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Dino Buzzati. Un ritorno quasi mancato
Di Francesca Di Ruscio
Per campi e paesi,
il tamburo ha suonà
e gli anni passà
la via del ritorno,
la via del ritorno,
nessun sa trovà
(D. Buzzati, La canzone di guerra)
Le storie di Dino Buzzati sono anche storie di partenze. Il momento del distacco dalla casa o
dalla fanciullezza, a seconda che si tratti di un vero e proprio trasferimento fisico o soltanto
metaforico come viaggio nel tempo, è da intendersi come frattura dell’Io, il quale, una volta
abbandonata l’“origine”, si rivela incapace di aderirvi di nuovo, benché essa rappresenti un motivo
di nostalgia e desiderio.
In Bàrnabo delle montagne la campagna nella quale Bàrnabo si rifugia non è gioiosa ma sembra
piuttosto immersa in un’atmosfera rarefatta, una specie di non-luogo o luogo sospeso nell’attesa. La
visita dell’amico Bertòn, venuto dalla montagna, risveglia il giovane:
Si era riaperta nel cuore la vergogna dimenticata. Egli si era rifugiato nella campagna, nella grassa pianura e forse
gli toccava di consumare la vita, pigramente, in un’inutile attesa. La visita di Bertòn gli aveva fatto sentire di colpo
quanti anni fossero passati e Bàrnabo aveva pensato più volte a un possibile ritorno, preso dai ricordi felici. Poi, di
giorno in giorno, la speranza era impallidita e le montagne, la Polveriera, la Valle delle Grave si erano dissolte
nuovamente in una nebbia, come cose mai esistite 1.
Tuttavia, la nostalgia della casa non può essere superata neanche tornando poiché al ritorno
geografico non corrisponde quello “esistenziale” e tra Io e luogo geografico si apre uno scarto
incolmabile. L’Io, infatti, non è più lo stesso della partenza, il tempo è trascorso e i vissuti lo hanno
modificato: «Tutto è rimasto come prima, ma non è la stessa cosa. Per quanto si sforzi, neppure
nelle giornate più belle Bàrnabo sa trovare la bellezza di certe mattine quando era guardiaboschi» 2.
Tenta di illudersi che tutto sia come prima ma un senso di pudore – misura del tempo trascorso – lo
inibisce: «Cerca, così per giuoco, di riprodurre fedelmente la vita d’un tempo. In questo modo gli
sembra di respingere per qualche istante gli anni passati. Poi ha l’impressione che le rupi lo possano
vedere»3.
D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, Mondadori, Milano, 2014, p. 73.
ivi, pp. 82-83.
3
ivi, p. 84.
1
2
Nel Deserto dei Tartari, Buzzati descrive in dettaglio il rito della partenza di Giovanni Drogo
nelle sue difficoltà e con i suoi ripensamenti:
L’amarezza di lasciare per la prima volta la vecchia casa, dove era nato alle speranze, i timori che porta con sé ogni
mutamento, la commozione di salutare la mamma, gli riempivano sì l’animo, ma su tutto ciò gravava un insistente
pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare
un viaggio senza ritorno4.
Il presentimento appare giustificato e Drogo, tornato dopo anni, percepisce un senso di
estraneità. Persino l’odore della casa non è più rassicurante ma sembra produrre quasi una certa
angoscia:
L’uscio di casa fu aperto e Drogo sentì subito l’antico odore domestico, come quando, bambino, ritornava in città
dopo i mesi di estate in villa. Era odore familiare ed amico, eppure, dopo tanto tempo, vi affiorava alcunché di
meschino. Gli ricordava sì gli anni lontani, la dolcezza di certe domeniche, le liete cene, la fanciullezza perduta, ma
parlava anche di finestre chiuse, di compiti, di pulizia mattutina, di malattie, di litigi, di topi 5.
