per disinfettare i secchi dei bisogni.
I detenuti al suono della sveglia dovevano alzarsi subito, pulire la cella e rifare il
letto; il secchio dei bisogni doveva essere sempre nello stesso posto e dovevano
pulirlo quotidianamente.
Era proibito bussare alle pareti, alle porte e alle finestre.
Non potevano cantare, fischiare e fare rumore, né comunicare con altri detenuti
e scambiarsi oggetti tra loro; qualora fossero state violate queste regole sarebbero
stati puniti tutti i detenuti.
Durante l’interrogatorio venivano richiesto il vestito pulito.
La pulizia personale era impossibile perché non era consentito ai prigionieri il
cambio degli abiti e della biancheria. L’acqua non era fornita neppure in quantità
sufficiente per bere, perché ne usufruivano solo i soldati di guardia; per lavarsi il
viso e radersi la barba utilizzavano l’acqua tinta chiamata surrogato di caffè che
veniva distribuito al mattino.
I detenuti potevano andare dal medico solo in casi urgenti e se non veniva
riscontrata l’urgenza, venivano puniti.
Per quanto riguarda il contatto con le famiglie avevano a disposizione carta e
matite che venivano distribuiti e, non più tardi di un’ora dopo, dovevano essere
restituiti al capoguardia. I detenuti non ancora condannati, in carcere preventivo,
potevano scrivere una lettera ogni 14 giorni, mentre quelli condannati, una al
mese. Ma tutto questo era teorico perché dovevano mettere il francobollo e
quasi sempre non l’avevano.
Nel corso della giornata i prigionieri erano costretti all’inerzia quasi assoluta, tranne
la mezz’ora al mattino che passavano nel cortile del carcere. In questa mezz’ora
dovevano correre ai comandi delle guardie che non risparmiavano calci e botte
a chi rallentava o dava segno di essere stanco. Per mancanze insignificanti i
prigionieri potevano anche essere costretti a camminare carponi nella polvere o
nel fango oppure a rimanere in posizione di attenti col viso rivolto al muro per tutta
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Le Porte della Memoria 2016
la durata del “passeggio”. Ai prigionieri era vietato rigorosamente di fumare, ma in
quelle condizioni per molti era una necessità impellente e così tutto andava bene
pur di costruirsi una sigaretta, magari usando il tabacco delle cicche raccolte in
ogni luogo. Se le guardie scoprivano dall’odore che qualcuno aveva fumato le
indagini per individuare il responsabile erano interminabili e così succedeva che in
ogni cella, a turno, c’era sempre uno che si addossava la colpa e passava per
punizione quattro o cinque giorni in cella di rigore (isolamento, niente aria, pane
nero e acqua) giorni che venivano scontati nel forte di santa Sofia. Il vitto non si
discostava da quello che era “servito” nei lager in Germania: oltre al surrogato del
mattino, prevedeva un mestolo di brodaglia con un po’ di verdura e di patate a
mezzogiorno e un altro mestolo di surrogato amaro la sera. Inoltre un po’ di
margarina e di marmellata, oppure qualche patata lessa o due uova sode. La
razione di pane, nero e spesso acido, era di 400 grammi al giorno.
A conferma di quanto dichiarato da Angelo Raffaello in merito all’aiuto avuto
dalla Chiesa di Verona, per interessamento del suo Vescovo, c’è la testimonianza
di don Pietro Foligno, un prete umbro imprigionato a Forte San Leonardo.
Settimanalmente don Carlo Signorato, il cappellano delle carceri di Verona,
distribuiva ai prigionieri quello che era riuscito a raccogliere per soddisfare le loro
esigenze più urgenti. Nonostante i guardiani controllassero ogni suo movimento,
don Carlo alla domenica, in occasione della S. Messa nel cortile, alle ore 10,
riusciva a raccogliere le varie esigenze che poi cercava di soddisfare con l’aiuto
dell’Azione Cattolica veronese e al sabato successivo tornava con pacchi con
scritto il nominativo del richiedente, contenenti cibo, camicie, maglie, pantaloni,
asciugamani, sapone e altro. Prima dell’inizio della Messa distribuiva ai presenti dei
libretti per meglio seguire la liturgia e alla fine quando li raccoglieva, all’interno
c’erano messaggi e corrispondenza che lui provvedeva a fare giungere a
destinazione.
Un capitolo importante della storia terribile del Forte San Leonardo è quello di
ricostruire l’elenco dei prigionieri. Secondo Paola Dalli Cani, in un articolo
comparso il 7/05/2009 sull’Arena, dal titolo significativo “Durò 15 mesi l’inferno
nazista in collina”, l’elenco dei prigionieri del San Leonardo si ferma ad appena 89
nominativi. Questo basta a spiegare quanto lavoro di ricerca sia ancora
necessario per fare piena luce a quanto accadde all’interno delle carceri
veronesi. Un‘opera importante l’ha svolta in questi anni Padre Renato Carcereri
rettore del Santuario dedicato alla Madonna di Lourdes che ha registrato le storie
dei prigionieri che negli anni sono tornati, da uomini liberi, nei luoghi dei loro
patimenti. Angelo Raffaello, a distanza di molti anni, ha indicato dei nominativi e
delle persone, l’ingegnere della FIAT, la cantante lirica, la russa poliglotta, il
colonnello Giorgi, il generale Caracciolo. L’unico di cui si trova conferma nel libro
“Prigionia e deportazione nel veronese” e nella ricerca dell’Istituto Sanmicheli è il
generale Caracciolo.
Fra coloro che aiutarono gli ebrei a mettersi in salvo vanno ricordati Rinaldo Arnaldi di
Dueville, aiutato dalla sorella Mary, e don Michele Carlotto, cappellano di Valli del
Pasubio, entrambi riconosciuti Giusti fra le Nazioni.
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Le Porte della Memoria 2016
Mario Saugo diverrà uno dei comandanti della Brigata Mazzini.
Mario Caracciolo di Feroleto, comandante della V Armata al momento dell’Armistizio; fu
uno dei pochi generali che tentarono di resistere ai Tedeschi e la zona a lui affidata,
Toscana, Alto Lazio e la Spezia, fu quella che resistette più a lungo, dando tempo alle navi
militari ormeggiate a la Spezia di salpare per Malta per consegnarsi agli Alleati, in
attuazione degli accordi che portarono all’Armistizio. Catturato in seguito dalle SS fu
recluso nelle prigioni di Verona, Venezia e Brescia e condannato a morte dal Tribunale
Speciale Fascista, pena commutata in 15 anni di carcere perché mutilato di guerra. Dal
carcere continuò a mantenere contatti con la Resistenza che lo liberò il 25 aprile 1945.
4 Esiste un Fedele De Giorgis, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri dal 16
maggio 1947 al 24 maggio 1950, ma da informazioni presso il comando dell’Arma a Roma
non risulta essere stato prigioniero a Verona, né aver perso un figlio a Dachau.
5 La sera del 5 luglio 1944 fu bombardato l’ospedale militare di Borgo Trento. Ci furono 54
morti, fra cui 5 suore che avevano voluto rimanere al loro posto vicino agli ammalati.
6 A quel tempo Vescovo di Verona era Mons. Girolamo Cardinale.
7 Dal luglio 1944, resosi insicuro il campo di concentramento di Fossoli, nei pressi di Carpi
(Modena) in quanto gli Alleati si stavano avvicinando, le deportazioni continuarono dal
nuovo campo di Gries-Bolzano. Questo campo poté contare su vari lager satelliti. Il
campo era gestito dalle SS di Verona. Non meno di 11.116 persone transitarono da questo
campo per essere in gran parte deportate nei campi di sterminio.
8 Nella ricerca “Uomini, donne, bambini nel lager di Bolzano” di Dario Venegoni, giugno
2004, si trova che “Raffaello Angelo, tipografo, fu deportato da Bolzano a Mauthausen il
5/8/1944”. Il convoglio giunse alla meta il 7 agosto con 307 persone, tutte identificate: fu
uno dei primi e più consistenti “trasporti” che, fino ai primi mesi del 1945, rifornirono di
essere umani i vari campi di sterminio del Reich.
9 A seguito di informazioni richieste all’Archivio del Lager di Mauthausen risulta che Angelo
Raffaello fu rilasciato dal lager il 9 agosto 1944 (documento AMM/Y38)
10 Testo della dichiarazione da sottoscrivere:
Oggi ho appreso quanto segue:
1) Il mio rilascio dal campo di concentramento di Mauthausen si è verificato perché mi è
stata data la possibilità di lavorare in Germania.
2) Qualora io dovessi abbandonare senza permesso il posto di lavoro nel quale vengo
mandato o non adempiere ai miei obblighi, oppure dovessi turbare la serenità
dell’azienda e non comportarmi come da me ci si attende so che verrei mandato
durevolmente nel campo di concentramento di Mauthausen.
11 Si trattava dello stabilimento della Stickstoffwerke Ostamark A.G. di Linz, una grande
impresa che trasformava l’azoto per ricavare fertilizzanti e anche esplosivi.
12 Nel fascicolo personale di Zanella, ruolo matricolare n. 47615, conservato in Archivio di
Stato di Vicenza, si trovano notizie della sua prigionia. Zanella Mario in realtà porta il nome
di Pietro, nato a Thiene il 28/11/1916, di professione fornaio, da documenti dei Carabinieri
di Thiene risulta arrestato dalla Brigata Mobile di Padova perché partigiano.
Lui dichiarò, in data 16.2.46, di essere stato catturato a seguito di un rastrellamento della
Feldgendarmeria l’11.11.43 e scarcerato l’1.5.44, ripreso l’1.11.44 e liberato il 25.4.45.
Un documento dei Carabinieri di Thiene in data 9.11.48 riporta che fu arrestato dalle
BB.NN., condotto nelle carceri di Padova; poi tornò a Thiene nei giorni della liberazione.
13 Benito Gramola, La Storia della “Mazzini” raccontata da “Falco” ai giovani d’oggi, Arti
grafiche Postumia, San Martino di Lupari (PD),2008, pp. 145 -146.
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Le Porte della Memoria 2016
A Mauthausen con Franco Busetto, testimone dell’orrore
Vogliamo ricordare l'on. Franco Busetto, che ci ha lasciato lo scorso 15 aprile, con
la copertina di una piccola rassegna di foto scattate nel corso dei cinque
pellegrinaggi a Mauthausen a cui ha partecipato con noi, Amici della Resistenza
di Thiene. Un piccolo, ma significativo, omaggio che abbiamo voluto consegnargli
in occasione della festa che l'ANPI provinciale gli ha dedicato il 29 novembre
2014, per festeggiare, in anticipo, i suoi 94 anni che avrebbe compiuti il 6 gennaio.
Gli siamo riconoscenti per la disponibilità che ci ha dimostrato negli anni dal 2006
fino al 2011 a ritornare a Mauthausen, per portare la sua testimonianza che sarà
per tutti noi indimenticabile.
A lui abbiamo dedicato il viaggio a Mauthausen compiuto nei giorni 28,29,30
agosto; lo abbiamo ricordato, affaticato, sotto il sole di agosto, intento a
dialogare con i giovani, attenti ad ogni sua parola, ad ogni suo sguardo, ad ogni
suo gesto, consci della fortuna di poter ascoltare una storia terribile da uno che
l'aveva vissuta.
