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le porte della memoria 2016
Comune di Thiene LE PORTE DELLA MEMORIA 2016 Iniziative per commemorare il Giorno della Memoria e il Giorno del Ricordo Programma Martedì 26 Gennaio Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene MARION KLEIN FISCHER SI RACCONTA Le persecuzioni, l’esilio, il domicilio coatto ad Arsiero e la fuga in Svizzera: la testimonianza di Marion Fischer. Conduce la prof.ssa Nicoletta Panozzo, docente di Lettere dell’Istituto Comprensivo di Thiene. Parteciperà il regista Dennis Dellai autore di “Oscar”, il film che narra le vicende del noto jazzista, fratello di Marion. Momenti musicali a cura della classe 3D, indirizzo musicale dell'I.C. di Thiene, con la direzione della prof.ssa Cristina Pasin. Iniziativa riservata agli studenti delle classi terze delle scuole secondarie di primo grado dei Comuni di Thiene, Fara Vic.no, Sarcedo e Zugliano Mercoledì 27 Gennaio Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene LA STORIA LEZIONE DI VITA. L’ESEMPIO DI GIORGIO PERLASCA A cura di Franco Perlasca, custode della memoria del padre, con proiezione di un video. Conduce il prof. Francesco Valerio, docente di Storia e Filosofia del Liceo F. Corradini. Iniziativa riservata agli studenti degli istituti superiori Mercoledì 27 Gennaio Auditorium Città di Thiene - Via Carlo del Prete - Thiene - ore 20.30 LA STORIA LEZIONE DI VITA. L’ESEMPIO DI GIORGIO PERLASCA A cura di Franco Perlasca, custode della memoria del padre, con proiezione di un video. Conduce la prof.ssa Raffaella Corrà, docente di Storia e Filosofia del Liceo F. Corradini. Iniziativa per la cittadinanza - ingresso libero Giovedì 28 Gennaio Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene MARION KLEIN FISCHER SI RACCONTA Conduce il prof. Stefano Secco, docente di lettere dell’ITT Chilesotti. Iniziativa riservata agli studenti degli istituti superiori Venerdì 29 Gennaio Auditorium Città di Thiene - Via Carlo del Prete - Thiene MARION KLEIN FISCHER SI RACCONTA Iniziativa riservata agli studenti delle classi quinte delle scuole primarie di Thiene Domenica 31 Gennaio Auditorium Città di Thiene - Via Carlo del Prete - Thiene - ore 17 DOPO QUINDICI GIORNI NEMMENO L’ERBA… Ricordi del lager dell’alpino Antonio Novella e del fante Giuseppe Novella. Conduce il prof. Daniele Fioravanzo, docente di storia e filosofia del Liceo F. Corradini. Con il coro “PassidoroClass”, formato dai genitori degli alunni dell’Istituto Scolastico Santa Dorotea, diretto dal M.o Lorenzo Fattambrini, che canta alcuni brani tratti da La Favola di Natale di Giovannino Guareschi, compagno di prigionia dell’on. Lino Fornale. In collaborazione con l’Istituto Scolastico Santa Dorotea. L’iniziativa è dedicata all’on. Lino Fornale, presidente dell’ANEI (Associazione Nazionale ex Internati) di Thiene, prossimo ai 100 anni. Iniziativa per la cittadinanza - ingresso libero Giovedì 4 febbraio Biblioteca Civica - Sala Conferenze - Via F. Corradini - Thiene - ore 20.30 ETTY HILLESUM: UN VIAGGIO, UN POZZO, UN BALSAMO Incontro con una testimone attraverso luoghi interiori e reading dai Diari e dalle Lettere Conduce il prof. Giulio Osto, docente di Teologia, Facoltà Teologica - Padova Iniziativa per la cittadinanza – ingresso libero Giovedì 11 febbraio Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene LA TRAGEDIA DEGLI ESULI GIULIANO-FIUMANO-DALMATI: UNA STORIA ITALIANA con proiezione di un video. In collaborazione con l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. A cura della prof.ssa Adriana Ivanov, scrittrice e testimone. Conduce la prof.ssa Nicoletta Braga, docente di lettere dell'ITET Ceccato. Iniziativa riservata agli studenti degli istituti superiori Seguirà un incontro per le classi terze delle scuole secondarie di primo grado di Thiene e Zanè Momenti musicali con gruppo Flauti dell'I.C. di Thiene, diretto dal prof. Domenico Zamboni. Venerdì 12 febbraio Aula magna liceo F. Corradini di Thiene ITALIA E SLAVIA IN ADRIATICO TRA XIX E XX SECOLO A cura del prof. Egidio Ivetic, docente dell’Università di Padova dove insegna Storia dell’Europa Orientale. Iniziativa, in orario pomeridiano, riservata agli studenti del Liceo F.Corradini Venerdì 12 febbraio Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene LA BATTAGLIA DEI PEDALI. GINO BARTALI, UN RAGAZZO CONTROVENTO di Ketti Grunchi A cura del centro di produzione teatrale La Piccionaia. Lo spettacolo è inserito nella rassegna comunale Teatro Ragazzi Sabato 27 febbraio Cinema Patronato San Gaetano dei Padri Giuseppini - Via Santa Maria Maddalena - Thiene CANTANDO CON LE AQUILE RANDAGIE - Immagini, musiche e canti della tradizione scout (1928-1945). La memoria di una grande avventura di Resistenza e di libertà. MASCI Lombardia e Fondazione “Mons. Andrea Ghetti – Baden”. Le Aquile Randagie furono un gruppo scout che dal ’43 al ’45 operò il salvataggio verso la Svizzera di oltre 2000 perseguitati tra ebrei, prigionieri di guerra, dissidenti politici. Iniziativa riservata ai Gruppi Scout di Thiene I, Thiene II, Sarcedo e Breganze. Domenica 28 febbraio Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene - ore 16 CANTANDO CON LE AQUILE RANDAGIE Iniziativa per la cittadinanza - ingresso libero Le leggi istitutive Giorno della Memoria – 27 gennaio legge n. 211 del 20 luglio 2000 "Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti" pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000 Art. 1 1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Art. 2 1. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere. Giorno del Ricordo – 10 febbraio legge n. 92 del 30 marzo 2004 “Istituzione del “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2004 Art. 1 1. La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. 2. Nella giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell'Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all'estero. 3. Il “Giorno del Ricordo” di cui al comma 1 è considerato solennità civile ai sensi dell'articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n. 260. Esso non determina riduzioni dell'orario di lavoro degli uffici pubblici né, qualora cada in giorni feriali, costituisce giorno di vacanza o comporta riduzione di orario per le scuole di ogni ordine e grado, ai sensi degli articoli 2 e 3 della legge 5 marzo 1977, n. 54. 4. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Art. 2 1. Sono riconosciuti il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata, con sede a Trieste, e l'Archivio museo storico di Fiume, con sede a Roma. A tale fine, è concesso un finanziamento di 100.000 euro annui a decorrere dall'anno 2004 all'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata (IRCI), e di 100.000 euro annui a decorrere dall'anno 2004 alla Società di Studi fiumani. 2. All'onere derivante dall'attuazione del presente articolo, pari a 200 mila euro annui a decorrere dall'anno 2004, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l' accantonamento relativo al medesimo Ministero. 3. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. Art. 3 1. Al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti e, in loro mancanza, ai congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall' 8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle province dell'attuale confine orientale, sono stati soppressi e infoibati, nonché ai soggetti di cui al comma 2, è concessa, a domanda e a titolo onorifico senza assegni, una apposita insegna metallica con relativo diploma nei limiti dell'autorizzazione di spese di cui all'articolo 7, comma 1. 2. Agli infoibati sono assimilati, a tutti gli effetti, gli scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati. Il riconoscimento può essere concesso anche ai congiunti dei cittadini italiani che persero la vita dopo il 10 febbraio 1947, ed entro l'anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta in conseguenza di torture, deportazione e prigionia, escludendo quelli che sono morti in combattimento. 3. Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell'Italia. Art. 4 1. Le domande, su carta libera, dirette alla Presidenza del Consiglio dei ministri, devono, essere corredate da una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con la descrizione del fatto, della località, della data in cui si sa o si ritiene sia avvenuta la soppressione o la scomparsa del congiunto, allegando ogni documento possibile, eventuali testimonianze, nonché riferimenti a studi, pubblicazioni e memorie sui fatti. 2. Le domande devono essere presentate entro il termine di dieci anni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Dopo il completamento dei lavori della commissione di cui all'articolo 5, tutta la documentazione raccolta viene devoluta all'Archivio centrale dello Stato. Art. 5 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri è costituita una commissione di dieci membri, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri o da persona da lui delegata, e composta dai capi servizio degli uffici storici degli stati maggiori dell'Esercito, della Marina, dell'Aeronautica e dell'Arma dei Carabinieri, da due rappresentanti del comitato per le onoranze ai caduti delle foibe, da un esperto designato dall'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste, da un esperto designato dalla Federazione delle associazioni degli esuli dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia, nonché da un funzionario del Ministero dell'interno. La partecipazione ai lavori della commissione avviene a titolo gratuito. La commissione esclude dal riconoscimento i congiunti delle vittime perite ai sensi dell'articolo 3 per le quali sia accertato, con sentenza, il compimento di delitti efferati contro la persona. 2. La commissione, nell'esame delle domande, può avvalersi delle testimonianze, scritte e orali, dei superstiti e dell'opera e del parere consultivo di esperti e studiosi, anche segnalati dalle associazioni degli esuli istriani, giuliani e dalmati, o scelti anche tra autori di pubblicazioni scientifiche sull'argomento. Art. 6 1. L'insegna metallica e il diploma a firma del Presidente della Repubblica sono consegnati annualmente con cerimonia collettiva. 2. La Commissione di cui all'articolo 5 è insediata entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e procede immediatamente alla determinazione delle caratteristiche dell'insegna metallica in acciaio brunito e smalto, con la scritta «La Repubblica italiana ricorda», nonché del diploma. 3. Al personale di segreteria della commissione provvede la Presidenza del Consiglio dei ministri. Art. 7 1. Per l' attuazione dell'articolo 3, comma 1, è autorizzata la spesa di 172.508 euro per l'anno 2004. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero. 2. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. 3. Dall'attuazione degli articoli 4, 5 e 6 non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le Porte della Memoria 2016 Marion Klein Fischer si racconta Le persecuzioni, l’esilio, l’internamento “libero” ad Arsiero e la salvezza in Svizzera La famiglia Klein di Eisenstadt (Austria), composta da Alexander, Agnes e dai figli Oscar e Rosa Marion, visse circa due anni ad Arsiero in internamento “libero” e da questa vicinanza al nostro centro è nato il desiderio di meglio conoscere la sua storia di famiglia ebrea costretta a fuggire dalla propria terra per anni, vagando nella speranza di trovare un rifugio sicuro, dove la barbarie nazista non potesse colpirla. Fu per questo che al momento dell’annessione dell’Austria al III Reich cercò di raggiungere la Palestina, senza successo, in quanto fu respinta appena arrivata a Cipro e costretta a tornare al porto di partenza, Trieste. Fu quindi la volta del lager di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, dove rimase circa un anno e che da Marion e da Oscar, deceduto nel 2006, viene ricordato come un periodo sereno dove, pur tra ristrettezze, la famiglia visse lontano dal terrore nazista. E arrivò il turno di Arsiero, tranquillo paese della pedemontana vicentina, dove la famiglia rimase per più di due anni. Qui si inserì positivamente, stabilì rapporti umani che durano tuttora; nonostante molti dei protagonisti di allora non ci siano più, Marion e sua figlia Deborah non smisero mai di amare questa terra. Con l’8 settembre la vita degli ebrei cambiò radicalmente e con l’occupazione tedesca tornarono gli incubi della persecuzione razziale. Nella vicina Tonezza del Cimone fu costituito nel dicembre 1944 il lager in cui dovevano confluire tutti gli ebrei presenti in provincia; fu solo perché Agnes era incinta all’ottavo mese che la misura del trasporto a Tonezza fu sospesa e questo rinvio fu provvidenziale, perché permise a don Antonio Frigo di organizzare la fuga delle ultime due famiglie ebree rimaste ad Arsiero, i Klein e i Landmann, in Svizzera, servendosi di un esperto partigiano, Rinaldo Arnaldi di Dueville che già aveva affrontato più viaggi di questo genere, fra alte montagne innevate, per portare in salvo militari alleati ed ebrei ricercati dai tedeschi. La signora Marion non è in grado di riferire sul viaggio per raggiungere da Arsiero la Svizzera; in soccorso ci è venuto l’ing. Walter Landmann, che nel suo racconto all’interno del presente fascicolo, si sofferma anche sul viaggio con molti particolari. Le due famiglie, per raggiungere la salvezza, impiegarono tre giorni. Viaggiarono in treno da Arsiero a Pisogne, nell’alto lago di Iseo, ovviamente cambiando più volte treno, poi in pullman fino alle vicinanze di Tirano ed infine il percorso notturno sulle montagne al confine con la Svizzera, salendo oltre i 2.000 metri. Il racconto del viaggio testimonia che l’organizzazione che preparava le fughe in Svizzera era molto ramificata e poteva disporre di luoghi per passare le notti, di vari appoggi e di guide di montagna esperte. Le Porte della Memoria 2016 In Svizzera la famiglia dovette affrontare anni di duro lavoro, con tante limitazioni e il dispiacere di non poter rimanere tutti assieme in quanto Oscar e Rosa furono affidati a famiglie svizzere, fra l’altro non ebree, come i genitori avrebbero desiderato. Non risulta che famiglie ebree della zona di Basilea, dove erano stati inviati, avessero dato la disponibilità di ospitare i giovani profughi. Una storia avventurosa, fortunatamente a lieto fine, ma che ha in sé tutti gli elementi della persecuzione razziale nazifascista. La Shoah si è sviluppata durante una decina di anni, con sempre nuove fasi, fino alla “Soluzione finale”. 1) La prima fu il censimento degli ebrei, cosa non facile per l’inserimento secolare delle comunità ebraiche in Europa, per la presenza di famiglie miste, perché non tutti gli ebrei praticavano la religione dei Padri, per tanti altri motivi. Fu una fase dove solerti impiegati comunali e non, compilarono elenchi dei cittadini su base razziale. Basti pensare che la cosa fu applicata anche nella scuola, censendo tutti gli insegnanti e gli studenti ed espellendo gli uni e gli altri. 2) La seconda fase fu l’indebolimento economico delle famiglie ebree, con mille limitazioni alla possibilità di lavorare; molti lavori erano a loro vietati o dovevano essere fatti con molti limiti. Espulsi dalla scuola, dall’esercito, dalle libere professioni, dal commercio e quando mancavano i soldi si doveva vendere quello che si possedeva compresa la casa e tutto diventava più difficile. 3) A questo punto era diventato possibile imporre loro il trasferimento in ghetti, dove i problemi di ogni giorno si fecero ancora più difficili, e soprattutto era la dignità ad essere colpita, dovendo essi subire umiliazioni di ogni tipo. 4) Infine la fase finale, la distruzione in lontani lager del Reich, in particolare della Polonia, ma anche a Mauthausen, nella vicina Austria. La famiglia Klein visse le prime tre fasi e le fu risparmiata solo l’ultima, la più terribile, ma questo per merito di antifascisti coraggiosi che affrontarono pericoli e rischi per aiutare i Klein a mettersi in salvo. In questo caso i nomi degli uomini coraggiosi sono noti, in particolare quello di don Antonio Frigo, professore di matematica e di scienze nel seminario di Vicenza, arsierese e di Rinaldo Arnaldi, partigiano che cadrà in combattimento il 6 settembre dello stesso anno a Granezza. Per questo aiuto alle famiglie Klein e Landmann Rinaldo Arnaldi figura fra i Giusti di Gerusalemme e un albero sta crescendo in quel Giardino in suo ricordo. Le Porte della Memoria 2016 “Giorgio Perlasca un italiano scomodo” libro uscito nel 2010 a cento anni dalla nascita Quarant’anni di silenzio Fino alla primavera del 1990 ben poche persone in Italia conoscevano il nome di Giorgio Perlasca. Poi, il 30 aprile di quell’anno, andò in onda su Rai Due una puntata di Mixer a lui dedicata. D’un tratto milioni di telespettatori appresero la storia del commerciante padovano che nel 1944 a Budapest aveva salvato la vita a migliaia di ebrei spacciandosi per un diplomatico spagnolo. L’anno successivo uscì il libro di Enrico Deaglio La banalità del bene (Feltrinelli, Milano 1991), che ebbe subito un grande successo. Nel gennaio 2002, in occasione del Giorno della Memoria, fu trasmesso in prima serata su Rai Uno il film “Perlasca. Un eroe italiano” diretto da Alberto Negrin e interpretato da Luca Zingaretti. Finalmente gli italiani sapevano, ma per Perlasca era tardi. Nel 1990, quando fu «scoperto» dalla televisione, aveva ottant’anni; sarebbe morto nel 1992. Per oltre quattro decenni la sua vicenda era stata sepolta sotto una coltre impenetrabile di silenzio. Soltanto nel 1987 un gruppo di donne ungheresi si era mobilitato per rintracciarlo e fare conoscere al mondo il suo ruolo di salvatore degli ebrei. Grazie ai loro sforzi erano arrivati a partire dal 1989 i riconoscimenti dell’Ungheria, di Israele (che lo insignì dell’onorificenza di «Giusto tra le Nazioni»), della Spagna e degli Stati Uniti. In Italia tutto taceva. Dopo il ritorno dall’Ungheria, nel 1945, Perlasca aveva trascorso una vita anonima, fatta di precarietà lavorativa e di difficoltà economiche. «Non ho vergogna a ricordare che tante volte ho avuto difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena» confidò a Deaglio. Le istituzioni italiane parevano sorde a qualsiasi appello. Per anni, nell’immediato dopoguerra, Perlasca si era rivolto ai politici per far conoscere la sua storia. Poi aveva smesso, stanco di non essere ascoltato. Neppure i suoi familiari sapevano con precisione che cosa aveva fatto a Budapest in quel terribile inverno del 1944, quando i nazisti ungheresi incalzati dall’avanzata dell’Armata rossa erano stati sul punto di incendiare il ghetto che conteneva più di settantamila ebrei. Dopo la messa in onda della puntata di Mixer a lui dedicata, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo ricevette per un breve colloquio al Quirinale. Deaglio, che lo accompagnò, racconta che l’ottantenne Perlasca dovette farsi a piedi un buon tratto di strada perché nessuno era andato a prenderlo in macchina. Cossiga lo ringraziò «come uomo e come italiano» per ciò che aveva fatto. Qualche tempo dopo Perlasca ricevette a casa, per posta, il diploma di Grande Ufficiale della Repubblica, accompagnato da una lettera in cui si faceva presente che, se voleva la medaglia, avrebbe dovuto acquistarla. Perlasca era amareggiato dall’indifferenza dello Stato italiano, e fu sul punto di rifiutare anche il vitalizio che il Consiglio dei Ministri gli accordò nel 1991 per effetto della legge Bacchelli e che gli fu erogato per pochi mesi prima della morte. Uno dei fattori che ebbero senz’altro un peso nell’obliterazione della memoria fu la sua precoce adesione al fascismo, mai rinnegata. Anche se aveva ripudiato fin da subito le leggi razziali e l’alleanza di Mussolini con la Germania nazista, Perlasca rimase per tutta la vita un uomo di destra. I riconoscimenti dunque non potevano Le Porte della Memoria 2016 venire, e non vennero, dalla sinistra: come conciliare dal punto di vista ideologico il paradosso di un uomo che aveva salvato le vite di tanti ebrei, ma aveva anche militato nelle camicie nere combattendo nella guerra in Etiopia e dalla parte dei franchisti in Spagna durante la violentissima guerra civile del 1936-39? Nemmeno la destra, però, ha avuto il coraggio e la forza di promuovere Perlasca tra le fila dei suoi uomini migliori. Nell’Italia del dopoguerra egli era considerato dalla destra italiana un traditore perché aveva rifiutato le leggi razziali, e dopo l’8 settembre si era schierato dalla parte del re, contro Mussolini. Il Movimento sociale italiano, il maggior partito neofascista nel dopoguerra, era stato fondato ed era gestito da uomini come Giorgio Almirante, Pino Romualdi e Arturo Michelini, che avevano aderito alla Repubblica di Salò. Il clima ideologico di quegli anni, esacerbato dalla guerra fredda e dalla violenta contrapposizione politica, non lasciava spazio a figure «ambigue». Spicca poi un altro gravissimo silenzio: quello della Chiesa cattolica. Alla fine della guerra erano tornati in Vaticano tre uomini che a Budapest avevano sottratto molti ebrei alla deportazione e alla violenza nazista: il nunzio apostolico Angelo Rotta, il segretario della nunziatura Gennaro Verolino e Ángel Sanz Briz, il diplomatico spagnolo che aveva dato carta bianca a Perlasca, permettendogli di agire a nome della Spagna. Tutti e tre avevano conosciuto Giorgio Perlasca a Budapest nell’inverno 1943-44 ed erano stati testimoni del suo impegno a favore degli ebrei. Possibile che nessuno si ricordasse di lui? Anche il silenzio della pubblicistica è sconcertante. I libri che parlano di lui sono pochissimi. Oltre a quello di Deaglio, si conta solo una raccolta di scritti dello stesso Perlasca dal titolo L’impostore (il Mulino, Bologna 1987) che contiene un promemoria stilato su richiesta dello storico ungherese Jeno Lévai, una breve relazione indirizzata al ministro degli Esteri spagnolo sull’attività svolta a Budapest durante la guerra per conto del governo di Madrid, e altri scritti minori. L’oblio a cui Perlasca fu condannato può essere ascritto anche ad alcuni aspetti del suo carattere: una caparbia e inflessibile volontà di pensare con la propria testa, e un altrettanto caparbio rifiuto di piegarsi, di scendere a compromessi e di aggregarsi al carro dei vincitori per ottenere favori. L’ultima intervista Questo libro è basato su un’intervista che Perlasca rilasciò nella sua casa padovana a Dalbert Hallenstein tra giugno e luglio del 1992, un mese prima della morte. Nel corso di una lunga conversazione Perlasca racconta la sua vita, soffermandosi in particolare sugli anni di Budapest ma anche sul periodo precedente, quando soggiornò per lavoro a Belgrado e a Zagabria e fu testimone dei massacri degli ebrei. Alla voce di Giorgio Perlasca si accompagnano quelle di altri testimoni, e in particolare quella del figlio Franco, protagonista di un graduale percorso di scoperta della figura paterna. Quella di Perlasca è in parte una storia di umanità e di coraggio, in parte il ritratto di un conservatore che non ha mai negato il suo passato fascista e per questo ha pagato un prezzo altissimo. La sua vicenda è quella di un uomo solo che aiutò migliaia di ebrei a salvarsi e poi fu abbandonato da tutti. È la storia amara di un italiano che ha dovuto ricominciare da capo in un’Italia mediocre e piccolo-borghese che, impegnata in una faticosa ricostruzione, non ha avuto Le Porte della Memoria 2016 l’energia, il tempo e la voglia di pensare a ricomposizioni storiche troppo dolorose e impegnative. Giorgio Perlasca, tuttavia, è stato un grande italiano, la vittima sacrificale di una politica e di una storiografia che non lasciano spazio a chi non è vicino al potere. La sua vicenda va quindi riscoperta e giustamente valorizzata: perché se è vero che chi non conosce la storia è condannato a ripeterla, la figura di Perlasca si offre come monito contro i rigurgiti xenofobi di oggi. Edizioni Chiarelettere 2010 22 gennaio 2010 gli autori Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero Le Porte della Memoria 2016 La recensione del libro di memorie “Sette anni in grigio-verde” dell’on. Lino Fornale fu inserita nel fascicolo del 2007 e curata dal prof. Ferdinando Offelli. Ora la riprendiamo in vista dei 100 anni che l’onorevole compirà il 15 ottobre 2016. A lui è dedicata una delle iniziative delle Porte della Memoria 2016, quella di domenica 31 gennaio. Per l’occasione il Maestro Lorenzo Fattambrini curerà alcuni brani tratti da “La Favola di Natale” di Giovannino Guareschi, cantati dal coro PassidoroClass formato da genitori degli studenti dell’Istituto Santa Dorotea. Con il famoso scrittore e giornalista Giovannino Guareschi, autore della fortunata saga che vede protagonisti Don Camillo e Peppone, l’on Fornale visse una parte della prigionia nel Reich e precisamente nel campo di Sandbostel, nella Bassa Sassonia, vicino ad Amburgo. “La Favola di Natale” fu pensata da Giovannino Guareschi per risollevare il morale dei propri compagni di prigionia e fu messa in opera all’interno del lager nella notte di Natale del 1944. In quel momento l’on. Fornale non era presente in quanto era stato trasferito nel campo di Wietzendorf, sempre in Bassa Sassonia. Questo il testo che figura nel fascicolo del 2007. L’On. Lino Fornale ricorda Sette anni in grigio-verde Esperienze di guerra e di prigionia di un thienese Come per il Vecchio Marinaio di Coleridge, anche per Lino Fornale deve essere doloroso rivivere nel ricordo le esperienze di vita di giovane sottotenente dei granatieri e poi di internato militare italiano in Germania, se solo ora, a 60 anni di distanza, su forte pressione della famiglia, si è risolto a metterle su carta e stamparle in una pubblicazione uscita sullo scorcio del dicembre 2004. L’opera, in edizione privata, si intitola “Sette anni in grigioverde” e, oltre che da interessanti foto storiche e personali, è arricchita da una presentazione del prof. Giovanni Azzolin. Il racconto parte dal 1938, anno in cui Lino Fornale, nel dopoguerra più volte deputato della Democrazia Cristiana per il collegio di Thiene, è ammesso al Corso Allievi Ufficiali di Complemento che frequentò a Spoleto, superato il quale venne assegnato al 3° Reggimento Granatieri a Viterbo. Nel 1939 il reggimento viene trasferito nell’appena occupata Albania, in una caserma nei dintorni di Tirana; da qui, nell’agosto del 1940, il reparto fu trasferito a Delvino, in attesa di sferrare l’attacco italiano alla Grecia. Fu in questo periodo che non solo