L’affetto della madre sembra mutato e le piccole attenzioni, come il risveglio della donna
durante la notte, quando il figlio rincasava, sono un lontano ricordo: «Una stupidaggine, pensò, una
ridicola coincidenza, poteva anche darsi. Eppure gliene restava, mentre si disponeva a rientrare nel
letto, una impressione amara, quasi l’affetto di una volta si fosse appannato, come se fra loro due il
tempo e la lontananza avessero lentamente disteso un velo di separazione» 6. Infine, l’incontro tanto
atteso con Maria si rivela anch’esso una delusione:
Drogo aveva pensato che sarebbe stata per lui una grande emozione, che gli sarebbe battuto il cuore. Quando invece
le fu vicino e rivide il suo sorriso, quando udì il suono della sua voce che diceva: “Oh, finalmente, Giovanni!” (così
diversa da quello che aveva pensato) egli ebbe la misura del tempo passato.
Lui era lo stesso di una volta – credeva – forse un po’ più largo di spalle e fatto scuro dal sole della Fortezza. Anche
lei non era mutata. Ma qualche cosa si era messo fra loro7.
Ilaria Gallinaro, attraverso un parallelismo tra Drogo nel Deserto dei Tartari e Castorp nella
Montagna incantata di Thomas Mann, nota come le asperità del viaggio dei protagonisti mettano in
rilievo il forte cambiamento avvenuto nelle loro vite:
La descrizione stessa del viaggio e la destinazione sono in certo modo sovrapponibili, poiché la fortezza e il
sanatorio si trovano in montagna, a significare l’elevazione e il distacco dalla vita precedente, la frattura anche fisica
D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano, 2016, p. 4.
ivi, p. 128.
6
ivi, p. 131.
7
ivi, p. 132.
4
5
con il mondo da cui i due giovani provengono, e la strada, in prossimità della meta, procede attraverso valloni aridi e
scoscesi, che lasciano nei due protagonisti un identico senso di inquietudine […] 8.
La difficoltà del ritorno viene sperimentata anche nell’Assalto al grande convoglio nel quale
Gaspare Planetta, tornato dai compagni dopo anni di carcere, si accorge di non essere più il
benvenuto: «Così disse; ma intanto capiva di essere rimasto tagliato fuori, capiva che un capo
brigante non può lasciarsi imprigionare, tanto meno restar dentro tre anni come un disgraziato
qualunque, capiva di essere vecchio, che per lui non c’era più posto, che il suo tempo era
tramontato»9. Nel racconto Gli amici non è il benvenuto nemmeno Toni Appacher, tornato da
morto, come fantasma, tra gli amici mal disposti ad accoglierlo 10; la presenza dell’amico-fantasma,
inoltre, è per loro inopportuna perché sconvolge l’ordo naturalis, come una goccia che sale le scale:
Ed è per questo che gli spiriti – se mai qualche anima infelice si trattiene con ostinazione sulla terra – non vogliono
vivere con noi ma si ritirano nelle case abbandonate, tra i ruderi delle torri leggendarie, nelle cappelle sperdute tra le
selve, sulle scogliere solitarie che il mare batte, batte, e lentamente si diroccano 11.
Se nel racconto Gli amici prevale un’ironia sottilmente amara, tragico ne Il mantello è invece il
ritorno di Giovanni, impassibile di fronte alla gioia incontenibile della madre a causa di un «segreto
peso»:
Egli sorrise soltanto, sempre con quell’espressione di chi vorrebbe essere lieto eppure non può, per qualche segreto
peso. La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi triste, come il giorno lontano della partenza?
Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un’infinità di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una
fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nelle immensità degli anni futuri 12.
Buzzati descrive l’apprensione materna al momento del ritorno, non dimenticando tuttavia di
sottolineare come spesso sia anche il figlio ad avere in animo l’affetto e la stima della madre. Così
nel racconto Ho dimenticato il messaggero, venuto da lontano per comunicare al principe notizie
importanti che non riesce a ricordare, nota come questa inadempienza rischi di minare anche i suoi
affetti, tra cui la fede della madre: «Guardate mia madre. Fin dal mio arrivo ha avuto la fede più
cieca in me e mi considerava con occhi ardenti, quasi che dentro di me fosse nascosto un miracolo e
io l’avrei un giorno dato fuori. Da qualche tempo pure lei è stata presa dal dubbio sebbene non mi
I. Gallinaro, «Ho idea di andarmene prima»: la percezione del tempo nella Montagna incantata e nel Deserto dei
Tartari in «Studi buzzatiani», VI (2001), 6, p. 22.