Alla Festa di compleanno, del 29 novembre 2014, ha presenziato anche il nostro
sindaco dott. Giovanni Casarotto e per l’occasione il sindaco di Mauthausen ha
fatto pervenire il Suo saluto e il Suo augurio. Questa la lettera tradotta in italiano
dal nostro amico di Linz Mauro dei Rossi che ogni anno incontriamo nel corso
dell’annuale pellegrinaggio a Mauthausen.
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Le Porte della Memoria 2016
Mauthausen 20.11.2014
I miei più cari auguri di buon compleanno!
Gentilissimo on. Busetto!
Il mio caro amico Giovanni Tessari mi ha fatto sapere che lei nelle prossime settimane festeggerà il
suo 94° compleanno.
Vorrei anche da parte mia, in questa gradita occasione, associarmi a molte altre persone nel porgerle
le mie congratulazioni e gli auguri di buon compleanno!
Vorrei inoltre esprimere con quale stima io consideri "l'opera di tutta la sua vita". Fino ad oggi Lei
non si è stancato di continuare la sua lotta che iniziò sin dalla giovane età oltre 70 anni fa. Proprio a
cominciare dagli anni terribili dell´ultimo secolo lei si è prodigato - mettendo a repentaglio la
propria vita - per i diritti degli uomini.
Caro onorevole, lei ha combattuto fra notevoli pericoli il regime nazi-fascista che ha oltre ogni
immaginazione usato disprezzo nei confronti di altri uomini.
Nella sua vita lei si è dedicato - come ne sono convinto - a quei valori anche per me importanti e
cari: libertà, uguaglianza, giustizia e solidarietà.
Per tutto ciò vorrei esprimerle il mio più sincero grazie.
Sono nato in novembre dell`anno 1975, più di 30 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Le posso comunicare - anche da mia esperienza personale - come sia importante per la mia
generazione e per le generazioni che verranno, avere uomini come lei. Siete persone che non hanno
mai perso la convinzione che vale veramente la pena combattere per questi inestimabili valori.
Spero molto di poterla incontrare di nuovo per rinnovarle la mia profonda gratitudine e stima.
Carissimi auguri e cari saluti da Mauthausen
Il sindaco
Thomas Punkenhofer
Alcuni frammenti di pensieri e riflessioni maturati nei viaggi a Mauthausen a cui ha
partecipato l’on. Franco Busetto:
Agosto 2006 … Gli studenti indicati dalle scuole per motivo di merito, impegno,
interesse e sensibilità verso questa parte della storia del Novecento, sono stati 15 e
per la loro partecipazione il Comune di Thiene ha contribuito sensibilmente. Altri
giovani hanno partecipato accompagnati dai familiari. Un partecipante
d’eccezione è stato l’on. Franco Busetto, presidente regionale e provinciale
dell’ANPI, deportato a Mauthausen dal novembre 1944 alla Liberazione del
campo avvenuta il 5 maggio 1945. La presenza di un testimone di quanto
avvenne in quel terribile luogo, ha rappresentato un fatto estremamente
importante non solo per i giovani studenti, ma per tutti i partecipanti…
Dal resoconto finale inviato alle scuole
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Le Porte della Memoria 2016
Agosto 2007 … I giovani hanno anche portato le bandiere delle sezioni di Thiene
delle associazioni partigiane e degli internati. Hanno depositato anche tre corone
d’alloro: una al cimitero italiano di Reiferdorf, una al Monumento italiano di
Mauthausen e una al Memoriale del lager di Gusen che contiene il forno
crematorio. “Sono stato contento di aver portato la bandiera della sezione della
nostra città dell’ANEI (Ass. Naz. Ex Internati in Germania) – dice Mariel – è stato un
grande orgoglio poter partecipare a quei momenti solenni così direttamente”.
“Se si vuole ricordare bisogna fare – commenta Paolo – è giusto visitare certi
luoghi della Memoria, bisogna che la gente sappia cos’è successo, specialmente
noi giovani”. “Anch’io la penso così – risponde Enrico – bisogna vedere e capire
veramente. Le testimonianze di Busetto mi hanno toccato. La cosa più incredibile
è che non c’è odio nelle sue parole e lui stesso afferma di non provarne. Non so se
sia vero ma penso che, anche se ne provasse, non ce l’avrebbe detto. Ha detto
che è tutto avvenuto per colpa dell’odio ingiustificato. Penso che il messaggio più
grande che vuole trasmetterci sia proprio quello di non odiare”…
I giovani si confrontano
Agosto 2008 … E poi l’immancabile onorevole Franco Busetto, 87 anni, deportato
a Mauthausen nel dicembre 1944. Già dire immancabile fa pensare a qualcosa di
straordinario. Busetto, non solo ha voluto andare una prima volta nei luoghi dove
era stato torturato, ma ci torna ogni anno e ogni anno affascina i ragazzi con il suo
racconto. Gli è stato chiesto più volte se non gli pesi rimettere piede nelle
baracche che furono la sua tragica prigione. E’ evidente che oltrepassare il
portone della morte pesa come un macigno, lo si vede dalle lacrime che gli
sfuggono, ma forse conta di più quello che questa esperienza può insegnare alle
nuove generazioni.
E così, Franco parla agli studenti e li commuove. Tanto che al ritorno, quando l’ex
parlamentare Pci scende dal pullman a tarda ora, i ragazzi lo salutano con un
applauso, che sorprende gli adulti della comitiva ...
Dennis Dellai, Il Giornale di Vicenza
Agosto 2009 … Da Thiene è partita infatti una comitiva di 63 persone, di tutte le
età, tra cui anche due testimoni diretti di quella tragedia. Tutta la compagnia ha
potuto così ascoltare le intense testimonianze dell’immancabile Franco Busetto, 88
anni, deportato proprio a Mauthausen nel dicembre del 1944 e di Michelangelo
Giaretta, deportato ad appena 18 anni in un campo di punizione vicino a Berlino.
Nonostante l’età, è la quarta volta che Franco Busetto partecipa a questo
viaggio, sopportando con coraggio il peso dei ricordi che ogni volta riaffiorano
davanti ai cancelli del lager, pur di lanciare un messaggio di impegno alle nuove
generazioni…
Giuseppe Bonato, un partecipante
Agosto 2011 La stazione ferroviaria e il lager di Mauthausen. Sono state queste le
tappe più significative dell'annuale viaggio che gli “Amici della Resistenza” di
Thiene organizzano, ormai da 9 anni, nella cittadina dell'Alta Austria “per non
dimenticare”.
… Accanto ai 24 studenti delle scuole superiori di Thiene non poteva mancare
31
Le Porte della Memoria 2016
l'on. Franco Busetto, ormai novantenne, internato dal 14 dicembre 1944 al 5
maggio 1945. Quest'anno, per la prima volta, il gruppo ha partecipato alla
commemorazione proposta dal sindaco di Mauthausen Thomas Punkenhofer
proprio in corrispondenza del luogo dove, negli anni dell'orrore, arrivavano i
convogli con i deportati.
Alla fine della cerimonia l'on. Busetto è stato abbracciato dal sindaco e
dall’assessore alla cultura Walter Hofstätter.
Le amministrazioni di Thiene e Zané sono state rappresentate dal consigliere
comunale zanadiese Antonio Simeoni.
Da Il Giornale di Vicenza
Agosto 2011 … Durante questi tre interessanti giorni, il sentimento predominante è
stato quello della memoria, ricordare la follia, affinché il sacrificio e il dolore di tanti
non sia stato vano.
Abbiamo potuto godere della presenza di un uomo che ha patito, sulla
propria pelle, l’ingiustizia, la fame, il dolore fisico e psichico che non lo hanno
spezzato, ma piegato semplicemente come una canna di bambù. La sua
testimonianza fondamentale ci ha reso più vicino ciò che è accaduto.
Quest’uomo porta il nome di Franco Busetto, colpevole solo di amare troppo la
sua Patria.
Nel nostro piccolo ci sentiamo di dire che siamo stati fortunati, per questo
sosteniamo che tale opportunità debba essere data anche in futuro ad altri
giovani come noi.
Questa grande esperienza, ricca di umanità e sentimenti, deve essere lezione
di vita per ognuno di noi affinché orrori come questi non debbano ripetersi…
Gli studenti scrivono ai Sindaci di Thiene e di Zanè e ai Dirigenti Scolastici
Il prossimo pellegrinaggio a Mauthausen, che sarà il 14°, avrà luogo nei giorni 26,
27, 28 agosto, venerdì, sabato, domenica. Per informazioni rivolgersi a Giannico
Tessari [email protected]
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Le Porte della Memoria 2016
Gli Arsieresi accolsero le famiglie ebree in fuga dai Nazisti,
ma dopo l’8 settembre,
con l’arrivo dei Nazisti, accadde la tragedia
Il 1941, in piena guerra, riservò alla popolazione di Arsiero una grossa novità!
Si trattò dell’arrivo in paese di ospiti un po’ particolari. Il Comune di Arsiero era
stato scelto, assieme ad altri, dalle autorità fasciste per l’internamento civile di
famiglie di ebrei stranieri. La maggioranza arrivò nell’arco di un mese, fra fine
settembre e la prima metà di ottobre del 1941, provenienti dal lager di Ferramonti
di Tarsia (CS) e due famiglie furono internate ad Arsiero nella primavera del 1942,
una che in precedenza aveva trovato sistemazione autonomamente a Vicenza e
una proveniente direttamente dalla Jugoslavia. Arrivarono 11 nuclei familiari
formati da 31 persone, di cui 11 giovani; la più giovane, Marion Klein, aveva 5
anni; sua madre, Agnes Klein, lasciò Arsiero che era all’ottavo mese di gravidanza.
Erano tedeschi, polacchi, austriaci, jugoslavi, arrivati in Italia cercando di sfuggire
alla caccia dei nazisti. Molti al loro arrivo in Italia furono portati al campo di
concentramento di Ferramonti di Tarsia (Cosenza). La fuga dal loro paese era
iniziata molto prima, nel 1938.
Il perché di questa ricerca
In questi anni abbiamo avuto la fortuna di incontrare due testimoni di quegli anni
terribili: Marion Klein Fischer e Walter Landmann che si trovavano ad Arsiero con i
genitori in soggiorno “libero” come veniva chiamato, per distinguerlo
dall’internamento in un lager. Esiste anche una testimonianza scritta di Oscar Klein,
purtroppo deceduto nel 2006. Ci sono poi abitanti di Arsiero che ricordano molto
bene quegli anni.
Era vietato per gli arsieresi avere contatti con gli ebrei, ma così non fu: i contatti ci
furono, nacquero amicizia e solidarietà che per alcuni durarono per tutta la vita e
durano tuttora e molto probabilmente nacquero anche delle simpatie fra ragazzi
e ragazze.
Viene da chiedersi se la gratitudine e l’amicizia manifestate dai fratelli Klein e da
Walter Landmann dipendono dalla loro giovane età, a quel tempo. I giovani
normalmente, anche nei momenti più drammatici, vivono in modo gioioso e
fiducioso gli anni dell’infanzia e della giovinezza e a quell’età non possono
cogliere i pericoli che imcombono sulla loro stessa vita. Per ammissione degli stessi
Marion Klein e Walter Landmann il fatto di essere sopravvissuti ad una guerra
combattuta anche contro i bambini, le donne, gli anziani e le persone indifese, da
parte di chi voleva la distruzione di ogni ebreo, li porta a provare riconoscenza per
chi li ha in qualsiasi modo aiutati e quindi ricordare volentieri quegli anni trascorsi in
Italia!