Fornale ricevette il suo ‘battesimo di fuoco’, rimanendo ferito ad una gamba, ma anche si rese conto della impreparazione dell’esercito italiano all’occupazione della Grecia, tanto che a salvarci dalla disfatta militare intervennero opportunamente due divisioni corazzate tedesche, che fecero la differenza. Nella Grecia occupata, e precisamente ad Atene, dopo mesi di relativa tranquillità, Lino Fornale visse il dramma dell’8 settembre 1943, quando gli alleati tedeschi, divenuti improvvisamente nemici, presero prigionieri i molti soldati italiani che il comunicato di Badoglio, si legge, ‘lasciava praticamente nei Balcani senza alcuna direttiva e quindi ci colpì duramente e non riuscimmo ad accettarlo’. Le Porte della Memoria 2016 Così il 10 settembre ’43 anche l’ufficiale dei granatieri Lino Fornale salirà con i suoi compagni sul treno che speravano li portasse a Trieste, ma che purtroppo prese invece la direzione della Germania nazista. Qui cominciò il calvario della prigionia di quelli che, per non considerarli prigionieri di guerra (protetti dalla Croce Rossa), vennero definiti ‘Internati Militari Italiani’ (IMI); un calvario che nel giro di 2 anni portò Fornale in ben 6 lager diversi, da quello di Wietzendorf, dove la prigionia cominciò e finì 2 anni dopo, a quello relativamente più umano di Meppen, ai confini con l’Olanda, fino a quello terribile di Sandbostel, dove sperimentò il peggio del peggio. All’inizio della prigionia, attraverso propri emissari, si cercò di convincere i prigionieri ad arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale di Salò, in cambio della libertà e del ritorno in patria. Quasi nessuno accettò. Fu solo successivamente, quando la terribile fame, usata come arma di persuasione, e le preoccupazioni per le sorti della propria famiglia divennero insopportabili che alcuni accettarono di arruolarsi e lasciarono il lager. Lino Fornale dimostra profonda comprensione umana per loro, perché convinto che la scelta sia stata determinata da pressioni cui umanamente è difficile resistere, soprattutto per chi sta provando da mesi l’esperienza della fame e le condizioni di vita in un lager. Nei lager Fornale strinse amicizie che durarono poi tutta una vita, tra cui quella con Giuseppe Lazzati, in seguito Rettore dell’Università Cattolica di Milano ed oggi in fase di canonizzazione, con Giovannino Guareschi, lo scrittore che nell’inferno di Sandbostel compose ‘La favola di Natale’ e persino con l’attore Gianrico Tedeschi. I liberatori inglesi sfondarono con i loro carriarmati il cancello del campo di Wietzendorf il 16 aprile 1945; ma è solo nel settembre di quell’anno che, non senza ulteriori pericoli e peripezie, Lino Fornale dopo sette anni in grigio-verde tornò a Thiene, per scoprire che il fratello Manlio era stato fucilato dai partigiani sul Cansiglio. Giovanni Azzolin, nella sua presentazione, rileva quale importanza ebbe la fede per il soldato e il prigioniero Lino Fornale, che ottenne da essa la forza interiore della speranza e che gli permise di resistere e di sopravvivere. Lui stesso, infatti, dichiara: ”La fede sostenne sempre il mio morale e mi diede la forza a resistere.” Sul piano narrativo nel racconto va apprezzata la totale assenza di ogni forma di retorica; c’è piuttosto una qualche reticenza, per la preoccupazione di non ostentare forme di eroismo. E, così, si raccontano fatti e si incontrano persone in una profonda dimensione storica, ma con un parlare quotidiano, diretto ed efficace, da cui ogni forma di condanna e di acredine verso chi ha provocato tutte quelle sofferenze è stata assorbita nel tempo in forme di umana consapevolezza. Un bisogno sembra comunque trasparire dalla narrazione dell’on. Lino Fornale, e cioè che non si dimentichi a quale avvilente degradazione dei propri simili può portare l’odio dell’uomo sull’uomo. Ecco perché dai lager dell’Imi Lino Fornale ci viene la testimonianza di una terribile sofferenza, nella speranza che anche di noi, come del giovane che ha ascoltato il Vecchio Marinaio, si possa dire “un uomo più triste e più saggio, si svegliò il giorno dopo”. Ferdinando Offelli Da Il Giornale di Vicenza del 4 gennaio 2005 Le Porte della Memoria 2016 La Favola di Natale di Guareschi e Coppola Dino Foresio Tratto da Operaclik Qutidiano di informazione operistica e musicale. www.operaclik.com/news/la-favola-di-natale-di-guareschi-e-coppola Il lavoro di ricerca sulla musica concentrazionaria, avviato dai musicisti barlettani Francesco Lotoro (considerato la massima autorità internazionale del settore) e Paolo Candido, che insieme a numerosi musicisti pugliesi sono impegnati, da anni, nella registrazione di 4.000 opere musicali scritte in cattività durante il secondo conflitto mondiale e pubblicate nell'Enciclopedia KZ MUSIK (giunta al 18mo CDvolume), ha portato di recente ad un’importante acquisizione quella del materiale originale de La Favola di Natale per narratore, coro maschile e orchestra, scritta nel 1944 presso il Lager XB di Sandbostel dal celebre giornalista e scrittore emiliano Giovannino Guareschi (1908-1968), l'autore della celebre saga di Don Camillo e Peppone, su musiche del compositore sorrentino Arturo Coppola (1913-1998). I due, assieme a numerosi soldati e ufficiali italiani, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, vennero internati nella Polonia occupata presso lo Stalag 367 di Czestochowa, successivamente presso lo Stalag 333 di Beniaminów (Voivodato della Masovia) per poi passare nell’aprile del 1944 al Lager XB di Sandbostel/Kreis Bremervorde dove iniziarono una collaborazione letterario-musicale che portò alla produzione di una serie di canzoni italiane tra le quali Magri ma sani, Carlotta (dedicata alla figlia di Guareschi), Dai dai Bepin (laddove Bepin sta per Josef Stalin ed estesamente le truppe sovietiche che si avvicinavano ai confini orientali della Germania) per poi giungere a quell’autentico capolavoro che è La Favola di Natale, scritta tra il 17 e il 19 dicembre 1944. “Quest’opera - scrive Guareschi nella presentazione dell’opera – nacque nell’imminenza del secondo Natale di prigionia, come disperato tentativo di popolare quella gelida solitudine coi fantasmi dei nostri sogni. […] Coppola alloggiava al piano superiore e, mentre io scrivevo, componeva le musiche che dovevano commentare la fiaba. Poi le concertò, organizzò un coro, istruì dei cantanti, inventò un’orchestra. Come abbia fatto lo sa soltanto il buon Dio. I suonatori avevano le mani intirizzite dal gelo, i violini si spaccavano per l’umidità, le voci uscivano a stento da quei mucchietti di stracci”. L’audizione si tenne il 24, 26 e 27 dicembre 1944 nel piccolo teatro del Lager, il 31 dicembre 1944 nella baracca 13B ed infine il 10 gennaio 1945 nella baracca 31A; la voce recitante era quella del giovane Gianrico Tedeschi destinato a diventare un grande attore di teatro. Come per altri Lager civili e militari, La Favola di Natale venne orchestrata tenendo conto degli strumenti musicali disponibili: ocarina, oboe, 2 clarinetti, fisarmonica e orchestra d’archi ai quali si aggiunse il “rumorista” che interpretava con la voce alcuni effetti di scena e alcuni passaggi movimentati. Le Porte della Memoria 2016 La Favola di Natale verrà riproposta, nella ricostruzione della versione orchestrale originale di Paolo Candido e Francesco Lotoro, il prossimo 27 gennaio 2011 presso il Cineteatro Impero di Trani, nel cartellone teatrale allestito dall'Assessorato alla Cultura del Comune della città pugliese e dal Teatro Pubblico Pugliese. L'Orchestra Musica Concentrazionaria diretta da Paolo Candido e il Consort Vocale Diapente di Roma accompagneranno la voce narrante di Angelo de Leonardis. Prima della Favola, saranno eseguiti altri brani scritti a Sandbostel da Guareschi e Coppola ossia la canzone Carlotta, l’allegra Dai dai Bepin e, del solo Coppola, Polka Merkatall (dedicata all'ufficiale portalettere degli italiani, Mercatali) e lo struggente corale Treviso, scritta di getto da Coppola a Sandbostel allorché apprese del bombardamento della sua città avvenuto il 7 aprile 1944 da parte dei bombardieri Alleati. Un’operazione di alto profilo culturale tra le poche prodotte in Italia negli ultimi anni. Le Porte della Memoria 2016 Giovedì 4 febbraio Biblioteca Civica – Sala Conferenze - Via F. Corradini - Thiene – ore 20.30 ETTY HILLESUM: UN VIAGGIO, UN POZZO, UN BALSAMO Incontro con una testimone attraverso luoghi interiori e reading dai Diari e dalle Lettere Conduce il prof. Giulio Osto, docente di Teologia, Facoltà Teologica - Padova Iniziativa per la cittadinanza – ingresso libero ETTY HILLESUM: UN VIAGGIO, UN POZZO, UN BALSAMO Incontro con una testimone attraverso luoghi interiori e reading dai Diari e dalle Lettere Etty Hillesum nasce nel 1914 in Olanda in una famiglia della borghesia intellettuale ebraica e muore ad Auschwitz nel novembre 1943. Nel 2012 la casa editrice Adelphi pubblica la traduzione in lingua italiana dell’edizione integrale del Diario 1941-1942 e nel 2013 le Lettere 1941-1943. Queste sono le fonti, tutte interamente autobiografiche, che ci consegnano l’esperienza poliedrica e affascinante di questa giovane donna. Il percorso esistenziale, la vita interiore, lo stile letterario, la sensibilità profonda, e molte altre innumerevoli sfumature della vita di Etty, continuano a suscitare interesse nei lettori più disparati. Etty Hillesum arriva a essere un punto di riferimento per coltivare fiducia e speranza nel custodire l’umano in ogni sua situazione, anche la più difficile. Incontrare Etty Hillesum significa immergersi nel viaggio interiore e biografico di una giovane donna che scopre le profondità della vita, che attinge al pozzo profondo del suo cuore e che immersa nell’atrocità di una persecuzione totalmente disumanizzante desidera essere, come scrive nelle ultime righe del suo diario, un balsamo per molte ferite. Pressoché infiniti possono essere gli itinerari nel paesaggio dell’esperienza consegnata dagli scritti della Hillesum, ma la scelta migliore è quella di ascoltare la sua stessa voce dando spazio alle parole consegnate alle pagine che possediamo. Luoghi interiori, immagini, espressioni sintetiche, citazioni diventano la trama per una riflessione e un ascolto che intreccia il nostro orecchio con la voce di Etty. All’interno delle Porte della Memoria 2016 ecco dunque l’opportunità di un momento di incontro con una testimone che continua a indicare l’eccedenza dell’umanità dell’uomo oltre ogni possibile violenza disumanizzante. Le Porte della Memoria 2016 IL GIORNO DEL RICORDO COMPIE 12 ANNI Ogni anno, a febbraio, una fiammella si accende, poi purtroppo tende ad affievolirsi, lasciando una scia di luci e di ombre su cui riflettere. Sono passati dodici anni da quel 30 marzo 2004 che con l’ istituzione del Giorno del Ricordo ha fatto tornare alla luce la tragedia dell’ esodo dei giuliano-dalmati, sepolta da oltre sessanta nella foiba dell’oblio, della rimozione, della damnatio memoriae. Noi esuli dall’ Istria, da Fiume, dalla Dalmazia vittime, noi costretti a lasciare le nostre terre per saldare il conto della guerra perduta per tutti gli italiani, noi rifiutati, non solo talora all’ arrivo in patria, ma più subdolamente nell’immaginario collettivo, noi imputati di colpe che servivano solo ad assolvere la coscienza di altri, noi zittiti con formule ideologiche che ci negavano anche il diritto al dolore, noi rimasti soli con la nostra dignità. Poi l’evento che ci colse stupiti, increduli, commossi, il riconoscimento che la Madre non più matrigna ci elargiva con l’istituzione di una Solennità Civile, non di una generica giornata di commemorazione, la rinascita di uomini ormai adulti che allora trotterellando avevano seguito i passi affranti dei genitori sui cammini dell’addio, l’amara, forse rabbiosa, consapevolezza che molti di quei genitori non potevano ormai neppure ricevere quel tardivo, parziale, simbolico risarcimento morale. Dal 2004 ad oggi noi esuli abbiamo intrapreso il nuovo cammino, quello che scava nel recupero della memoria, che si fa strumento di informazione e di conoscenza per un intero popolo che non sapeva, perché nessuno voleva che sapesse, confermando che il politically correct e la real politik possono essere strumenti di intimidazione d’impatto superiore a quello della violenza materiale. Celebrazioni ufficiali, commemorazioni, eventi teatrali, interventi di testimoni, pubblicazioni memorialistiche e saggistiche, inaugurazioni di monumenti ed intitolazioni toponomastiche si addensano nella cronaca del mese di febbraio, non solo nella stampa degli esuli, ma anche nei media nazionali. Dunque molto è stato fatto: i sondaggi sulla conoscenza dei termini foiba ed esodo segnano qualche punto in più, soprattutto nelle scuole che ne erano le più penalizzate per la censura operata dai libri di testo, ma molto ancora resta da fare. Fa effetto constatare che è proprio la generazione più giovane, quella degli studenti, a farsi portavoce della nostra storia con i genitori una volta rientrati a casa o sentire l’umile ammissione di quarantenni, cinquantenni o sessantenni che si scusano per non avere cognizioni in materia: ben altri, politici, autori di testi scolastici, giornalisti, dovrebbero scusarsi per averci rubato la nostra memoria storica! E’ con estrema gratitudine quindi che accogliamo l’invito di Enti, Comuni, Associazioni, Istituti scolastici come quelli di Thiene che ci accolgono come testimoni della storia del Confine Orientale e ci aprono le porte di casa, le Porte della Memoria, come pure le braccia, in un simbolico, fraterno abbraccio. Siamo ancora un popolo in cammino, in mezzo al Mar Rosso della storia che si sta aprendo per noi, ma che ci chiede di continuare a lottare per trovare il varco. Le Porte della Memoria 2016 Ora che noi possiamo fare qualcosa per la memoria dei nostri genitori, il nostro obiettivo etico primario resta il 10 Febbraio: è piccolo, ha solo dodici anni, ha tanti decenni passati da recuperare e deve ancora crescere. Buon Compleanno, Giorno del Ricordo! prof.ssa Adriana Ivanov Danieli – esule da Zara Le Porte della Memoria 2016 LA BATTAGLIA DEI PEDALI Gino Bartali, un ragazzo controvento Una proposta teatrale per gli studenti di terza media inserita nella rassegna Teatro Ragazzi del Comune di Thiene. Presentazione fornita da La Piccionaia centro di produzione teatrale. LA PICCIONAIA centro di produzione teatrale Drammaturgia e regia Ketti Grunchi Con Aurora Candelli, Francesca Bellini, Julio Escamilla scenografia e luci Yurji Pevere foto Delfina Pevere età consigliata dagli 11 anni e per adulti durata 70’ tecnica utilizzata teatro d’attore Tutto ha inizio in un piccolissimo paese sulle colline toscane. Una chiesa, un’osteria, una bottega di ciclista, un barbiere senza pretese, un mulino. Lì, i Bartali li conoscono tutti. Gino. Magro, occhi azzurri e una montagna di riccioli neri. Torello e Giulia, il papà e la mamma. Poi, le sorelle Anita e Natalina. E infine Giulio, il più piccolo. I Bartali stanno in una casa popolare: due stanze come quelle di Geppetto e Pinocchio: “Una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato.” Niente luce, e niente acqua corrente. Il piccolo Gino corre, sempre! Su e giù per salite, campi, prati e uliveti, tra lunghi corridoi di panni stesi profumati di alloro. Ma a Gino, più di tutto, piace quella meravigliosa opera dell’ingegno umano che lui in sogno, ogni notte, cavalca come se fosse uno stallone selvaggio... la bicicletta! Note di regia: Gino Bartali nel settembre del 2013 è stato riconosciuto come “Giusto tra le Nazioni” per il suo impegno come corriere durante l’occupazione tedesca: il ciclista, nascondendo documenti falsi per gli ebrei nella canna e nel sellino della sua bicicletta, salva ottocento persone dalla deportazione nei lager. Tre giovani attori raccontano in modo ironico, poetico e a volte commovente i sogni e le imprese di "Ginettaccio" che incantò l'Italia con la sua bicicletta e le sue meravigliose imprese. Una vita, fin da bambino, disseminata di salite, scelte difficili e vittorie conquistate con grande fatica, vissuta attraversando guerra e pericoli. Rischiando la propria vita in nome dell’umanità. La vita di un uomo che visse controvento, tenendo segrete fino alla morte le sue imprese più grandi; un invito alla fatica e al coraggio per le nuove generazioni. Le Porte della Memoria 2016 LA MEMORIA E LA RESISTENZA DEGLI SCOUT Nel 1928 il fascismo sopprime tutte le associazioni giovanili. Il gruppo scout milanese Aquile Randagie sceglie la clandestinità. Dal ’43 al ’45 opera il salvataggio verso la Svizzera di oltre 2000 perseguitati tra ebrei, prigionieri di guerra, dissidenti politici. Dal ’45 contribuisce attivamente alla rinascita del Movimento Scout in Italia. C’è una pagina di storia dello scoutismo italiano non abbastanza nota ma fortemente significativa per il contributo che portò alla lotta per la Liberazione dell’Italia. La Resistenza degli scout cominciò presto, già nel 1928, quando il governo fascista decretò lo scioglimento di tutte le associazioni giovanili che non facessero capo alla neonata Opera Nazionale Balilla. Gli scopi educativi che si prefiggeva il regime si traducevano nel motto “Credere, obbedire, combattere”. I valori dello scoutismo quali la responsabilità, la fraternità, l’amore per la natura, il servizio al prossimo, la fede cattolica e soprattutto la libertà di coscienza avevano poco a che spartire con la mistica fascista e pertanto andavano soppressi. Ma già da tempo le Camicie Nere assaltavano e devastavano le sedi delle associazioni cattoliche, come quelle dei sindacati, delle cooperative, dei giornali e partiti di opposizione. In quel periodo Don Minzoni, fondatore e assistente ecclesiastico del gruppo scout di Argenta (FE) venne assassinato perché colpevole di essersi opposto agli squadristi inviati in parrocchia a “disturbare” un incontro pubblico sullo scoutismo. Sono anche gli anni delle trattative tra Stato e Chiesa che sfoceranno nei Patti Lateranensi e in virtù di questo negoziato la soppressione dello scoutismo, accettata a malincuore da Papa Pio XI, servì alla sopravvivenza dell’Azione Cattolica, unica associazione non fascista ad essere tollerata dal regime non senza forti limitazioni. Nel 1928 i gruppi dell’A.S.C.I. cessarono le attività. A Milano vennero deposte simbolicamente le bandiere dinanzi all’Arcivescovo, a testimonianza che gli scout si scioglievano di fronte alla Chiesa e non allo Stato. Ma nello stesso giorno, nella cripta della chiesa del S. Sepolcro, proprio di fronte alla Casa del Fascio da dove era partita la marcia su Roma, il gruppo scout Milano II° si ritrovava per la cerimonia di una nuova Promessa. - Non è giusto – erano le parole del capogruppo Cesare Uccellini – e noi non lo accettiamo, che ci venga impedito di vivere insieme, secondo la nostra legge: legge di lealtà, di libertà, di fraternità. Noi continueremo a fare del nostro meglio per crescere uomini onesti e cittadini preparati e responsabili. Noi continueremo a cercare nella natura la voce del Creatore e l’ambiente per rendere forte il nostro corpo e il nostro spirito. – Con questa dichiarazione d’intenti il gruppo decise di proseguire l’attività entrando di fatto in clandestinità. Era una decisione che coinvolgeva non solo i Le Porte della Memoria 2016 ragazzi ma anche le rispettive famiglie consapevoli dei rischi conseguenti la disobbedienza civile al regime. Nel gruppo dei “ribelli” confluirono altri scout di reparti milanesi disciolti con affiliati a Monza e a Desio. Nascono le Aquile Randagie. Guidato da validi capi-educatori questo gruppo porta avanti l’attività clandestina per quasi 17 anni. Senza una sede, cambiando di continuo luoghi di ritrovo, comunicando attraverso messaggi in codice, con le divise nascoste negli zaini, questi ragazzi dagli 11 ai 24 anni riuscivano incredibilmente a raggiungere in bicicletta i boschi e le campagne del milanese e della Brianza durante i fine settimana e ad organizzare i campi estivi nelle valli alpine. Alcuni di loro vennero riconosciuti e denunciati, più spesso aggrediti e malmenati. Ma il rischio di giocarsi la vita divenne reale solo dopo l’8 settembre del ’43 con l’armistizio e la conseguente occupazione tedesca. Le Aquile Randagie, su ispirazione del loro assistente ecclesiastico Don Andrea Ghetti (nome di battaglia “Baden”) intuirono la necessità di un nuovo senso del servizio scout: nacque l’O.S.C.A.R. (Opera Scoutistica Cattolica Aiuto Ricercati), sigla che si diffuse clandestinamente per tutta la Lombardia come ancora di salvezza per chi cercava di nascondersi e fuggire dalla persecuzione nazifascista. Soldati italiani, prigionieri, perseguitati politici, renitenti alla leva della Repubblica Sociale, ebrei, per un totale di 2166 espatri clandestini, vennero aiutati da questa organizzazione. I Capi scout delle Aquile Randagie si adoperarono, oltre che a fornire documenti falsi e alloggio provvisorio ai perseguitati, a gestire direttamente l’accompagnamento, spesso notturno, nei boschi a pochi chilometri da Varese per passare oltre la rete metallica del confine italo-svizzero. L’episodio più clamoroso di questa attività fu il rapimento-salvataggio di un bambino ebreo dall’ospedale di Varese sotto il naso dei nazisti che ne avevano deciso la deportazione in Germania. Altri episodi simili vedono protagonista Don Giovanni Barbareschi, l’ultima “Aquila” rimasta in vita oggi a 93 anni, coinvolto nel salvataggio di numerosi ebrei e per questo incarcerato e torturato a Milano. Trasferito al campo di concentramento di Bolzano, riuscì a fuggire per raggiungere la formazione partigiana Fiamme Verdi che operava nelle valli di Brescia. Le Aquile Randagie collaborarono anche alla diffusione del foglio clandestino “Il ribelle” e si mantennero costantemente in contatto con organizzazioni scout estere. Essere clandestini non legittimava l’isolamento dalla grande fratellanza scout: la necessità di un continuo aggiornamento del metodo educativo faceva superare le difficoltà, enormi a quei tempi, per ottenere il permesso all’espatrio e partecipare ai Jamboree, i raduni internazionali. Nel frattempo cominciava a riunirsi in casa di Monsignor Montini (il futuro Paolo VI) il rinato Comitato Centrale provvisorio e clandestino dell’A.S.C.I. milanese ad opera di Mario Mazza. La Chiesa, anche tramite il Cardinal Schuster, incoraggiava gli scout a perseverare nell’attesa di tempi migliori. Uno degli ultimi tragici episodi della guerra di Liberazione vide l’Aquila Randagia Nino Verri fucilato il 16 aprile del ’45 per aver soccorso un partigiano ferito e braccato dai militari repubblichini. Il giorno della Liberazione le Aquile Randagie arrivarono in camion da Milano a Desio per incontrare il rinato gruppo locale, incrociarono per strada una colonna tedesca in ritirata e….rimasero vivi! Con la ricostruzione materiale e morale dell’Italia anche lo scoutismo rinasce. Le Aquile escono dalla clandestinità. Non ci furono trionfalismi da parte loro, rimasero invece i segni di un’esperienza ricca di contenuti umani e cristiani. Un’esperienza Le Porte della Memoria 2016 che fu essenzialmente la difesa del diritto dei giovani ad essere educati e a vivere i loro ideali di fraternità, fede, servizio, libertà. Fu quindi una Resistenza genuina, perché libera da ogni interesse che non fosse lo sviluppo della personalità umana e religiosa dei giovani. La Resistenza di una concezione di vita che pone al centro l’uomo, la sua libertà e la sua Fede contro la statolatria del regime fascista costruita sulla violenza, la suggestione di massa, sull’intorpidimento morale. A muovere questi giovani non furono l’ideologia, l’odio o la causa politica, ma la fedeltà alla Promessa Scout che recita “Con l’aiuto di Dio prometto di fare del mio meglio per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio Paese, per aiutare il prossimo in ogni circostanza, per osservare la Legge Scout”. CANTANDO CON LE AQUILE RANDAGIE LO SPETTACOLO Lo spettacolo racconta la storia delle Aquile Randagie attraverso le loro canzoni, accompagnate da foto e filmati d’epoca. Durante il periodo di clandestinità, dal 1928 al 1945, sono nate canzoni, spesso sull’aria di antiche melodie tradizionali o canti scout francesi e inglesi. Un gruppo di musicisti, giovani e non, scout o amici di scout, ha interpretato questo antico repertorio in chiave moderna, con nuovi arrangiamenti originali, non certo per tradire la tradizione ma perché lo spirito scout continui a passare attraverso la musica e la passione di chi lo ama. Diceva Gustav Mahler “La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere”. Promosso da Ente e Fondazione Baden e Masci Lombardia lo spettacolo ha debuttato a Milano nel 2012 collezionando circa 20 repliche in varie città del nord Italia, approdando al Raduno Nazionale del Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani nel 2014 e all’EXPO Milano nel 2015. Il nuovo repertorio musicale è stato raccolto in un CD che insieme a diverse pubblicazioni sul tema vuole contribuire alla memoria storica, nella convinzione che ciascuno debba, nelle circostanze e nei tempi in cui gli tocca vivere, non dimenticare la fedeltà agli ideali che ha fatto propri. Le Porte della Memoria 2016 Dopo quindici giorni nemmeno l’erba… ricordi del lager dell’alpino Antonio Novella La presente testimonianza riprende quella curata in precedenza dalla nuora signora Oriana Zarantonello in occasione dell’ottantottesimo compleanno del signor Antonio, nel 2011. E’ Antonio Novella che racconta, in prima persona. L’8 SETTEMBRE CATTURATI DAI TEDESCHI CON L’INGANNO Il battaglione Vicenza, del 9° alpini, di cui facevo parte, della ricostituita Divisione Julia, distrutta una prima volta in Grecia e poi in Russia, da Caporetto era stato trasferito ad Aidussina e dopo qualche giorno trovammo sistemazione a Gracova Serravalle, piccola frazione di Tolmino nel goriziano. Qui mancando una caserma ci siamo sistemati nelle case e un plotone anche in un camminamento della Prima Guerra Mondiale, proteggendosi dalla pioggia con frasche. Io avevo trovato sistemazione all’interno della scuola. Arriva l’8 settembre del 19431 e si attendeva l’ordine imminente per tornare a Caporetto per istruire le reclute del ’24, quando alle 23.30, io ero ancora sveglio e facevo compagnia all’alpino di L'alpino Novella con i commilitoni. Sullo guardia, sono arrivati i tedeschi che hanno risposto sfondo il sacrario militare di Caporetto. alla parola d’ordine per cui hanno potuto avvicinarsi, presentandosi da amici. Erano in più di cento, armati di mitra e bombe a mano e noi solo in trenta, molti col 91. Il loro comandante ci ha detto: “Consegnate le armi e domani andrete tutti a casa, per voi la guerra è finita!” Noi non sapevamo cosa stesse accadendo, eravamo isolati e senza informazioni, i nostri contatti con il comando erano tenuti da un caporale che andava ogni mattina a prendere ordini: abbiamo svegliato i compagni per annunciare che saremmo tornati a casa, ma la cosa sembrava strana e per precauzione, chi ha fatto in tempo, ha gettato gli otturatori nelle acque del fiume Baccia (affluente dell’Idria che poi si getta nell’Isonzo) e soltanto poi ha consegnato le armi, le quali erano divenute, in tal modo, inutilizzabili. Poi siamo tornati a dormire compreso l’alpino che era di guardia e di guardia si sono messi i tedeschi. Intanto, altri tedeschi si erano recati sulle alture poco lontane, nelle quali era stanziato il plotone mortai, per disarmare i soldati, ma noi siamo riusciti ad avvisarli in tempo, affinché fuggissero con le armi. Malgrado i tedeschi ci sparassero dall’altro paese con le mitragliere, i nostri, attraverso le trincee della Prima Guerra Mondiale, sono riusciti a fuggire e a raggiungere le compagnie 59,60,61 del nostro battaglione. 