9
D. Buzzati, I sette messaggeri in I sette messaggeri, Mondadori, Milano, 2011, pp. 9-10.
10
Al contrario, il regista Alex Roi muore prima di sperimentare l’amarezza del ritorno, scoprendo che il teatro non
esiste più. Cfr. D. Buzzati, Il reggimento parte all’alba, Edizioni del Sole 24 Ore, Milano, 2012.
11
D. Buzzati, Gli amici in Il crollo della Baliverna, Mondadori, Milano, 2009, p. 166.
12
D. Buzzati, Il mantello in I sette messaggeri, cit., pp. 95-96.
8
dica nulla […]»13. Nel racconto Le finestre accese L’io narrante, tornando a casa, vede la sua stanza
illuminata:
O forse vegliava la mamma venuta apposta da lontano a mettere in ordine la stanza per il mio ritorno? E lei sentiva i
miei passi che si facevano sempre più vicini e aveva paura di non fare in tempo, perché mancavano al letto le coperte
pesanti per questa fredda stagione, il bicchiere d’acqua sul tavolino e quattro caramelle perché io, trovandole, pensassi
un momento a lei?14.
Al contrario, trova la stanza vuota e nessuno ad aspettarlo. E allora quel “qualcuno” che aspetta
diventa un concetto-limite al quale la mente si volge come a un Altrove mai raggiunto: «In qualche
lontana città che non conosci e dove forse non ti accadrà di andare mai, c’è uno che ti aspetta» 15.
Così:
Quel giorno sarebbe festa e ugualmente il giorno successivo e il giorno dopo ancora, sempre letizia e festa in
continuazione fino al tuo ultimo respiro. Ma tu, uomo, non sai. Continui qui a stentare la vita, ti intristisci, le prime
rughe si sono formate sul volto, ti lasci ormai portare via dagli anni16.
Il distacco dalla casa coincide con la presa di distanza dalla fanciullezza e il mancato ritorno
riguarda anche la dimensione temporale, intesa come perdita dell’ingenuità e della serenità del
passato. Nel Deserto dei Tartari Drogo, infatti, «Fino allora […] era avanzato per la spensierata età
della prima giovinezza»17. Eppure: «Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e
si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno» 18. Nelle
Finestre accese «le scarpe smesse la sera prima buttate vicino al letto, portavano ancora il fango e la
polvere delle ultime ore di giovinezza»19.
Nel Segreto del Bosco Vecchio, il mancato ritorno è soltanto metaforico e simboleggia
l’impossibilità di tornare alla giovinezza. Il genio Bernardi mette in guardia il giovane Benvenuto,
raccontandogli il cambiamento avvenuto in molti ragazzi nel passaggio all’età adulta: «Poi un
giorno sono tornati, di primavera, per riprendere la solita vita. Ma qualche cosa non s’è più
ingranato. Come se il bosco sembrasse loro diverso»20. E ancora, più avanti: «Noi si era là, come al
solito, dietro ai tronchi, e si facevano segni di saluto. Loro ci passavano vicini senza darci neppure
D. Buzzati, Ho dimenticato in Paura alla Scala, Mondadori, Milano, 2011, p. 186.
D. Buzzati, Le finestre accese in In quel preciso momento, Mondadori, Milano, 2011, pp. 4-5.
15
D. Buzzati, Uno ti aspetta in In quel preciso momento, cit., p. 43.
16
ivi, p. 44.
17
D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 40.
18
ivi, p. 41.
19
D. Buzzati, Le finestre accese in In quel preciso momento, cit., p. 5.
20
D. Buzzati, Il segreto del bosco vecchio, Mondadori, Milano, 2013, p. 108.
13
14
un’occhiata. Noi li chiamavamo per nome. Nessuno che si voltasse. Non riuscivano più a vederci,
ecco la ragione, non udivano più le nostre voci»21. Come spiega Mara Formenti:
L’infanzia, alla cui soglia ci fa soffermare Buzzati, è un microcosmo dove regna il meraviglioso e si esprime il
magico. Già ne Il segreto del Bosco Vecchio si realizza e si definisce l’immagine del puer ut poeta: il bambino è un
essere al quale è concesso il privilegio di essere l’amico dei genî del Bosco Vecchio e di incantare gli animali della
foresta22.