Più avanti riporteremo alcuni giudizi da loro espressi in riferimento agli anni vissuti
ad Arsiero, ma un ulteriore aiuto, per avere un quadro più ampio, può venire
dall’esame dei molti documenti conservati in un grosso faldone presente in
Archivio di Stato di Vicenza1, che raccoglie i documenti relativi alla permanenza
degli ebrei ad Arsiero scambiati fra gli interessati, il Comune di Arsiero, la Questura,
la Prefettura e il Ministero degli Interni.
33
Le Porte della Memoria 2016
Abbiamo allora cercato fra queste carte di ricavare un’idea dei momenti che
vissero queste famiglie, la loro quotidianità, i tanti piccoli e grandi problemi che si
presentavano. Purtroppo le carte, i documenti conservano nel tempo notizie, fatti,
problemi, ma hanno il limite di non trattenere emozioni, paure, gioie, timori. E timori
e paure queste persone devono averne avuti tanti; in fuga dalla loro Patria,
spaventate dalle voci che certamente giungevano più o meno confuse delle
violenze ad opera dei Nazisti, dalle minacce quotidiane delle autorità fasciste
nazionali e locali.
Esiste un lavoro molto ampio di ricerca sulla vita degli ebrei in provincia di Vicenza
dal 1941 al 1943 ed è quello compiuto dal dott. Paolo Tagini2 e pubblicato nel libro
“Le poche cose. Gli internati ebrei nella provincia di Vicenza 1941-1945”. La lettura
di questo libro dovrebbe essere propedeutica ad ogni altro approfondimento.
Per scelta riporteremo le storie senza i nomi, anche perché, in questo contesto,
non aggiungono nulla allo scopo della ricerca. Riporteremo solo i nominativi dei
Klein e dei Landmann che hanno dato in modo esplicito la loro adesione e ci
hanno fornito una gran quantità di informazioni, anche in riunioni pubbliche in
questi ultimi anni, nei nostri paesi. I documenti che vengono riportati sono stati
forniti dalle famiglie Klein e Landmann o da cittadini di Arsiero.
Arsiero a quel tempo
Il regime fascista per il soggiorno “libero” degli ebrei stranieri aveva scelto molti
piccoli Comuni, lontani dalle caserme e strutture militari in quanto i nuovi venuti
erano considerati “nemici” che potevano fornire informazioni agli Alleati. Un’altra
condizione richiesta era che il Comune fosse sede di una caserma dei carabinieri
a cui era affidato il compito di controllare i loro movimenti.
Arsiero aveva queste caratteristiche, come Posina, Lastebasse, Valli del Pasubio,
Canove, Lusiana, Enego, Caltrano, Breganze, Malo, ed altri centri della provincia,
che accolsero famiglie ebree.
Una ricca fonte di notizie per questa breve introduzione è stato il libro “Arsiero,
panorama storico” di Angelo Busato3.
Arsiero aveva allora circa 4.200 abitanti, molti più di oggi, che sono stabilizzati da
una ventina di anni sui 3.300 abitanti, ma meno dei 5336 del 1911, prima della
Grande Guerra che sconvolse in modo pesantissimo il paese, costringendo la
popolazione ad abbandonare le loro case ed essere trasferita in altri centri della
provincia, molti a Lonigo, e anche fuori regione, per lo sfondamento degli
austroungarici che con la Spedizione Punitiva, Strafexpedition, esaurirono proprio
con l’occupazione di Arsiero e di Velo d’Astico la loro poderosa spinta verso la
pianura. Dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale il paese, come tutta la
valle, fu interessato da un grande fenomeno migratorio verso l’estero. Importante
ricordare che dal 1885 Arsiero era collegato via ferrovia ai maggiori centri
dell’Altovocentino, Schio e Thiene e al capoluogo Vicenza. Sempre a fine ‘800
sorse la grande cartiera Rossi che significò un radicale cambiamento delle
condizioni di vita di molte famiglie, fino allora legate ad un’agricoltura di
sussistenza.
Nel primo dopguerra il Comune cominciava ad essere interessato anche da un
turismo d’elite, attratto dal buon clima. In una relazione del 1926 del Podestà per
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Le Porte della Memoria 2016
ottenere l’inserimento di Arsiero fra le stazioni di cura, viene riportata la presenza
di 13 alberghi e 10 pensioni “rispondenti alle esigenze moderne, sia per
l’accuratezza del servizio, che per l’igiene e la pulizia”.
Quindi un centro di medie dimensioni, con una popolazione aperta ai
cambiamenti e alle novità, che solo pochi decenni prima aveva vissuto in massa
la dura esperienza del “profugato”, può aver avuto meno problemi che altrove
ad accogliere persone di diversa cultura, istruzione, lingua, religione, come
potevano essere le famiglie di ebrei che provenivano per la maggior parte da
grandi città del centro Europa, come Monaco di Baviera, Vienna, Zagabria.
L’impatto comunque non deve essere stato facile se Marion Fischer Klein riferisce
che la madre Agnes le raccontò che, fra le persone che erano presenti al loro
arrivo da Ferramonti di Tarsia, nella stazione dei treni di Arsiero, raccolse frasi tipo
…”ma allora non è vero che gli ebrei hanno tre occhi!....”.
12 regole da rispettare
Al loro arrivo ad Arsiero gli internati dovevano presentarsi in municipio dal Podestà
e sottoscrivere un documento che li impegnava a rispettare 12 prescrizioni, come
sono definite nel documento. Riportiamo un documento sottoscritto da una
coppia di internati in data 14 ottobre 1941, il giorno stesso del loro arrivo ad
Arsiero, ed è praticamente identico a quello riportato a pag. 267 del libro di
Angelo Busato, conservato nell’archivio di Arsiero e portante la data del 3 luglio
1943, nel quale non figura il punto 12.
1) Divieto di tenere presso di loro passaporti o documenti equipollenti e
documenti sanitari.
2) Divieto di possedere denaro a meno che non si tratti di piccole somme non
eccedenti le cento Lire. Le somme eccedenti dovranno essere depositate
presso banche ed uffici postali, su libretti nominativi che saranno dal
Podestà custoditi. Qualora gli internati abbiano necessità di effettuare
prelevamenti, dovranno chiedere di volta in volta l’autorizzazione al
Podestà, autorizzazione che sarà concessa se la richiesta apparirà
giustificata per una somma non superiore a quella consentita.
Prelevamenti di somme maggiori dovranno essere autorizzate dal Ministero.
3) Divieto di detenere gioielli di valore rilevante e titoli. Tanto i gioielli che i titoli
dovranno essere depositati, a spese dell’interessato, in cassette di sicurezza
presso la banca più vicina, dove l’internato sarà fatto accompagnare per
tale operazione. La chiave della cassetta sarà tenuta dall’interessato,
mentre il libretto di riconoscimento sarà conservato dal Podestà.
4) Divieto di detenere armi e strumenti atti ad offendere.
5) Divieto di occuparsi di politica.
6) Agli internati è consentito soltanto la lettura di giornali italiani; per la lettura
di libri e giornali in lingua straniera deve essere chiesta l’autorizzazione al
Ministero.
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Le Porte della Memoria 2016
7) La corrispondenza e i pacchi di qualsiasi genere, sia in arrivo che in
partenza, devono essere sempre revisionati, prima della consegna e della
spedizione, dal Podestà o suo incaricato.
8) Divieto di tenere apparecchi radio.
9) La visita dei famigliari agli internati e del pari la convivenza con gli internati
dei famigliari, devono essere autorizzate dal Ministero, al quale devono
essere inoltrate le relative istanze per tramite della Questura.
10)Agli internati è inoltre fatto obbligo.
a) Di circolare solo entro il seguente perimetro:
Confini a OVEST-SUD ed EST del capoluogo di Arsiero, indicati dai torrenti
ASTICO e POSINA fino ad una linea di altezza a NORD che dal ponte
della PRIA giunge a contrada CROSARA.
b) Di non allontanarsi da detto perimetro.
Il permesso di allontanarsi dall’abitato sarà concesso solo previa
autorizzazione del Ministero dell’Interno;
c) Di non uscire dall’abitazione prima dell’alba e dopo un’ora dal
tramonto.
11)Gli internati potranno consumare i pasti in esercizi o presso famiglie private
del luogo, dietro autorizzazione del Podestà.
12)Gli internati hanno l’obbligo di serbare buona condotta non dar luogo a
sospetti e mantenere contegno disciplinato.
I trasgressori saranno puniti a termine di Legge o trasferiti in colonie
insulari.
Fatto, letto e sottoscritto.
(firma dell’internato)
IL PODESTA’
Firma non leggibile
IL SEGRETARIO
Firmato E. Luca
Secondo Walter Landmann, alcune regole erano normalmente disattese dagli
internati, né i Carabinieri si impegnarono particolarmente per farle rispettare.
Landmann si riferisce in particolare ai punti 2, 3, 6, 10, 11.
Testimonianza di Walter Landmann, classe 1927, allora un ragazzo di 15 anni.
(vedi Le Porte della Memoria 2014)
Noi eravamo a Ferramonti in Calabria in un grande campo di concentramento
gestito però da Italiani. Nel 1942 gli italiani decisero che le famiglie internate
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Le Porte della Memoria 2016
dovessero essere rilasciate e trasferite in paesi remoti a vivere liberamente in
quello che veniva definito il “confino libero”; teoricamente, noi internati non
avevamo il permesso di uscire dai confini del paese. Lo stato italiano pagava un
sussidio mensile per coprire i costi dell’alloggio e del mantenimento. Il paese in cui
dovemmo andare era Arsiero nella valle del fiume Astico nella provincia di
Vicenza ai piedi delle Alpi. Trovammo alloggio presso la Trattoria La Vigneta in un
appartamento al primo piano con cucina/soggiorno e una grande camera. Era
una località di villeggiatura in tempo di pace con un bellissimo paesaggio: dalla
finestra della camera non mi stancavo mai di guardare la cresta di un monte alto
1200 metri che ha proprio un buco che lo attraversa, chiamato in dialetto veneto
“Pria Forà”, la roccia forata. Non frequentavo una vera e propria scuola, ma
attraverso la Chiesa locale ottenni vari libri di testo sui quali trascorsi molto tempo.
C’era anche un libro di testo di Portoghese che ho studiato imparando un po’ di
quella lingua.
Un’altra famiglia internata ad Arsiero erano i Goldstein, originari dalla Jugoslavia
che avevano due figli di 10 e 11 anni. Mi fu chiesto di insegnare ai ragazzi le
materie di scuola media, per due ore ogni giorno in italiano, il che mi aiutò molto
a perfezionare la conoscenza della lingua e mi fece guadagnare una paghetta.
La vita non era male, nuotavamo molto dietro una diga sul fiume,
vendemmiavamo l’uva (mangiandone grandi quantità durante la raccolta) e
andavamo in bicicletta fino a fattorie lontane nelle valli di montagna scambiando
beni per cibo. Questo fu possibile perché fummo in grado di recuperare il nostro
container che era a Trieste ed io portavo tovaglie e oggetti di argento dai
contadini in cambio di formaggio, burro, farina e frutta.
Anticipando la storia, lasciammo poi quello che ci era rimasto in custodia in una
casa in montagna quando fuggimmo dall’Italia. Questa casa fu distrutta nella
guerra partigiana e perdemmo tutto.
Frequentavo anche delle ragazze, una era la figlia del colonnello che
comandava la caserma dove siamo stati prigionieri a Bengasi (molte famiglie
italiane furono evacuate dalle città bombardate, alcune anche ad Arsiero).