1 Le Porte della Memoria 2016 Alla sveglia ci hanno dato il caffè e a piedi siamo andati, inquadrati, alla vicina stazione ferroviaria di Piedicolle, villaggio poco più a nord di Gràcova, e abbiamo visto la tradotta già pronta per noi, con due locomotori, uno davanti e uno dietro. Ci siamo chiesti: “Il treno andrà a Gorizia o in Austria?”, infatti di lì passava la linea ferroviaria Gorizia-Villach. Siamo saliti in sessanta per vagone, con chiusura dall’esterno e siamo partiti verso l’ignoto. Subito abbiamo capito che non ci portavano a casa. Il trasferimento è stato lungo, dal mezzogiorno del giorno 9 siamo giunti a destinazione il 12 settembre a mezzogiorno in punto, senza né bere né mangiare niente. Interno del passaporto provvisorio per stranieri rilasciato dall’autorità di Rotenburg an der Fulda il 26 ottobre 1944. DESCRIZIONE DELLA PERSONA Nazionalità italiana Professione fabbro ferraio Luogo di nascita Firenze (luogo esatto Marano Vicentino) Data di nascita 12 febbraio 1923 (data esatta 12 dicembre 1923) Residenza o luogo di soggiorno Bebra, circondario di Rotenburg H. Corporatura robusta 170 cm Colore degli occhi marrone chiaro Colore dei capelli rosso scuro Segni particolari nessuno LA QUARANTENA NEL CAMPO DI ZIEGENHAIN IN RENANIA PALATINATO Una volta arrivati a Ziegenhain, campo principale dello Stalag IX A, poco lontano da Kassel, siamo scesi, ci hanno inquadrati per cinque e, camminando fra due ali di folla che ci insultava gridandoci “Badoglio saiser!, Badoglio saiser!” formata da donne, bambini, anziani, riempiti di sputi, ci siamo diretti al lager che distava 2 Km dalla stazione. Fra noi regnava lo sconforto, ma una certa porzione di ignoto, che era certamente parte del nostro futuro, ci offriva la possibilità di nutrire ancora qualche speranza di salvezza. Appena arrivati, ci hanno dato la prima zuppa di acqua e rape. Il giorno seguente ci hanno mandati al campo sportivo per essere ispezionati da cima a fondo, facendoci spogliare e svuotando i nostri zaini per controllare se qualcuno nascondeva armi. Al termine di questo controllo, una squadra di tedeschi aveva il compito di scrivere con la vernice sui vestiti, in corrispondenza della schiena, del petto e delle ginocchia le lettere K G, iniziali della parola KriegsGefangene, che significa “prigioniero di guerra”. Poi ci hanno tolto le piastrine di riconoscimento, ne avevamo due trovandoci ad operare sul confine dell’Isonzo, zona di guerra, contro i partigiani di Tito e le hanno sostituite con il loro numero di matricola. Io avevo il numero 77.029, e da quel momento il nostro nome e cognome non esistevano più, ci chiamavano solo col numero assegnatoci. Siamo rimasti nel campo per 30 giorni in quarantena, in isolamento per controllare se portavamo malattie infettive; tutto il giorno rinchiusi nella baracca con un litro di acqua e rape, 200 g di pane con un po’ di margarina o marmellata. Ci facevano uscire due volte al giorno per un massimo di due ore, e 2 Le Porte della Memoria 2016 in quel momento tutti approfittavano per mangiare l’erba. Dopo appena 15 giorni l’erba era sparita: neppure un filo, e nemmeno le radici, perché le raccoglievamo per cucinarle. Il campo era recintato da sei file di filo spinato, di queste, quelle situate al centro erano state elettrificate, in esse passava l’alta tensione. Agli angoli del campo sorgevano le torrette con il faro per l’illuminazione e fornite con una mitraglia. Fuggire era impossibile. Di notte il campo era illuminato a giorno, in questo modo gli alleati riconoscevano i campi di prigionia e non li bombardavano. Però i tedeschi non sempre rispettarono questa regola, alcune volte illuminavano le principali fabbriche e spegnevano le luci nei campi, perché per loro era più importante salvare le fabbriche di armi dai bombardamenti. Le baracche erano di legno, ogni camerata conteneva cinquanta persone e si dormiva su letti a castello tutti di legno. Per materassi c’erano sacchi pieni di pezzi di carta. La sveglia era alle sette in punto; ci si lavava e verso le otto i nostri carcerieri facevano l’appello chiamandoci per numero. Poi si aspettava la zuppa del mezzogiorno: al venerdì c’era rancio speciale, vale a dire un litro di minestra di miglio, che, essendo più densa, ci dava l’impressione di mangiare di più. E così trascorsero i primi trenta giorni: nell’ozio e con tanta fame. Il mio peso, infatti, si era ridotto di 42 Kg, da 80 a 38. Separati da una strada c’erano i prigionieri francesi con cui si poteva anche parlare e che quando incontravamo per strada, con tono di scherno, ci gridavano: “Messieurs, vous avez terminé la guerre!” Al termine del primo mese ci hanno destinati in vari paesi e città. Senza chiederci niente, neanche la professione, l’interprete un giorno è entrato nella baracca e chiamando i numeri, ci hanno divisi a gruppi a seconda delle richieste di lavoratori che venivano dai Comuni o dalle aziende della zona. In un centinaio ci hanno fatto salire su di un treno passeggeri, destinati a Lispenhausen, vicino a Bebra, distante 60 Km. AL CAMPO DI LAVORO A LISPENHAUSEN, KOMMANDO N. 3022 Al campo di lavoro il trattamento culinario era il medesimo, ma non oziavamo tutto il giorno: ci costringevano a lavorare duramente. Dieci, dodici ore di duro lavoro lungo la ferrovia per ripristinare le rotaie, quando venivano bombardate. Il campo era situato in una ex filanda, nelle vicinanze della stazione ferroviaria, recintata da filo spinato, con guardie, ed eravamo in circa 100, tutti italiani. Ogni mattina alle sei c’era la sveglia, mezz’ora di tempo per le pulizie e poi si partiva in treno fino a Bebra, solo 3 Km, e poi proseguivamo a piedi per recarci dove era richiesto il nostro lavoro, lungo la ferrovia, percorrendo a piedi anche 4/5 Km, una guardia ci precedeva e una chiudeva la fila. Ci dividevano in due squadre, una proseguiva a sud di Bebra e una squadra andava a nord verso Rotenburg. Vicino a noi c’era una fabbrica, che vedevamo passandole vicino in treno, diretti al lavoro, dove 100 prigionieri italiani costruivano autoblinde, ne facevano 7 al giorno, ma dopo il bombardamento, di cui dirò dopo, la produzione era diventata di una autoblinda alla settimana. Prima di iniziare il lavoro li facevano correre a torso nudo attorno al recinto dello stabilimento. I primi giorni ho lavorato col piccone per sistemare i sassi sotto le traversine, ma dopo qualche settimana il capo, accorgendosi che incominciavo a capire la loro 3 Le Porte della Memoria 2016 lingua, mi ha tolto da quell’incarico per assegnarmi un lavoro più leggero, cioè mettere le binde sotto il binario, alzarlo e controllarlo con la bolla, mentre gli altri picchiavano sotto i sassi. I capi erano tre: uno controllava i lavori una volta ultimati, un altro era di guardia (stava attento e ci avvisava quando giungeva il treno) e l’ultimo dava ordini e controllava che nessuno tentasse di scappare quando giungeva il treno a bassa velocità. Noi però, sempre affamati, attendevamo il passaggio del treno munito di ristorante, con la speranza che ci avrebbero gettato le bucce di patata per raccoglierne più che potevamo. Io ne mangiavo di più perché per il lavoro che facevo mi trovavo sempre davanti alla squadra e quindi quando buttavano le bucce ne prendevo di più. Il lavoro era più leggero, ma eravamo sempre all’aperto e quando pioveva al ritorno in baracca prendevamo calzoni e giacca e in due li strizzavamo per bene per fare uscire l’acqua e dopo averli stesi sul letto ci dormivamo sopra per asciugarli del tutto! E pregare il Signore che non ci fosse la nebbia, perché la nebbia bagnava di più della pioggia. Quasi ogni settimana venivano i fascisti a chiederci di firmare per poter tornare in Italia. Ci lusingavano in ogni modo. Ma noi eravamo stati messi in allerta. Ricordo che passavano delle tradotte di soldati italiani, durante il nostro lavoro sulla ferrovia, e quando rallentavano perché c’era il semaforo rosso, i nostri connazionali, vestiti da tedeschi e con la bandiera tricolore, ci gridavano: “Non state mai a firmare, vi dicono di portarvi in Italia ed invece noi ci stanno mandando verso il fronte russo!” In verità i primi che hanno firmato sono effettivamente tornati in Italia, conosco anche uno di Marano, era un fascista, ed è tornato; la maggior parte però di quelli che hanno firmato quando sono rientrati sono passati con i partigiani o si sono nascosti; sono pochi quelli che sono andati con i Fascisti. Dei 110 prigionieri che erano nella filanda, il nostro campo, solo uno ha firmato, mi pare fosse un finanziere, che al primo bombardamento è rimasto ucciso sotto le macerie. Una mattina mi sono svegliato che non mi sentivo bene, allora ho avvisato la guardia, che mi ha controllato la febbre. Il termometro segnava 39,4°C, ma per rimanere in baracca e non recarsi al lavoro avrei dovuto avere 39,5 °C di temperatura corporea. “Lavorare”, mi ha detto la guardia e fin che mi vestivo, con la punta della baionetta mi colpiva, tanto da lasciarmi un segno - Antonio mostra una cicatrice sul collo. Così sono stato costretto, mio malgrado, ad andare lo stesso a lavorare. Una volta giunto ai binari, il capo, al quale ero simpatico, vedendo i mio stato di salute, mi mandò nella baracca perché sostituissi i manici di picchi, badili e forche. Potei accendere la stufa e così almeno ero al caldo! Per quattro giorni ho avuto la febbre alta, sempre 39,4°: a partire dal quinto, gradualmente, è scesa da sola, e quindi ho ripreso il lavoro normale. In questo modo sono trascorsi i primi sei mesi. UN NUOVO LAVORO NELLA FABBRICA DI BEBRA, KOMMANDO N. 3042 Una sera, fatto il contrappello (al nostro rientro dal lavoro ci contavano e prima di dormire ci contavano di nuovo, questo era il contrappello), tre che lavoravano presso l’officina meccanica “Bebrit”2, a Bebra, a tre Km dal campo, Giuseppe 4 Le Porte della Memoria 2016 Bordin da Padova, Giuseppe Zerbin da Bergamo, Leone Tosini da Roma, hanno chiesto se qualcuno di noi sapesse lavorare al tornio, e io risposi di sì; il giorno seguente mi sono recato in officina con i tre, anziché andare in ferrovia. Mi hanno dato subito il nuovo numero di matricola. Appena arrivato il capo-officina ha voluto controllare se sapevo lavorare al tornio e mi ha messo in mano un pezzo e un disegno e mi ha ordinato di lavorare il pezzo secondo il disegno. Dopo un’ora è tonato a vedere e in tedesco mi ha detto ”va bene”. Il capo conosceva solo una parola di italiano “patate” nonostante avesse conosciuto prigionieri italiani durante la Prima Guerra Mondiale. Dopo qualche ora si è presentato il mio capo di prima, quello della ferrovia, per riprendermi, ma è stato inutile; io sono rimasto lì, poiché il padrone dell’officina ha avuto la meglio sull’altro: era il federale delle SS della zona di Kassel, un fanatico, che gli ribadì la necessità di avere un tornitore. Il lavoro consisteva nel fare gli stampi per interruttori, porta-lampade, rasoi da barba, bicchieri e piatti, tutti in bachelite. Nell’ultimo mese di lavoro, in marzo furono prodotte delle parti dei panzerfaust, armi anticarro in grado di perforare la corazza di qualsiasi carro armato. Ma noi non sapevamo a cosa servisse quella produzione. I primi giorni di lavoro in officina, mentre guardavo fuori dalla finestra, le lacrime mi rigavano il viso dalla commozione, pensando che ora potevo stare al caldo e all’asciutto mentre fuori c’era sempre tanta nebbia e disperazione. Per un certo tempo il lager è rimasto quello della filanda, poi noi quattro siamo stati trasferiti al lager della fabbrica che si trovava a poche centinaia di metri dalla fabbrica stessa nella periferia di Bebra, una baracca recintata da filo spinato e controllata da guardie. Il trasferimento dalla baracca alla fabbrica avveniva sempre accompagnati da guardie; si raggiungeva la fabbrica marciando come quando si era a militare, e, se qualcuno perdeva il passo, veniva picchiato con la baionetta e col calcio del moschetto. Lungo il percorso i tedeschi ci insultavano e ci sputavano e noi zitti ed impassibili, continuavamo a marciare, altrimenti, se qualcuno mormorava qualcosa fra i denti, alla sera si doveva aspettare delle bastonate. Una volta giunti in officina dovevamo aspettare fino alle sette e mezza, orario di inizio lavoro. Il portinaio firmava la nostra presenza. Fra noi, dentro lo stabilimento, non si poteva mai parlare in italiano, anche per cose che riguardavano il lavoro e neppure gesticolare per poter comunicare, senza parlare. Di fianco a me lavorava uno delle “SS”, il quale ogni giorno col martello di gomma si batteva la testa quando sbagliava un pezzo. Abbiamo capito che era un gesto per autopunirsi: egli provava molta invidia nei confronti di noi italiani, perché non sbagliavamo mai. Noi, però, non potevamo permettercelo di sbagliare e facevamo molta attenzione perché non accadesse. Molte volte, infatti, i tedeschi usavano l’arma della minaccia, dicendoci che, qualora avessimo commesso degli errori, ci avrebbero spedito ai campi di punizione, che erano cinque. Uno di noi, che aveva ottenuto anche il diploma di infermiere, quando avvenivano i bombardamenti andava a soccorrere i feriti. Mi ricordo che un giorno, in cui gli americani avevano mitragliato un treno, è ritornato molto provato, bianco come un lenzuolo ed è rimasto senza parlare per tutto il giorno. Assieme a noi quattro tornitori, io e i tre che mi avevano proposto il nuovo lavoro, lavoravano al pomeriggio tre studenti tedeschi di sedici anni. Essi ricevevano 5 Le Porte della Memoria 2016 meno soldi di noi: la nostra paga era di 360 marchi al mese, che tuttavia, non potevamo spedire a casa e non potevamo spendere perché non c’era nulla da comperare. Un giorno abbiamo pensato di corrompere uno di quegli studenti, proponendogli di scambiare 100 marchi per 200 grammi di pane. Avevamo i soldi con i quali non potevamo fare niente e tanta fame. Il ragazzo, però, dopo aver contrattato, ha rifiutato: era pericoloso Il sig. Antonio ha conservato per loro fare mercato nero, e in un certo senso non ne alcune banconote da 1 e da 5 Marchi. Soldi che ricevevano avevano bisogno, in quanto erano in possesso della per il duro lavoro e che non tessera che permetteva loro di mangiare senza ricorrere avevano alcun valore perché ad altri stratagemmi. Il lavoro durava dieci ore al giorno, non c'era nulla da comperare. compreso il sabato. La domenica era destinata all’igiene personale, alle pulizie della baracca e al rammendo del vestiario. Si mangiava in baracca. IL GRAVE INFORTUNIO DURANTE IL LAVORO E L’OSPEDALE DI DUSSELDORF Dopo quattro o cinque mesi che lavoravo alla manutenzione, stavo usando il tornio per ripassare un foro di un tubo, procedendo come mi aveva ordinato il capo. Io volevo fare il foro con un altro sistema entrando col ferro, ma il capo ha voluto che facessi il foro come voleva lui, perché il mio metodo avrebbe richiesto più tempo. Mi ha anche minacciato che se non avessi obbedito mi avrebbe mandato in un campo di punizione, il che voleva dire non tornare più. Ho ceduto, ma così ho dovuto lavorare con le mani. Avevo già fatto una parte del lavoro; stavo rimettendo la contropunta, perché era terminata la corsa, e dovevo fare altri 10 cm di foro: mentre la stavo bloccando, devo aver inavvertitamente toccato la leva della frizione con la tuta, e il tornio mi ha scaraventato la mano destra sopra la torretta, forandomi il palmo con la testa del morsetto del bullone. Da solo me lo sono tolto, ma subito sono svenuto e sono caduto a terra. Sono stato soccorso dall’ SS che lavorava al mio fianco che mi ha fatto annusare dell’ammoniaca e mi ha portato fuori, aiutato dall’italiano che lavorava alle mie spalle. In seguito sono rinvenuto e sono andato a piedi dal dottore del paese, che aveva l’ambulatorio a pochi passi dall’officina. Mi ha subito disinfettato e fasciato. Erano le 11.30 di sabato. Il lunedì sono stato accompagnato dal dottore preposto ai prigionieri, ma questi, quando ha visto la mano ben fasciata, con brutta maniera, mi ha fatto uscire dicendomi che me ne dovevo andare via immediatamente, e così la guardia è stata costretta a riaccompagnarmi al campo senza medicazione. La stessa scena si è ripetuta anche il martedì, e intanto le mie condizioni stavano peggiorando sempre più; la mano stava diventando sempre più gonfia e nera, e anche il braccio si era gonfiato fino alla spalla. Il mercoledì, senza sfasciarmi, il dottore ha preso il numero di matricola e ha compilato le carte per il ricovero all’ospedale, non ha mai voluto disinfettarmi, perché era ancora offeso, in quanto non ero stato accompagnato subito da lui. Il giovedì, sempre accompagnato da una guardia, siamo arrivati, dopo un lungo viaggio in treno, all’ospedale di Dusseldorf, un ospedale dove operavano medici e infermieri, internati italiani, diretto da una donna medico SS. 6 Le Porte della Memoria 2016 Appena entrato, mi hanno fatto il bagno, poi mi hanno tagliato le garze, che sembravano di gesso, tanto si erano indurite. Di seguito mi hanno fatto una puntura antitetanica, disinfettato ed infine hanno documentato tutto l’incidente. Quando sono entrato, pesavo appena 50 Kg. Ogni due giorni mi facevano la medicazione con cotone imbevuto di tintura di iodio: lo facevano passare attraverso il foro, poi vi inserivano una specie di coppo di gomma che facevano bollire, perché utilizzavano sempre lo stesso, che aveva la funzione di drenaggio. Di notte si dormiva poco a causa delle cimici che uscivano dalle fessure dei letti a castello di legno e dal pavimento. Tutte le mattine le guardie ci facevano alzare le mani per vedere se erano fasciate. Bastava che uno non avesse le mani fasciste e questo bastava per renderlo idoneo al lavoro! Anche in ospedale non si poteva stare in ozio: il nostro lavoro consisteva nel togliere le bave dai tappi dei tubetti di dentifricio, non con una lima, ma con un mattone, per timore che usassimo la lima per tagliare le inferriate delle finestre per fuggire. Anche in ospedale il cibo era lo stesso : il solito litro di acqua e rapa con 200 g di pane e un po’ di margarina. Nei due mesi di permanenza in ospedale sono calato di 13 Kg, e così, visto che la ferita si era di molto rimarginata, su mia richiesta, ho ottenuto di ritornare al campo di concentramento di Ziegenhain. La responsabile dell’ospedale è rimasta tutta contenta nel vedermi lasciare l’ospedale; non succedeva spesso che uno ne uscisse vivo! Ogni giorno ne entravano cinque sei e altrettanti ne uscivano defunti! Ho assistito personalmente alla morte per fame e per esaurimento organico di due prigionieri. Ancora adesso me li vedo negli incubi notturni. A Ziegenhain ho incontrato il maranese Ennio Bonanni, lui era sergente maggiore e capo baracca. Vi sono rimasto per quindici giorni a riposo, finché la ferita è guarita dal tutto, per poi ritornare in officina a Bebra. Durante questo soggiorno nel campo principale ho saputo da prigionieri francesi, che erano più liberi di noi di muoversi e quindi erano più informati, che i tedeschi stavano sperimentando dei nuovi camion con cassone chiuso ermeticamente per gasare i prigionieri. Come cavie usavano prigionieri che trasportavano nei boschi per tagliare alberi. Quando arrivavano alla meta i prigionieri erano morti per i gas di scarico che venivano fatti entrare nel cassone. Il capo quando mi ha visto ha guardato subito la mano temendo che me l’avessero amputata, poi è rimasto impressionato per la mia magrezza, pesavo 38 Kg. Si è rivolto a me con queste parole, ovviamente in tedesco: “Anton non ti dirò più come devi fare un lavoro perché tu ne sai più di me!” Mi ha assegnato un lavoro e poi è andato via per tornare dopo mezz’ora. “Venite tutti e quattro con me (anche gli altri tre miei amici), vi accompagno alla baracca delle russe, così imparate la strada e poi ci tornate da soli”. Ci accompagnò nel vicino campo dove c’erano 350 deportate russe che lavoravano anche loro nella fabbrica, tutte giovani donne dai 20 ai 30 anni, rastrellate durante l’invasione della Russia. Venivano trattate molto male e spesso prese a frustate con grossi cavi elettrici se nel lavoro facevano qualche errore. Così a mezzogiorno mangiavamo una zuppa nel campo delle russe e un’ altra al ritorno al nostro campo, quando i nostri compagni ne mangiavano una sola al giorno! Per noi fu una grande fortuna! Naturalmente il capo si prendeva la responsabilità di lasciarci uscire. La distanza fra fabbrica e campo delle russe non era grande e nel tragitto fra i due campi potevano a vista tenerci d’occhio. 7 Le Porte della Memoria 2016 Ma dove potevamo andare? Scappare era impensabile, con dei vestiti riconoscibili per le lettere che avevamo disegnate. Ora sui vestiti avevamo le lettere IMI, che significa Italiani Militari Internati, ma che noi leggevamo Italiani Maltrattati Ingiustamente o anche Impiccheremo Mussolini Hitler. E poi pesavo solo 38 Kg, con che forze potevo pensare di fuggire? Con questo peso sono rimasto un anno e mezzo. Di domenica si cercava anche di trovare un lavoretto presso le famiglie tedesche della zona, come tagliare la legna, impilare il carbone, che era a cubetti. Una volta ho riparato una macchina per tagliere il fieno, erano tutte occasioni per avere un po’ di pane o qualcosa da mangiare. Mi è capitato di fare l‘operatore in una sala cinematografica del paese in quanto il titolare si era ammalato. Per uscire dal campo però si doveva sempre essere accompagnati; veniva il civile interessato, firmava e ci portava sul luogo del lavoro. Finito doveva riportarci al campo (n.d.r. il signor Novella è stato per ben 32 anni operatore presso la sala cinematografica Verdi di Marano Vic.no). Il capo ha sempre favorito che di domenica facessi qualche lavoretto e che così potessi recuperare lentamente il peso che avevo prima dell’infortunio. Conservo ancora una lettera che ho inviato a casa il 6 novembre 1944 da Debra in cui lamento che da 5 mesi non ho notizie da casa, nonostante ogni domenica scrivessi alla famiglia. Anche del fratello Giuseppe, internato vicino a Vienna, non avevo da tempo notizie. Nella lettera accenno anche alla mano ferita. I pacchi con cibo e vestiario non si vedevano; in tutta la prigionia ne ho visto uno, anche se i famigliari me ne avevano inviati parecchi, andavano persi, sottratti dai guardiani. Ad un compagno è arrivato un pacco con 4 Kg di pane biscotto, l’ha finito tutto in poco tempo, si è gonfiato ed è morto. Parlando con i prigionieri francesi noi sapevamo che loro ricevevano pacchi attraverso la Croce Rossa, ma a noi questo non era concesso. Per i tedeschi noi meritavamo di morire tutti; per loro eravamo dei traditori. IL BOMBARDAMENTO DI BREBA Il 4 dicembre del 1944, giorno di Santa Barbara, gli aerei americani3 hanno lanciato dei foglietti scritti in tedesco, con disegnate note musicali. Abbiamo chiesto che cosa volessero dire e loro ci hanno risposto che presto sarebbero venuti a farci sentire la “musica delle bombe”. Dopo due giorni, ciò che avevano annunciato è diventato realtà: gli aerei americani hanno lanciato bombe a catena, lungo la ferrovia, distruggendola completamente, compresa la nostra officina. Noi abbiamo fatto appena in tempo a scappare. Di cento, solo uno è morto: proprio quello che aveva firmato per rientrare in Italia. Il giorno dopo il 8 Le Porte della Memoria 2016 bombardamento abbiamo fatto ritorno in officina. Ci sembrava impossibile essere ancora vivi, dato che in un’area come un campo sportivo abbiamo contato ben 110 buchi. L’officina era ridotta in macerie: della soffitta che era tutta in legno, non era rimasto niente. Così fu anche per tutto il deposito a magazzino, che era andato in cenere. Dopo due giorni abbiamo iniziato i lavori di sgombero delle macerie. Tutti al lavoro! In quel momento di caos potevamo parlarci in italiano: tutti d’accordo abbiamo nascosto tutto il materiale che potevamo (come punte di widia, calibri) e cercavamo di sabotare anche i torni. Ultimato lo sgombero, abbiamo ricostruito prima il solaio e poi il tetto, tutto di legno. Nel frattempo i tedeschi avevano già recuperato, dalle varie razzie in Italia, Francia, Belgio e Polonia, una buona quantità di strumenti e materiali: torni, frese e trapani. In circa due mesi abbiamo ripreso la produzione di prima. Sia di giorno, sia di notte, ogni giorno si sentiva l’allarme, anche se bombardavano i paesi vicini. Quando abbiamo potuto contare i bombardieri, erano sempre da duemila a tremila fortezze volanti. Un giorno ne abbiamo vista una staccata dalle altre, forse in avaria: sette caccia tedeschi sono andati per abbatterla, ma la fortezza, che sembrava in difficoltà, ha fatto fuoco con i cannoni 105, colpendo cinque caccia tedeschi. Gli altri due sono riusciti a fuggire. Ricordo che in occasione del bombardamento, fuggendo dall’officina per mettermi in salvo nei campi, ho visto una casa bruciare e allora sono andato ad aiutare a spegnere l’incendio. Il giorno dopo nell’armadietto in cui riponevo la tuta e le mie cose, situato nell’officina, ho trovato due fette di pane. Alla fine ho saputo che a metterle erano state le persone che avevo aiutato a spegnere l’incendio. ULTIMI GIORNI PRIMA DELLA RESA E LA FUGA Quando i tedeschi hanno capito che la situazione per loro stava peggiorando, ci hanno fatto sospendere il