Silvia Zangrandi, analizzando il tempo nel Segreto del Bosco Vecchio, rileva la particolarità
della storia nella quale, nonostante le parole del genio Bernardi, non c’è sempre separazione netta
tra adulti e ragazzi e anche gli adulti riescono a percepire un mondo dal quale, solitamente, sono
esclusi:
In questo universo si muovono, scontrandosi e incontrandosi, realtà e fantasia: animali e oggetti parlanti si rivolgono
indifferentemente a bambini e adulti. L’infanzia è vista come età dell’innocenza, dell’ingenuità, della credulità. Però
anche gli adulti a volte vengono posti sullo stesso piano dei bambini e la credulità degli uni non sembra differire dalla
credulità degli altri23.
Il mondo animale conserva per Buzzati la stessa purezza e ingenuità dell’infanzia e, nello stesso
tempo, è in stretto rapporto con il mistero24. Nella Famosa invasione degli orsi in Sicilia il re
Leonzio si accorge del cambiamento degli orsi a causa della stretta vicinanza con gli uomini: «E poi
a Leonzio dispiace vedere gli orsi cambiare a vista d’occhio. Una volta modesti, semplici, pazienti,
bonaccioni; ora superbi, ambiziosi, pieni di invidie e di capricci. Non per niente sono vissuti tredici
anni in mezzo agli uomini»25.
Un tentativo di ritorno all’ingenuità dell’infanzia è da Buzzati descritto nel racconto Il borghese
stregato, nel quale il commerciante Giuseppe Gaspari si immedesima completamente nel gioco dei
ragazzi: «I bambini lo guardavano meravigliati. Curioso: non c’era ombra di compatimento in lui,
come negli altri uomini grandi quando si degnano di giocare. Pareva proprio facesse sul serio» 26.
ibidem.
M. Formenti, L’infanzia nell’universo buzzatiano in «Studi buzzatiani», I, 1996, p. 48. Nello stesso tempo, tuttavia,
l’autrice mette in guardia da una concezione parziale e idealizzata del bambino buzzatiano, nel quale sono compresenti
due spinte opposte: «Da un lato l’età infantile si rivela agli occhi di chi legge come l’età dell’ingenuità , della genuinità,
il periodo d’oro della vita, l’età del cuore, del gioco, in perfetta fusione e sintonia con il mondo, con la natura:
un’infanzia senza tragedia, o meglio un’infanzia che non è preparata ai drammi e alle sconfitte che la vita riserva.
Dall’altro lato, invece, in termini quasi antitetici, c’è la visione di un’infanzia provata, lacerata da opposte spinte,
costretta a crescere in fretta, presto disincantata e quindi non più tale»; ivi, p. 65.
23
S. Zangrandi, «Tra i rami degli abeti i venti principiarono le loro canzoni»: il tempo nel Segreto del Bosco Vecchio
fra dettaglio realistico e trasfigurazione fantastica in «Studi buzzatiani», IX (2004), p. 68.
24
Y. Panafieu, Dino Buzzati: un autoritratto, Mondadori, Milano, 1971, p. 176: «E il rapporto fra animale e mistero,
che cos’è per te? Spesse volte l’animale si presta a incarnare il mistero, perché non sappiamo dentro che cosa c’è. Poi,
in storie favolose, è facile immaginare queste bestie strane, quali il drago, il serpente, l’uccelroc… E qui si ritrova tutta
la favolistica antica che è piena di queste bestie… Non è una cosa nuova».
25
D. Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Mondadori, Milano, 2015, p. 76.