Ricordo persino il suo nome, Giulia. Anche lei aiutò il mio italiano! Un’altra fu Anni,
la figlia di un rifugiato jugoslavo. Lei mi insegnò il Serbo-Croato e ricordo ancora le
parole di quella strana lingua.
Poco prima che noi lasciassimo Ferramonti, mio zio Leo e la sua famiglia furono
spediti ad Arcidosso nel Grossetano. Mio padre si appellò alle autorità inutilmente
contro la separazione. In ogni caso Arcidosso sembrava più sicuro di Arsiero così
vicino al confine tedesco. Poi non fu proprio così! (La famiglia di Leo fu deportata.
Lui morì ad Auschwitz, la moglie e la figlia si salvarono).
La popolazione del Veneto non aveva tempo per la guerra e gli alleati tedeschi.
La zona era stata sotto la dominazione austriaca (mal sopportata) ed era tornata
a essere italiana solo nel 1866. Le loro simpatie adesso erano per gli Alleati. Un
episodio ci fa capire questa sensibilità: una mattina la signora che gestiva il
mulino4 accanto alla nostra trattoria venne da noi chiedendo se parlassimo
inglese perché era arrivato un prigioniero di guerra fuggitivo. Andai con lei e venni
a conoscenza che l’uomo era saltato giù da un treno che portava prigionieri di
guerra in Germania. Era neozelandese e voleva sapere la strada per andare in
Svizzera. Gli fu offerto un lauto pranzo di pasta e lumache che divorò in una
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Le Porte della Memoria 2016
piccola trattoria e poi lo accompagnai per un po’ lungo la strada che porta alla
vicina catena montuosa, dopo di che non potei fare altro che indicargli la
direzione. Questa piccola avventura avrebbe potuto costare la vita degli italiani
coinvolti e probabilmente la mia.
Il sostegno e l’amicizia di alcune famiglie locali sono stati notevoli. Spicca l’aiuto
delle persone incaricate a custodire la proprietà Rossi situata dall’altra parte della
linea ferroviaria in Arsiero. Non riesco a ricordare il cognome di queste persone5,
ma solo il nome della signora Costanza che ci aiutava con il cibo. La figlia era
sposata ad un signor Fontana che al tempo serviva in un’unità di alpini inviata a
combattere i russi. Ricordo chiaramente come la signora Fontana, così mi
rivolgevo a lei, ci portava da amici a giocare a tombola. I coniugi Fontana
avevano un neonato, ma quando sono tornato ad Arsiero non sono riuscito a
rintracciare nessuno di questa famiglia. La signora Fontana mi prestava la sua
bicicletta e questo per me era molto importante: la usavo frequentemente per
andare fino a Laghi di Posina e alle vicine fattorie dove offrivo quello che
avevamo recuperato dal container (biancheria da letto/cucina, argento). In
questo modo integravamo la nostra dieta con burro, formaggio verdure fresche,
scambiandoli con i nostri oggetti.
Un’altra cosa che ci legava ai Fontana erano le notizie che provenivano dal
marito e che la moglie poi mi riferiva, sui crimini commessi principalmente dalle SS
Waffen contro i russi ed altri. Le uccisioni di massa con il gas, soprattutto di ebrei,
nei campi di sterminio in Polonia stavano cominciando ad essere conosciute su
vasta scala.
Testimonianza di Marion Klein Fischer, classe 1937, allora bambina di 5 anni.
(Le porte della Memoria 2013 e 2015)
Ad Arsiero i Klein si trovarono molto bene, i controlli di polizia erano di fatto assenti.
Oscar e Marion giocavano, avevano amici, passarono un tempo felice; Oscar era
molto ingegnoso e Marion ricorda che una volta costruì una chitarra con una
scatola di sigari.
Il migliore amico di Oscar era Ezio che abitava vicino alla loro casa, e la sua
famiglia aveva una falegnameria. Nonostante i Klein non possedessero niente dal
momento che avevano in precedenza i genitori usato tutti i loro averi per pagare
il viaggio per la Palestina, Marion ricordando quei tempi dice di essere rinata
un’altra volta e che quegli anni le sono stati regalati.
Andava con le donne del paese al lavatoio dove anche lei faceva il suo piccolo
bucato. Imparò subito il dialetto e lo parlava normalmente. Anche il fratello Oscar
ha sempre sostenuto che ad Arsiero hanno vissuto una bellissima infanzia.
Abitavano nella casa vicina a quella dei Frigo, famiglia di don Antonio, con la
quale ebbe sempre un rapporto di grande familiarità, in via Caodilà. Marion era
conosciuta ad Arsiero come Rosanna e questo cambio di nome è attribuibile alla
signora Natalina, per tutti Lina, sorella di don Antonio, in quanto trovava Marion
troppo simile a Mario e così la chiamò col primo nome Rosa, trasformandolo in
Rosanna. Rosa era il nome della nonna paterna.
In particolare Marion ha avuto un rapporto di grande confidenza con don
Antonio, che chiamava Nino, amicizia che è durata per molti anni, anche dopo la
guerra, fino alla morte di don Antonio. Don Antonio Frigo, originario di Asiago, è
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Le Porte della Memoria 2016
stato professore di matematica e scienze al Seminario di Vicenza e ha avuto un
ruolo importante nella Resistenza vicentina, subendo arresti e torture da parte
delle bande fasciste.
Marion non lo ha mai visto con la veste, era sempre in clergyman e ricorda che il
papà diceva che quando don Antonio andava nel bosco a leggere il breviario,
all’interno dei calzoni alla zuava aveva armi e cibo per i partigiani. Lo ricorda
come un uomo molto bello. Una sola volta lo vide con la veste, fu quando nel
dopoguerra battezzò sua figlia Deborah, fatto che vedremo più avanti.
Testimonianza di Oscar Klein, classe 1930, allora ragazzo di 11 anni.
(La testimonianza è tratta da un articolo a lui dedicato da HA KEILLAH bimestrale
ebraico torinese, organo del Gruppo di Studi Ebraici, dicembre 1995, n. 5. Oscar
Klein, fratello di Marion, jazzista di fama internazionale, è deceduto il 12 dicembre
2006).
…In questo paese (Arsiero) eravamo in cinque famiglie ebree, ogni famiglia aveva
un’abitazione, ma non un tugurio, c’era la cucina, una camera da letto e il
soggiorno. Chi voleva poteva esercitare un mestiere, l’importante era che non
danneggiasse, perché in concorrenza, nessuno dei residenti. Mio padre e io ci
siamo messi a fabbricare dei giocattoli
in legno. Io, che ho avuto sempre un
talento
come
disegnatore,
li
progettavo e mio padre li ritagliava dal
legno
compensato,
poi
li
smerigliavamo e li dipingevamo con la
lacca. Erano dei giocattoli piuttosto
belli e mio padre con un permesso
andava nei paesi vicini a offrirli ai
negozianti: questi giocattoli avevano
successo poiché in quel periodo quasi
nessuno produceva articoli del genere.
… Quando sono diventato Bar Mitzvah,
a tredici anni, (è il momento in cui un
bambino ebreo raggiunge l’età
matura) la comunità di Arsiero mi ha
regalato il mio primo strumento
musicale,
un
mandolino
e
ho
cominciato subito a suonare a
orecchio le canzoni che ascoltavo alla
radio.
Durante il nostro soggiorno forzato ad
Arsiero
cominciai
ad
assorbire
“italianità” come un aspirapolvere.
Andai a vedere tutti i film nell’unico
cinema del paese, diventando presto
Segnalazione dei Carabinieri perché alcuni
uno specialista, lessi tutti i libri della
internati, assidui frequentatori della sala
cinematografica, non rispettavano l’orario di
biblioteca parrocchiale e ascoltai
rientro alle loro case, fissato al suono del’Ave
ininterrottamente la radio. In questo
Maria.
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Le Porte della Memoria 2016
paese vivevamo bene, non c’era antisemitismo e nessuno ci importunava.
Inizialmente mio padre doveva presentarsi ogni giorno alla caserma dei
carabinieri, poi questi controlli sono diventati settimanali , poi mensili e alla fine non
ci furono del tutto poiché vivendo lì eravamo sempre sotto gli occhi di tutti ed era
completamente inutile ogni forma di controllo.
Un forte legame fra la famiglia Klein e Arsiero
I Klein rimasero legati ad Arsiero anche dopo la fuga in Svizzera, sicuramente
attraverso il forte legame con don Antonio Frigo.
Rosa Klein tornò ad Arsiero nel 1969, il 23 marzo, per fare battezzare la figlia
Debora. Padrini di battesimo furono Frigo Roberto fu Antonio di Arsiero e Frigo
Natalina fu Antonio, fratelli di don Antonio.
Anche Oscar tornò ad Arsiero, nel maggio del 2000; quando venne a Vicenza per
tenere un concerto di jazz, volle fare una visita ad Arsiero dove suonò in piazza
fino a notte fonda, fra la folla che si era radunata.
Oscar Klein è stato un grande trombettista, che proprio a Vicenza nel 2000
festeggiò i 40 anni di onorata carriera. Suonò spesso con Romano Mussolini, figlio
del duce e grande musicista di jazz. Probabilmente il jazz, la musica americana,
ufficialmente proibita dal fascismo, fece il miracolo di fare diventare amici fraterni
i due che le tragiche vicende della guerra avevano posto crudelmente su
opposte sponde.
La signora Antonella Smaniotto di Arsiero ha riferito alcuni ricordi di quegli anni
conservati in famiglia e in particolare collegati con la famiglia Klein.
I Klein trovarono ospitalità al n. 113 di via Caodilà, in una parte dell’abitazione di
Giovanni Smaniotto che viveva con la figlia Maria, mia prozia.
Mia madre, Oliva Dalla Fontana, che poi sposerà un nipote di Maria, abitava nella
frazione di Arsiero Peralto, poche case e gli abitanti vivevano dei prodotti dei
campi e degli animali della stalla e del pollaio, a pochi chilometri da Arsiero, nella
vallata di Riofreddo. La mamma si ricorda che Alexander Klein, di nascosto, si
recava fino alla loro casa a Peralto per comperare qualcosa per sfamare la
famiglia.
La maggior parte delle volte era mia mamma che andava da loro per portare
qualcosa di commestibile: saliva al piano più alto della casa (l’abitazione esiste
ancora ed è formata da un piano terra, un piano primo e un sottotetto con delle
piccole finestrelle) e trovava il capofamiglia seduto ad un tavolino intento ad
armeggiare con degli attrezzi, ma non sa bene a cosa servissero. Una volta
ricevette in dono una spilla e degli orecchini di legno a forma di grappolo d’uva.
La mamma ricorda anche che la prozia Maria le disse che negli anni ’70 ricevette
la visita di un membro della famiglia Klein.
Gli internati ricevevano un sussidio dal Governo
Le famiglie dovevano arrangiarsi a trovare un alloggio, chi affittando stanze in
case private, come i Klein, e chi rivolgendosi a piccole pensioni come i Ladmann
a “La Vigneta”.
Lo Stato italiano versava loro delle somme, nel caso fossero riconosciuti indigenti,
con i seguenti importi: 50 Lire al mese per l’alloggio, 8 Lire giornaliere per vitto e un
40
Le Porte della Memoria 2016
supplemento di sussidio di 4 Lire giornaliere per la moglie e di 3 Lire per ogni figlio.
Nel luglio 1943 questi importi furono rivisti in aumento, 9 lire per il vitto, 5 per il
coniuge e 4 per ogni figlio. Questi sussidi permettevano appena di sopravvivere.