lavoro in officina per portarci a scavare buche anticarro profonde tre o quattro metri, che si sono rivelate inutili in quanto gli Alleati hanno usato la rete stradale. Due giorni prima dell’arrivo degli americani, il 30 marzo, Venerdì Santo, i tedeschi mandarono verso il fronte 100 carri armati “Tigre”, fra i più grossi di cui disponevano, i cingoli erano larghi 70 cm. Durante la notte abbiamo visto in lontananza levarsi incendi, il fronte continuava ad avanzare e, durante la ritirata, i tedeschi costringevano i prigionieri a trasportare munizioni e, quando erano stremati dalla fatica, li uccidevano. Di 100 prigionieri, nella mia fabbrica, eravamo rimasti in 10 perché la maggior parte si era data alla fuga. Sabato 31 marzo, io con altri nove compagni avevamo capito che, se fossimo stati catturati dai tedeschi, non avremmo avuto scampo, Approfittando del fatto che nessuno ci controllava e sfruttando il buio della notte, ci siamo nascosti in un sottopassaggio dello scalo merci di Bebra, adibito a rifugio antiaereo. Sopra di noi avevamo cinquanta binari, in quanto si trattava di un grande scalo merci di smistamento dei convogli. Nel rifugio c’erano delle panche e valigie lasciate lì dai civili, nell’intento di salvare qualcosa. Nel buio più totale, perché mancava la luce a seguito dei bombardamenti alleati, noi ci siamo nascosti sotto le panche e così, nonostante dei soldati tedeschi siano scesi a controllare, non ci hanno visto. Lì sotto siamo rimasti in silenzio, si potrebbe dire senza respirare, per non farci scoprire. Alle due del mattino abbiamo sentito gli ultimi delle SS che si sono ritirati: ciò significava che dopo di loro sarebbero arrivati gli americani. Prima che venisse 9 Le Porte della Memoria 2016 l’alba del 1° aprile, quand’era ancora buio, siamo usciti senza essere visti, per raggiungere il lager della fabbrica. Non c’era nessuno: nemmeno una guardia e niente da mangiare. Affamati, di buon’ora siamo tornati allo scalo merci per ispezionare i vagoni. Ce n’erano tanti e in un vagone proveniente dall’Italia, abbiamo trovato riso, zucchero e carne. Ognuno di noi ha cercato di trasportare più viveri che poteva nella baracca del lager. Verso le nove siamo ritornati all’incrocio dove era ubicata l’officina, e proprio lì abbiamo udito dei rumori di motore. Per paura ci siamo nascosti dietro a delle grosse piante. Sentendo che il rumore si faceva sempre più vicino, abbiamo sbirciato lungo la strada e abbiamo visto che si trattava di una jeep munita di mitraglia, ma non era un veicolo tedesco, aveva una stella bianca; erano americani! Con gioia, siamo usciti di corsa incontro alla jeep; c’erano a bordo tre americani, dei quali uno parlava francese. Con la mitraglia ci hanno fatto capire di alzare le mani, e quando hanno notato che sulla nostra divisa c’era la scritta I.M.I. ci hanno ordinato di abbassarle e si sono avvicinati. Subito dopo ci hanno chiesto informazioni sullo scalo merci e sull’esistenza di munizioni e armi. Noi abbiamo risposto che avevamo visto tre vagoni e delle cisterne di benzina. Loro ci hanno comandato di fare uscire tutta la benzina. Noi avevamo un’altra idea, quella di utilizzare quella benzina per muoverci a bordo di un’auto, che avevamo vista ben nascosta in un pagliaio. Avevamo pensato di tornare a casa con l’auto, ma non c’era posto per tutti, allora solo quattro di noi hanno tentato il ritorno, ma inutilmente: gli americani li hanno fermati, e, requisita l’auto, li hanno riportati indietro. In Italia c’era ancora la guerra e non si poteva tornare. Torniamo al momento dell’incontro con gli americani, ci hanno dato cioccolata e sigarette e mentre parlavano con noi avevano la radio aperta da cui arrivava il rombo dei loro carri armati. Giungevano da ovest e, arrivati al fiume Fulda, erano stati bloccati perché il ponte era stato bombardato da loro stessi il giorno precedente. L’avevano bombardato per impedire ogni via di fuga ai carri armati Tigre che due giorni prima avevano tentato di contrastare la loro avanzata. E in effetti dei 100 Tigre nessuno tornò indietro. Senza il ponte, eravamo curiosi di vedere come gli americani avrebbero risolto l’attraversamento del fiume Fulda. Siamo andati convinti che avremmo assistito ad un’impresa spettacolare e la previsione trovò conferma! Hanno scaricato dai camion e montato sulla strada il ponte, unendo le varie parti, per una lunghezza di 25 metri: in un quarto d’ora, con l’aiuto di due carri armati anfibi, lo hanno trascinato sull’altra sponda. Il primo carro armato è entrato in acqua, ad un certo punto si è gonfiata una camera d’aria tutta attorno, sopra i cingoli c’era un’ elica, che gli ha permesso di attraversare il fiume, in quel punto largo 20 m. E’ poi arrivato un secondo carro armato che è pure entrato in acqua, anfibio pure questo; il primo ha tirato il ponte verso l’altra sponda, aiutato dal secondo carro armato da cui erano uscite due punte per tenere sollevato il ponte. I due carri armati hanno poi collaudato il ponte e quindi è arrivata la colonna di carri armati che correvano più delle jeep. Nei giorni successivi gli italiani sbeffeggiavano i tedeschi, con frasi del tipo: “Ora lavorate voi, che avete perso la guerra e avete i debiti di guerra da pagare e da pagare anche noi”. Noi non avevamo più paura di loro, anzi ci stavamo godendo il piacere di rifarci per tutte le umiliazioni che avevamo sopportato. Questo nostro comportamento 10 Le Porte della Memoria 2016 ha indotto il sindaco del paese a recarsi al comando americano, perché ci facessero smettere. I tedeschi inoltre avrebbero voluto che noi continuassimo a lavorare come prima, restando chiusi nel campo di concentramento. Io e il mio amico di Bassano, Noè Mocellin, non avevamo certo intenzione di lavorare per i tedeschi. PER QUATTRO MESI IL LAVORO PER GLI AMERICANI Dopo qualche giorno, noi due ci siamo recati al comando americano per chiedere se potevamo lavorare per loro. Abbiamo trovato un italo americano che parlava bene italiano e la nostra richiesta è stata subito accolta; ci hanno accompagnati in jeep al campo di concentramento per salutare i nostri amici e per prendere le nostre “quattro strasse” perché per quasi due anni avevamo indossato quello che avevamo al momento della cattura, con toppe, rammendi, pochi bottoni. Al ritorno abbiamo fatto immediatamente il bagno e indossato la divisa americana. Abbiamo avuto il corredo completo di un soldato americano, quattro paia di scarpe, uno da ginnastica, uno da libera uscita e due da lavoro, più una tuta da lavoro e tre divise, con mutande, maglie e calzettoni. Il nostro cappello lo hanno messo sopra il sacco del corredo; preciso che durante l’internamento dovevamo sempre avere sul capo il cappello, anche quando eravamo al lavoro. Ci hanno consegnato nello stesso momento anche un cartellino di riconoscimento, col quale avevamo l’autorizzazione di circolare vestendo quella divisa. La prima notte non ero tranquillo: mi sembrava troppo bello che tutto fosse finito. Quando gli americani sono venuti a dormire, dormivamo tutti Antonio Novella a sinistra con assieme, un po’ brilli per le abbondati bevute di l'amico Noè Mocellin, in divisa americana. whisky, si sono accorti che io ero sveglio e quello che Le foto venivano fatte con due parlava francese mi ha chiesto perché non dormivo. persone alla vota per risparmiare Gli ho risposto: “Vorrei sapere se siamo vostri pellicola e stampa. prigionieri o cosa altro”. Lui mi ha risposto: “Amici”. La sera dopo ci hanno festeggiati con uno spuntino a base di salame americano, con tanto pepe, bagnato da abbondonate whisky. Il nostro lavoro consisteva nel tenere in ordine la dispensa e il magazzino, andare a fare la spesa ogni giorno, per il comando, in un altro paese dove andavano tutte le compagnie che erano dislocate in quella zona. Nostro compito era anche distribuire il rancio al mattino, a mezzogiorno e a sera. Inizialmente ci avevano mandati a distribuire dove c’era meno assortimento per problemi di comprensione della lingua, poi come gli altri. C’erano sette qualità di vitto. Al giovedì arrivavano dall’America i polli surgelati, le uova e gli ananas. Ogni giorno c’era il dolce o il gelato. Dopo una settimana ci hanno fatto visitare dal loro medico, poiché stavamo aumentando troppo di peso. Il medico ci raccomandò di mangiare un po’ meno, ma per noi era difficile farlo e non approfittare di tutta quella abbondanza, dopo aver patito tantissima fame. In due mesi e mezzo eravamo 11 Le Porte della Memoria 2016 passati da 50 a 80 Kg: potevamo mangiare quanto volevamo, anche fuori orario! Gli americani, visto l’affiatamento che si era creato fra noi, si misero in contatto con il loro comando dislocato in Italia per far sapere alle nostre famiglie che eravamo vivi, ma soprattutto perché desideravano che partissimo assieme a loro per l’America. Dopo un mese, senza che arrivasse nessuna notizia dall’Italia, forse a causa della guerra che ancora non era finita, la compagnia è rimpatriata senza di noi, che fummo consegnati a quella Documento di registrazione rilasciato dalle autorità americane ad successiva. Antonio Novella in data 30 aprile 1945. Notare che la residenza è il lager Bebrit. Abbiamo continuato a lavorare fino a metà luglio quando è partita per l’Italia l’ultima tradotta. Questi ultimi non si erano affezionati a noi come gli altri, anche se era brava gente lo stesso. Ci hanno detto di prendere la nostra roba e in poco tempo siamo partiti con il comando americano addetto alla tradotta verso l’Italia. L’ultima sera prima della partenza, ci hanno messo a disposizione la cucina: potevamo mangiare quello che volevamo. Io sono arrivato a dodici uova, il mio amico a trentasei. Per riuscire a mangiarle tutte, alternava la birra alle uova. Per il viaggio mi sono riempito la gavetta di arachidi tostate. Dagli americani siamo stati pagati con 160 Marchi d’occupazione al mese più vitto e alloggio. IL RIMPATRIO Durante il viaggio per Innsbruck, mangiavo (quando avevo fame) le mie arachidi, le quali mi hanno sfamato per cinque giorni e cinque notti. Al mattino e alla sera, senza bisogno di scendere dal treno ci consegnavano biscotti e latte condensato che io prendevo anche per gli altri. Eravamo ormai poco lontano dalla stazione di Innsbruck quando nel treno sono accaduti due fatti che non posso dimenticare: il primo, a seguito di una brusca frenata ad un semaforo, alcuni prigionieri che si erano sistemati seduti sulla porta colle gambe a penzoloni fuori dal treno, sono stati colpiti dalla porta che si è chiusa di scatto, non essendo stata bloccata. Uno ha perso una gamba. A poca distanza di tempo dal primo fatto, uno che si trovava sul tetto del vagone, subito dietro a dove mi trovavo, non avendo trovato posto all’interno, intento a cantare, non si è accorto che il treno stava imboccando un sottopassaggio. E’ stato sbalzato e si è fermato nello spazio fra un vagone e l’altro. Entrambi sono stati soccorsi e portati in ospedale dagli Americani. Quale sia stata la loro sorte non posso saperlo. Quando siamo arrivati ad Innsbruck, gli americani ci hanno condotti con i camion in una caserma: là, per disinfettarci, usavano il DDT in polvere. Siamo rimasti fermi due giorni, per poi 12 Le Porte della Memoria 2016 ripartire, sempre con i camion, alla volta della stazione, presso la quale la tradotta era pronta per partire. Si trattava di vagoni merci, come quelli che si usano per il trasporto del bestiame. Il 29 luglio 1945, giunti al Brennero, siamo scesi per cambiare locomotore ed abbiamo atteso un’ora. Appena posato il piede in terra italiana, tutti indistintamente, dalla commozione di quel momento tanto desiderato, abbiamo baciato o mangiato la terra: fu una scena indescrivibile. Ripartiti, abbiamo proseguito fino a Pescantina, dove abbiamo trovato i volontari della Croce Rossa. Il nostro viaggio finiva lì. Per proseguire avremmo dovuto arrangiarci come potevamo, con mezzi di fortuna. Noi del Veneto siamo scesi per strada in attesa che passasse qualcuno. Io, assieme ad altri, sono stato trasportato fino a Vicenza da un conducente di camion, che trasportava materiale. Poi mi sono diretto verso la località “Albera”, e anche lì ho trovato un camionista che mi ha dato un passaggio fino a Thiene, dalle suore4, presso le quali ho lasciato lo zaino. Infine, a piedi, seguendo la ferrovia, sono arrivato a casa. Non mi aspettava nessuno, perché non ricevevano mie notizie da cinque mesi. Avevano saputo che ero vivo dal mio amico di Santorso, con cui avevo lavorato sulla ferrovia, rientrato a casa tre mesi prima. I miei genitori avevano conservato tutte le lettere e volevano sapere cosa avevo scritto nei pezzi che erano stati cancellati, cioè censurati per via della guerra. Io ho saputo solo al mio ritorno che quello che raccontavo veniva controllato e manomesso: tra le varie cancellazioni, c’era anche la notizia del mio ricovero in ospedale. L’unica cosa che si poteva comunicare consisteva nella notizia che stavamo bene e che eravamo rinchiusi. Non ci era concesso comunicare nemmeno che ci facevano lavorare. Le cartoline che spedivo disponevano di una parte bianca che sarebbe servita per la risposta dei miei genitori. Alcune non mi sono mai giunte indietro. A casa, con gioia, ho potuto riabbracciare, oltre ai miei genitori, anche tutti i miei fratelli. Appurato che i miei familiari stavano bene, il mio pensiero andava a un mio coscritto che si era ammalato di tubercolosi durante il militare, e così sono andato subito a trovarlo. Purtroppo le sue condizioni non erano buone, e dopo tre mesi morì. Il giorno seguente al mio arrivo è venuto a farmi visita il parroco del paese con il quale ho avuto una piacevole chiacchierata. Poi mi sono recato dai carabinieri per avvisarli del mio arrivo. Per completare i miei doveri, dopo circa un mese, mi sono recato al distretto militare di Vicenza, per dichiarare la mia prigionia e ricostruire la storia di tutto quello che mi era accaduto. Dopo quattro anni, sono stato chiamato a presentarmi all’ospedale di Padova per un controllo delle condizioni di salute della mano, bucata durante la prigionia. Fin dalla prima visita, mi è stata riconosciuta un’invalidità corrispondente all’ottava categoria. Sono poi state necessarie otto visite di controllo e dieci anni di tempo, perché mi riconoscessero l’invalidità a vita. RITORNO ALLA QUOTIDIANITA’ Da questo momento il problema principale era trovare un’occupazione duratura e il momento era molto difficile. Nella ditta presso la quale ero occupato prima di partire per il militare, dai “Fratelli Ruaro”, non c’era lavoro, così sono andato a Zanè, da Corà, dove sono stato assunto subito, poiché avevo la precedenza sugli 13 Le Porte della Memoria 2016 altri per essere stato prigioniero di guerra. Purtroppo lì sono rimasto per poco tempo, perché l’azienda non andava bene, perciò ho chiesto di essere assunto da “Costa”, a Marano Vicentino, dove mi hanno assunto subito. Con questo termina il racconto dei miei ricordi di una parte della mia vita che solo dopo tanto tempo sono riuscito a far riemergere dal profondo, condividendola anche con i ragazzi delle medie attraverso l’interessamento del prof. Oreste Graziani (che per molti anni ha chiesto il mio intervento nelle scuole). La mia vita, però, non ha ricordi solo di guerra, fortunatamente è ricca anche di forti emozioni provate nel prestare il mio lavoro a favore di popolazioni cosiddette del Terzo Mondo, ma molto ricche di umanità, dalle quali ho ricevuto molto; ma questa è un’altra storia… IL VOLONTARIATO IN AFRICA Nel 1980 il sig. Antonio ha trovato modo di iniziare un nuovo impegno a favore di chi ha meno, mettendo a disposizione le sue conoscenze tecniche accumulate in anni di lavoro. Ha collaborato alla creazione di due centrali idroelettriche, una nel Congo Zaire e una in Tanzania. Nel periodo 1980-1987 ha passato in questi paesi molti mesi per lavorare in particolare all’installazione di due turbine donate da note ditte locali. La prima opera è stata realizzata nella zona di Kiringye nello Zaire, verso il confine con il Burundi e la seconda a Matembwe, in Tanzania, fornendo così energia elettrica al villaggio e a un mangimificio collegato ad un allevamento di polli. Nel 1987 è stato invitato a tornare in Tanzania per visitare l’impianto completato e funzionante, assieme alla moglie. Più che meritato il cavalierato della Repubblica Italiana concesso dal Presidente della Repubblica nel 1986. Gli incontri con il sig. Antonio Novella sono avvenuti nei giorni 11 e 18 novembre e 2 dicembre 2015, alla presenza della nuora signora Oriana che ringraziamo, assieme al sig. Antonio, per la disponibilità e l’accoglienza che ci hanno riservato. B.Gramola e D.Vidale, Sulla giacca ci scrissero IMI, Cooperativa Tipografica degli Operai – Vicenza, dicembre 2003. Testimonianza di Giulio Rosa di Arzignano, pp. 114 – 118. 2 La fabbrica dovrebbe essere la GmbH di Bebra, conosciuta anche col nome Bebrit Preβstoffwerke. Bebrit è il nome commerciale della bachelite. 3 Bebra-Wikipedia https:/de.Wikipedia.org/wiki/bebra. Il 4 dicembre 1944 Bebra fu bersaglio di un bombardamento aereo americano. La stazione, che era l'obiettivo dell'attacco è stata solo leggermente danneggiata, ma tutte e tre le chiese e 43 case sono state distrutte, uccidendo 64 persone e causandoüü molti feriti. Come era consuetudine, è stato vietato alla stampa di riferire dell’attacco e delle vittime. Il 2 aprile 1945, Bebra fu occupata dalle truppe americane. 4 Danilo Restiglian, Orfanatrofi “Chilesotti - Velo”, tipografie G.R. grafiche, Vigardolo di Monticello C.O., settembre 2003, pag. 45. Presso l’orfanatrofio Chilesotti Velo è stata predisposto un Posto di ristoro per soldati rimpatriati dai lager del Terzo Reich. Era un luogo dove potevano trovare un pasto caldo, dove poter riposare, in attesa di raggiungere le loro case. Erano le suore Eufrosina e Bertilla le più impegnate in questa opera. 1 14 Le Porte della Memoria 2016 Non ho subito particolari maltrattamenti, ma ero convinto che non sarei tornato a casa… Ricordi di prigionia del maranese Giuseppe Novella, classe 1922 COME HO VISSUTO L’8 SETTEMBRE L’8 settembre mi trovavo a Bolzano, a Gries dove c’erano due caserme una del Genio e una del 232° Fanteria, io ero in quella della fanteria. Mi trovavo in libera uscita e alle 20 sono rientrato per sentire cosa si diceva in caserma delle novità in merito all’armistizio. Ero con altri e siamo stati subito bloccati e portati in cortile fino a mezzanotte per aspettare una decisione da parte degli ufficiali, poi siamo stati mandati a dormire. Alle tre si sentono rumori e spari, la caserma si trovava ai piedi del monte e da quella parte non si poteva scappare; è arrivato al passo carraio della caserma un carro armato tedesco e ha cominciato a sparare dentro al cortile pallottole traccianti e ad un certo punto hanno buttato dentro anche dei bengala per illuminare il cortile. Hanno demolito il portone di ingresso e hanno ucciso chi era di sentinella. Hanno fatto suonare la sveglie e tutti in cortile con lo zaino con all’interno le “quattro strasse” che avevamo e Giuseppe Novella, l'ultimo a destra siamo stati fermi in cortile fino alle 6 di mattina. A a Bolzano il 17/10/1942 ( XX E.F.) gruppi ci portano dentro al torrente Talvera, che attraversa Bolzano. Siamo stati sorvegliati da due carri armati, uno alla fine e uno all’inizio del grande gruppo che si era ormai formato e 4 soldati sulla sponda e noi tutti dentro nell’alveo del torrente, l’acqua era poca. Siamo rimasti lì tutto il giorno, alla sera hanno cominciato a riempire le tradotte e portarci via; ci portavano in stazione e poi via, non sapevamo niente. Noi eravamo disarmati e gli ufficiali sono stati fatti partire per primi assieme a quelli del Corpo d’armata. Io sono stato fra i primi a partire alla sera, alle 9 del giorno 9. LA DEPORTAZIONE Hanno riempito i vagoni fin che ce ne stavano e chiuse le porte, siamo arrivati la mattina dopo al campo di concentramento1. C’erano dei capannoni molto grandi per ospitarci con letti a castello a tre piani. Ci hanno ritirato gli zaini, ci hanno fatto fare il bagno, tagliati i capelli a zero. Il mio numero di matricola era il 90540. Già dai primi giorni sono arrivati dei fascisti italiani per invitarci con le buone e con le cattive ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ma nessuno di noi ha aderito. Lì si viveva alla giornata senza fare niente. Dopo qualche giorno ci hanno portati in una cava di ghiaia; ho lavorato ad estrarre ghiaia e a portarla fuori dalla cava. 15 Le Porte della Memoria 2016 IL LAVORO NELLA FABBRICA DI GOMMA Dopo circa due mesi ci hanno portati in una fabbrica che produceva articoli di gomma, la Semperit2 a Vimpassing im Schwarzatale (a 140 Km circa da Krems e a 80 Km a sud ovest di Vienna). Dal campo, che distava circa un Km dalla fabbrica, si partiva al mattino, eravamo una ventina, accompagnati da una guardia. Nella fabbrica lavoravano circa 3.000 operai; venivamo distribuiti nei vari reparti dove si facevano tutti prodotti in gomma, dalle scarpe, ai copertoni per auto, dai mantelli Cartolina postale precompilata dove il termine prigioniero è stato sostituito da "internato militare". per la pioggia, alle camere d’aria. Io sono stato assegnato al reparto dove facevano cinghie trapezoidali che si usano in tutte le auto. La vita era sempre uguale, sveglia e si andava al lavoro dalle 6 alle 6, si facevano 12 ore, una settimana di giorno e una settimana di notte. Tutti quelli che lavoravano nella fabbrica erano prigionieri, molti italiani, francesi e dei paesi dell’Est, anche donne. Il capo del mio reparto era un tedesco sulla cinquantina. Il lavoro consisteva nell’assemblare del materiale che proveniva da altri reparti, mettere dei fili di seta all’interno di una guaina di gomma larga 4 cm, si aggiungeva una fettuccina di gomma e poi si chiudeva e si incollava. Operando su una ruota bisognava fare tre giri completi per ispessire il prodotto che poi veniva messo in forno a cuocere. Si ottenevano così le cinghie trapezoidali. Avevamo dei tempi per fare il lavoro e bastava che li rispettassimo. A seconda dei turni di lavoro, a mezzogiorno o alla mezzanotte ti davano la minestra. La fabbrica Semperit è nel paese di Wimpassing, un piccolo paese. Questa fabbrica è ancora attiva. Il lager era ad 1 Km dalla fabbrica. Il lager era per noi italiani, un centinaio; poi c’erano degli altri prigionieri, ma erano sistemati in altri luoghi. Eravamo una ventina per baracca, con letti a castello. Nel settembre 1944 sono diventato lavoratore libero, ma nella pratica non è cambiato nulla. Da metà del ’44 partivamo da soli dal lager per raggiungere la fabbrica, non più accompagnati. Ricordo che un carabiniere di Bolzano che sapeva il tedesco, pure lui prigioniero, ottenne un permesso per tornare a casa per il funerale di un genitore, ma poi si guardò bene dal fare ritorno. 16 Le Porte della Memoria 2016 Lo rividi alla fine della guerra a Bolzano. La fabbrica è stata frequentemente sorvolata da aerei alleati, ma a parte qualche modesto danno, gli aerei sono sempre andati oltre e non hanno bombardato. Ad ogni allarme correvamo a ripararci in una galleria sotto la collina, che era I prigionieri venivano pagati con i Reichsmark che non al di là della strada dove sorgeva la permettevano alcun acquisto in quanto non c'era nulla da fabbrica. Delle volte ci fermavamo comperare. anche a guardare gli aerei sperando che mettessero fine alla nostra sofferenza. Pensavo che non sarei tornato vivo; noi interessavamo ai tedeschi solo per il nostro lavoro, per il resto valevamo nulla! Da casa non ho mai avuto notizie, neanche da mio fratello Antonio che era pure lui prigioniero dei Tedeschi e non ho mai avuto pacchi con vestiario e viveri. LA LIBERAZIONE Ho sempre lavorato in questa fabbrica, fino al 1° aprile 1945, giorno di Pasqua, quando ci hanno fatto svegliare prima del solito. Si sentivano forti i colpi di cannone, provenienti da est, sparati dall’Armata Rossa, ormai vicina. Ci hanno messo in strada alle 5 del mattino e ci hanno accompagnati per qualche Km per poi lasciarci proseguire da soli. Abbiamo chiesto a dei contadini ospitalità per la notte. Il giorno dopo abbiamo continuato ad andare avanti; qualcuno voleva tornare indietro, al lager. Siamo rimasti in un gruppetto di 4/5 e abbiamo proseguito cercando di mantenere la direzione verso il Brennero. Per fortuna che con noi c’era un trentino di Mezzolombardo, un certo Tai, che parlava il tedesco. Il nostro peregrinare per tornare a casa è durato ben 16 giorni. Abbiamo vissuto così, chiedendo ospitalità e qualcosa da mangiare nelle case isolate di contadini. Siamo arrivati a Innsbruck. Lungo la strada non abbiamo mai incontrato gli Alleati; l’unico incontro che ricordo è stato con un gruppo di deportati scortati da soldati tedeschi, ma noi siamo rimasti alla larga. Da lontano abbiamo potuto vedere che quando qualcuno dei deportati non riusciva a proseguire, veniva ucciso. A Innsbruck c’era un centro di raccolta, gestito dai tedeschi. Ci hanno fatti sistemare in attesa che alla sera partisse una tradotta per l’Italia. Ad un certo punto ci hanno portati in stazione e ci hanno fatti salire su un treno. Eravamo già partiti quando uno, che parlava italiano, ci ha avvertito che quel treno non era diretto in Italia, ma verso ovest, in direzione della Svizzera, mentre quello per l’Italia partiva più tardi. Ci ha invitato a scendere alla prima stazione con queste parole: “Scendete fin che siete in tempo perché vi stanno portando a scavare fossi anticarro per fermare i carri armati alleati”. Così siamo scesi alla prima fermata, siamo tornati al centro di raccolta e finalmente abbiamo preso il treno giusto per il Brennero. Al Brennero siamo scesi e abbiamo dormito in dei capannoni e alla mattina abbiamo preso il treno per proseguire verso sud. In alcuni tratti la ferrovia Brennero Bolzano funzionava ancora e alla sera, dopo una giornata di viaggio, siamo arrivati a Bolzano. Nel 17 Le Porte della Memoria 2016 centro di raccolta ci hanno dato una minestra e un pomo. La sera stessa i tedeschi ci hanno portati in un luogo dove era in partenza un camion rimorchio pieno di fusti di benzina e noi, eravamo in 5, con me c’era un certo Stocchero che abitava “in fondo a Marano”, uno di Verona, uno di Mantova, e uno di Mezzolombardo, siamo saliti. Ad un certo punto il camion, per evitare di essere colpito dagli aerei alleati, ha spento i fari e così siamo arrivati a Mezzolombardo dove è sceso Tai. Arriviamo a Verona, il camion rimorchio era diretto a Milano, io e Stocchero siamo scesi. Abbiamo chiesto notizie del treno per Vicenza, ma ci è stato risposto che la linea Verona Vicenza non funzionava, funzionava invece il trenino a scartamento ridotto Verona San Bonifacio. Ora questa tratta non c’è più. Ad un certo punto c’è un allarme e tutti scendiamo scappando nei campi. Arrivati a San Bonifacio non si poteva più proseguire e allora abbiamo proseguito a piedi fino ad Arzignano. Abbiamo trovato un compaesano di Marano, un certo Pento, che faceva attività di trasporto e sul carretto aveva su due sacchi di sale e più avanti doveva caricare dell’altro e così abbiamo proseguito con lui fino a Castelgomberto. Lì ci siamo dovuti fermare per l’entrata in vigore del coprifuoco. Siamo stati accolti da una famiglia di contadini che Stocchero conosceva; ci hanno dato una scodella di latte con un po’ di pane e abbiamo dormito in stalla. All’indomani abbiamo ripreso il cammino per Priabona e finalmente in mattinata siamo arrivati a casa. Così Giuseppe, il fratello maggiore, tornò a casa il 16 aprile, prima della Liberazione, e il minore, Antonio, il 31 luglio 1945. Gli incontri col signor Giuseppe Novella sono avvenuti assieme al fratello Antonio, alla presenza della signora Oriana, nei giorni 18 novembre e 2 dicembre 2015. Anche al sig. Giuseppe il nostro grazie per la disponibilità e l’accoglienza che ci ha riservato. Si tratta del campo Stammlager XVII di Krems an der Donau sul Danubio, 70 Km a ovest di Vienna. Era solo un campo di transito in attesa di una destinazione dove lavorare. 