26
D. Buzzati, Il borghese stregato in Paura alla Scala, Mondadori, Milano, 2011, p. 43.
21
22
Buzzati spiega come «Egli era entrato nel mondo non più suo delle favole, oltre il confine che a una
certa stagione della vita non si può impunemente tentare» 27. Si condivide l’idea di Silvia Zangrandi
secondo la quale, nel caso di Giuseppe Gaspari e a differenza degli adulti del Segreto del Bosco
Vecchio, si può parlare di “regressione al mondo infantile”28. Gaspari, infatti, ha oltrepassato un
confine e tenta attraverso il gioco di risalire la china del tempo 29. Si ricordano i pensieri di Drogo
durante il cammino verso la fortezza: «Oh, tornare. Non varcare neppure la soglia della Fortezza e
ridiscendere al piano, alla sua città, alle vecchie abitudini»30. Si può notare come Buzzati utilizzi i
termini “confine” e “soglia” con una doppia valenza semantica di confine fisico e temporale. Si
potrebbe affermare, facendo dialogare il Buzzati del borghese stregato con quello del Deserto dei
Tartari, che, oltrepassata la soglia della Fortezza Bastiani, anche il confine temporale, la stagione
della vita, è per sempre oltrepassata. Nella Giannetto ha rilevato come Il Segreto del Bosco Vecchio
sia ambientato in un luogo-confine: «Il Segreto del Bosco Vecchio […] è ambientato in quel mondo
che delle pareti dolomitiche è la soglia: il bosco. […] Ma anche nel Segreto, proprio nelle pagine
finali, è descritta una breve scalata, di forte valore simbolico, che, per l’ultimo saluto al vento
Matteo, conduce il ragazzo protagonista al di sopra del bosco» 31. Patrizia Dalla Rosa ha sottolineato
l’importanza del confine e la peculiarità di chi lo abita parlando di «ancestrale sentire degli uomini
di confine»32. Un sentire lacerato da due spinte opposte: da una parte l’amore per ciò che è
familiare; dall’altra il desiderio e la percezione dell’Oltre a cui rimanda proprio la «“barriera di
pareti”: la preclusione della vista crea l’immaginario dell’“ignoto”. La Schiara fa presagire
avventura, immensità, vastità: è la vita che attira “oltre”, poiché l’ignoto dello spazio è il
corrispettivo dell’illimitato nel tempo»33. Nei Sette messaggeri dei «sospirati confini»34 sembra non
esserci traccia e l’Io narrante tenta invano di raggiungere il regno: «Non esiste, io sospetto,
frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione,
né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza
accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro»35.
ivi, p. 46.
S. Zangrandi, «Tra i rami degli abeti i venti principiarono le loro canzoni»: il tempo nel Segreto del Bosco Vecchio
fra dettaglio realistico e trasfigurazione fantastica, cit., p. 68.
29
N. Giannetto ha rilevato la dimensione onirica fortemente presente nel racconto: « Invece «Il borghese stregato» non
solo potrebbe benissimo essere letto come un sogno nel suo livello strettamente contenutistico, ma del sogno ha tutte le
caratteristiche anche sul piano espressivo, sul piano delle immagini proposte, della tecnica narrativa, del tipo di
associazioni che vi si attivano. Proprio come nei sogni vi si trovano infrante le barriere fra gioco e realtà, fra metafora e
azione, fra bambini e adulti»; N. Giannetto, Il sudario delle caligini, Olschki, Firenze, 1996, p. 66.
30
D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., pp. 16-17.
31
N. Giannetto, Il sudario delle caligini, cit., p. 145.
32
P. Dalla Rosa, Lassù… laggiù… Il paesaggio veneto nella pagina di Dino Buzzati, Marsilio, Venezia, 2013, p. 54.
33
Ivi, p. 50.
34
D. Buzzati, I sette messaggeri in I sette messaggeri, cit., p. 6.
35
Ibidem. È stato notato come «secondo la metafora del racconto, i messaggeri segreti del nostro cuore non riescono a
tenere il passo tra noi e le sembianze di quel che eravamo, e che rimane una parte viva e fondante della nostra
esistenza»; cfr. F. Gianfranceschi, Introduzione in I sette messaggeri, cit., p. X.
27
28
Molto spesso, varcata la soglia, l’Altrove si configura come Aldilà. Come ha notato Lucia
Bellaspiga:
Gli Aldilà di Buzzati sono spesso inferni, solo eccezionalmente paradisi, ma la maggior parte di essi è un indistinto
oltretomba che non infligge i tradizionali supplizi (fiamme eterne, ecc) né dispensa letizie celesti: è una sorta di limbo
in cui la vera pena è l’assenza di emozioni, praticamente l’ottundimento dell’anima e la negazione di ogni pulsione
verso il trascendente. Niente più mistero, né attese, né Porte da aprire. Questo, per Buzzati, sarebbe il vero inferno, così
come il motore di tutta la sua vita era stata invece la ricerca di un Oltre 36.