Una signora scrisse al Ministero facendo presente che nel lager di Ferramonti, da
cui la famiglia proveniva, non pagavano affitto e riceveva di sussidio 8 Lire al
giorno; ad Arsiero il sussidio è diminuito a 4 Lire al giorno e non riceve alcun sussidio
per l’affitto. L’affitto arriva a 130 Lire al mese e la spesa aumenta con l’enorme
consumo di legna, inoltre non è permessa a loro alcuna attività per guadagnare.
Il Ministero dell’Interno rispose che non era possibile accogliere la richiesta di
aumento del sussidio.
C’è anche una richiesta in data 8 ottobre 1941, dopo pochi giorni dal loro arrivo
ad Arsiero, firmata da quattro capifamiglia per avere un aumento del sussidio. La
richiesta è molto puntuale a partire dal sussidio alla moglie che nel campo di
Ferramonti era di 8 Lire al giorno, poi chiedono che ai figli che superano i 18 anni
venga dato un sussidio maggiore di 3 Lire al giorno ed infine che la quota per
l’affitto, visto che quelli a più buon mercato variano dalle 110 ai 140 Lire mensili,
tenga conto del numero delle persone componenti la famiglia.
La Questura respinge la richiesta essendo l’importo del sussidio in vigore deciso dal
Ministero dell’Interno e valido per tutti gli internati.
E’ accaduto che un capofamiglia venisse ricoverato in ospedale a Schio per
un’operazione chirurgica con la conseguente sospensione del versamento delle 8
Lire giornaliere. Immediatamente la famiglia ne risente e la moglie chiede che
durante la permanenza in ospedale del marito fosse girato a lei, come
capofamiglia, il sussidio di 8 Lire al giorno. Tramite il Podestà la richiesta va al
Questore che rimane fermo nel sostenere che l’importo è deciso a livello superiore
e non può essere modificato. Allora il Prefetto di Vicenza interpella il Ministero degli
Interni che ha l’ultima parola e respinge la richiesta.
Stupiscono i tempi celeri per la chiusura della pratica: la richiesta della signora
porta la data dell’8 maggio 1942 e la risposta finale del Ministero la data del 23
giugno…dello stesso anno!
Fortunatamente risulta che le spese per i ricoveri ospedalieri erano anticipate dal
Comune e poi rimborsati a quest’ultimo dalla Prefettura. In data 14 luglio 1942
l’Ospedale di Schio chiese che il Comune di Arsiero rilasciasse una dichiarazione di
assunzione della spesa “spedalizza”. Poi la Prefettura avrebbe rimborsato il
Comune.
Un internato ha chiesto un aumento del sussidio per motivi di salute che gli
imponevano una dieta ricca di carne. Dopo verifiche e pareri medici gli viene
concesso dalla Questura un aumento di 2 Lire al giorno per una durata di tre mesi.
Scaduti i tre mesi ripresenterà la domanda e l’aumento verrà concesso per altri tre
mesi.
Interessante la vicenda di un internato, proveniente da Ferramonti, che aveva
spedito i bagagli dalla stazione di Mongrassano (Cosenza), una ventina di Km dal
lager, destinazione Arsiero. Il Comune di Arsiero gli anticipò 100 Lire per le spese di
spedizione per poi recuperarle un po’ al mese togliendole dal sussidio. L’internato
appena potè fece presente che il sussidio, già molto modesto, decurtato anche
della quota per i bagagli, non gli permetteva di vivere e chiese di avere per intero
il sussidio. Il Ministero degli Interni rispose negativamente dovendo provvedere
41
Le Porte della Memoria 2016
l’internato alla spesa per i trasporto dei bagagli. I colli, con vestiario e indumenti
pesavano 96 Kg.
Non è questo l’unica richiesta di contributo per la spesa di spedizione dei bagagli;
in un altro caso il Ministero degli Interni respinse la richiesta non essendo stata
chiesta preventiva autorizzazione.
Vietato agli internati ogni lavoro
Altre richieste che pervenivano al Commissario Prefettizio riguardavano la
possibilità di lavorare per poter arrotondare le poche entrate. Lavori di tutti i tipi. I
giovani stranieri che volevano
aiutare la famiglia, chiedevano
la possibilità di dare lezioni
private di tedesco. Un giovane
allora ventenne,
rivolse al
Questore una richiesta di dare
lezioni di tedesco per “non soffrire
la fame”. Precisa che i guadagni
saranno di Lire 9 alla settimana e
chiede l’autorizzazione per poter
continuare con le lezioni.
Analoga richiesta, in pari data,
da parte del padre di un giovane
diciannovenne. Il Commissario
prefettizio
auspicò
che
la
richiesta venisse accolta, visto
che lui stesso definisce limitato il
sussidio giornaliero di 3 Lire che
spetta ai giovani, anche se ormai
sono uomini di vent’anni.
Ma il Questore, inflessibile, rispose
negativamente, attribuendo il
rifiuto a superiori disposizioni.
Altra richiesta di lavoro rivolta alla
Questura e che sarà negata
venne
presentata
da
un
internato che chiese di potersi
recare a Velo d’Astico dove c’è
un agricoltore il quale, essendo Richiesta di Moses Landmann affinché il figlio potesse
dare lezioni private di tedesco e risposta negativa
adesso la stagione dei lavori della Questura.
campestri e trovandosi senza
aiuti, mi ha chiesto di venire da lui ogni giorno per aiutarlo. Sarei contento se
potessi, dato la mia conoscenza dei lavori agricoli, aiutare questo contadino.
L’autorizzazione a fare lavori agricoli veniva sempre rifiutata per non danneggiare
la manodopera locale6.
Una signora, di mestiere sarta, si rivolse alla Questura per poter utilizzare 1.000 Lire
pervenute da un parente e ferme in Municipio per acquistare una macchina da
cucire (usata), avendo la possibilità di lavorare. Nel giro di una settimana la
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Le Porte della Memoria 2016
Questura accolse la richiesta. I Carabinieri chiedono un chiarimento alla Questura
in merito alla possibilità da parte di un internato di lavorare come sarto per conto
terzi. La risposta è che agli ebrei non è consentito lavorare per conto terzi.
Un internato in data 9 agosto 1942 chiese alla Questura di poter mettere in pratica
la sua professione di meccanico di precisione e di orologiaio per piccole
riparazioni. Ottenuta l’autorizzazione, inoltrò una seconda richiesta per poter
riparare anche macchine da cucire e da scrivere non essendo presente in paese
un servizio di questo tipo. Anche questa richiesta fu accolta “attenendosi però alle
disposizioni impartite in materia da questo ufficio”.
Un aiuto agli internati venne dalla Delasem, organizzazione ebraica
Gli ebrei internati in Italia fino all’8 settembre 1943 hanno potuto contare sull’aiuto
della Delasem7, organizzazione dipendente dall’Unione delle Comunità Israelitiche
italiane, sorta il 1° dicembre 1939, con sede a Genova in piazza Vittoria 14/4,
riconosciuta dal governo fascista e che operò fino all’8 settembre. Dopo questa
data proseguì il suo impegno nella clandestinità. Sua finalità era l’assistenza degli
ebrei stranieri profughi in Italia e l’aiutarli ad emigrare in paesi neutrali, come la
Spagna.
La corrispondenza a disposizione, intercorsa fra Delasem, Comune, Questura e
internati è molto fitta e dalla sua lettura si colgono i molti ostacoli che il Regime
pose alla sua azione di aiuto verso i profughi.
Questo un esempio degli ostacoli frapposti. In una lettera del 7 dicembre 1941 (XX)
l’Unione delle Comunità israelitiche di Roma al Questore, lamentò che il Comune
di Arsiero si rifiutava di consegnare un assegno di 1.000 Lire al destinatario,
portando a motivo che attendeva disposizioni da Vicenza. Già il 17 dicembre il
Questore invitò il Comune a consegnare l’assegno. Pare però che in data
31dicembre l’assegno non fosse ancora nelle mani del legittimo destinatario e
pertanto il Presidente Cav. Gr. Cr. Dott. Dante Almansi (cavaliere di Gran Croce)
scrisse nuovamente al Questore chiedendo il suo intervento per la consegna
dell’assegno al fiduciario incaricato di distribuire la somma fra i suoi compagni più
bisognosi. Il 5 gennaio il Questore chiese al Podestà di avere conferma della
consegna al fiduciario della lettera con allegato assegno di 1.000 Lire del Credito
Italiano.
Risulta che nei mesi dell’inverno 41/42 era operante ad Arsiero un comitato della
Delasem presieduto da un signore, ebreo ex polacco (significa che era apolide),
a cui la Delasem inviava, tramite il Comune, soldi e generi di prima necessità da
distribuire fra gli internati più bisognosi.
Alcuni internati si trovano veramente in una situazione di grave bisogno, come la
signora che chiese un aiuto in quanto era fuggita dalla Jugoslavia con quello che
aveva indosso ed era priva di qualsiasi mezzo di sussistenza.
Con lettera del 23 novembre 1942 questa signora si rivolse alla Questura per
sollecitare la consegna da parte del Comune di Arsiero di un vaglia di 900 Lire,
ricevuto dal Sig. Settimio Sorani8 di Roma, denaro necessario per acquistare un
paletò, vestiti e biancheria per l’inverno, scarpe. Della somma aveva avuto, in
base alle disposizioni vigenti, solo 200 Lire (100 Lire per ogni membro della famiglia)
e le rimanenti 700 Lire depositate in un libretto di banca. Chiese di poter avere
anche la somma residua in quanto in grave stato di bisogno. La Questura,
43
Le Porte della Memoria 2016
accertata la necessità dell’acquisto da parte dell’interessata di indumenti
personali, invernali, autorizzò il Comune a consegnare anche le 700 Lire residue.
Questa signora si trovò a dover ricorrere al Questore anche in altre occasioni;
come ebbe a scrivere alla Questura un parente si era impegnato a mandarle
ogni tanto delle somme che regolarmente il Comune bloccava. Una volta 300
Lire per provvedere agli indumenti più necessari per lei e la figlia, un’altra volta 400
Lire. La Questura autorizzò la consegna delle somme.
Interessante la circolare che giunse all’incaricato locale della DELASEM il 1°
maggio 1942 che si riporta per intero:
Abbiamo ricevuto la Vostra richiesta di indumenti e ci pregiamo farVi presente
quanto segue:
La Delegazione non è più in grado di provvedere a tutte le richieste di indumenti
che le pervengono, perché le raccolte tra i suoi oblatori non sono sufficienti a
fronteggiare tutte le necessità. Possiamo perciò evadere le richieste dei nostri
assistiti adesso e in futuro soltanto se essi ci manderanno l’intera TESSERA
D’ABBIGLIAMENTO affinché possiamo, nei limiti delle nostre possibilità finanziarie,
trovarci in grado di acquistare all’ingrosso gli indumenti che ci mancano. Se Voi
desiderate che la vostra richiesta sia evasa, dovrete inviarci immediatamente
l’intera tessera d’abbigliamento. Vi facciamo presente che non possiamo
impegnarci di inviarVI degli indumenti nuovi oppure usati, ma essi saranno
senz’altro in buono stato. Non sarà data evasione alle richieste di indumenti di
quegli assistiti che non ci manderanno tale tessera. Non sarà fatta alcuna
eccezione. Quegli internati che sono in grado di pagare gli indumenti che
necessitano loro e non hanno la possibilità di acquistarne nella loro località
possono inviarci i punti relativi all’oggetto da acquistare con l’importo necessario
e provvederemo all’acquisto.