2 Semperit è un termine che deriva dal latino “semper est” col significato esteso di “corre sempre”. L’azienda fu fondata nel 1850 a Wimpassing, in Austria, e fu la prima fabbrica europea di articoli in gomma. La produzione di pneumatici inizia nel 1900 e da allora il marchio Semperit è stato sinonimo di qualità e sicurezza. 1 18 Le Porte della Memoria 2016 Il Gruppo Huomologando impegnato a far conoscere fra i giovani le figure dei Giusti Lo scorso 6 marzo è stata celebrata la terza Giornata Europea dei Giusti e per questo il gruppo giovanile Huomologando ci ha dato appuntamento sabato 7 marzo nel Giardino dei Giusti di via Basilicata. Quello che segue è l’intervento di Abramo Tognato che a nome del gruppo ha introdotto l’incontro che ha richiamato la presenza di molte persone e di molti giovani, fra cui i Giovanissimi della Parrocchia dei Cappuccini. Ringraziamo il gruppo Huomologando sempre pronto a dare la disponibilità ed impegno ad animare momenti di riflessione per far crescere fra i giovani una cultura di pace, di legalità e dei diritti umani. Essere Giusto secondo noi non è esigere la giustizia, nel senso di applicare le mere leggi, anche perché le leggi stesse possono essere inadeguate, ingiuste appunto. Il concetto di Giusto non si applica ad un gruppo di uomini che hanno deciso di vivere insieme ponendosi delle regole. Il concetto di Giusto invece si applica al singolo uomo che decide di vivere insieme ad altri uomini, che ci siano o meno già delle regole di convivenza. Il concetto di Giusto richiama la sua arcaica etimologia, ovvero "la persona che vuole e fa il bene e che rifugge il male". E per bene non si intende certo l'egoistico bene personale, ma piuttosto "quello che si desidera in quanto è conveniente alla natura umana". Non è il singolo al centro, non sono io che cerco il bene per me, è la natura umana che ci offre il dono, il talento, la spinta per affrontare la paura: in fin dei conti è proprio così, gli animali di fronte ad un evento potenzialmente pericoloso scappano, il loro istinto non dà spazio a null'altro se non alla fuga. L'uomo no, l'uomo di fronte al pericolo ha una forza in più, può valutare se il pericolo è dannoso solo per sé o anche per gli altri. E può anche decidere di affrontare la paura o con l'istinto alla fuga come gli animali, o con una re19 Le Porte della Memoria 2016 azione, cioè un'azione che va contro l'istinto. Tutti agiamo spesso con l'istinto, non tutti invece sanno valutare se reagire con il coraggio. Di sicuro, se sappiamo che anche altri hanno deciso di non fuggire davanti al pericolo, ci è molto più facile scegliere di reagire anche noi senza scappare. Ed ecco quindi la seconda virtù dell'uomo, la collaborazione con altri uomini. E non a caso il Giusto che vogliamo ricordare quest'anno, Gino Bartali, ha vissuto entrambi i talenti, prima scoprendo che fare il bene significava aiutare chi era veramente in pericolo di vita, e secondo che l'aiuto è molto più valido se a reagire non si è da soli. Ed è anche per questo che abbiamo scelto Gino Bartali come uomo da scoprire, perché per non sentirci soli quando facciamo il bene per gli altri ci torna utile il ricordo del suo esempio e della sua vita. L'essere umano può scegliere di affrontare il pericolo ma anche la vita di tutti giorni, cercando, chiedendo o offrendo l'aiuto agli altri, anche perché non dimentichiamoci che "ci vogliono due pietre focaie per accendere un fuoco". Il gruppo Huomologando ha deciso di iniziare con questa lettura il breve spettacolo teatrale in memoria del campione toscano: per la Giornata dei Giusti, 6 marzo 2015, non c'era luogo migliore del giardino dei Giusti di Thiene, sito in via Basilicata. Uno spettacolo che ha messo al centro non tanto l'eroismo di Bartali nel compiere centinaia di chilometri al giorno nascondendo preziosi documenti, quanto invece la semplicità e la naturalezza con cui ha compiuto tali gesta. Non a caso a fine spettacolo i ragazzi del gruppo hanno distribuito un semplice adesivo qui riprodotto 20 Le Porte della Memoria 2016 Nel fascicolo delle Porte della Memoria 2007 abbiamo riportato questa importante testimonianza di Angelo Raffaello, purtroppo deceduto nel 2012. La riprendiamo nuovamente per sviluppare una parte che a Lui stava molto a cuore e che più volte sollecitò perché se ne scrivesse: la detenzione nel Forte di San Leonardo di Verona, dal maggio al luglio 1944, che Lui ricordò fino alla fine dei suoi giorni per la durezza bestiale. Come ho vissuto i 20 terribili mesi dall’8 Settembre 1943 al 5 Maggio 1945 di Angelo Raffaello. 8 settembre 1943. L’Italia è allo stremo e cede le armi. I tedeschi hanno ormai già invaso tutto il Paese; con la loro ferocia e potenza hanno eliminato in poco tempo le ultime sacche di resistenza. I fascisti stanno risorgendo, sono povera gente e, invece di collaborare per mettere fine alla guerra, massacrano, rubano, stuprano. Non amano la Patria, danno sfogo ai loro istinti bestiali, armati e appoggiati dai tedeschi. Tanti sono i fatti da ricordare. Molta, tanta era la gente da aiutare; nelle nostre valli erano confinati centinaia di ebrei senza nessun diritto. Se fossero stati presi, sarebbe stata la loro fine. Ma molta gente coraggiosa e dal cuore buono, rischiando la propria vita e quella dei familiari, li aiuta a fuggire, per lo più in Svizzera, e a mettersi in salvo1. A seguito di questa situazione cominciarono a nascere, attorno a uomini guida e di grande esempio, delle formazioni di resistenza e difesa. L’ing. Giacomo Chilesotti fu uno di questi, figlio di una grande famiglia. Assieme ai fratelli Rocco, ex ufficiali di Belvedere di Tezze, e ad un ufficiale italo-americano, con una stazione radio tenevano informati gli alleati di tutti i movimenti tedeschi e fascisti. Io fui presentato a Chilesotti da Mario Saugo2 l’ 8 dicembre 1943 e fui ben accettato. Gli alleati stavano preparando un lancio di varie cose; partimmo il 2 gennaio ’44 per la val Galmarara di Asiago. Faceva molto freddo e c’era un metro di neve. Ero con Chilesotti, i fratelli Rocco, Mario Saugo, due prigionieri inglesi, uno sudafricano e uno neozelandese, l’ing. Carli e i fratelli Rigoni di Asiago. Restammo nascosti in una baita per cinque giorni ad aspettare, ma a causa del cattivo tempo il lancio non avvenne. Fu fatto poi in val di Nos, sempre sull’Altopiano, il 19 e 21 Marzo. Aiutai Chilesotti e Saugo a portare una parte delle armi a Thiene, ma durante uno di questi viaggi io e Saugo fummo catturati, il 5 Aprile, dai fratelli Caneva di Asiago. Per fortuna addosso non avevamo nulla. Ci consegnarono ai tedeschi e da qui cominciò il mio calvario. Fummo portati prima in prigione a Thiene, poi a Vicenza a San Biagio. Il carcere era strapieno, molti erano genitori anziani, tenuti come ostaggi perché i figli erano renitenti; molti di questi erano disperati perché non avevano notizie dei figli. Nel frattempo a Thiene era stato ucciso il Commissario Prefettizio Dal Zotto. Per mettere in atto una rappresaglia furono portati da Thiene a San Biagio vari ostaggi, conosciuti come antifascisti, tra i quali Vecelli, Fontana, Tagliapietra, Berto 21 Le Porte della Memoria 2016 e Costa da Marano. A volere la rappresaglia era il famigerato capitano Polga, ma fu fermato in tempo e più tardi sarà ucciso a Priabona. Vicenza subì alla metà di maggio un terribile bombardamento, come qualche settimana prima Treviso. Molte bombe caddero attorno alla prigione. Il 20 maggio fui trasferito a Verona al forte San Leonardo, uno dei più duri luoghi di prigionia dei nazifascisti. Eravamo stipati in 70-80 in due camerate. Per i nostri bisogni c’erano i cosiddetti “boioli”, mastelli di legno dall’odore tremendo che alla mattina andavamo a svuotare e lavare; per l’aria c’erano tre feritoie e l’anzianità di prigione dava diritto a stare più vicini ad esse. Accanto alla nostra c’era la cella degli ufficiali, tra i quali il generale Caracciolo3, da noi era chiamato il “fantasma del castello” per la sua presenza austera e marziale, barba e favoriti (basette folte, lunghe fino all’altezza del mento) bianchi e abbondanti. Altro ufficiale imprigionato era il colonnello dei carabinieri Giorgi4 con suo figlio, trattenuti per un mese al comando delle SS e poi deportati a Dachau, dove il figlio morì di stenti. Il padre si salvò e divenne più tardi comandante generale dell’Arma. Il nostro passatempo era quello di uccidere pidocchi e cimici che infestavano i nostri materassi e ci tormentavano notte e giorno, finché i tedeschi non decisero di procedere alla disinfestazione, con la conseguenza che per settimane il nostro Il Forte San Leonardo, prigione nazista dal 1943 al ’45. e oggi Santuario della Madonna di Lourdes letto era un tavolato che ci procurò ematomi alle anche. Al pianterreno c’erano le donne e la cella dei condannati a morte. Questi ultimi nella mezz’ora d’aria quotidiana, giravano attorno al pozzo e si sentiva il rumore degli zoccoli e delle catene. La chiamavamo la “danza della morte”. Ricordo una russa di bassa statura, che parlava correttamente cinque lingue, accusata di spionaggio. Fu fucilata al forte San Procolo, dove vennero giustiziati i gerarchi del “processo di Verona”. Ricordo la cantante lirica che alla sera cantava per il suo uomo, un ingegnere della Fiat in cella con me. Fucilati entrambi. Di giorno si chiacchierava del più e del meno, ma sempre con cautela e diffidenza reciproca; non si sapeva mai come poteva andare a finire! Ma quando si sentivano le voci delle SS era un silenzio totale. A chi sarebbe toccato ? Dopo l’ interrogatorio i prigionieri venivano riportati in cella massacrati dalle torture e venivano gettati dentro come fossero stracci, oppure dovevano prendere le proprie cose e passare di sotto andando così incontro alla morte. 22 Le Porte della Memoria 2016 La notte era un tormento, chi chiamava la mamma o i famigliari, chi urlava, chi piangeva. Una notte bombardarono San Zeno e Borgo Trento5, dove erano situati i comandi militari. Vidi attraverso il lucernario la piazza illuminata a giorno dai bengala, le donne che scappavano con i loro fagotti e i bambini per mano; all’improvviso udii un grande scoppio e vidi saltare tutto in aria. L’ospedale militare fu colpito in pieno con 32 morti; dopo una settimana furono incarcerati il colonnello medico e il suo assistente perché secondo le SS avevano trascurato l’assistenza. Devo un riconoscente ricordo alle persone, inviate dal Vescovo di Verona6, che ci portavano con regolarità cibo e perfino caramelle dissetanti!! A fine luglio fui trasferito nel lager di Bolzano7 e dopo una settimana fui destinato alla deportazione. Il nostro convoglio era formato da 320 persone e comprendeva un gruppo di ebrei provenienti dalla Liguria e dalla zona di Como, sette preti, 25 donne8. I convogli arrivavano alla meta sempre di sera, con l’oscurità. La località si chiamava Mauthausen, il fiume era il Danubio, in cima alla collina la fortezza. Ci fecero Angelo Raffaello al tempo scendere con urla e botte e a salire a piedi fino alla della prigionia. fortezza; ci fecero stare tutta la notte all’esterno. Alla mattina abbiamo potuto vedere la desolazione: alte mura con il filo spinato con la corrente elettrica ad alta tensione, carcerati che si trascinavano avanti a fatica, ridotti a pelle e ossa. Vidi anche qualcuno a terra che non ce la faceva più. Due camini fumavano in continuazione. Pensavo fossero le cucine! Erano invece ben altro: erano i forni crematori. Ad un certo punto accadde una cosa impressionante: a ciascuno diedero 50 g di pane nero e ammuffito. Noi che eravamo ancora in forze e abbastanza nutriti, lo abbiamo pulito dalla muffa, lasciando cadere delle briciole. La cosa non sfuggì ad un condannato che si buttò per terra e malgrado che il kapò lo riempisse di botte con il bastone sulla testa e sul corpo, continuò a raccogliere le briciole, finché si girò da una parte svenuto. Dopo una decina di giorni9, al momento dell’appello ci dissero che eravamo ritenuti abili per lavorare, a condizione che firmassimo un documento bilingue10 in cui ponevano le loro condizioni. Traduceva un avvocato ebreo di Como arrivato con il mio convoglio che poi morì di stenti nel lager. Accettai. Fummo trasferiti a Linz in uno stabilimento chimico11 con 12 ore La dichiarazione di di lavoro al giorno, sotto vari bombardamenti, tra i quali quello impegno che i del 30 Aprile, l’ultimo della guerra, che durò quattro ore. Nella deportati dovevano zona erano arrivati dal Friuli i cosacchi filo nazisti dell’armata sottoscrivere per del generale Vlasov con i loro cavalli e i lunghi fucili, poter lasciare il lager ed essere avviati al accompagnati dalle famiglie su carrette. Il bombardamento lavoro coatto. provocò fra loro una carneficina. 23 Le Porte della Memoria 2016 Finalmente il 5 Maggio arrivarono gli Americani! I superstiti del campo di prigionia furono trasferiti all’ospedale di Linz per essere curati, visto che le loro forze erano ormai al limite per la denutrizione. Tra i ricoverati riconobbi Marcante Pietro di Zanè gravemente malato. Lo rividi anche in ospedale a Thiene dove morì tre giorni dopo l’arrivo dall’Austria. Alla liberazione il mio peso era di 42 Kg. Tutte queste sofferenze sono dedicate al nuovo modo di vivere, nella Libertà e nel sistema democratico, dove tutti possono dare il meglio di se stessi. W LA LIBERTA’! Tessera intestata a Raffaello Angelo, in data 1 gennaio 1945, per poter accedere ai servizi Ricordi di Raffaello Angelo, classe 1923, mensa ed altro, del campo per lavoratori scritti per il Giorno della Memoria 2006 stranieri a cui era assegnato e che si trovava nel quartiere Lustenau di Linz. I Forti San Leonardo e San Mattia di Verona, fra i luoghi di reclusione degli oppositori durante la Repubblica Sociale Italiana Del sistema carcerario nazifascista di Verona ci sono alcuni testi che riportano documenti e testimonianze, in particolare abbiamo trovato interessante “Prigionia e deportazione nel veronese” di Gracco Spaziani e Paola Dalli Cani, Cierre Edizioni, ANED, maggio 2012, testo a cui si sono riferiti anche gli studenti dell’Istituto Professionale Sanmicheli di Verona per una recente ricerca (anno scolastico 2013‘14) sui luoghi di detenzione a Verona durante la Repubblica Sociale Italiana. Fra questi luoghi figura anche il loro istituto, nel cui interrato erano state ricavate delle celle gestite dalle Brigate Nere per rinchiudervi gli oppositori. Dopo l‘8 settembre Verona divenne un punto di importanza fondamentale per l’occupazione tedesca, per la sua posizione strategica all’imbocco della val d’Adige e quindi per il suo diretto collegamento con il Reich: proprio a Verona avevano sede uffici, comandi e tribunali delle varie articolazioni politiche, militari, repressive, con cui si manifestava il potere tedesco e fascista della RSI. Furono adattati a carceri molti luoghi della città, in particolare i forti di San Mattia, Santa Sofia, San Leonardo, il palazzo dell’I.N.A, le scuole Sanmicheli, la sede dell’UPI, il carcere degli Scalzi, la sede rionale del Fascio vicino a Porta Vescovo, le Casermette di Montorio. Erano luoghi dove veniva praticata su grande scala la tortura e per i prigionieri, nella gran parte, non c’era scampo: o la fucilazione o la deportazione nei lager della Germania. 24 Le Porte della Memoria 2016 Si stima che più di diecimila persone siano state imprigionate in questi luoghi. Solo in parte furono veronesi. Tra costoro ci furono, oltre ad Angelo Raffaello, i nostri concittadini Carollo Antonio, Mario Zanella12 e Giovanni Zanchi. Tutti e tre conobbero la prigionia al Forte San Mattia. Giovanni Zanchi vi rimase dal novembre 1943 al marzo 1944 e perse per sempre la salute. La moglie, con il figlio minore Gianfranco, si recava spesso a trovarlo per portargli Forte San Mattia vestiario e cibo. Gianfranco ricorda che le visite erano quindicinali e per avere l’autorizzazione dovevano andare in via Porta Nuova al comando delle SS dove c’era anche il comando generale delle SD, polizia per la Sicurezza, che aveva sede presso l’ex palazzo I.N.A. Istituto Nazionale assicurazioni. Una volta accadde un fatto strano: la richiesta della madre di far visita al marito fu respinta e allora il figlio chiese di poter visitare Mario Zanella che sapeva in carcere con il padre e con Antonio Carollo “Viola”. Questa richiesta di visita fu accolta e Gianfranco poté incontrare Zanella. In questo modo vide il padre che in quel momento era con i due amici thienesi e stava scendendo dalle scale che davano al cortile interno. Gianfranco si diresse rapidamente verso il padre, senza badare alla guardia e gli consegnò il pacchetto. Nessuno si preoccupò di controllare cosa ci fosse dentro. Sempre Gianfranco ricorda che il padre in certi momenti doveva fare dei lavori fuori dal forte. Carollo Antonio13 fu catturato nel dicembre 1943 mentre accompagnava in treno tra Vicenza e Bassano del Grappa una decina di ex prigionieri alleati. Fu portato prima a Vicenza a san Biagio e dal gennaio 1944 al forte San Mattia, dove subì pesanti torture affinché facesse i nomi dei suoi collegamenti a Padova. Rischiava la vita. In occasione di un interrogatorio si presentò con sulla divisa, ben visibile, il nastrino della campagna di Russia. Il comandante tedesco, avuta conferma che Viola aveva combattuto nella campagna di Russia, annullò la condanna a morte. Rimase in prigione per altri due mesi e poi fu trasferito a Padova ai Paolotti, quindi a Piove di Sacco dove fu processato e assolto per insufficienza di prove. Questi numeri furono possibili perché nelle celle venivano ammassate dalle 50 alle 80 persone dove ne potevano stare dieci! Si trattava di ambienti di dimensioni 5 per 10 metri, con volta a botte con un’unica finestra a luce riflessa. I letti a castello erano di tre piani. La capienza complessiva dei tre forti sarebbe stata di circa trecento individui, ma i tedeschi riuscirono ad ammassarvene contemporaneamente fino a milleottocento, col sistema dei castelli che moltiplicava la capacità normale di 25 Le Porte della Memoria 2016 ogni cella, costringendo i reclusi a vivere accatastati l’uno sopra l’altro, senza la minima possibilità di movimento e quasi di respiro. Al comando dei tre forti c’era un maggiore delle SS e in ogni forte un maresciallo esperto nel turpe mestiere dell’aguzzino. Gli agenti di custodia erano armatissimi, e ogni possibilità di evasione eliminata mediante un complesso sistema di grossi cancelli ferrati, di reticolati, di fili spinati, e di altri ostacoli e trabocchetti di ogni genere disposti dentro ed intorno ai forti. Forte San Leonardo era circondato da 7 massicci cancelli che dividevano la prigione dall’esterno. I detenuti al loro arrivo erano rinchiusi in una stanza piccola e lurida, dove avveniva l’accettazione. Dopo l’immatricolazione, venivano trasferiti nelle celle, sovraffollate oltre ogni limite. Ogni detenuto aveva per dormire uno spazio inferiore al metro e per usufruire in due di una coperta dormivano uno vicino all’altro; in mezzo alla stanza si trovavano 2 buglioli che venivano svuotati una volta al giorno senza alcuna disinfezione. Nella stanza penetrava dalle piccole finestre scarsa luce. Il regolamento del forte consisteva in una serie di punti che mettevano in grande rilievo l’esigenza del decoro, delle pulizie e dell’ordine, ma tutto rimane sulla carta; mancava l’acqua per lavarsi anche il viso, non era possibile cambiarsi il vestito, non c’era nulla per disinfettare i secchi dei bisogni. I detenuti al suono della sveglia dovevano alzarsi subito, pulire la cella e rifare il letto; il secchio dei bisogni doveva essere sempre nello stesso posto e dovevano pulirlo quotidianamente. Era proibito bussare alle pareti, alle porte e alle finestre. Non potevano cantare, fischiare e fare rumore, né comunicare con altri detenuti e scambiarsi oggetti tra loro; qualora fossero state violate queste regole sarebbero stati puniti tutti i detenuti. Durante l’interrogatorio venivano richiesto il vestito pulito. La pulizia personale era impossibile perché non era consentito ai prigionieri il cambio degli abiti e della biancheria. L’acqua non era fornita neppure in quantità sufficiente per bere, perché ne usufruivano solo i soldati di guardia; per lavarsi il viso e radersi la barba utilizzavano l’acqua tinta chiamata surrogato di caffè che veniva distribuito al mattino. I detenuti potevano andare dal medico solo in casi urgenti e se non veniva riscontrata l’urgenza, venivano puniti. Per quanto riguarda il contatto con le famiglie avevano a disposizione carta e matite che venivano distribuiti e, non più tardi di un’ora dopo, dovevano essere restituiti al capoguardia. I detenuti non ancora condannati, in carcere preventivo, potevano scrivere una lettera ogni 14 giorni, mentre quelli condannati, una al mese. Ma tutto questo era teorico perché dovevano mettere il francobollo e quasi sempre non l’avevano. Nel corso della giornata i prigionieri erano costretti all’inerzia quasi assoluta, tranne la mezz’ora al mattino che passavano nel cortile del carcere. In questa mezz’ora dovevano correre ai comandi delle guardie che non risparmiavano calci e botte a chi rallentava o dava segno di essere stanco. Per mancanze insignificanti i prigionieri potevano anche essere costretti a camminare carponi nella polvere o nel fango oppure a rimanere in posizione di attenti col viso rivolto al muro per tutta 26 Le Porte della Memoria 2016 la durata del “passeggio”. Ai prigionieri era vietato rigorosamente di fumare, ma in quelle condizioni per molti era una necessità impellente e così tutto andava bene pur di costruirsi una sigaretta, magari usando il tabacco delle cicche raccolte in ogni luogo. Se le guardie scoprivano dall’odore che qualcuno aveva fumato le indagini per individuare il responsabile erano interminabili e così succedeva che in ogni cella, a turno, c’era sempre uno che si addossava la colpa e passava per punizione quattro o cinque giorni in cella di rigore (isolamento, niente aria, pane nero e acqua) giorni che venivano scontati nel forte di santa Sofia. Il vitto non si discostava da quello che era “servito” nei lager in Germania: oltre al surrogato del mattino, prevedeva un mestolo di brodaglia con un po’ di verdura e di patate a mezzogiorno e un altro mestolo di surrogato amaro la sera. Inoltre un po’ di margarina e di marmellata, oppure qualche patata lessa o due uova sode. La razione di pane, nero e spesso acido, era di 400 grammi al giorno. A conferma di quanto dichiarato da Angelo Raffaello in merito all’aiuto avuto dalla Chiesa di Verona, per interessamento del suo Vescovo, c’è la testimonianza di don Pietro Foligno, un prete umbro imprigionato a Forte San Leonardo. Settimanalmente don Carlo Signorato, il cappellano delle carceri di Verona, distribuiva ai prigionieri quello che era riuscito a raccogliere per soddisfare le loro esigenze più urgenti. Nonostante i guardiani controllassero ogni suo movimento, don Carlo alla domenica, in occasione della S. Messa nel cortile, alle ore 10, riusciva a raccogliere le varie esigenze che poi cercava di soddisfare con l’aiuto dell’Azione Cattolica veronese e al sabato successivo tornava con pacchi con scritto il nominativo del richiedente, contenenti cibo, camicie, maglie, pantaloni, asciugamani, sapone e altro. Prima dell’inizio della Messa distribuiva ai presenti dei libretti per meglio seguire la liturgia e alla fine quando li raccoglieva, all’interno c’erano messaggi e corrispondenza che lui provvedeva a fare giungere a destinazione. Un capitolo importante della storia terribile del Forte San Leonardo è quello di ricostruire l’elenco dei prigionieri. Secondo Paola Dalli Cani, in un articolo comparso il 7/05/2009 sull’Arena, dal titolo significativo “Durò 15 mesi l’inferno nazista in collina”, l’elenco dei prigionieri del San Leonardo si ferma ad appena 89 nominativi. Questo basta a spiegare quanto lavoro di ricerca sia ancora necessario per fare piena luce a quanto accadde all’interno delle carceri veronesi. Un‘opera importante l’ha svolta in questi anni Padre Renato Carcereri rettore del Santuario dedicato alla Madonna di Lourdes che ha registrato le storie dei prigionieri che negli anni sono tornati, da uomini liberi, nei luoghi dei loro patimenti. Angelo Raffaello, a distanza di molti anni, ha indicato dei nominativi e delle persone, l’ingegnere della FIAT, la cantante lirica, la russa poliglotta, il colonnello Giorgi, il generale Caracciolo. L’unico di cui si trova conferma nel libro “Prigionia e deportazione nel veronese” e nella ricerca dell’Istituto Sanmicheli è il generale Caracciolo. Fra coloro che aiutarono gli ebrei a mettersi in salvo vanno ricordati Rinaldo Arnaldi di Dueville, aiutato dalla sorella Mary, e don Michele Carlotto, cappellano di Valli del Pasubio, entrambi riconosciuti Giusti fra le Nazioni. 