Nel Viaggio agli inferni del secolo il confine che separa il regno dei vivi da quello dei morti si
trova sotto la città, negli scavi per la metropolitana di Milano: «L’inferno a Milano? La porta
dell’Ade nella capitale del miracolo economico?»37; e ancora: «“Ma questo è un banalissimo dotto
di controllo per le cloache” esclamò l’ingegnere»38. Varcata la soglia, l’Io narrante ha la possibilità
di guardarsi da fuori, osservando anche se stesso nella moltitudine degli individui, che, oppressi
dalla frenesia e dal lavoro, sprecano gli anni migliori della vita: «Rimpianti di cosa? Della
giovinezza che è finita per caso? Ma lui se ne ride della giovinezza, la giovinezza non gli ha dato
che pene e malinconia. Lui se ne ride ah ah. Lui ha tutto ciò che l’uomo può onestamente
desiderare. No, al tempo, rettifico. Non proprio tutto, anzi qualcosa soltanto. Anzi niente, adesso
che ci pensa»39. Anche in Poema a fumetti il confine che separa questo mondo dall’altro è ancora
una porta qualsiasi40: «Apriti porta graziosa/così piccola così severa/apriti misteriosa/apriti porta
divina/apriti porticina nera/ Perché perché? (voce d’oltretomba)/perché là dietro c’è lei/se c’è lei io
non ho paura/anche se tutti sanno/anche se tutti sanno/che di notte o di giorno/di là non esiste
ritorno»41. Per i morti il ritorno è impossibile, così spiega Eura a Orfi: «- la porta non c’è, da questa
nostra parte»42; e ancora: «la porta che tu dici non esiste» 43. Infine, nel racconto Il sacrilegio il
bambino Domenico, varcata la soglia dell’Aldilà, maturerà in fretta e tornerà su questa terra per
sempre cambiato:
Allora, sebbene fosse un bambino, Domenico intuì vagamente per la prima volta che cosa fosse l’esistenza degli
uomini. Diverso ormai in confronto ai compagni, diverso in confronto a se stesso di ieri, già cominciava dunque a
L. Bellaspiga, “Dio che non esisti ti prego”, Ancora, Milano, 2006, p. 107.
D. Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo in Il colombre, Mondadori, Milano, 2013, p. 256.
38
ivi, p. 259.
39
ivi, p. 261.
40
Itala Tambasco ha rilevato come altro importante elemento di separazione nella narrativa buzzatiana le finestre: «La
finestra, frontiera tra luogo chiuso e mondo di fuori, delimita pertanto l’opposizione tra Inferno e Paradiso, quest’ultimo
abitato dalla gente sana del mondo “normale”. Oltre la finestra lo sguardo porta lontano, oltre l’ìnsoddisfazione
domestica e l’inautenticità della vita, talvolta oltre la propria malattia ed immobilità»; I. Tambasco, Oltre le finestre:
L’Inferno di Buzzati in «Mosaico italiano», XIII (2016), 145, p. 34.
41
D. Buzzati, Poema a fumetti, Mondadori, Milano, 2014, p. 53.
42
ivi, p. 202.
43
ivi, p. 204.
36
37
conoscere le scadenze terribili della vita […]. Il terrore del sacrilegio era nel ragazzo del tutto scomparso: gli restava
invece quell’arido gusto della vita che ricominciava, come presentimento di lunga fatica 44.
I personaggi di Buzzati, dunque, varcano soglie geografiche e metaforiche. Oltrepassato il
confine della casa, della fanciullezza e di ciò che è familiare, arricchiti di nuove esperienze,
continuano tuttavia a guardarsi indietro consapevoli di non poter mai del tutto tornare.