Preghiamo inoltre di inviarci, unitamente alla carta d’abbigliamento, le misure
esatte degli interessati.
Il delegato avv. Lelio Vittorio Valobra
Da maggio 1942 qualcosa cambiò e il Comune trattenne la corrispondenza in
arrivo e in partenza dell’incaricato della Delasem, in base ad una circolare
emanata dal Ministero9 che non ammetteva più l’attività dei comitati locali.
Vennero così bloccate lettere contenenti assegni e corrispondenza in arrivo che,
tramite la Questura, vennero restituite alla sede centrale di Genova della
Delasem. Da questo momento la Delasem poteva comunicare solo direttamente
con gli interessati e non a mezzo fiduciario.
Altre forme di aiuto vennero rivolte ai bambini ebrei con l’Azione speciale per
bambini, una specie di adozione a distanza, organizzata dalla Delasem “Giorgio
Nissim” di Pisa.
Tramite il referente locale della Delesem vennero inviate cinque lettere con data 6
febbraio 1942, destinate alle famiglie con giovani o bambini. Benefattori furono
persone di Trieste e la scuola di Trieste Morpurgo10. Un esempio di lettera è il
seguente:
Ho il piacere di comunicarVi che i ragazzi della II.a liceo della Scuola IS. Morpurgo
di Trieste si sono assunti la protezione di Vs. figlio ……………. con il quale
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Le Porte della Memoria 2016
entreranno in diretta corrispondenza. Lieti di diventarne gli amici affettuosi e
portare a Vs. figlio aiuto e conforto.
Formulando i miei migliori auguri. Vi saluto distintamente.
F.to G. Nissim
Analoghe lettere sono state inviate agli altri giovani internati presenti ad Arsiero.
Problemi di salute, visite e ricoveri
ospedalieri l’unico modo per
uscire da Arsiero
A vedere le molte richieste per
recarsi fuori paese a Schio,
Vicenza, Thiene soprattutto per
cure dentarie, viene da pensare
che gli internati di Arsiero avessero
in precedenza molto trascurato le
cure ai denti.
Bisogna ricordare che gli ebrei
erano internati civili e che
pertanto non potevano, di norma,
uscire dai confini del Comune
dove erano assegnati. Walter
Landmann, richiesto di un parere
sulle molte visite mediche e
dentistiche che venivano richieste
dagli internati, ritiene che non
fossero dettate da secondi fini,
almeno per la gran parte. Secondi fini
che invece furono alla base della
decisione del Podestà di sospendere, in
data 15 maggio 1942, tutti i permessi per
10 giorni, tranne i casi di comprovata
gravità, dopo il fermo dell’internato alla
stazione di Arsiero, citato poco sopra, con
generi alimentari e pellicce.
Il dott. Paolo Tagini11, ritiene che le visite
mediche, da effettuarsi nei grossi centri
vicini, Schio, Thiene, Vicenza, erano un
buon motivo per stabilire contatti, scambi
e affari al fine di procacciarsi soldi e
alimenti, per attenuare le ristrettezze a cui
erano
costretti
dalle
condizioni
dell’internamento.
La richiesta per recarsi dal dentista fuori
paese, ad Arsiero, infatti, queste cure non
erano possibili, doveva essere presentata
alla Questura, tramite il Comune e con
allegato un certificato del medico
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Le Porte della Memoria 2016
condotto di allora, il dott. Pietro Dal Maso12. La Questura, verificato tramite i
Carabinieri che la cura fosse necessaria e urgente e non esistesse la possibilità di
cura in loco, autorizzava l’uscita. Se l’interessato aveva poi bisogno di altre sedute
dal dentista, doveva chiedere altre autorizzazioni.
La Questura autorizzava chiedendo che il Comune rilasciasse per ogni visita
un’autorizzazione scritta che l’interessato doveva presentare alla stazione dei
Carabinieri del centro raggiunto per la visita e, una volta timbrata, restituita al suo
ritorno ad Arsiero.
Ad una richiesta della Questura se il dott. Pietro Dal Maso fosse anche medico
dentista e potesse eventualmente praticare le cure dentarie occorrenti agli ebrei
stranieri internati in codesto Comune, Il Comune rispose che il dott. Dal Maso non
è attrezzato per eseguire cure dentarie e protesi dentarie complete; il medesimo,
d’altra parte, non potrebbe disporre del tempo necessario per praticare tali cure;
cure che esigono parecchie ore di lavoro.
Ci sono richieste per avere l’autorizzazione di recarsi all’ospedale di Schio per
trovare il coniuge e o il famigliare ricoverato.
C’ è anche il problema della conoscenza della lingua italiana. Un internato chiese
che una signora internata potesse accompagnare la propria moglie all’ospedale
di Schio in quanto né la moglie, né lui parlavano italiano. Successivamente la
moglie verrà ricoverata e il marito chiese di poterle fare visita. La Questura
autorizzò una vista alla settimana, a spese dell’interessato.
Passa qualche mese e il signore chiese di poter rivolgersi ad un oculista in quanto
aveva perso gli occhiali; occhiali speciali perché, avendo 64 anni, aveva perso
molto la vista. A supporto della sua richiesta presentò un certificato medico
del’Ufficiale sanitario del Comune dott. Piero Dal Maso. Richiesti di parere da
parte della Questura,
i Carabinieri di Arsiero confermarono le necessità dell’internato:
L’ebreo in oggetto si recherebbe a Schio per farsi misurare la vista e acquistare un
paio di lenti che ha rotto circa due mesi fa. Ora porta un paio di lenti che ha in
prestito dal signor Zambon Silvio di Arsiero. La predetta cura non presenta
carattere d’urgenza in quanto il predetto internato è in possesso di un paio di lenti,
per quanto non siano misurate alla sua vista. Ad Arsiero non vi sono oculisti che
possano eseguire la cura di cui abbisogna il suddetto. Nulla osta da parte di
questo comando acchè il sunnominato si rechi a Schio per la cura predetta.
L’autorizzazione arrivò dalla Questura a tempo di record (domanda del 21
Dicembre 1942 e autorizzazione del 14 gennaio 1943, con in mezzo le feste di Fine
Anno!). Si autorizzò, limitatamente ad un solo giorno e che tutto fosse a spese del
richiedente.
Furono presentate richieste per effettuare visite a parenti o conoscenti internati in
altri Comuni. Una richiesta di andare a trovare uno zio a Camisano Vicentino,
anche lui internato, a cui è nato un bambino, non fu accolta. Un’altra richiesta di
far visita ai cugini a Lastebasse non venne accolta, la Questura autorizzò invece
una signora a recarsi a Posina, per un giorno, a trovare i parenti.
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Le Porte della Memoria 2016
Due casi di non rispetto delle prescrizioni e delle norme a cui erano soggetti gli
internati
Molto spesso gli internati per procurarsi cibo e soldi erano costretti a correre anche
dei rischi, non rispettando le dure regole in vigore.
Nel maggio del 1942 accade un fatto che deve aver turbato alquanto la piccola
comunità degli internati di Arsiero. Un signore venne fermato dai Reali Carabinieri
di Arsiero, alla stazione ferroviaria e arrestato per “accaparramento di generi
razionati e prezzi maggiorati”. Il Prefetto puntualmente segnala il misfatto al
Ministero degli Interni:
Il 13 andante l’arma dei CC. RR. di Arsiero sorprendeva in quello scalo ferroviario il
sopradescritto individuo con due valigie. Perquisiti i di lui bagagli, rinveniva e
sequestrava Kg 1,10 di strutto, Kg 1,5 di lardo, Kg 0,290 di burro, Kg 0,300 di sapone
da bucato liquido. Alle contestazioni il signore dichiarava di avere ricevuto tale
quantitativo di generi razionati da una signora a titolo di compenso per la
riparazione di una pelliccia. Pertanto egli è stato tratto in arresto per rispondere di
concorso in sottrazione di merci al normale consumo. Poiché è risultato che il
medesimo traffica in materia annonaria e nonostante ogni avvertimento continua
a tenere contatti di affari con ariani propongo che a soddisfatta giustizia, sia
internato in un campo di concentramento anche perché il provvedimento serva
di monito agli altri ebrei.
Ho provveduto con provvedimenti amministrativi anche a carico degli esercenti
che avevano rapporti di affari con il signore.
Sono i Carabinieri della tenenza di Schio ad inviare in data 17 maggio 1942
un’ampia relazione alla Reale Questura di Vicenza e p.c. al Comando
Compagnia Est. CC. RR. Di Vicenza:
Parecchi ebrei stranieri internati ad Arsiero sono riusciti ad ottenere da codesta
Regia Questura la facoltà di chiedere al Podestà del luogo l’autorizzazione di
recarsi a Schio, o a Thiene oppure a Vicenza col pretesto di dover subire cure
dentarie, esami radiologici e simili.
La concessione di tali permessi è degenerata con abuso giacché nella
maggioranza dei casi i viaggi vengono compiuti a scopo esclusivamente
affaristico.
La sera del 13 corrente i militari dell’Arma di Arsiero fermarono il suddito ex
Jugoslavo …. ebreo colà internato il quale ritornava in treno ad Arsiero con due
grosse valigie.
Costui aveva ottenuto dal Podestà del luogo l’autorizzazione scritta di recarsi a
Vicenza per cura dentaria.
Egli invece scese a Piovene ove si procurò una bicicletta. Si recò quindi a Thiene
ove fece acquisto di varia merce per sé e per altri internati. Poi si recò al negozio
di pellicceria di certo Testolin Guido13 per riconsegnare due pellicce rimodernate
per conto dello stesso Testolin dall’ internato …… e da …………. un altro internato
di Arsiero.
La sera fece ritorno a Piovene ove restituì la bicicletta a certa Campielli la quale
gli affidò una sua pelliccia da rimodernare in conto pagamento gli consegnò i
seguenti generi extra tessera:
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Le Porte della Memoria 2016
Kg 1,00 di strutto conteggiandolo a Lire 39 il Kg
Kg 1,015 di lardo conteggiandolo a Lire 45 il Kg
Kg 0,250 di burro conteggiandolo a Lire 35 il Kg
Kg 0,300 di sapone da bucato per lire 2,50
All’atto del suo ritorno ad Arsiero il …………. oltre ai generi suddetti, portava anche
tre pellicce affidategli da clienti procurati a Thiene e a Piovene che unitamente al
………………………..(altro internato) doveva poi rimodernare. I generi soggetti a
razionamento sono stati poi sequestrati e il ……….. è stato tratto in arresto
dovendo rispondere di conseguenti reati annonari.
L’inconveniente più sopra prospettato consiglierebbe procedere ad una revisione
delle autorizzazioni finora concesse e trattare con criterio di maggiore rigore quelle
da rilasciarsi in avvenire
Il Tenente comandante
I reati commessi furono due: quello annonario di essersi procurato generi
alimentari extra-tessera e quello di aver svolto attività lavorativa vietata agli ebrei.
La moglie fece richiesta per poter visitare il marito nell’infermeria del carcere di
Vicenza dove era ricoverato, ma la Questura non autorizzò.
Il 1° luglio 1942 il Tribunale di Vicenza lo condannò a sei mesi di reclusione e a 1.000
Lire di multa, nonché alle spese processuali e tassa di sentenza.
Prontamente il Ministero dell’Interno dispose che l’internato in oggetto fosse
trasferito, a pena scontata, da Arsiero al campo di concentramento di Ferramonti
di Tarsia, dove doveva essere tradotto a mezzo dell’Arma.