1 27 Le Porte della Memoria 2016 Mario Saugo diverrà uno dei comandanti della Brigata Mazzini. Mario Caracciolo di Feroleto, comandante della V Armata al momento dell’Armistizio; fu uno dei pochi generali che tentarono di resistere ai Tedeschi e la zona a lui affidata, Toscana, Alto Lazio e la Spezia, fu quella che resistette più a lungo, dando tempo alle navi militari ormeggiate a la Spezia di salpare per Malta per consegnarsi agli Alleati, in attuazione degli accordi che portarono all’Armistizio. Catturato in seguito dalle SS fu recluso nelle prigioni di Verona, Venezia e Brescia e condannato a morte dal Tribunale Speciale Fascista, pena commutata in 15 anni di carcere perché mutilato di guerra. Dal carcere continuò a mantenere contatti con la Resistenza che lo liberò il 25 aprile 1945. 4 Esiste un Fedele De Giorgis, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri dal 16 maggio 1947 al 24 maggio 1950, ma da informazioni presso il comando dell’Arma a Roma non risulta essere stato prigioniero a Verona, né aver perso un figlio a Dachau. 5 La sera del 5 luglio 1944 fu bombardato l’ospedale militare di Borgo Trento. Ci furono 54 morti, fra cui 5 suore che avevano voluto rimanere al loro posto vicino agli ammalati. 6 A quel tempo Vescovo di Verona era Mons. Girolamo Cardinale. 7 Dal luglio 1944, resosi insicuro il campo di concentramento di Fossoli, nei pressi di Carpi (Modena) in quanto gli Alleati si stavano avvicinando, le deportazioni continuarono dal nuovo campo di Gries-Bolzano. Questo campo poté contare su vari lager satelliti. Il campo era gestito dalle SS di Verona. Non meno di 11.116 persone transitarono da questo campo per essere in gran parte deportate nei campi di sterminio. 8 Nella ricerca “Uomini, donne, bambini nel lager di Bolzano” di Dario Venegoni, giugno 2004, si trova che “Raffaello Angelo, tipografo, fu deportato da Bolzano a Mauthausen il 5/8/1944”. Il convoglio giunse alla meta il 7 agosto con 307 persone, tutte identificate: fu uno dei primi e più consistenti “trasporti” che, fino ai primi mesi del 1945, rifornirono di essere umani i vari campi di sterminio del Reich. 9 A seguito di informazioni richieste all’Archivio del Lager di Mauthausen risulta che Angelo Raffaello fu rilasciato dal lager il 9 agosto 1944 (documento AMM/Y38) 10 Testo della dichiarazione da sottoscrivere: Oggi ho appreso quanto segue: 1) Il mio rilascio dal campo di concentramento di Mauthausen si è verificato perché mi è stata data la possibilità di lavorare in Germania. 2) Qualora io dovessi abbandonare senza permesso il posto di lavoro nel quale vengo mandato o non adempiere ai miei obblighi, oppure dovessi turbare la serenità dell’azienda e non comportarmi come da me ci si attende so che verrei mandato durevolmente nel campo di concentramento di Mauthausen. 11 Si trattava dello stabilimento della Stickstoffwerke Ostamark A.G. di Linz, una grande impresa che trasformava l’azoto per ricavare fertilizzanti e anche esplosivi. 12 Nel fascicolo personale di Zanella, ruolo matricolare n. 47615, conservato in Archivio di Stato di Vicenza, si trovano notizie della sua prigionia. Zanella Mario in realtà porta il nome di Pietro, nato a Thiene il 28/11/1916, di professione fornaio, da documenti dei Carabinieri di Thiene risulta arrestato dalla Brigata Mobile di Padova perché partigiano. Lui dichiarò, in data 16.2.46, di essere stato catturato a seguito di un rastrellamento della Feldgendarmeria l’11.11.43 e scarcerato l’1.5.44, ripreso l’1.11.44 e liberato il 25.4.45. Un documento dei Carabinieri di Thiene in data 9.11.48 riporta che fu arrestato dalle BB.NN., condotto nelle carceri di Padova; poi tornò a Thiene nei giorni della liberazione. 13 Benito Gramola, La Storia della “Mazzini” raccontata da “Falco” ai giovani d’oggi, Arti grafiche Postumia, San Martino di Lupari (PD),2008, pp. 145 -146. 2 3 28 Le Porte della Memoria 2016 A Mauthausen con Franco Busetto, testimone dell’orrore Vogliamo ricordare l'on. Franco Busetto, che ci ha lasciato lo scorso 15 aprile, con la copertina di una piccola rassegna di foto scattate nel corso dei cinque pellegrinaggi a Mauthausen a cui ha partecipato con noi, Amici della Resistenza di Thiene. Un piccolo, ma significativo, omaggio che abbiamo voluto consegnargli in occasione della festa che l'ANPI provinciale gli ha dedicato il 29 novembre 2014, per festeggiare, in anticipo, i suoi 94 anni che avrebbe compiuti il 6 gennaio. Gli siamo riconoscenti per la disponibilità che ci ha dimostrato negli anni dal 2006 fino al 2011 a ritornare a Mauthausen, per portare la sua testimonianza che sarà per tutti noi indimenticabile. A lui abbiamo dedicato il viaggio a Mauthausen compiuto nei giorni 28,29,30 agosto; lo abbiamo ricordato, affaticato, sotto il sole di agosto, intento a dialogare con i giovani, attenti ad ogni sua parola, ad ogni suo sguardo, ad ogni suo gesto, consci della fortuna di poter ascoltare una storia terribile da uno che l'aveva vissuta. Alla Festa di compleanno, del 29 novembre 2014, ha presenziato anche il nostro sindaco dott. Giovanni Casarotto e per l’occasione il sindaco di Mauthausen ha fatto pervenire il Suo saluto e il Suo augurio. Questa la lettera tradotta in italiano dal nostro amico di Linz Mauro dei Rossi che ogni anno incontriamo nel corso dell’annuale pellegrinaggio a Mauthausen. 29 Le Porte della Memoria 2016 Mauthausen 20.11.2014 I miei più cari auguri di buon compleanno! Gentilissimo on. Busetto! Il mio caro amico Giovanni Tessari mi ha fatto sapere che lei nelle prossime settimane festeggerà il suo 94° compleanno. Vorrei anche da parte mia, in questa gradita occasione, associarmi a molte altre persone nel porgerle le mie congratulazioni e gli auguri di buon compleanno! Vorrei inoltre esprimere con quale stima io consideri "l'opera di tutta la sua vita". Fino ad oggi Lei non si è stancato di continuare la sua lotta che iniziò sin dalla giovane età oltre 70 anni fa. Proprio a cominciare dagli anni terribili dell´ultimo secolo lei si è prodigato - mettendo a repentaglio la propria vita - per i diritti degli uomini. Caro onorevole, lei ha combattuto fra notevoli pericoli il regime nazi-fascista che ha oltre ogni immaginazione usato disprezzo nei confronti di altri uomini. Nella sua vita lei si è dedicato - come ne sono convinto - a quei valori anche per me importanti e cari: libertà, uguaglianza, giustizia e solidarietà. Per tutto ciò vorrei esprimerle il mio più sincero grazie. Sono nato in novembre dell`anno 1975, più di 30 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le posso comunicare - anche da mia esperienza personale - come sia importante per la mia generazione e per le generazioni che verranno, avere uomini come lei. Siete persone che non hanno mai perso la convinzione che vale veramente la pena combattere per questi inestimabili valori. Spero molto di poterla incontrare di nuovo per rinnovarle la mia profonda gratitudine e stima. Carissimi auguri e cari saluti da Mauthausen Il sindaco Thomas Punkenhofer Alcuni frammenti di pensieri e riflessioni maturati nei viaggi a Mauthausen a cui ha partecipato l’on. Franco Busetto: Agosto 2006 … Gli studenti indicati dalle scuole per motivo di merito, impegno, interesse e sensibilità verso questa parte della storia del Novecento, sono stati 15 e per la loro partecipazione il Comune di Thiene ha contribuito sensibilmente. Altri giovani hanno partecipato accompagnati dai familiari. Un partecipante d’eccezione è stato l’on. Franco Busetto, presidente regionale e provinciale dell’ANPI, deportato a Mauthausen dal novembre 1944 alla Liberazione del campo avvenuta il 5 maggio 1945. La presenza di un testimone di quanto avvenne in quel terribile luogo, ha rappresentato un fatto estremamente importante non solo per i giovani studenti, ma per tutti i partecipanti… Dal resoconto finale inviato alle scuole 30 Le Porte della Memoria 2016 Agosto 2007 … I giovani hanno anche portato le bandiere delle sezioni di Thiene delle associazioni partigiane e degli internati. Hanno depositato anche tre corone d’alloro: una al cimitero italiano di Reiferdorf, una al Monumento italiano di Mauthausen e una al Memoriale del lager di Gusen che contiene il forno crematorio. “Sono stato contento di aver portato la bandiera della sezione della nostra città dell’ANEI (Ass. Naz. Ex Internati in Germania) – dice Mariel – è stato un grande orgoglio poter partecipare a quei momenti solenni così direttamente”. “Se si vuole ricordare bisogna fare – commenta Paolo – è giusto visitare certi luoghi della Memoria, bisogna che la gente sappia cos’è successo, specialmente noi giovani”. “Anch’io la penso così – risponde Enrico – bisogna vedere e capire veramente. Le testimonianze di Busetto mi hanno toccato. La cosa più incredibile è che non c’è odio nelle sue parole e lui stesso afferma di non provarne. Non so se sia vero ma penso che, anche se ne provasse, non ce l’avrebbe detto. Ha detto che è tutto avvenuto per colpa dell’odio ingiustificato. Penso che il messaggio più grande che vuole trasmetterci sia proprio quello di non odiare”… I giovani si confrontano Agosto 2008 … E poi l’immancabile onorevole Franco Busetto, 87 anni, deportato a Mauthausen nel dicembre 1944. Già dire immancabile fa pensare a qualcosa di straordinario. Busetto, non solo ha voluto andare una prima volta nei luoghi dove era stato torturato, ma ci torna ogni anno e ogni anno affascina i ragazzi con il suo racconto. Gli è stato chiesto più volte se non gli pesi rimettere piede nelle baracche che furono la sua tragica prigione. E’ evidente che oltrepassare il portone della morte pesa come un macigno, lo si vede dalle lacrime che gli sfuggono, ma forse conta di più quello che questa esperienza può insegnare alle nuove generazioni. E così, Franco parla agli studenti e li commuove. Tanto che al ritorno, quando l’ex parlamentare Pci scende dal pullman a tarda ora, i ragazzi lo salutano con un applauso, che sorprende gli adulti della comitiva ... Dennis Dellai, Il Giornale di Vicenza Agosto 2009 … Da Thiene è partita infatti una comitiva di 63 persone, di tutte le età, tra cui anche due testimoni diretti di quella tragedia. Tutta la compagnia ha potuto così ascoltare le intense testimonianze dell’immancabile Franco Busetto, 88 anni, deportato proprio a Mauthausen nel dicembre del 1944 e di Michelangelo Giaretta, deportato ad appena 18 anni in un campo di punizione vicino a Berlino. Nonostante l’età, è la quarta volta che Franco Busetto partecipa a questo viaggio, sopportando con coraggio il peso dei ricordi che ogni volta riaffiorano davanti ai cancelli del lager, pur di lanciare un messaggio di impegno alle nuove generazioni… Giuseppe Bonato, un partecipante Agosto 2011 La stazione ferroviaria e il lager di Mauthausen. Sono state queste le tappe più significative dell'annuale viaggio che gli “Amici della Resistenza” di Thiene organizzano, ormai da 9 anni, nella cittadina dell'Alta Austria “per non dimenticare”. … Accanto ai 24 studenti delle scuole superiori di Thiene non poteva mancare 31 Le Porte della Memoria 2016 l'on. Franco Busetto, ormai novantenne, internato dal 14 dicembre 1944 al 5 maggio 1945. Quest'anno, per la prima volta, il gruppo ha partecipato alla commemorazione proposta dal sindaco di Mauthausen Thomas Punkenhofer proprio in corrispondenza del luogo dove, negli anni dell'orrore, arrivavano i convogli con i deportati. Alla fine della cerimonia l'on. Busetto è stato abbracciato dal sindaco e dall’assessore alla cultura Walter Hofstätter. Le amministrazioni di Thiene e Zané sono state rappresentate dal consigliere comunale zanadiese Antonio Simeoni. Da Il Giornale di Vicenza Agosto 2011 … Durante questi tre interessanti giorni, il sentimento predominante è stato quello della memoria, ricordare la follia, affinché il sacrificio e il dolore di tanti non sia stato vano. Abbiamo potuto godere della presenza di un uomo che ha patito, sulla propria pelle, l’ingiustizia, la fame, il dolore fisico e psichico che non lo hanno spezzato, ma piegato semplicemente come una canna di bambù. La sua testimonianza fondamentale ci ha reso più vicino ciò che è accaduto. Quest’uomo porta il nome di Franco Busetto, colpevole solo di amare troppo la sua Patria. Nel nostro piccolo ci sentiamo di dire che siamo stati fortunati, per questo sosteniamo che tale opportunità debba essere data anche in futuro ad altri giovani come noi. Questa grande esperienza, ricca di umanità e sentimenti, deve essere lezione di vita per ognuno di noi affinché orrori come questi non debbano ripetersi… Gli studenti scrivono ai Sindaci di Thiene e di Zanè e ai Dirigenti Scolastici Il prossimo pellegrinaggio a Mauthausen, che sarà il 14°, avrà luogo nei giorni 26, 27, 28 agosto, venerdì, sabato, domenica. Per informazioni rivolgersi a Giannico Tessari [email protected] 32 Le Porte della Memoria 2016 Gli Arsieresi accolsero le famiglie ebree in fuga dai Nazisti, ma dopo l’8 settembre, con l’arrivo dei Nazisti, accadde la tragedia Il 1941, in piena guerra, riservò alla popolazione di Arsiero una grossa novità! Si trattò dell’arrivo in paese di ospiti un po’ particolari. Il Comune di Arsiero era stato scelto, assieme ad altri, dalle autorità fasciste per l’internamento civile di famiglie di ebrei stranieri. La maggioranza arrivò nell’arco di un mese, fra fine settembre e la prima metà di ottobre del 1941, provenienti dal lager di Ferramonti di Tarsia (CS) e due famiglie furono internate ad Arsiero nella primavera del 1942, una che in precedenza aveva trovato sistemazione autonomamente a Vicenza e una proveniente direttamente dalla Jugoslavia. Arrivarono 11 nuclei familiari formati da 31 persone, di cui 11 giovani; la più giovane, Marion Klein, aveva 5 anni; sua madre, Agnes Klein, lasciò Arsiero che era all’ottavo mese di gravidanza. Erano tedeschi, polacchi, austriaci, jugoslavi, arrivati in Italia cercando di sfuggire alla caccia dei nazisti. Molti al loro arrivo in Italia furono portati al campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia (Cosenza). La fuga dal loro paese era iniziata molto prima, nel 1938. Il perché di questa ricerca In questi anni abbiamo avuto la fortuna di incontrare due testimoni di quegli anni terribili: Marion Klein Fischer e Walter Landmann che si trovavano ad Arsiero con i genitori in soggiorno “libero” come veniva chiamato, per distinguerlo dall’internamento in un lager. Esiste anche una testimonianza scritta di Oscar Klein, purtroppo deceduto nel 2006. Ci sono poi abitanti di Arsiero che ricordano molto bene quegli anni. Era vietato per gli arsieresi avere contatti con gli ebrei, ma così non fu: i contatti ci furono, nacquero amicizia e solidarietà che per alcuni durarono per tutta la vita e durano tuttora e molto probabilmente nacquero anche delle simpatie fra ragazzi e ragazze. Viene da chiedersi se la gratitudine e l’amicizia manifestate dai fratelli Klein e da Walter Landmann dipendono dalla loro giovane età, a quel tempo. I giovani normalmente, anche nei momenti più drammatici, vivono in modo gioioso e fiducioso gli anni dell’infanzia e della giovinezza e a quell’età non possono cogliere i pericoli che imcombono sulla loro stessa vita. Per ammissione degli stessi Marion Klein e Walter Landmann il fatto di essere sopravvissuti ad una guerra combattuta anche contro i bambini, le donne, gli anziani e le persone indifese, da parte di chi voleva la distruzione di ogni ebreo, li porta a provare riconoscenza per chi li ha in qualsiasi modo aiutati e quindi ricordare volentieri quegli anni trascorsi in Italia! Più avanti riporteremo alcuni giudizi da loro espressi in riferimento agli anni vissuti ad Arsiero, ma un ulteriore aiuto, per avere un quadro più ampio, può venire dall’esame dei molti documenti conservati in un grosso faldone presente in Archivio di Stato di Vicenza1, che raccoglie i documenti relativi alla permanenza degli ebrei ad Arsiero scambiati fra gli interessati, il Comune di Arsiero, la Questura, la Prefettura e il Ministero degli Interni. 33 Le Porte della Memoria 2016 Abbiamo allora cercato fra queste carte di ricavare un’idea dei momenti che vissero queste famiglie, la loro quotidianità, i tanti piccoli e grandi problemi che si presentavano. Purtroppo le carte, i documenti conservano nel tempo notizie, fatti, problemi, ma hanno il limite di non trattenere emozioni, paure, gioie, timori. E timori e paure queste persone devono averne avuti tanti; in fuga dalla loro Patria, spaventate dalle voci che certamente giungevano più o meno confuse delle violenze ad opera dei Nazisti, dalle minacce quotidiane delle autorità fasciste nazionali e locali. Esiste un lavoro molto ampio di ricerca sulla vita degli ebrei in provincia di Vicenza dal 1941 al 1943 ed è quello compiuto dal dott. Paolo Tagini2 e pubblicato nel libro “Le poche cose. Gli internati ebrei nella provincia di Vicenza 1941-1945”. La lettura di questo libro dovrebbe essere propedeutica ad ogni altro approfondimento. Per scelta riporteremo le storie senza i nomi, anche perché, in questo contesto, non aggiungono nulla allo scopo della ricerca. Riporteremo solo i nominativi dei Klein e dei Landmann che hanno dato in modo esplicito la loro adesione e ci hanno fornito una gran quantità di informazioni, anche in riunioni pubbliche in questi ultimi anni, nei nostri paesi. I documenti che vengono riportati sono stati forniti dalle famiglie Klein e Landmann o da cittadini di Arsiero. Arsiero a quel tempo Il regime fascista per il soggiorno “libero” degli ebrei stranieri aveva scelto molti piccoli Comuni, lontani dalle caserme e strutture militari in quanto i nuovi venuti erano considerati “nemici” che potevano fornire informazioni agli Alleati. Un’altra condizione richiesta era che il Comune fosse sede di una caserma dei carabinieri a cui era affidato il compito di controllare i loro movimenti. Arsiero aveva queste caratteristiche, come Posina, Lastebasse, Valli del Pasubio, Canove, Lusiana, Enego, Caltrano, Breganze, Malo, ed altri centri della provincia, che accolsero famiglie ebree. Una ricca fonte di notizie per questa breve introduzione è stato il libro “Arsiero, panorama storico” di Angelo Busato3. Arsiero aveva allora circa 4.200 abitanti, molti più di oggi, che sono stabilizzati da una ventina di anni sui 3.300 abitanti, ma meno dei 5336 del 1911, prima della Grande Guerra che sconvolse in modo pesantissimo il paese, costringendo la popolazione ad abbandonare le loro case ed essere trasferita in altri centri della provincia, molti a Lonigo, e anche fuori regione, per lo sfondamento degli austroungarici che con la Spedizione Punitiva, Strafexpedition, esaurirono proprio con l’occupazione di Arsiero e di Velo d’Astico la loro poderosa spinta verso la pianura. Dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale il paese, come tutta la valle, fu interessato da un grande fenomeno migratorio verso l’estero. Importante ricordare che dal 1885 Arsiero era collegato via ferrovia ai maggiori centri dell’Altovocentino, Schio e Thiene e al capoluogo Vicenza. Sempre a fine ‘800 sorse la grande cartiera Rossi che significò un radicale cambiamento delle condizioni di vita di molte famiglie, fino allora legate ad un’agricoltura di sussistenza. Nel primo dopguerra il Comune cominciava ad essere interessato anche da un turismo d’elite, attratto dal buon clima. In una relazione del 1926 del Podestà per 34 Le Porte della Memoria 2016 ottenere l’inserimento di Arsiero fra le stazioni di cura, viene riportata la presenza di 13 alberghi e 10 pensioni “rispondenti alle esigenze moderne, sia per l’accuratezza del servizio, che per l’igiene e la pulizia”. Quindi un centro di medie dimensioni, con una popolazione aperta ai cambiamenti e alle novità, che solo pochi decenni prima aveva vissuto in massa la dura esperienza del “profugato”, può aver avuto meno problemi che altrove ad accogliere persone di diversa cultura, istruzione, lingua, religione, come potevano essere le famiglie di ebrei che provenivano per la maggior parte da grandi città del centro Europa, come Monaco di Baviera, Vienna, Zagabria. L’impatto comunque non deve essere stato facile se Marion Fischer Klein riferisce che la madre Agnes le raccontò che, fra le persone che erano presenti al loro arrivo da Ferramonti di Tarsia, nella stazione dei treni di Arsiero, raccolse frasi tipo …”ma allora non è vero che gli ebrei hanno tre occhi!....”. 12 regole da rispettare Al loro arrivo ad Arsiero gli internati dovevano presentarsi in municipio dal Podestà e sottoscrivere un documento che li impegnava a rispettare 12 prescrizioni, come sono definite nel documento. Riportiamo un documento sottoscritto da una coppia di internati in data 14 ottobre 1941, il giorno stesso del loro arrivo ad Arsiero, ed è praticamente identico a quello riportato a pag. 267 del libro di Angelo Busato, conservato nell’archivio di Arsiero e portante la data del 3 luglio 1943, nel quale non figura il punto 12. 1) Divieto di tenere presso di loro passaporti o documenti equipollenti e documenti sanitari. 2) Divieto di possedere denaro a meno che non si tratti di piccole somme non eccedenti le cento Lire. Le somme eccedenti dovranno essere depositate presso banche ed uffici postali, su libretti nominativi che saranno dal Podestà custoditi. Qualora gli internati abbiano necessità di effettuare prelevamenti, dovranno chiedere di volta in volta l’autorizzazione al Podestà, autorizzazione che sarà concessa se la richiesta apparirà giustificata per una somma non superiore a quella consentita. Prelevamenti di somme maggiori dovranno essere autorizzate dal Ministero. 3) Divieto di detenere gioielli di valore rilevante e titoli. Tanto i gioielli che i titoli dovranno essere depositati, a spese dell’interessato, in cassette di sicurezza presso la banca più vicina, dove l’internato sarà fatto accompagnare per tale operazione. La chiave della cassetta sarà tenuta dall’interessato, mentre il libretto di riconoscimento sarà conservato dal Podestà. 4) Divieto di detenere armi e strumenti atti ad offendere. 5) Divieto di occuparsi di politica. 6) Agli internati è consentito soltanto la lettura di giornali italiani; per la lettura di libri e giornali in lingua straniera deve essere chiesta l’autorizzazione al Ministero. 35 Le Porte della Memoria 2016 7) La corrispondenza e i pacchi di qualsiasi genere, sia in arrivo che in partenza, devono essere sempre revisionati, prima della consegna e della spedizione, dal Podestà o suo incaricato. 8) Divieto di tenere apparecchi radio. 9) La visita dei famigliari agli internati e del pari la convivenza con gli internati dei famigliari, devono essere autorizzate dal Ministero, al quale devono essere inoltrate le relative istanze per tramite della Questura. 10)Agli internati è inoltre fatto obbligo. a) Di circolare solo entro il seguente perimetro: Confini a OVEST-SUD ed EST del capoluogo di Arsiero, indicati dai torrenti ASTICO e POSINA fino ad una linea di altezza a NORD che dal ponte della PRIA giunge a contrada CROSARA. b) Di non allontanarsi da detto perimetro. Il permesso di allontanarsi dall’abitato sarà concesso solo previa autorizzazione del Ministero dell’Interno; c) Di non uscire dall’abitazione prima dell’alba e dopo un’ora dal tramonto. 11)Gli internati potranno consumare i pasti in esercizi o presso famiglie private del luogo, dietro autorizzazione del Podestà. 