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INADEMPIMENTO DEL MANTENIMENTO PER I FIGLI E RITIRO O

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INADEMPIMENTO DEL MANTENIMENTO PER I FIGLI E RITIRO O
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FOCUS
INADEMPIMENTO DEL MANTENIMENTO PER I FIGLI E RITIRO
O MANCATA CONCESSIONE DEL PASSAPORTO: L’INTERVENTO DEL GIUDICE TUTELARE
Andrea Oliva
Giudice tutelare presso il Tribunale di Roma
Non v’è dubbio che il giudice tutelare non abbia competenza in materia di recupero delle somme
di denaro che il genitore separato (o divorziato o naturale non più convivente) non abbia corrisposto all’altro genitore a titolo di mantenimento dei figli, ovvero quale contributo alle spese straordinarie resesi necessarie per questi ultimi.
Ciò, tuttavia, non significa che il giudice tutelare non possa affrontare questo argomento con le parti in contraddittorio tra di loro e che da quella sede impropria non possa scaturire persino un verbale di composizione bonaria di tutte le pendenze economiche fino a quel momento accumulatesi per effetto della violazione di quanto statuito dal Tribunale (nella pratica, ad esempio, non è infrequente un accordo in forza del quale il genitore inadempiente si impegni a estinguere il suo debito complessivo in forma rateale e, dunque, secondo una ben precisa tempistica).
Quando, poi, questa tipologia di genitori litiga dinanzi al giudice tutelare in quanto uno di essi ha
negato all’altro il consenso al rilascio del passaporto oppure ha revocato (anche ad nutum) il consenso già espresso dinanzi all’autorità di Polizia (così determinando l’automatico ritiro di tutti i documenti validi per l’espatrio intestati alla controparte), il tema dell’inadempimento alle predette obbligazioni pecuniarie può assumere un’importanza del tutto particolare, a volte decisiva.
Il dato normativo di riferimento in materia è costituito dall’art. 12, secondo comma, della legge 21
novembre 1967, n. 1185 e successive modifiche (d’ora in poi, semplicemente art. 12), nella parte
in cui recita: “Il passaporto è altresì ritirato quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli
aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari [...] che
riguardino i discendenti di età minore...”.
Già a una prima lettura risulta evidente che questa ipotesi di soppressione della libertà riconosciuta dall’art. 16, secondo comma, Cost. (“ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge”) trova il suo fondamento – e non potrebbe essere diversamente – in un’altra disposizione di medesimo rango, e precisamente nell’art. 30, primo comma, Cost., laddove si dichiara che “è dovere (oltre che diritto) dei genitori mantenere, istruire ed
educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”.
Il legislatore, in altri termini, nel soppesare le due posizioni (quella di chi avanza la pretesa di poter continuare a viaggiare liberamente all’estero e quella di chi invece richiede che questa facoltà
sia subordinata al corretto adempimento degli obblighi economici di mantenimento e/o all’adozione di tutte le relative garanzie), ritiene che – in linea di principio e fatte salve alcune eccezioni che
esamineremo in seguito – sia la seconda a dover prevalere.
Viene dunque adottata una sorta di “scala di valori” nell’ambito della quale il denaro a disposizione deve essere impiegato secondo un ben preciso ordine di priorità: in primis, per il mantenimento dei soggetti a proprio carico e, solo in un secondo momento, per l’effettuazione di viaggi al di
fuori dell’Italia. A conferma di ciò, d’altra parte, non va dimenticato che la violazione dei cosiddetti “obblighi di assistenza familiare” (ivi compresi quelli rilevanti in questa sede) è opportunamente prevista e punita come reato dalla norma incriminatrice speciale dell’art. 570 c.p.
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Essendo questa la ratio di fondo della disciplina specialistica in esame, va da sé che il collegato
procedimento dinanzi al giudice tutelare ne risulti fortemente condizionato sotto molteplici aspetti, a cominciare da quello dell’effettivo ambito di utilizzabilità dell’art. 12.