Alla moglie venne concesso di fargli visita in carcere a Vicenza ogni 15 giorni. La
signora inoltrò subito al Ministero degli Interni la richiesta di essere trasferita,
assieme al marito, al campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia. Il Ministero
accolse la richiesta e informò p.c. il direttore di Ferramonti. Successivamente la
moglie chiese al Ministero dell’Interno la revoca del trasferimento del marito a
Ferramonti di Tarsia portando motivi di salute documentati da certificato medico
e, venuta a sapere che a seguito dell’amnistia gli sarebbe stata condonata metà
della pena, chiese che, in attesa dell’esito della richiesta di revoca del
trasferimento, il marito potesse tornare ad Arsiero, una volta espiata la pena. A
fine agosto, per motivi di salute, il marito venne trasferito nelle carceri di Thiene e
alla moglie fu concesso di visitarlo ogni domenica, come da sua richiesta e per
una volta venne autorizzata a visitarlo anche la sorella del condannato, pure lei
ad Arsiero.
Walter Landmann ricorda che suo padre, in occasione di una seduta da un
dentista a Thiene, si recò a visitare l’amico rinchiuso nelle carceri.
Il 14 novembre l’espiazione della pena ebbe fine e in dicembre il Ministero
dell’Interno accolse la richiesta della moglie e autorizzò il tizio a rimanere ad
Arsiero.
Pochi giorni dopo la sentenza di condanna la moglie chiese che le venisse versato
il sussidio di 8 Lire, come capofamiglia, durante il periodo di detenzione del marito.
In breve arrivò l’autorizzazione del Ministero all’aumento del sussidio a partire dal
momento dell’arresto.
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Le Porte della Memoria 2016
Ci fu un altro caso accertato di trasgressione delle imposizioni che gli internati
dovevano rispettare, quella di non poter ricevere e spedire corrispondenza e
pacchi senza un controllo delle autorità fasciste. Una famiglia di quattro membri
aveva trovato alloggio presso la trattoria Al Sole, gestita dalla madre della signora
Luigia Borgo, detta Gigetta, nata ad Arsiero nel 1910.
Facciamo parlare i documenti.
Lettera della Prefettura di Vicenza
alla Questura, data nel timbro 26/6/1942
Oggetto Mittente ? da Milano
Destinatario Gigetta Borgo, trattoria Al Sole, Arsiero (VI)
Si trasmette l’unita corrispondenza perché trattasi di lettera in doppia busta diretta
ad un internato con indirizzo sulla busta esterna di una donna che si presta a
ricevere posta per un internato. Per i provvedimenti di competenza.
In data 27 giugno il Questore risponde al Podestà convocando in data 4 luglio la
signora Gigetta in Questura. Questo il verbale dell’interrogatorio della signora
Luigia Borgo.
Dimorano nella trattoria con alloggio, di cui è titolare mia madre due coniugi ebrei
stranieri con due bambini. Io non ho con loro alcuna dimestichezza, anche perché
parlano poco o niente l’italiano, per cui non riesco neanche a comprenderli.
A D.R. (a domanda risponde, n.d.r.) I predetti non mi hanno mai chiesto, e quindi
non li ho mai autorizzati, a farsi indirizzare la loro corrispondenza al mio nome.
Pertanto la lettera che mi mostrate, diretta a me, e contenente altra lettera, in
una busta interna diretta al ……..(al capofamiglia ospite), è stata fatta spedire da
questi a mia insaputa ed io ignoro anche chi sia il mittente.
Confermo che il ……non mi ha mai parlato di corrispondenza e tanto meno di
servirsi del mio nome per farsela recapitare.
A D.R. Circa 20 giorni fa mi fu recapitato dal portalettere una lettera a me diretta.
Alla consegna di tale lettera era presente il ………….. (l’internato). Io aprii la lettera
e subito ……………. me la tolse di mano dicendo che si trattava di corrispondenza
sua (la lettera è conservata in Archivio di Stato e in effetti nella busta interna era
scritto il nome dell’internato). Io feci le mie rimostranze, assai vivaci, per tale fatto,
ed il ……….per calmarmi, mi assicurò che la cosa non si sarebbe più ripetuta.
Io avevo in animo qualora mi fossero giunte ancora altre lettere dirette al
predetto, di consegnarle ai Carabinieri.
Ignoro anche la provenienza della succitata lettera diretta al …..recapitata una
ventina di giorni fa.
Letto,confermato e sottoscritto.
La lettera era scritta in tedesco e la Questura la fece tradurre. Si trattava di
normale corrispondenza con una famiglia amica, dove si parlava di salute e delle
solite cose, quando è tanto tempo che non ci si vede.
Non è dato sapere come si concluse la vicenda; rimane l’interrogativo di chi
abbia fatto la denuncia.
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Le Porte della Memoria 2016
Questa famiglia, proveniente da Belgrado dove il capofamiglia era vice direttore
della sede delle Assicurazioni Generali di Trieste, era giunta in Italia, passando per
Trieste e poi trovando alloggio a Vicenza, con tutte le autorizzazioni sia delle
autorità italiane che di quelle tedesche. Successivamente la Questura decise il
trasferimento della famiglia ad Arsiero in quanto Vicenza era sede di importanti
strutture militari e la linea ferroviaria che passa per Vicenza era di importanza
strategica. Da subito Il capofamiglia fece ricorso contro il trasferimento,
sostenendo di essere entrato in Italia rispettando tutte le regole e quindi doveva
essere considerato un “libero cittadino” e non un internato. La pratica, iniziata nel
maggio 1942, richiese il pronunciamento del Comando Supremo
Servizio
Informazione Militare Centro C.S. di Verona che diede il Nulla Osta per la revoca
del provvedimento di internamento adottato nei loro confronti. Finalmente il 31
agosto il Ministero dell’Interno pronunciò la revoca del provvedimento di
internamento, confermando l’obbligo di residenza ad Arsiero.
In merito alla corrispondenza, la Questura di Trieste segnalò a quella di Vicenza di
aver bloccato una lettera senza il prescritto visto dell’autorità di P.S. inviata ad un
signore di Trieste, spedita da un internato. La lettera fu inviata, tramite la Questura,
al Podestà di Arsiero con l’invito di richiamare l’internato al rispetto delle norme,
essendoci l’obbligo per gli internati di presentare la corrispondenza all’ufficio
addetto della Questura per la revisione. In caso l’internato volesse rispedire la
lettera in questione, doveva seguire la procedura corretta.
Ancora un caso segnalato alla Questura, quello di un pacco di libri usati inviato al
locale Ufficio Postale, indirizzato al sig. Borgo Giacomo, sarte di Arsiero e destinato
ad un internato civile. Il Podestà inviò il pacco in Questura.
Ricomposizione dei nuclei famigliari
Fra i documenti esaminati tre si riferiscono a richieste di ricongiungimenti familiari
ad Arsiero rivolte al Ministero degli Interni.
Una richiesta riguarda il fratello internato a Ferramonti, per motivi di salute; a
Ferramonti, il fratello, in breve tempo, aveva perso 12 Kg causa il clima molto
dannoso. Ad Arsiero avrebbe avuto anche l’assistenza dei familiari.
Una signora chiese il trasferimento dei parenti internati a Quero di Belluno.
Ancora una domanda per chiedere il trasferimento del cognato dal campo di
concentramento di Casoli (Chieti).
Le domande vennero tutte respinte dal Ministero degli Interni accogliendo così il
parere negativo della Prefettura di Vicenza per i rilevante numero di ebrei internati
in questa provincia.
Di fronte a queste richieste viene da pensare che le condizioni di vita degli
internati ad Arsiero, nonostante tutte le limitazioni, non fossero poi così pesanti.
Richiesta di documenti di identità
Caduto il Fascismo il 25 luglio 1943, alcuni internati (almeno 5 nuclei familiari)
chiesero a partire dal 3 agosto il rilascio di documenti di identità. La richiesta era
rivolta alla Questura affinché autorizzasse il Comune a procedere al rilascio dei
documenti e che tali documenti fossero nella disponibilità degli interessati.
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Le Porte della Memoria 2016
Evidentemente essere privo di documento di identità ti fa sentire prigioniero,
nell’impossibilità di qualsiasi spostamento e quindi in balia di altri.
E’ evidente che gli internati più attenti pensassero di lasciare l’Italia al più presto,
per luoghi più sicuri, temendo quello che poi si sarebbe verificato con l’8
settembre, e cioè l’occupazione da parte dei tedeschi.
Walter Landmann ricorda precisamente quei giorni:
mi trovavo a lato della strada che portava giù dai passi alpini dell’Austria e
guardavo i mezzi di trasporto truppe ancora dipinti con i colori da deserto e i carri
armati leggeri che scendevano verso il fronte meridionale e anche se avevo solo
16 anni ricordo che dissi a mio padre: “Per amor di dio, andiamo in Svizzera prima
che arrivino le SS”. Lui rise e mi disse che nessuno si sarebbe curato di noi in questo
caos. Quanto aveva torto!! Lui, l’eterno ottimista ed io, l’eterno pessimista, che
ancora sono oggi.
Il 7 agosto 1943 il Questore rispose al Podestà, respingendo le richieste, tutte con la
medesima motivazione:
…trattandosi di un internato, e non avendo quindi bisogno di alcun documento di
riconoscimento, Vi prego di comunicare che la sua istanza non può essere
accolta. Ove non sia in possesso di alcun documento di identificazione e tale
documento gli occorra per acquisti di oggetti e per altri generi per i quali sia
richiesta la presentazione di un documento ufficiale, Vi autorizzo a rilasciare una
carta di identità provvisoria. Si intende che tale documento dovrà essere restituito
subito dopo usato. Il Questore
La caduta del Fascismo non significò un cambiamento della politica nel campo
delle leggi razziali da parte del Governo Badoglio; solo nel gennaio 1944 queste
leggi infami sarebbero state abrogate dal “Regno del Sud”.
Poi arrivò l’8 settembre con i Nazisti!
Il 12 Novembre 1943 il Commissario Prefettizio scrisse al Questore una
comunicazione urgente . Pregasi comunicare se possa essere rilasciato da questo
Comune la carta di identità definitiva al sig. …..(lo stesso della lettera in doppia
busta), dichiarato non internato con provvedimento del Ministero.
Il 16 novembre il Questore risponde che la carta di identità poteva essere rilasciata
indicando però nella stessa la nazionalità e la razza.
In molti riuscirono a mettersi in salvo
Con l’8 settembre fu evidente che la vita degli ebrei internati era nuovamente in
pericolo e che a loro non restava che mettersi in salvo nascondendosi o fuggendo
lontano dai Nazisti. La meta dei più fu la Svizzera raggiunta per diverse vie,
andando a Tirano e poi passando in Svizzera in Valposchiavo o raggiungendo
Milano, le province di Lecco e di Como e poi il Canton Ticino.
Di recente Walter Landmann ha fornito notizie sulla fuga da Arsiero di due famiglie
di suoi conoscenti, informazioni che lui ha avute da una giovane partecipante alla
fuga, ancora in vita.
Questo il racconto:
Un gruppo di quattro persone, parenti fra loro, sono riuscite ad avere
l’autorizzazione per recarsi a Vicenza per una visita medica. Con l’occasione due
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Le Porte della Memoria 2016
di queste persone hanno preso un treno per raggiungere Varenna14 per avviare
contatti con chi avrebbe dovuto dare loro assistenza per raggiungere il confine
svizzero.