12)Gli internati hanno l’obbligo di serbare buona condotta non dar luogo a sospetti e mantenere contegno disciplinato. I trasgressori saranno puniti a termine di Legge o trasferiti in colonie insulari. Fatto, letto e sottoscritto. (firma dell’internato) IL PODESTA’ Firma non leggibile IL SEGRETARIO Firmato E. Luca Secondo Walter Landmann, alcune regole erano normalmente disattese dagli internati, né i Carabinieri si impegnarono particolarmente per farle rispettare. Landmann si riferisce in particolare ai punti 2, 3, 6, 10, 11. Testimonianza di Walter Landmann, classe 1927, allora un ragazzo di 15 anni. (vedi Le Porte della Memoria 2014) Noi eravamo a Ferramonti in Calabria in un grande campo di concentramento gestito però da Italiani. Nel 1942 gli italiani decisero che le famiglie internate 36 Le Porte della Memoria 2016 dovessero essere rilasciate e trasferite in paesi remoti a vivere liberamente in quello che veniva definito il “confino libero”; teoricamente, noi internati non avevamo il permesso di uscire dai confini del paese. Lo stato italiano pagava un sussidio mensile per coprire i costi dell’alloggio e del mantenimento. Il paese in cui dovemmo andare era Arsiero nella valle del fiume Astico nella provincia di Vicenza ai piedi delle Alpi. Trovammo alloggio presso la Trattoria La Vigneta in un appartamento al primo piano con cucina/soggiorno e una grande camera. Era una località di villeggiatura in tempo di pace con un bellissimo paesaggio: dalla finestra della camera non mi stancavo mai di guardare la cresta di un monte alto 1200 metri che ha proprio un buco che lo attraversa, chiamato in dialetto veneto “Pria Forà”, la roccia forata. Non frequentavo una vera e propria scuola, ma attraverso la Chiesa locale ottenni vari libri di testo sui quali trascorsi molto tempo. C’era anche un libro di testo di Portoghese che ho studiato imparando un po’ di quella lingua. Un’altra famiglia internata ad Arsiero erano i Goldstein, originari dalla Jugoslavia che avevano due figli di 10 e 11 anni. Mi fu chiesto di insegnare ai ragazzi le materie di scuola media, per due ore ogni giorno in italiano, il che mi aiutò molto a perfezionare la conoscenza della lingua e mi fece guadagnare una paghetta. La vita non era male, nuotavamo molto dietro una diga sul fiume, vendemmiavamo l’uva (mangiandone grandi quantità durante la raccolta) e andavamo in bicicletta fino a fattorie lontane nelle valli di montagna scambiando beni per cibo. Questo fu possibile perché fummo in grado di recuperare il nostro container che era a Trieste ed io portavo tovaglie e oggetti di argento dai contadini in cambio di formaggio, burro, farina e frutta. Anticipando la storia, lasciammo poi quello che ci era rimasto in custodia in una casa in montagna quando fuggimmo dall’Italia. Questa casa fu distrutta nella guerra partigiana e perdemmo tutto. Frequentavo anche delle ragazze, una era la figlia del colonnello che comandava la caserma dove siamo stati prigionieri a Bengasi (molte famiglie italiane furono evacuate dalle città bombardate, alcune anche ad Arsiero). Ricordo persino il suo nome, Giulia. Anche lei aiutò il mio italiano! Un’altra fu Anni, la figlia di un rifugiato jugoslavo. Lei mi insegnò il Serbo-Croato e ricordo ancora le parole di quella strana lingua. Poco prima che noi lasciassimo Ferramonti, mio zio Leo e la sua famiglia furono spediti ad Arcidosso nel Grossetano. Mio padre si appellò alle autorità inutilmente contro la separazione. In ogni caso Arcidosso sembrava più sicuro di Arsiero così vicino al confine tedesco. Poi non fu proprio così! (La famiglia di Leo fu deportata. Lui morì ad Auschwitz, la moglie e la figlia si salvarono). La popolazione del Veneto non aveva tempo per la guerra e gli alleati tedeschi. La zona era stata sotto la dominazione austriaca (mal sopportata) ed era tornata a essere italiana solo nel 1866. Le loro simpatie adesso erano per gli Alleati. Un episodio ci fa capire questa sensibilità: una mattina la signora che gestiva il mulino4 accanto alla nostra trattoria venne da noi chiedendo se parlassimo inglese perché era arrivato un prigioniero di guerra fuggitivo. Andai con lei e venni a conoscenza che l’uomo era saltato giù da un treno che portava prigionieri di guerra in Germania. Era neozelandese e voleva sapere la strada per andare in Svizzera. Gli fu offerto un lauto pranzo di pasta e lumache che divorò in una 37 Le Porte della Memoria 2016 piccola trattoria e poi lo accompagnai per un po’ lungo la strada che porta alla vicina catena montuosa, dopo di che non potei fare altro che indicargli la direzione. Questa piccola avventura avrebbe potuto costare la vita degli italiani coinvolti e probabilmente la mia. Il sostegno e l’amicizia di alcune famiglie locali sono stati notevoli. Spicca l’aiuto delle persone incaricate a custodire la proprietà Rossi situata dall’altra parte della linea ferroviaria in Arsiero. Non riesco a ricordare il cognome di queste persone5, ma solo il nome della signora Costanza che ci aiutava con il cibo. La figlia era sposata ad un signor Fontana che al tempo serviva in un’unità di alpini inviata a combattere i russi. Ricordo chiaramente come la signora Fontana, così mi rivolgevo a lei, ci portava da amici a giocare a tombola. I coniugi Fontana avevano un neonato, ma quando sono tornato ad Arsiero non sono riuscito a rintracciare nessuno di questa famiglia. La signora Fontana mi prestava la sua bicicletta e questo per me era molto importante: la usavo frequentemente per andare fino a Laghi di Posina e alle vicine fattorie dove offrivo quello che avevamo recuperato dal container (biancheria da letto/cucina, argento). In questo modo integravamo la nostra dieta con burro, formaggio verdure fresche, scambiandoli con i nostri oggetti. Un’altra cosa che ci legava ai Fontana erano le notizie che provenivano dal marito e che la moglie poi mi riferiva, sui crimini commessi principalmente dalle SS Waffen contro i russi ed altri. Le uccisioni di massa con il gas, soprattutto di ebrei, nei campi di sterminio in Polonia stavano cominciando ad essere conosciute su vasta scala. Testimonianza di Marion Klein Fischer, classe 1937, allora bambina di 5 anni. (Le porte della Memoria 2013 e 2015) Ad Arsiero i Klein si trovarono molto bene, i controlli di polizia erano di fatto assenti. Oscar e Marion giocavano, avevano amici, passarono un tempo felice; Oscar era molto ingegnoso e Marion ricorda che una volta costruì una chitarra con una scatola di sigari. Il migliore amico di Oscar era Ezio che abitava vicino alla loro casa, e la sua famiglia aveva una falegnameria. Nonostante i Klein non possedessero niente dal momento che avevano in precedenza i genitori usato tutti i loro averi per pagare il viaggio per la Palestina, Marion ricordando quei tempi dice di essere rinata un’altra volta e che quegli anni le sono stati regalati. Andava con le donne del paese al lavatoio dove anche lei faceva il suo piccolo bucato. Imparò subito il dialetto e lo parlava normalmente. Anche il fratello Oscar ha sempre sostenuto che ad Arsiero hanno vissuto una bellissima infanzia. Abitavano nella casa vicina a quella dei Frigo, famiglia di don Antonio, con la quale ebbe sempre un rapporto di grande familiarità, in via Caodilà. Marion era conosciuta ad Arsiero come Rosanna e questo cambio di nome è attribuibile alla signora Natalina, per tutti Lina, sorella di don Antonio, in quanto trovava Marion troppo simile a Mario e così la chiamò col primo nome Rosa, trasformandolo in Rosanna. Rosa era il nome della nonna paterna. In particolare Marion ha avuto un rapporto di grande confidenza con don Antonio, che chiamava Nino, amicizia che è durata per molti anni, anche dopo la guerra, fino alla morte di don Antonio. Don Antonio Frigo, originario di Asiago, è 38 Le Porte della Memoria 2016 stato professore di matematica e scienze al Seminario di Vicenza e ha avuto un ruolo importante nella Resistenza vicentina, subendo arresti e torture da parte delle bande fasciste. Marion non lo ha mai visto con la veste, era sempre in clergyman e ricorda che il papà diceva che quando don Antonio andava nel bosco a leggere il breviario, all’interno dei calzoni alla zuava aveva armi e cibo per i partigiani. Lo ricorda come un uomo molto bello. Una sola volta lo vide con la veste, fu quando nel dopoguerra battezzò sua figlia Deborah, fatto che vedremo più avanti. Testimonianza di Oscar Klein, classe 1930, allora ragazzo di 11 anni. (La testimonianza è tratta da un articolo a lui dedicato da HA KEILLAH bimestrale ebraico torinese, organo del Gruppo di Studi Ebraici, dicembre 1995, n. 5. Oscar Klein, fratello di Marion, jazzista di fama internazionale, è deceduto il 12 dicembre 2006). …In questo paese (Arsiero) eravamo in cinque famiglie ebree, ogni famiglia aveva un’abitazione, ma non un tugurio, c’era la cucina, una camera da letto e il soggiorno. Chi voleva poteva esercitare un mestiere, l’importante era che non danneggiasse, perché in concorrenza, nessuno dei residenti. Mio padre e io ci siamo messi a fabbricare dei giocattoli in legno. Io, che ho avuto sempre un talento come disegnatore, li progettavo e mio padre li ritagliava dal legno compensato, poi li smerigliavamo e li dipingevamo con la lacca. Erano dei giocattoli piuttosto belli e mio padre con un permesso andava nei paesi vicini a offrirli ai negozianti: questi giocattoli avevano successo poiché in quel periodo quasi nessuno produceva articoli del genere. … Quando sono diventato Bar Mitzvah, a tredici anni, (è il momento in cui un bambino ebreo raggiunge l’età matura) la comunità di Arsiero mi ha regalato il mio primo strumento musicale, un mandolino e ho cominciato subito a suonare a orecchio le canzoni che ascoltavo alla radio. Durante il nostro soggiorno forzato ad Arsiero cominciai ad assorbire “italianità” come un aspirapolvere. Andai a vedere tutti i film nell’unico cinema del paese, diventando presto Segnalazione dei Carabinieri perché alcuni uno specialista, lessi tutti i libri della internati, assidui frequentatori della sala cinematografica, non rispettavano l’orario di biblioteca parrocchiale e ascoltai rientro alle loro case, fissato al suono del’Ave ininterrottamente la radio. In questo Maria. 39 Le Porte della Memoria 2016 paese vivevamo bene, non c’era antisemitismo e nessuno ci importunava. Inizialmente mio padre doveva presentarsi ogni giorno alla caserma dei carabinieri, poi questi controlli sono diventati settimanali , poi mensili e alla fine non ci furono del tutto poiché vivendo lì eravamo sempre sotto gli occhi di tutti ed era completamente inutile ogni forma di controllo. Un forte legame fra la famiglia Klein e Arsiero I Klein rimasero legati ad Arsiero anche dopo la fuga in Svizzera, sicuramente attraverso il forte legame con don Antonio Frigo. Rosa Klein tornò ad Arsiero nel 1969, il 23 marzo, per fare battezzare la figlia Debora. Padrini di battesimo furono Frigo Roberto fu Antonio di Arsiero e Frigo Natalina fu Antonio, fratelli di don Antonio. Anche Oscar tornò ad Arsiero, nel maggio del 2000; quando venne a Vicenza per tenere un concerto di jazz, volle fare una visita ad Arsiero dove suonò in piazza fino a notte fonda, fra la folla che si era radunata. Oscar Klein è stato un grande trombettista, che proprio a Vicenza nel 2000 festeggiò i 40 anni di onorata carriera. Suonò spesso con Romano Mussolini, figlio del duce e grande musicista di jazz. Probabilmente il jazz, la musica americana, ufficialmente proibita dal fascismo, fece il miracolo di fare diventare amici fraterni i due che le tragiche vicende della guerra avevano posto crudelmente su opposte sponde. La signora Antonella Smaniotto di Arsiero ha riferito alcuni ricordi di quegli anni conservati in famiglia e in particolare collegati con la famiglia Klein. I Klein trovarono ospitalità al n. 113 di via Caodilà, in una parte dell’abitazione di Giovanni Smaniotto che viveva con la figlia Maria, mia prozia. Mia madre, Oliva Dalla Fontana, che poi sposerà un nipote di Maria, abitava nella frazione di Arsiero Peralto, poche case e gli abitanti vivevano dei prodotti dei campi e degli animali della stalla e del pollaio, a pochi chilometri da Arsiero, nella vallata di Riofreddo. La mamma si ricorda che Alexander Klein, di nascosto, si recava fino alla loro casa a Peralto per comperare qualcosa per sfamare la famiglia. La maggior parte delle volte era mia mamma che andava da loro per portare qualcosa di commestibile: saliva al piano più alto della casa (l’abitazione esiste ancora ed è formata da un piano terra, un piano primo e un sottotetto con delle piccole finestrelle) e trovava il capofamiglia seduto ad un tavolino intento ad armeggiare con degli attrezzi, ma non sa bene a cosa servissero. Una volta ricevette in dono una spilla e degli orecchini di legno a forma di grappolo d’uva. La mamma ricorda anche che la prozia Maria le disse che negli anni ’70 ricevette la visita di un membro della famiglia Klein. Gli internati ricevevano un sussidio dal Governo Le famiglie dovevano arrangiarsi a trovare un alloggio, chi affittando stanze in case private, come i Klein, e chi rivolgendosi a piccole pensioni come i Ladmann a “La Vigneta”. Lo Stato italiano versava loro delle somme, nel caso fossero riconosciuti indigenti, con i seguenti importi: 50 Lire al mese per l’alloggio, 8 Lire giornaliere per vitto e un 40 Le Porte della Memoria 2016 supplemento di sussidio di 4 Lire giornaliere per la moglie e di 3 Lire per ogni figlio. Nel luglio 1943 questi importi furono rivisti in aumento, 9 lire per il vitto, 5 per il coniuge e 4 per ogni figlio. Questi sussidi permettevano appena di sopravvivere. Una signora scrisse al Ministero facendo presente che nel lager di Ferramonti, da cui la famiglia proveniva, non pagavano affitto e riceveva di sussidio 8 Lire al giorno; ad Arsiero il sussidio è diminuito a 4 Lire al giorno e non riceve alcun sussidio per l’affitto. L’affitto arriva a 130 Lire al mese e la spesa aumenta con l’enorme consumo di legna, inoltre non è permessa a loro alcuna attività per guadagnare. Il Ministero dell’Interno rispose che non era possibile accogliere la richiesta di aumento del sussidio. C’è anche una richiesta in data 8 ottobre 1941, dopo pochi giorni dal loro arrivo ad Arsiero, firmata da quattro capifamiglia per avere un aumento del sussidio. La richiesta è molto puntuale a partire dal sussidio alla moglie che nel campo di Ferramonti era di 8 Lire al giorno, poi chiedono che ai figli che superano i 18 anni venga dato un sussidio maggiore di 3 Lire al giorno ed infine che la quota per l’affitto, visto che quelli a più buon mercato variano dalle 110 ai 140 Lire mensili, tenga conto del numero delle persone componenti la famiglia. La Questura respinge la richiesta essendo l’importo del sussidio in vigore deciso dal Ministero dell’Interno e valido per tutti gli internati. E’ accaduto che un capofamiglia venisse ricoverato in ospedale a Schio per un’operazione chirurgica con la conseguente sospensione del versamento delle 8 Lire giornaliere. Immediatamente la famiglia ne risente e la moglie chiede che durante la permanenza in ospedale del marito fosse girato a lei, come capofamiglia, il sussidio di 8 Lire al giorno. Tramite il Podestà la richiesta va al Questore che rimane fermo nel sostenere che l’importo è deciso a livello superiore e non può essere modificato. Allora il Prefetto di Vicenza interpella il Ministero degli Interni che ha l’ultima parola e respinge la richiesta. Stupiscono i tempi celeri per la chiusura della pratica: la richiesta della signora porta la data dell’8 maggio 1942 e la risposta finale del Ministero la data del 23 giugno…dello stesso anno! Fortunatamente risulta che le spese per i ricoveri ospedalieri erano anticipate dal Comune e poi rimborsati a quest’ultimo dalla Prefettura. In data 14 luglio 1942 l’Ospedale di Schio chiese che il Comune di Arsiero rilasciasse una dichiarazione di assunzione della spesa “spedalizza”. Poi la Prefettura avrebbe rimborsato il Comune. Un internato ha chiesto un aumento del sussidio per motivi di salute che gli imponevano una dieta ricca di carne. Dopo verifiche e pareri medici gli viene concesso dalla Questura un aumento di 2 Lire al giorno per una durata di tre mesi. Scaduti i tre mesi ripresenterà la domanda e l’aumento verrà concesso per altri tre mesi. Interessante la vicenda di un internato, proveniente da Ferramonti, che aveva spedito i bagagli dalla stazione di Mongrassano (Cosenza), una ventina di Km dal lager, destinazione Arsiero. Il Comune di Arsiero gli anticipò 100 Lire per le spese di spedizione per poi recuperarle un po’ al mese togliendole dal sussidio. L’internato appena potè fece presente che il sussidio, già molto modesto, decurtato anche della quota per i bagagli, non gli permetteva di vivere e chiese di avere per intero il sussidio. Il Ministero degli Interni rispose negativamente dovendo provvedere 41 Le Porte della Memoria 2016 l’internato alla spesa per i trasporto dei bagagli. I colli, con vestiario e indumenti pesavano 96 Kg. Non è questo l’unica richiesta di contributo per la spesa di spedizione dei bagagli; in un altro caso il Ministero degli Interni respinse la richiesta non essendo stata chiesta preventiva autorizzazione. Vietato agli internati ogni lavoro Altre richieste che pervenivano al Commissario Prefettizio riguardavano la possibilità di lavorare per poter arrotondare le poche entrate. Lavori di tutti i tipi. I giovani stranieri che volevano aiutare la famiglia, chiedevano la possibilità di dare lezioni private di tedesco. Un giovane allora ventenne, rivolse al Questore una richiesta di dare lezioni di tedesco per “non soffrire la fame”. Precisa che i guadagni saranno di Lire 9 alla settimana e chiede l’autorizzazione per poter continuare con le lezioni. Analoga richiesta, in pari data, da parte del padre di un giovane diciannovenne. Il Commissario prefettizio auspicò che la richiesta venisse accolta, visto che lui stesso definisce limitato il sussidio giornaliero di 3 Lire che spetta ai giovani, anche se ormai sono uomini di vent’anni. Ma il Questore, inflessibile, rispose negativamente, attribuendo il rifiuto a superiori disposizioni. Altra richiesta di lavoro rivolta alla Questura e che sarà negata venne presentata da un internato che chiese di potersi recare a Velo d’Astico dove c’è un agricoltore il quale, essendo Richiesta di Moses Landmann affinché il figlio potesse dare lezioni private di tedesco e risposta negativa adesso la stagione dei lavori della Questura. campestri e trovandosi senza aiuti, mi ha chiesto di venire da lui ogni giorno per aiutarlo. Sarei contento se potessi, dato la mia conoscenza dei lavori agricoli, aiutare questo contadino. L’autorizzazione a fare lavori agricoli veniva sempre rifiutata per non danneggiare la manodopera locale6. Una signora, di mestiere sarta, si rivolse alla Questura per poter utilizzare 1.000 Lire pervenute da un parente e ferme in Municipio per acquistare una macchina da cucire (usata), avendo la possibilità di lavorare. Nel giro di una settimana la 42 Le Porte della Memoria 2016 Questura accolse la richiesta. I Carabinieri chiedono un chiarimento alla Questura in merito alla possibilità da parte di un internato di lavorare come sarto per conto terzi. La risposta è che agli ebrei non è consentito lavorare per conto terzi. Un internato in data 9 agosto 1942 chiese alla Questura di poter mettere in pratica la sua professione di meccanico di precisione e di orologiaio per piccole riparazioni. Ottenuta l’autorizzazione, inoltrò una seconda richiesta per poter riparare anche macchine da cucire e da scrivere non essendo presente in paese un servizio di questo tipo. Anche questa richiesta fu accolta “attenendosi però alle disposizioni impartite in materia da questo ufficio”. Un aiuto agli internati venne dalla Delasem, organizzazione ebraica Gli ebrei internati in Italia fino all’8 settembre 1943 hanno potuto contare sull’aiuto della Delasem7, organizzazione dipendente dall’Unione delle Comunità Israelitiche italiane, sorta il 1° dicembre 1939, con sede a Genova in piazza Vittoria 14/4, riconosciuta dal governo fascista e che operò fino all’8 settembre. Dopo questa data proseguì il suo impegno nella clandestinità. Sua finalità era l’assistenza degli ebrei stranieri profughi in Italia e l’aiutarli ad emigrare in paesi neutrali, come la Spagna. La corrispondenza a disposizione, intercorsa fra Delasem, Comune, Questura e internati è molto fitta e dalla sua lettura si colgono i molti ostacoli che il Regime pose alla sua azione di aiuto verso i profughi. Questo un esempio degli ostacoli frapposti. In una lettera del 7 dicembre 1941 (XX) l’Unione delle Comunità israelitiche di Roma al Questore, lamentò che il Comune di Arsiero si rifiutava di consegnare un assegno di 1.000 Lire al destinatario, portando a motivo che attendeva disposizioni da Vicenza. Già il 17 dicembre il Questore invitò il Comune a consegnare l’assegno. Pare però che in data 31dicembre l’assegno non fosse ancora nelle mani del legittimo destinatario e pertanto il Presidente Cav. Gr. Cr. Dott. Dante Almansi (cavaliere di Gran Croce) scrisse nuovamente al Questore chiedendo il suo intervento per la consegna dell’assegno al fiduciario incaricato di distribuire la somma fra i suoi compagni più bisognosi. Il 5 gennaio il Questore chiese al Podestà di avere conferma della consegna al fiduciario della lettera con allegato assegno di 1.000 Lire del Credito Italiano. Risulta che nei mesi dell’inverno 41/42 era operante ad Arsiero un comitato della Delasem presieduto da un signore, ebreo ex polacco (significa che era apolide), a cui la Delasem inviava, tramite il Comune, soldi e generi di prima necessità da distribuire fra gli internati più bisognosi. Alcuni internati si trovano veramente in una situazione di grave bisogno, come la signora che chiese un aiuto in quanto era fuggita dalla Jugoslavia con quello che aveva indosso ed era priva di qualsiasi mezzo di sussistenza. Con lettera del 23 novembre 1942 questa signora si rivolse alla Questura per sollecitare la consegna da parte del Comune di Arsiero di un vaglia di 900 Lire, ricevuto dal Sig. Settimio Sorani8 di Roma, denaro necessario per acquistare un paletò, vestiti e biancheria per l’inverno, scarpe. Della somma aveva avuto, in base alle disposizioni vigenti, solo 200 Lire (100 Lire per ogni membro della famiglia) e le rimanenti 700 Lire depositate in un libretto di banca. Chiese di poter avere anche la somma residua in quanto in grave stato di bisogno. La Questura, 43 Le Porte della Memoria 2016 accertata la necessità dell’acquisto da parte dell’interessata di indumenti personali, invernali, autorizzò il Comune a consegnare anche le 700 Lire residue. Questa signora si trovò a dover ricorrere al Questore anche in altre occasioni; come ebbe a scrivere alla Questura un parente si era impegnato a mandarle ogni tanto delle somme che regolarmente il Comune bloccava. Una volta 300 Lire per provvedere agli indumenti più necessari per lei e la figlia, un’altra volta 400 Lire. La Questura autorizzò la consegna delle somme. Interessante la circolare che giunse all’incaricato locale della DELASEM il 1° maggio 1942 che si riporta per intero: Abbiamo ricevuto la Vostra richiesta di indumenti e ci pregiamo farVi presente quanto segue: La Delegazione non è più in grado di provvedere a tutte le richieste di indumenti che le pervengono, perché le raccolte tra i suoi oblatori non sono sufficienti a fronteggiare tutte le necessità. Possiamo perciò evadere le richieste dei nostri assistiti adesso e in futuro soltanto se essi ci manderanno l’intera TESSERA D’ABBIGLIAMENTO affinché possiamo, nei limiti delle nostre possibilità finanziarie, trovarci in grado di acquistare all’ingrosso gli indumenti che ci mancano. Se Voi desiderate che la vostra richiesta sia evasa, dovrete inviarci immediatamente l’intera tessera d’abbigliamento. Vi facciamo presente che non possiamo impegnarci di inviarVI degli indumenti nuovi oppure usati, ma essi saranno senz’altro in buono stato. Non sarà data evasione alle richieste di indumenti di quegli assistiti che non ci manderanno tale tessera. Non sarà fatta alcuna eccezione. Quegli internati che sono in grado di pagare gli indumenti che necessitano loro e non hanno la possibilità di acquistarne nella loro località possono inviarci i punti relativi all’oggetto da acquistare con l’importo necessario e provvederemo all’acquisto. Preghiamo inoltre di inviarci, unitamente alla carta d’abbigliamento, le misure esatte degli interessati. Il delegato avv. Lelio Vittorio Valobra Da maggio 1942 qualcosa cambiò e il Comune trattenne la corrispondenza in arrivo e in partenza dell’incaricato della Delasem, in base ad una circolare emanata dal Ministero9 che non ammetteva più l’attività dei comitati locali. Vennero così bloccate lettere contenenti assegni e corrispondenza in arrivo che, tramite la Questura, vennero restituite alla sede centrale di Genova della Delasem. Da questo momento la Delasem poteva comunicare solo direttamente con gli interessati e non a mezzo fiduciario. Altre forme di aiuto vennero rivolte ai bambini ebrei con l’Azione speciale per bambini, una specie di adozione a distanza, organizzata dalla Delasem “Giorgio Nissim” di Pisa. Tramite il referente locale della Delesem vennero inviate cinque lettere con data 6 febbraio 1942, destinate alle famiglie con giovani o bambini. Benefattori furono persone di Trieste e la scuola di Trieste Morpurgo10. Un esempio di lettera è il seguente: Ho il piacere di comunicarVi che i ragazzi della II.a liceo della Scuola IS. Morpurgo di Trieste si sono assunti la protezione di Vs. figlio ……………. con il quale 44 Le Porte della Memoria 2016 entreranno in diretta corrispondenza. Lieti di diventarne gli amici affettuosi e portare a Vs. figlio aiuto e conforto. Formulando i miei migliori auguri. Vi saluto distintamente. F.to G. Nissim Analoghe lettere sono state inviate agli altri giovani internati presenti ad Arsiero. Problemi di salute, visite e ricoveri ospedalieri l’unico modo per uscire da Arsiero A vedere le molte richieste per recarsi fuori paese a Schio, Vicenza, Thiene soprattutto per cure dentarie, viene da pensare che gli internati di Arsiero avessero in precedenza molto trascurato le cure ai denti. Bisogna ricordare che gli ebrei erano internati civili e che pertanto non potevano, di norma, uscire dai confini del Comune dove erano assegnati. Walter Landmann, richiesto di un parere sulle molte visite mediche e dentistiche che venivano richieste dagli internati, ritiene che non fossero dettate da secondi fini, almeno per la gran parte. Secondi fini che invece furono alla base della decisione del Podestà di sospendere, in data 15 maggio 1942, tutti i permessi per 10 giorni, tranne i casi di comprovata gravità, dopo il fermo dell’internato alla stazione di Arsiero, citato poco sopra, con generi alimentari e pellicce. Il dott. Paolo Tagini11, ritiene che le visite mediche, da effettuarsi nei grossi centri vicini, Schio, Thiene, Vicenza, erano un buon motivo per stabilire contatti, scambi e affari al fine di procacciarsi soldi e alimenti, per attenuare le ristrettezze a cui erano costretti dalle condizioni dell’internamento. La richiesta per recarsi dal dentista fuori paese, ad Arsiero, infatti, queste cure non erano possibili, doveva essere presentata alla Questura, tramite il Comune e con allegato un certificato del medico 45 Le Porte della Memoria 2016 condotto di allora, il dott. Pietro Dal Maso12. La Questura, verificato tramite i Carabinieri che la cura fosse necessaria e urgente e non esistesse la possibilità di cura in loco, autorizzava l’uscita. Se l’interessato aveva poi bisogno di altre sedute dal dentista, doveva chiedere altre autorizzazioni. La Questura autorizzava chiedendo che il Comune rilasciasse per ogni visita un’autorizzazione scritta che l’interessato doveva presentare alla stazione dei Carabinieri del centro raggiunto per la visita e, una volta timbrata, restituita al suo ritorno ad Arsiero. Ad una richiesta della Questura se il dott. Pietro Dal Maso fosse anche medico dentista e potesse eventualmente praticare le cure dentarie occorrenti agli ebrei stranieri internati in codesto Comune, Il Comune rispose che il dott. Dal Maso non è attrezzato per eseguire cure dentarie e protesi dentarie complete; il medesimo, d’altra parte, non potrebbe disporre del tempo necessario per praticare tali cure; cure che esigono parecchie ore di lavoro. Ci sono richieste per avere l’autorizzazione di recarsi all’ospedale di Schio per trovare il coniuge e o il famigliare ricoverato. C’ è anche il problema della conoscenza della lingua italiana. Un internato chiese che una signora internata potesse accompagnare la propria moglie all’ospedale di Schio in quanto né la moglie, né lui parlavano italiano. Successivamente la moglie verrà ricoverata e il marito chiese di poterle fare visita. La Questura autorizzò una vista alla settimana, a spese dell’interessato. Passa qualche mese e il signore chiese di poter rivolgersi ad un oculista in quanto aveva perso gli occhiali; occhiali speciali perché, avendo 64 anni, aveva perso molto la vista. A supporto della sua richiesta presentò un certificato medico del’Ufficiale sanitario del Comune dott. Piero Dal Maso. Richiesti di parere da parte della Questura, i Carabinieri di Arsiero confermarono le necessità dell’internato: L’ebreo in oggetto si recherebbe a Schio per farsi misurare la vista e acquistare un paio di lenti che ha rotto circa due mesi fa. Ora porta un paio di lenti che ha in prestito dal signor Zambon Silvio di Arsiero. La predetta cura non presenta carattere d’urgenza in quanto il predetto internato è in possesso di un paio di lenti, per quanto non siano misurate alla sua vista. Ad Arsiero non vi sono oculisti che possano eseguire la cura di cui abbisogna il suddetto. Nulla osta da parte di questo comando acchè il sunnominato si rechi a Schio per la cura predetta. L’autorizzazione arrivò dalla Questura a tempo di record (domanda del 21 Dicembre 1942 e autorizzazione del 14 gennaio 1943, con in mezzo le feste di Fine Anno!). Si autorizzò, limitatamente ad un solo giorno e che tutto fosse a spese del richiedente. Furono presentate richieste per effettuare visite a parenti o conoscenti internati in altri Comuni. Una richiesta di andare a trovare uno zio a Camisano Vicentino, anche lui internato, a cui è nato un bambino, non fu accolta. Un’altra richiesta di far visita ai cugini a Lastebasse non venne accolta, la Questura autorizzò invece una signora a recarsi a Posina, per un giorno, a trovare i parenti. 