Un’interpretazione rispettosa dell’art. 3 Cost., infatti, deve necessariamente far ritenere che questa
norma ordinaria, malgrado faccia esplicito riferimento al solo caso di chi si trovi già all’estero, possa e debba trovare applicazione anche a chi sia ancora presente sul territorio nazionale e risulti
non avere adempiuto agli obblighi di mantenimento verso i figli.
Per mera completezza, si può comunque precisare che una differenza tra le due fattispecie pur
sempre esiste, ma attiene all’eseguibilità dell’ordine di ritiro del passaporto. In particolare, nel caso di persona presente in Italia, detto ritiro può essere portato a compimento in tempi rapidissimi;
nel caso invece di persona che si trovi già all’estero, la stessa può vedersi ritirato il passaporto solo in occasione del rientro in Italia, con la conseguenza che almeno fino ad allora permarrà sicuramente in essere l’illecita condotta di sottrazione agli obblighi economici verso la prole.
Una volta che sia stato depositato il ricorso finalizzato a ottenere l’autorizzazione al rilascio del passaporto, il giudice tutelare emette il decreto di comparizione e, in genere, pone la convocazione
della controparte a carico del soggetto ricorrente. Nella circostanza, si badi, può essere utile avvisare il destinatario che, in caso di sua assenza ingiustificata, la stessa potrà essere ritenuta equivalente al rilascio del consenso richiesto. Poiché, infatti, accade spesso che il diniego di consenso al
rilascio del passaporto sia solo il frutto di un banale dispetto tra persone ancora in litigio, può valere la pena di ricordare che se non vi è nulla di veramente importante da riferire al magistrato, è
meglio non presentarsi, facilitando così la definizione del procedimento. Di fatto, con un simile
stratagemma (non saprei come altro definirlo...), in molti casi la parte convocata non compare e
tutto si riduce a una rapida verifica della regolarità e tempestività della notifica.
Se viceversa la controparte si presenta per assumere le vesti di parte resistente, le dichiarazioni che
in prima udienza saranno rilasciate dagli interessati potrebbero perfino determinare l’avvio di un
vero e proprio procedimento camerale contenzioso caratterizzato dalla concessione del doppio termine (quello per note e documenti e quello per eventuali repliche).
Si immagini, a titolo di ipotesi, che il diniego del consenso al rilascio del passaporto (o il ritiro del
passaporto direttamente ottenuto con istanza al Commissariato di P.S.) sia stato motivato proprio
da un inadempimento del soggetto ricorrente agli obblighi economici che ha verso i propri figli.
In tal caso, qualora non sia altresì esibita la copia autentica di una sentenza di condanna ai sensi
del già citato art. 570 c.p. (sentenza che, evidentemente, tronca sul nascere il contraddittorio), il
giudice tutelare è tenuto a verificare se la doglianza abbia un fondamento oppure no.
L’istruttoria inizia sempre con le medesime domande. Il magistrato le rivolge al ricorrente e sono
più o meno del seguente tenore: “È vero quanto afferma la parte resistente? e se lo è, sulla base di
quali contromotivazioni lei ritiene che il passaporto le debba essere rilasciato o resituito?”.
Generalmente, quando non si limita a mascherare la propria totale inadempienza dietro la formulazione di vere e proprie petizioni di principio (del tipo: “Viviamo in un Paese democratico, mi sento
una persona libera, non vedo perché mi si debba impedire di andare all’estero”), il ricorrente propone sempre una risposta abbastanza articolata, che apre la strada al vero e proprio contraddittorio.
In questa sede, per evidenti ragioni, non è possibile effettuare una rassegna completa di tutte le
molteplici varianti del caso. Ci limiteremo pertanto a segnalare soltanto le ipotesi più frequenti e
interessanti, per poi verificare attraverso quale iter il giudice pervenga alla sua decisione e quali
contenuti essa possa avere.