Ritornano ad Arsiero con questa buona notizia e tutto il gruppo di quattro persone
prende un treno per Menaggio, privo di documenti. Con l’assistenza della Chiesa
di Menaggio sono trasferiti al paese di Còrrido da dove si può già vedere il confine
svizzero. Due di loro passano sotto la rete e incontrano la polizia svizzera che li
respinge e devono tornare in Italia. I frequentatori di una trattoria, fra cui un uomo
con il cappello dei bersaglieri, osservano i loro movimenti e portano il gruppo in
Municipio. Lì, il Podestà fornisce a tutti e quattro carte d’identità false, dove
risultano sfollati dall’Istria. Il Podestà fornisce loro anche di soldi e così prendono il
treno per Monza e bussano alla porta di casa di una persona che avevano
conosciuto ad Arsiero. Questa persona, rischiando anche la vita, se scoperta, li
nasconde a casa sua per tre mesi. Per interessamento del vescovo di Como
vengono poi nascosti in un convento. Ora tutto è pronto per il nuovo tentativo di
entrare in Svizzera attraverso un accesso diverso dal primo. Guide esperte li
portano di notte fino al confine percorrendo una salita molto difficile. Attraversano
il confine da soli e due soldati svizzeri arrivano per aiutarli.
Al mattino sono portati nel carcere di Chiasso e anche questa volta gli svizzeri li
respingono. La persona più anziana del gruppo protesta dicendo che è malata di
tubercolosi e rifiuta di lasciare il paese. Infine i quattro del gruppo sono ammessi in
Svizzera da un capo della polizia.
Una famiglia, presente ad Arsiero, dopo la guerra ha aperto una pellicceria a
Vicenza ed è poi emigrata negli USA.
Gli ultimi a mettersi in salvo furono le famiglie Klein e Landmann aiutate da don
Antonio Frigo che organizzò il viaggio per la Svizzera, sotto la guida di Rinaldo
Arnaldi.
I particolari della loro fuga verso Ia salvezza sono ben documentati dalla
testimonianza Walter Landmann e Marion Klein Fischer. Il loro racconto è riportato
nei fascicoli “Le Porte della Memoria” 2013, 2014 e 2015.
Partirono da Arsiero il 9 febbraio 1944, alle 5 di mattina, in treno, come ha scritto
Agnes Klein, la madre di Marion, nel suo diario e arrivarono in Svizzera l’11
febbraio, dopo una attraversata, a piedi, di notte, delle Alpi, durata 13 ore.
Pochi giorni prima, da Tonezza del Cimone, il 30 gennaio partì il gruppo di 45 ebrei
lì rinchiusi nella colonia Umberto I°, che raggiunse Auschwitz il 6 febbraio. Fra loro
c’era anche la famiglia Landmann che miracolosamente, per un soffio, riuscì a
lasciare il gruppo a Vicenza, invocando le leggi di Norimberga che non
prevedevano la deportazione delle famiglie miste. Infatti il padre Friedrich Moses
era ebreo e la madre Barbara Eckel era ariana e cattolica.
52
Le Porte della Memoria 2016
La tragedia. I disperati tentativi di Stabholz Menasse per sfuggire alla morte.
Nel documento riportato nella pagina che segue figura l’elenco degli ebrei
presenti ad Arsiero il 7
dicembre; gli altri avevano
fatto perdere le loro tracce
già da giorni. Qualche
giorno dopo i Carabinieri
ebbero ordine di trasferirli a
Vicenza. Solo i Klein rimasero
ad Arsiero
in quanto la signora Agnes
era incinta di 8 mesi ed
ammalata. Risulta che fu
don Antonio Frigo a battersi
affinché i Klein non fossero
portati a Vicenza.
In Archivio di Stato è
presente
il
seguente
documento,
inviato
alla
Questura di Vicenza, dalla
stazione dei Carabinieri di
Arsiero il 16/12/1943 XXII.
Prot. Riservato
Oggetto: Ebrei internati . Trasferimento alla Questura di Vicenza.
In data odierna, accompagnati dai militari di questa stazione, sono stati avviati a
codesta Questura i sotto riportati internati di razza ebraica per la successiva
assegnazione.
1) Stabholzer Menasse
2) Joscovitz Klara
3) Landmann Moses
4) Eckl Barbara
5) Landmann Heinz
6) Riesenfeld Bertoldo
7) Freund Elena
8) Riesenfeld Hans
Non è stato possibile fare accompagnare anche l’ebreo Klein Alessandro di Josef
e Schiller Agnese, nato il 5/1/1903 avendo costui la moglie incinta di 8 mesi con
due figli di minore età da assistere. Quest’ultimo sarà fatto partire non appena le
condizioni della consorte saranno migliorate.
m. m. comandante la stazione
firmato
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Le Porte della Memoria 2016
In questo elenco manca Schatz Jakub, polacco, sarto, anche lui presente ad
Arsiero per qualche tempo; fu poi trasferito in internamento a Lonigo, dove infatti
risulta presente nel maggio del 1943 e da qui condotto nel lager provinciale di
Tonezza del Cimone.
Il 2 dicembre 1943, Stabholz Menasse scrisse alla Questura per essere autorizzato
ad una vista medica specialistica a Vicenza per lui e la moglie da richiedere in
forma urgentissima: infatti sia lui che la moglie soffrivano di gravi patologie.
I problemi di salute dei due dovevano essere alquanto gravi se i Carabinieri di
Arsiero comunicarono alla Questura quanto segue:
Da riservate informazioni assunte è stato confermato che effettivamente gli
stranieri in oggetto indicati abbisognano di speciali e urgenti cure, …Poiché né in
luogo e né nelle vicine città di Schio e di Thiene esistono specialisti del sistema
nervoso e nevrologhi, si esprime parere favorevole alla concessione
dell’autorizzazione richiesta per portarsi a Vicenza.
Il m. m. comandante la stazione
La Questura autorizzò la visita specialistica a Vicenza per i giorni strettamente
necessari.
In data 20/12/1943 XXII Menasse Stobholz si trovava a Vicenza con la moglie
Joscovitz Klara e scrisse alla Questura una lettera che sa molto di appello
disperato!
Elenca innumerevoli patologie che minano la sua salute e quella della moglie e
chiese per entrambi di essere sottoposti a visita medica per essere eventualmente
ricoverati in ospedale o essere lasciati in internamento libero. Unì alla domanda un
certificato rilasciato dal dott. Dal Maso Piero che porta la data del 13 /12/1943.
La successiva destinazione, anziché l’ospedale, fu il lager di Tonezza del Cimone,
dove arrivarono il 23 dicembre e dopo poco più di un mese, il 30 gennaio,
partirono per Auschwitz in 42, fatti salire sul trasporto n. 6, partito da Milano, dal
binario 21. Nessuno di coloro che si trovavano a Tonezza del Cimone (salvo i
Landmann) tornò e molti finirono subito nelle camere a gas.
L’ultimo atto della tragedia è documentato dalle strette strisce di carta
conservate in Archivio di Stato nei fascicoli di Stabholz Menasse, Joscovitz Klara,
Riesenfeld Berthold, Freund Anna Elena, Riesenfeld Hans, con queste parole:
L’ebreo……………………………………… in data 30 gennaio 1944 è stato prelevato
dalla Polizia Tedesca.
Vicenza 3/02/1944 XXII
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Le Porte della Memoria 2016
Questa ricerca sul soggiorno delle famiglie ebree ad Arsiero, nel corso della
Seconda Guerra Mondiale, meriterebbe un approfondimento ed un
ampliamento, approfittando anche del fatto che molte persone, testimoni dei fatti
accaduti, sono ancora raggiungibili e ci sono persone che hanno ricordi o
documenti che possono arricchire la conoscenza di un fatto che deve trovare un
giusto spazio nella storia di Arsiero e della valle dell’Astico.
Archivio di Stato di Vicenza, Questura di Vicenza, Ebrei internati civili, busta 1.
Paolo Tagini, Le Poche cose. Gli internati ebrei nella provincia di Vicenza 1941-1945,
Cierre gruppo editoriale, Caselle di Sommacampagna (VR), 2006.
3
Angelo Busato, Arsiero panorama storico,tipolitografia G.Fuga e figli, Arsiero (VI), 1993.
4 I gestori del mulino erano Giovanni Signor e la moglie Serafina. Il mulino fu demolito
intorno agli anni ’60.
5 Si trattava della famiglia Faccin; Antonio Faccin con la moglie Costantina (Costanza)
erano i custodi di Villa Rossi e il sig. Antonio lavorava presso la Cartiera Rossi. Avevano due
figli, Caterina del 1913 e Mario del 1920, entrambi oggi defunti. Caterina (Rina) era
sposata con Fontana Giovanni Battista. Nel 1943 i Fontana avevano una figlia, Severina,
di 5 anni e un maschietto, Umberto, nato nel marzo di quell’anno. Successivamente, nel
1955, la famiglia Fontana si è trasferita, prima nel milanese e poi a Riva del Garda.
6
Vedi Le poche cose di Paolo Tagini pag. 86
7
Vedi https://it.wikipedia.org/wiki/DELASEM.
8
Settimino Sorani, presidente della sezione romana della Delasem ed esponente della
resistenza ebraica.
9
La circolare del 18 maggio 1942 del Ministero degli Interni fascista limitò alquanto
l’attività dei referenti, dovendo la Delasem limitarsi “agli scopi assistenziali e al disbrigo
delle pratiche di emigrazione”.
10 Scuola media e liceo gestiti dalla comunità ebraica di Trieste la cui attività fu interrotta
tra il 1943 e il 1945 e poi non più ripresa. Oggi esistono una scuola materna e una primaria
parificate.
11
Paolo Tagini, Le poche cose, pag. 83
12
Angelo Busato, a pag 285 viene citato il dott. Dal Maso, che catturato il 28 giugno del
1944, assieme a un gruppo di fascisti locali, evitò la fucilazione.
13
La pellicceria in questione si trovava in Via Dante, dove ora c’è la sala giochi e una
volta il supermercato Capovin, ovviamente in un edificio che ora non c’è più. La famiglia
si trasferì a Milano nel dopoguerra.
14
Varenna e Menaggio sono due centri sulle sponde del lago di Como; il primo sulla
sponda est, in provincia di Lecco e il secondo sulla sponda ovest, in provincia di Como.
Còrrido è un piccolo comune a 500 m s.l.m., vicino al lago di Lugano, in provincia di
Como.
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2
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Le Porte della Memoria 2016
La stesura dei vari testi è stata curata o coordinata da Giannico Tessari per conto
dell’Associazione Amici della Resistenza.
Si ringraziano quanti hanno collaborato per la realizzazione della dispensa, a
qualsiasi titolo. Un ringraziamento particolare va a quanti hanno contribuito con
loro scritti o i loro racconti, in particolare: Abramo Tognato e Gruppo
Huomologando, Ferdinando Offelli, Adriana Ivanov, Silvia Turra, Marilena Bevardo,
Novella Sacchetto, Mauro Dei Rossi.
Ricordiamo per la preziosa collaborazione Nicoletta Panozzo per l’accurato lavoro
di correzione dei testi e per informazioni, consigli, contatti, Marion Klein Fischer,
Walter Landmann, Gabriele Scarano,Valeria Balasso,
E’ possibile utilizzare quanto contenuto nella dispensa, per attività non a fine di
lucro, a condizione di riportare la provenienza e citando “Dispensa realizzata per
le Porte della Memoria 2016 dall’Associazione Amici della Resistenza di Thiene”.
Thiene, 27 gennaio 2016
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