46 Le Porte della Memoria 2016 Due casi di non rispetto delle prescrizioni e delle norme a cui erano soggetti gli internati Molto spesso gli internati per procurarsi cibo e soldi erano costretti a correre anche dei rischi, non rispettando le dure regole in vigore. Nel maggio del 1942 accade un fatto che deve aver turbato alquanto la piccola comunità degli internati di Arsiero. Un signore venne fermato dai Reali Carabinieri di Arsiero, alla stazione ferroviaria e arrestato per “accaparramento di generi razionati e prezzi maggiorati”. Il Prefetto puntualmente segnala il misfatto al Ministero degli Interni: Il 13 andante l’arma dei CC. RR. di Arsiero sorprendeva in quello scalo ferroviario il sopradescritto individuo con due valigie. Perquisiti i di lui bagagli, rinveniva e sequestrava Kg 1,10 di strutto, Kg 1,5 di lardo, Kg 0,290 di burro, Kg 0,300 di sapone da bucato liquido. Alle contestazioni il signore dichiarava di avere ricevuto tale quantitativo di generi razionati da una signora a titolo di compenso per la riparazione di una pelliccia. Pertanto egli è stato tratto in arresto per rispondere di concorso in sottrazione di merci al normale consumo. Poiché è risultato che il medesimo traffica in materia annonaria e nonostante ogni avvertimento continua a tenere contatti di affari con ariani propongo che a soddisfatta giustizia, sia internato in un campo di concentramento anche perché il provvedimento serva di monito agli altri ebrei. Ho provveduto con provvedimenti amministrativi anche a carico degli esercenti che avevano rapporti di affari con il signore. Sono i Carabinieri della tenenza di Schio ad inviare in data 17 maggio 1942 un’ampia relazione alla Reale Questura di Vicenza e p.c. al Comando Compagnia Est. CC. RR. Di Vicenza: Parecchi ebrei stranieri internati ad Arsiero sono riusciti ad ottenere da codesta Regia Questura la facoltà di chiedere al Podestà del luogo l’autorizzazione di recarsi a Schio, o a Thiene oppure a Vicenza col pretesto di dover subire cure dentarie, esami radiologici e simili. La concessione di tali permessi è degenerata con abuso giacché nella maggioranza dei casi i viaggi vengono compiuti a scopo esclusivamente affaristico. La sera del 13 corrente i militari dell’Arma di Arsiero fermarono il suddito ex Jugoslavo …. ebreo colà internato il quale ritornava in treno ad Arsiero con due grosse valigie. Costui aveva ottenuto dal Podestà del luogo l’autorizzazione scritta di recarsi a Vicenza per cura dentaria. Egli invece scese a Piovene ove si procurò una bicicletta. Si recò quindi a Thiene ove fece acquisto di varia merce per sé e per altri internati. Poi si recò al negozio di pellicceria di certo Testolin Guido13 per riconsegnare due pellicce rimodernate per conto dello stesso Testolin dall’ internato …… e da …………. un altro internato di Arsiero. La sera fece ritorno a Piovene ove restituì la bicicletta a certa Campielli la quale gli affidò una sua pelliccia da rimodernare in conto pagamento gli consegnò i seguenti generi extra tessera: 47 Le Porte della Memoria 2016 Kg 1,00 di strutto conteggiandolo a Lire 39 il Kg Kg 1,015 di lardo conteggiandolo a Lire 45 il Kg Kg 0,250 di burro conteggiandolo a Lire 35 il Kg Kg 0,300 di sapone da bucato per lire 2,50 All’atto del suo ritorno ad Arsiero il …………. oltre ai generi suddetti, portava anche tre pellicce affidategli da clienti procurati a Thiene e a Piovene che unitamente al ………………………..(altro internato) doveva poi rimodernare. I generi soggetti a razionamento sono stati poi sequestrati e il ……….. è stato tratto in arresto dovendo rispondere di conseguenti reati annonari. L’inconveniente più sopra prospettato consiglierebbe procedere ad una revisione delle autorizzazioni finora concesse e trattare con criterio di maggiore rigore quelle da rilasciarsi in avvenire Il Tenente comandante I reati commessi furono due: quello annonario di essersi procurato generi alimentari extra-tessera e quello di aver svolto attività lavorativa vietata agli ebrei. La moglie fece richiesta per poter visitare il marito nell’infermeria del carcere di Vicenza dove era ricoverato, ma la Questura non autorizzò. Il 1° luglio 1942 il Tribunale di Vicenza lo condannò a sei mesi di reclusione e a 1.000 Lire di multa, nonché alle spese processuali e tassa di sentenza. Prontamente il Ministero dell’Interno dispose che l’internato in oggetto fosse trasferito, a pena scontata, da Arsiero al campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, dove doveva essere tradotto a mezzo dell’Arma. Alla moglie venne concesso di fargli visita in carcere a Vicenza ogni 15 giorni. La signora inoltrò subito al Ministero degli Interni la richiesta di essere trasferita, assieme al marito, al campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia. Il Ministero accolse la richiesta e informò p.c. il direttore di Ferramonti. Successivamente la moglie chiese al Ministero dell’Interno la revoca del trasferimento del marito a Ferramonti di Tarsia portando motivi di salute documentati da certificato medico e, venuta a sapere che a seguito dell’amnistia gli sarebbe stata condonata metà della pena, chiese che, in attesa dell’esito della richiesta di revoca del trasferimento, il marito potesse tornare ad Arsiero, una volta espiata la pena. A fine agosto, per motivi di salute, il marito venne trasferito nelle carceri di Thiene e alla moglie fu concesso di visitarlo ogni domenica, come da sua richiesta e per una volta venne autorizzata a visitarlo anche la sorella del condannato, pure lei ad Arsiero. Walter Landmann ricorda che suo padre, in occasione di una seduta da un dentista a Thiene, si recò a visitare l’amico rinchiuso nelle carceri. Il 14 novembre l’espiazione della pena ebbe fine e in dicembre il Ministero dell’Interno accolse la richiesta della moglie e autorizzò il tizio a rimanere ad Arsiero. Pochi giorni dopo la sentenza di condanna la moglie chiese che le venisse versato il sussidio di 8 Lire, come capofamiglia, durante il periodo di detenzione del marito. In breve arrivò l’autorizzazione del Ministero all’aumento del sussidio a partire dal momento dell’arresto. 48 Le Porte della Memoria 2016 Ci fu un altro caso accertato di trasgressione delle imposizioni che gli internati dovevano rispettare, quella di non poter ricevere e spedire corrispondenza e pacchi senza un controllo delle autorità fasciste. Una famiglia di quattro membri aveva trovato alloggio presso la trattoria Al Sole, gestita dalla madre della signora Luigia Borgo, detta Gigetta, nata ad Arsiero nel 1910. Facciamo parlare i documenti. Lettera della Prefettura di Vicenza alla Questura, data nel timbro 26/6/1942 Oggetto Mittente ? da Milano Destinatario Gigetta Borgo, trattoria Al Sole, Arsiero (VI) Si trasmette l’unita corrispondenza perché trattasi di lettera in doppia busta diretta ad un internato con indirizzo sulla busta esterna di una donna che si presta a ricevere posta per un internato. Per i provvedimenti di competenza. In data 27 giugno il Questore risponde al Podestà convocando in data 4 luglio la signora Gigetta in Questura. Questo il verbale dell’interrogatorio della signora Luigia Borgo. Dimorano nella trattoria con alloggio, di cui è titolare mia madre due coniugi ebrei stranieri con due bambini. Io non ho con loro alcuna dimestichezza, anche perché parlano poco o niente l’italiano, per cui non riesco neanche a comprenderli. A D.R. (a domanda risponde, n.d.r.) I predetti non mi hanno mai chiesto, e quindi non li ho mai autorizzati, a farsi indirizzare la loro corrispondenza al mio nome. Pertanto la lettera che mi mostrate, diretta a me, e contenente altra lettera, in una busta interna diretta al ……..(al capofamiglia ospite), è stata fatta spedire da questi a mia insaputa ed io ignoro anche chi sia il mittente. Confermo che il ……non mi ha mai parlato di corrispondenza e tanto meno di servirsi del mio nome per farsela recapitare. A D.R. Circa 20 giorni fa mi fu recapitato dal portalettere una lettera a me diretta. Alla consegna di tale lettera era presente il ………….. (l’internato). Io aprii la lettera e subito ……………. me la tolse di mano dicendo che si trattava di corrispondenza sua (la lettera è conservata in Archivio di Stato e in effetti nella busta interna era scritto il nome dell’internato). Io feci le mie rimostranze, assai vivaci, per tale fatto, ed il ……….per calmarmi, mi assicurò che la cosa non si sarebbe più ripetuta. Io avevo in animo qualora mi fossero giunte ancora altre lettere dirette al predetto, di consegnarle ai Carabinieri. Ignoro anche la provenienza della succitata lettera diretta al …..recapitata una ventina di giorni fa. Letto,confermato e sottoscritto. La lettera era scritta in tedesco e la Questura la fece tradurre. Si trattava di normale corrispondenza con una famiglia amica, dove si parlava di salute e delle solite cose, quando è tanto tempo che non ci si vede. Non è dato sapere come si concluse la vicenda; rimane l’interrogativo di chi abbia fatto la denuncia. 49 Le Porte della Memoria 2016 Questa famiglia, proveniente da Belgrado dove il capofamiglia era vice direttore della sede delle Assicurazioni Generali di Trieste, era giunta in Italia, passando per Trieste e poi trovando alloggio a Vicenza, con tutte le autorizzazioni sia delle autorità italiane che di quelle tedesche. Successivamente la Questura decise il trasferimento della famiglia ad Arsiero in quanto Vicenza era sede di importanti strutture militari e la linea ferroviaria che passa per Vicenza era di importanza strategica. Da subito Il capofamiglia fece ricorso contro il trasferimento, sostenendo di essere entrato in Italia rispettando tutte le regole e quindi doveva essere considerato un “libero cittadino” e non un internato. La pratica, iniziata nel maggio 1942, richiese il pronunciamento del Comando Supremo Servizio Informazione Militare Centro C.S. di Verona che diede il Nulla Osta per la revoca del provvedimento di internamento adottato nei loro confronti. Finalmente il 31 agosto il Ministero dell’Interno pronunciò la revoca del provvedimento di internamento, confermando l’obbligo di residenza ad Arsiero. In merito alla corrispondenza, la Questura di Trieste segnalò a quella di Vicenza di aver bloccato una lettera senza il prescritto visto dell’autorità di P.S. inviata ad un signore di Trieste, spedita da un internato. La lettera fu inviata, tramite la Questura, al Podestà di Arsiero con l’invito di richiamare l’internato al rispetto delle norme, essendoci l’obbligo per gli internati di presentare la corrispondenza all’ufficio addetto della Questura per la revisione. In caso l’internato volesse rispedire la lettera in questione, doveva seguire la procedura corretta. Ancora un caso segnalato alla Questura, quello di un pacco di libri usati inviato al locale Ufficio Postale, indirizzato al sig. Borgo Giacomo, sarte di Arsiero e destinato ad un internato civile. Il Podestà inviò il pacco in Questura. Ricomposizione dei nuclei famigliari Fra i documenti esaminati tre si riferiscono a richieste di ricongiungimenti familiari ad Arsiero rivolte al Ministero degli Interni. Una richiesta riguarda il fratello internato a Ferramonti, per motivi di salute; a Ferramonti, il fratello, in breve tempo, aveva perso 12 Kg causa il clima molto dannoso. Ad Arsiero avrebbe avuto anche l’assistenza dei familiari. Una signora chiese il trasferimento dei parenti internati a Quero di Belluno. Ancora una domanda per chiedere il trasferimento del cognato dal campo di concentramento di Casoli (Chieti). Le domande vennero tutte respinte dal Ministero degli Interni accogliendo così il parere negativo della Prefettura di Vicenza per i rilevante numero di ebrei internati in questa provincia. Di fronte a queste richieste viene da pensare che le condizioni di vita degli internati ad Arsiero, nonostante tutte le limitazioni, non fossero poi così pesanti. Richiesta di documenti di identità Caduto il Fascismo il 25 luglio 1943, alcuni internati (almeno 5 nuclei familiari) chiesero a partire dal 3 agosto il rilascio di documenti di identità. La richiesta era rivolta alla Questura affinché autorizzasse il Comune a procedere al rilascio dei documenti e che tali documenti fossero nella disponibilità degli interessati. 50 Le Porte della Memoria 2016 Evidentemente essere privo di documento di identità ti fa sentire prigioniero, nell’impossibilità di qualsiasi spostamento e quindi in balia di altri. E’ evidente che gli internati più attenti pensassero di lasciare l’Italia al più presto, per luoghi più sicuri, temendo quello che poi si sarebbe verificato con l’8 settembre, e cioè l’occupazione da parte dei tedeschi. Walter Landmann ricorda precisamente quei giorni: mi trovavo a lato della strada che portava giù dai passi alpini dell’Austria e guardavo i mezzi di trasporto truppe ancora dipinti con i colori da deserto e i carri armati leggeri che scendevano verso il fronte meridionale e anche se avevo solo 16 anni ricordo che dissi a mio padre: “Per amor di dio, andiamo in Svizzera prima che arrivino le SS”. Lui rise e mi disse che nessuno si sarebbe curato di noi in questo caos. Quanto aveva torto!! Lui, l’eterno ottimista ed io, l’eterno pessimista, che ancora sono oggi. Il 7 agosto 1943 il Questore rispose al Podestà, respingendo le richieste, tutte con la medesima motivazione: …trattandosi di un internato, e non avendo quindi bisogno di alcun documento di riconoscimento, Vi prego di comunicare che la sua istanza non può essere accolta. Ove non sia in possesso di alcun documento di identificazione e tale documento gli occorra per acquisti di oggetti e per altri generi per i quali sia richiesta la presentazione di un documento ufficiale, Vi autorizzo a rilasciare una carta di identità provvisoria. Si intende che tale documento dovrà essere restituito subito dopo usato. Il Questore La caduta del Fascismo non significò un cambiamento della politica nel campo delle leggi razziali da parte del Governo Badoglio; solo nel gennaio 1944 queste leggi infami sarebbero state abrogate dal “Regno del Sud”. Poi arrivò l’8 settembre con i Nazisti! Il 12 Novembre 1943 il Commissario Prefettizio scrisse al Questore una comunicazione urgente . Pregasi comunicare se possa essere rilasciato da questo Comune la carta di identità definitiva al sig. …..(lo stesso della lettera in doppia busta), dichiarato non internato con provvedimento del Ministero. Il 16 novembre il Questore risponde che la carta di identità poteva essere rilasciata indicando però nella stessa la nazionalità e la razza. In molti riuscirono a mettersi in salvo Con l’8 settembre fu evidente che la vita degli ebrei internati era nuovamente in pericolo e che a loro non restava che mettersi in salvo nascondendosi o fuggendo lontano dai Nazisti. La meta dei più fu la Svizzera raggiunta per diverse vie, andando a Tirano e poi passando in Svizzera in Valposchiavo o raggiungendo Milano, le province di Lecco e di Como e poi il Canton Ticino. Di recente Walter Landmann ha fornito notizie sulla fuga da Arsiero di due famiglie di suoi conoscenti, informazioni che lui ha avute da una giovane partecipante alla fuga, ancora in vita. Questo il racconto: Un gruppo di quattro persone, parenti fra loro, sono riuscite ad avere l’autorizzazione per recarsi a Vicenza per una visita medica. Con l’occasione due 51 Le Porte della Memoria 2016 di queste persone hanno preso un treno per raggiungere Varenna14 per avviare contatti con chi avrebbe dovuto dare loro assistenza per raggiungere il confine svizzero. Ritornano ad Arsiero con questa buona notizia e tutto il gruppo di quattro persone prende un treno per Menaggio, privo di documenti. Con l’assistenza della Chiesa di Menaggio sono trasferiti al paese di Còrrido da dove si può già vedere il confine svizzero. Due di loro passano sotto la rete e incontrano la polizia svizzera che li respinge e devono tornare in Italia. I frequentatori di una trattoria, fra cui un uomo con il cappello dei bersaglieri, osservano i loro movimenti e portano il gruppo in Municipio. Lì, il Podestà fornisce a tutti e quattro carte d’identità false, dove risultano sfollati dall’Istria. Il Podestà fornisce loro anche di soldi e così prendono il treno per Monza e bussano alla porta di casa di una persona che avevano conosciuto ad Arsiero. Questa persona, rischiando anche la vita, se scoperta, li nasconde a casa sua per tre mesi. Per interessamento del vescovo di Como vengono poi nascosti in un convento. Ora tutto è pronto per il nuovo tentativo di entrare in Svizzera attraverso un accesso diverso dal primo. Guide esperte li portano di notte fino al confine percorrendo una salita molto difficile. Attraversano il confine da soli e due soldati svizzeri arrivano per aiutarli. Al mattino sono portati nel carcere di Chiasso e anche questa volta gli svizzeri li respingono. La persona più anziana del gruppo protesta dicendo che è malata di tubercolosi e rifiuta di lasciare il paese. Infine i quattro del gruppo sono ammessi in Svizzera da un capo della polizia. Una famiglia, presente ad Arsiero, dopo la guerra ha aperto una pellicceria a Vicenza ed è poi emigrata negli USA. Gli ultimi a mettersi in salvo furono le famiglie Klein e Landmann aiutate da don Antonio Frigo che organizzò il viaggio per la Svizzera, sotto la guida di Rinaldo Arnaldi. I particolari della loro fuga verso Ia salvezza sono ben documentati dalla testimonianza Walter Landmann e Marion Klein Fischer. Il loro racconto è riportato nei fascicoli “Le Porte della Memoria” 2013, 2014 e 2015. Partirono da Arsiero il 9 febbraio 1944, alle 5 di mattina, in treno, come ha scritto Agnes Klein, la madre di Marion, nel suo diario e arrivarono in Svizzera l’11 febbraio, dopo una attraversata, a piedi, di notte, delle Alpi, durata 13 ore. Pochi giorni prima, da Tonezza del Cimone, il 30 gennaio partì il gruppo di 45 ebrei lì rinchiusi nella colonia Umberto I°, che raggiunse Auschwitz il 6 febbraio. Fra loro c’era anche la famiglia Landmann che miracolosamente, per un soffio, riuscì a lasciare il gruppo a Vicenza, invocando le leggi di Norimberga che non prevedevano la deportazione delle famiglie miste. Infatti il padre Friedrich Moses era ebreo e la madre Barbara Eckel era ariana e cattolica. 52 Le Porte della Memoria 2016 La tragedia. I disperati tentativi di Stabholz Menasse per sfuggire alla morte. Nel documento riportato nella pagina che segue figura l’elenco degli ebrei presenti ad Arsiero il 7 dicembre; gli altri avevano fatto perdere le loro tracce già da giorni. Qualche giorno dopo i Carabinieri ebbero ordine di trasferirli a Vicenza. Solo i Klein rimasero ad Arsiero in quanto la signora Agnes era incinta di 8 mesi ed ammalata. Risulta che fu don Antonio Frigo a battersi affinché i Klein non fossero portati a Vicenza. In Archivio di Stato è presente il seguente documento, inviato alla Questura di Vicenza, dalla stazione dei Carabinieri di Arsiero il 16/12/1943 XXII. Prot. Riservato Oggetto: Ebrei internati . Trasferimento alla Questura di Vicenza. In data odierna, accompagnati dai militari di questa stazione, sono stati avviati a codesta Questura i sotto riportati internati di razza ebraica per la successiva assegnazione. 1) Stabholzer Menasse 2) Joscovitz Klara 3) Landmann Moses 4) Eckl Barbara 5) Landmann Heinz 6) Riesenfeld Bertoldo 7) Freund Elena 8) Riesenfeld Hans Non è stato possibile fare accompagnare anche l’ebreo Klein Alessandro di Josef e Schiller Agnese, nato il 5/1/1903 avendo costui la moglie incinta di 8 mesi con due figli di minore età da assistere. Quest’ultimo sarà fatto partire non appena le condizioni della consorte saranno migliorate. m. m. comandante la stazione firmato 53 Le Porte della Memoria 2016 In questo elenco manca Schatz Jakub, polacco, sarto, anche lui presente ad Arsiero per qualche tempo; fu poi trasferito in internamento a Lonigo, dove infatti risulta presente nel maggio del 1943 e da qui condotto nel lager provinciale di Tonezza del Cimone. Il 2 dicembre 1943, Stabholz Menasse scrisse alla Questura per essere autorizzato ad una vista medica specialistica a Vicenza per lui e la moglie da richiedere in forma urgentissima: infatti sia lui che la moglie soffrivano di gravi patologie. I problemi di salute dei due dovevano essere alquanto gravi se i Carabinieri di Arsiero comunicarono alla Questura quanto segue: Da riservate informazioni assunte è stato confermato che effettivamente gli stranieri in oggetto indicati abbisognano di speciali e urgenti cure, …Poiché né in luogo e né nelle vicine città di Schio e di Thiene esistono specialisti del sistema nervoso e nevrologhi, si esprime parere favorevole alla concessione dell’autorizzazione richiesta per portarsi a Vicenza. Il m. m. comandante la stazione La Questura autorizzò la visita specialistica a Vicenza per i giorni strettamente necessari. In data 20/12/1943 XXII Menasse Stobholz si trovava a Vicenza con la moglie Joscovitz Klara e scrisse alla Questura una lettera che sa molto di appello disperato! Elenca innumerevoli patologie che minano la sua salute e quella della moglie e chiese per entrambi di essere sottoposti a visita medica per essere eventualmente ricoverati in ospedale o essere lasciati in internamento libero. Unì alla domanda un certificato rilasciato dal dott. Dal Maso Piero che porta la data del 13 /12/1943. La successiva destinazione, anziché l’ospedale, fu il lager di Tonezza del Cimone, dove arrivarono il 23 dicembre e dopo poco più di un mese, il 30 gennaio, partirono per Auschwitz in 42, fatti salire sul trasporto n. 6, partito da Milano, dal binario 21. Nessuno di coloro che si trovavano a Tonezza del Cimone (salvo i Landmann) tornò e molti finirono subito nelle camere a gas. L’ultimo atto della tragedia è documentato dalle strette strisce di carta conservate in Archivio di Stato nei fascicoli di Stabholz Menasse, Joscovitz Klara, Riesenfeld Berthold, Freund Anna Elena, Riesenfeld Hans, con queste parole: L’ebreo……………………………………… in data 30 gennaio 1944 è stato prelevato dalla Polizia Tedesca. Vicenza 3/02/1944 XXII 54 Le Porte della Memoria 2016 Questa ricerca sul soggiorno delle famiglie ebree ad Arsiero, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, meriterebbe un approfondimento ed un ampliamento, approfittando anche del fatto che molte persone, testimoni dei fatti accaduti, sono ancora raggiungibili e ci sono persone che hanno ricordi o documenti che possono arricchire la conoscenza di un fatto che deve trovare un giusto spazio nella storia di Arsiero e della valle dell’Astico. Archivio di Stato di Vicenza, Questura di Vicenza, Ebrei internati civili, busta 1. Paolo Tagini, Le Poche cose. Gli internati ebrei nella provincia di Vicenza 1941-1945, Cierre gruppo editoriale, Caselle di Sommacampagna (VR), 2006. 3 Angelo Busato, Arsiero panorama storico,tipolitografia G.Fuga e figli, Arsiero (VI), 1993. 4 I gestori del mulino erano Giovanni Signor e la moglie Serafina. Il mulino fu demolito intorno agli anni ’60. 5 Si trattava della famiglia Faccin; Antonio Faccin con la moglie Costantina (Costanza) erano i custodi di Villa Rossi e il sig. Antonio lavorava presso la Cartiera Rossi. Avevano due figli, Caterina del 1913 e Mario del 1920, entrambi oggi defunti. Caterina (Rina) era sposata con Fontana Giovanni Battista. Nel 1943 i Fontana avevano una figlia, Severina, di 5 anni e un maschietto, Umberto, nato nel marzo di quell’anno. Successivamente, nel 1955, la famiglia Fontana si è trasferita, prima nel milanese e poi a Riva del Garda. 6 Vedi Le poche cose di Paolo Tagini pag. 86 7 Vedi https://it.wikipedia.org/wiki/DELASEM. 8 Settimino Sorani, presidente della sezione romana della Delasem ed esponente della resistenza ebraica. 9 La circolare del 18 maggio 1942 del Ministero degli Interni fascista limitò alquanto l’attività dei referenti, dovendo la Delasem limitarsi “agli scopi assistenziali e al disbrigo delle pratiche di emigrazione”. 10 Scuola media e liceo gestiti dalla comunità ebraica di Trieste la cui attività fu interrotta tra il 1943 e il 1945 e poi non più ripresa. Oggi esistono una scuola materna e una primaria parificate. 11 Paolo Tagini, Le poche cose, pag. 83 12 Angelo Busato, a pag 285 viene citato il dott. Dal Maso, che catturato il 28 giugno del 1944, assieme a un gruppo di fascisti locali, evitò la fucilazione. 13 La pellicceria in questione si trovava in Via Dante, dove ora c’è la sala giochi e una volta il supermercato Capovin, ovviamente in un edificio che ora non c’è più. La famiglia si trasferì a Milano nel dopoguerra. 14 Varenna e Menaggio sono due centri sulle sponde del lago di Como; il primo sulla sponda est, in provincia di Lecco e il secondo sulla sponda ovest, in provincia di Como. Còrrido è un piccolo comune a 500 m s.l.m., vicino al lago di Lugano, in provincia di Como. 1 2 55 Le Porte della Memoria 2016 La stesura dei vari testi è stata curata o coordinata da Giannico Tessari per conto dell’Associazione Amici della Resistenza. Si ringraziano quanti hanno collaborato per la realizzazione della dispensa, a qualsiasi titolo. Un ringraziamento particolare va a quanti hanno contribuito con loro scritti o i loro racconti, in particolare: Abramo Tognato e Gruppo Huomologando, Ferdinando Offelli, Adriana Ivanov, Silvia Turra, Marilena Bevardo, Novella Sacchetto, Mauro Dei Rossi. Ricordiamo per la preziosa collaborazione Nicoletta Panozzo per l’accurato lavoro di correzione dei testi e per informazioni, consigli, contatti, Marion Klein Fischer, Walter Landmann, Gabriele Scarano,Valeria Balasso, E’ possibile utilizzare quanto contenuto nella dispensa, per attività non a fine di lucro, a condizione di riportare la provenienza e citando “Dispensa realizzata per le Porte della Memoria 2016 dall’Associazione Amici della Resistenza di Thiene”. Thiene, 27 gennaio 2016