L’esperienza quotidiana consente di affermare che di solito il ricorrente propone due tipi di repliche, entrambe potenzialmente idonee a fargli conseguire il passaporto. La prima – di gran lunga
più utilizzata – consiste nel contestare l’addebito, evidenziando che il mantenimento è stato, sì, versato solo in parte, ma che ciò è stato dovuto esclusivamente alle limitate possibilità economiche
del momento (per intenderci, in sede penale questa stessa linea difensiva punterebbe tutto sulla
mancanza del dolo, cioè dell’elemento soggettivo del reato ex art. 570 c.p.).
La seconda, invece, può essere prospettata finanche in caso di totale inadempienza agli obblighi
di mantenimento dei figli e consiste nel sottolineare che il passaporto serve al richiedente:
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a) per ragioni di salute (“Sono gravemente malato e devo ricevere cure specifiche che solo in quel determinato Paese sono in grado di somministrarmi”) oppure
b) per motivi di lavoro (“Sono stato licenziato e ora mi sto rivolgendo anche al mercato estero: dunque, se non mi sarà data la possibilità di viaggiare fuori dell’Italia, non potrò riprendere a lavorare e a guadagnare e, di conseguenza, non potrò neanche ricominciare a versare il mantenimento per i miei figli”).
Di fronte a queste controdeduzioni, l’errore che il giudice tutelare deve evitare a tutti i costi è di
lasciare che il procedimento si trasformi in una vera e propria anticipazione di un possibile giudizio per la modifica delle condizioni stabilite dal Tribunale. Naturalmente questo non vuol dire che
gli elementi che emergeranno non potranno essere utilizzati in futuro anche dinanzi al Collegio,
ma significa semplicemente che nel contesto in esame dovranno essere acquisiti soltanto dati utili
alla definizione del ricorso per l’ottenimento del passaporto. E, come vedremo, anche in sede di
decisione il magistrato potrà emettere provvedimenti che mirino non tanto a penalizzare tout court
l’una o l’altra parte, quanto piuttosto a permettere nel tempo la ricomposizione complessiva della
vicenda.
Gli elementi di prova di cui il giudice tutelare chiede (anche d’ufficio) l’acquisizione sono sempre
e soltanto di tipo documentale. In particolare, rispetto alle fattispecie sopra riportate alle lettere a
e b si potrà trattare di uno o più dei seguenti documenti:
1) le prove dei versamenti eseguiti per il mantenimento dei figli (ricevute rilasciate dalla controparte oppure estratti di conto corrente da cui risultino i bonifici mensili e le relative causali);
2) le dichiarazioni dei redditi del ricorrente e/o le certificazioni ISEE che lo riguardano;
3) la documentazione medica originale attestante la patologia di cui soffre il ricorrente, le cure di
cui la stessa necessita e gli effettivi contatti (e-mail, fax, lettere) con la struttura ospedaliera straniera che dovrebbe prendere in carico il paziente;
4) infine, sempre in originale, la lettera di licenziamento pervenuta al ricorrente, il suo attuale stato di disoccupazione e le eventuali offerte di lavoro pervenutegli dall’estero (con l’indicazione
dettagliata delle mansioni che andrebbe a ricoprire, del termine di durata del contratto e della
retribuzione lorda che sarebbe corrisposta).
In genere, dati gli interessi in gioco e considerato che anche la parte resistente potrebbe avere fin
da subito qualcosa da controbattere (per esempio sul comportamento che il ricorrente abbia già
tenuto in passato oppure sulle reali condizioni economiche di quest’ultimo oppure sul fatto che in
realtà il ricorrente si stia solo preparando a un trasferimento definitivo all’estero, essendosi già liberato di tutti i suoi beni in Italia), è pressoché inevitabile che il magistrato debba concedere il già
accennato doppio termine (per note e documenti e per eventuali repliche).
Questo tempo, tuttavia, quantunque ristretto (in genere, non si supera mai il mese e mezzo), potrebbe rivelarsi molto utile anche per lo svolgimento di trattative stragiudiziali tra le parti, che potrebbero infine sfociare in un ben preciso accordo complessivo (con tanto di annesse garanzie) che
poi sarebbe formalizzato dinanzi al magistrato.
Qualora, invece, non si riesca a raggiungere una composizione bonaria della vicenda, spetterà al
giudice tutelare prendere la decisione (poi reclamabile, entro dieci giorni, dinanzi al Tribunale per
i Minorenni, in base all’art. 45, secondo comma, disp. att. c.c.).
Come anticipato, ove possibile, il magistrato non dovrebbe soltanto pensare a distribuire torti e ragioni (ciò che spesso lascia aperta la porta a futuri contrasti sul medesimo punto), ma dovrebbe
viceversa calibrare il provvedimento sulle caratteristiche del caso di specie, cercando di contemperare le rispettive esigenze e, soprattutto, puntando a una soluzione che, entro un tempo determinato, consenta il totale ripianamento del debito accumulato.
In quest’ottica, un notevole ausilio è offerto dall’estrema elasticità del termine di durata dei passaporti. Mentre infatti la carta d’identità (sia essa valida per l’espatrio oppure no) deve avere sempre
la durata prestabilita dalla legge (dieci anni, per l’esattezza), nel caso del passaporto, invece, il termine di validità non deve necessariamente coincidere con quello massimo consentito (ancora una
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volta dieci anni), ma può anche essere appositamente ridotto (e in misura pure considerevole, per
esempio a un solo anno).
Il giudice tutelare, pertanto, qualora al termine dell’istruttoria dovesse rendersi conto che la situazione non propende decisamente per l’una o per l’altra parte, ma risulta viceversa sostanzialmente suddivisa – qualora cioè dovesse formarsi la convinzione che la doglianza di parte resistente è
fondata, ma che il passaporto non rappresenta per il ricorrente un semplice mezzo di svago (cioè,
il mezzo per effettuare viaggi meramente turistici), bensì costituisce anche e prima di tutto uno strumento indispensabile per uscire da una situazione economica e/o personale difficile –, potrebbe
sicuramente adottare una decisione, per così dire, interlocutoria, caratterizzata dai seguenti punti
cardine:
1) congrua limitazione del termine di validità del passaporto da rilasciare o da restituire al ricorrente (un anno o due al massimo: dipende anche da quale durata minima sia necessaria per
l’ingresso nel Paese straniero de quo);
2) previsione del prolungamento di detto termine di validità, ma a condizione che vengano tempestivamente rispettati determinati impegni (per esempio il fatto che il ricorrente, avendo ricominciato a lavorare all’estero, riprenda automaticamente a versare il mantenimento per i figli,
magari anche con un quid pluris al fine di avviare il ripianamento del debito pregresso);
3) infine, fissazione di un’udienza di rinvio (in epoca di poco anteriore alla scadenza del passaporto temporaneo), al fine di verificare se e quali mutamenti vi siano stati nel frattempo e se
gli stessi permettono di considerare soddisfatta la condizione di cui al punto 2 (naturalmente,
nulla esclude che in tale occasione le parti possano chiedere di verbalizzare un accordo che fino a quel momento non erano stati in grado di raggiungere e che ponga davvero la parola fine alla lite).
In conclusione, dunque, si può dire che, sia pur in misura ridotta, anche il giudice tutelare sia posto dall’ordinamento giuridico in condizione di intervenire fattivamente su talune vertenze economiche tra genitori lato sensu separati. A questo magistrato monocratico spetterà il compito di non
invadere le competenze collegiali e, nell’ambito della cornice costruita dal legislatore, di usare anche quel pizzico di pragmatismo e di buon senso che sono sempre ingredienti indispensabili quando si tratta di ricomporre liti di tipo familiare.
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