Nell’Autoritratto Panafieu chiede a Buzzati: «Pensi che l’uomo conservi parte della sua ingenuità
giovanile fino all’istante della morte? Un po’ si. Dipende dai temperamenti. E la tua ingenuità
giovanile, l’hai conservata, tu? Oh, probabilmente l’ho persa in gran parte. Ma una certa credulità,
che si apparenta all’ingenuità, e anzi, che ne fa parte, io credo di averla conservata…» 45 È allora
possibile rilevare una certa interdipendenza tra autobiografia e opera letteraria nel caso di Buzzati,
come sostiene anche Stefano Lazzarin, il quale, tuttavia, precisa come, più importante
dell’autobiografia, siano le fonti letterarie:
Come nella storia del serpente che si morde la coda, insomma, i libri rinviano al vissuto, e questo ancora ai libri, in
un processo che si riproduce eternamente e nel quale le nozioni stesse di inizio e fine tendono a sfumare. Questa
ambivalenza fondamentale caratterizza, credo, tutta l’opera buzzatiana: solo l’esistenza di costanti biografiche dalla
forza quasi ossessiva può giustificare l’incessante ricorrere di certe “immagini del mondo” […] all’interno dei testi; ma
solo l’intervento di un filtro, rappresentato dalla letteratura precedente, consente che quelle immagini possano prendere
forma, che a quelle ossessioni sia data voce 46.
Il ritorno potrebbe essere inserito tra i temi esistenziali che, come spiega Lazzarin, penetrando
all’interno della tradizione del fantastico, nello stesso tempo la scardinano 47. Anche Silvia
Zangrandi sottolinea come il fantastico buzzatiano48 sia piegato a una dimensione quotidiana e come
dunque, ne sia contaminato49.
Ci si potrebbe chiedere se nell’opera di Buzzati un diverso modo di tornare, magari per strade
secondarie o metaforiche, sia comunque possibile. Vengono in mente le pagine finali del Deserto
dei Tartari, l’immagine di Drogo disteso sul letto alle prese con la morte. Benché stanco e in un
certo senso vinto, si vede Drogo sorridere: «Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si
assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una
D. Buzzati, Il sacrilegio in I sette messaggeri, cit., pp. 188-189.
Y. Panafieu, Dino Buzzati: un autoritratto, cit., p. 168.
46
S. Lazzarin, Il Buzzati “secondo”. Saggio sui fattori di letterarietà nell’opera buzzatiana, Vecchiarelli, Manziana,
2008, p. 82.
47
ivi, pp. 100-101.
48
Per un’analisi del fantastico in Buzzati cfr. M. Reza, Oltre il confine: la dilatazione dei paradigmi di realtà nei
racconti fantastici di Dino Buzzati in «Italianistica», XLIV (2015), 3.
49
Scrive riguardo al Segreto del Bosco Vecchio: «Ne Il Segreto del Bosco Vecchio Buzzati ha colto dal codice
linguistico a sua disposizione gli elementi lessicali e sintattici atti a esprimere una visione del fantastico legata al
quotidiano e al reale nei suoi multiformi aspetti, trascrivendo nell’immaginario letterario le sue ansie esistenziali»; S.
Zangrandi, «Tra i rami degli abeti i venti principiarono le loro canzoni»: il tempo nel Segreto del Bosco Vecchio fra
dettaglio realistico e trasfigurazione fantastica, cit., p. 69.
44
45
brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda,
sorride»50. Sorridendo in punto di morte, riprende in mano le redini di una vita che, proprio per
mezzo di quel gesto, non è più dispersione ma compimento, ritorno51.
In Un amore Antonio Dorigo si perde a causa dell’amore per Laide. Con un’espressione felice,
Buzzati parla di «atroce stillicidio dei minuti»52 che scandiscono la vita del protagonista. Si vuole
evidenziare come l’attesa vissuta da Dorigo in Un amore sia in un certo senso diversa dall’attesa di
Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari. Nel primo caso, si tratta di un’attesa nevrotica che tuttavia,
proprio in quanto tale, colora le superfici delle cose attorno, rendendole vive:
E le ore non passano mai, continuamente guarda l’orologio e non è una lentezza di noia, è una lentezza rabbiosa
come se quel frenetico precipitare di tutte le cose che lo accompagna da mesi facesse marcia indietro e sotto i minuti
che non passano mai ci fosse un rotolio compatto di ruote che vanno in senso inverso uncinando il tempo che ristagni,
tutto perché lui possa impazzire53.
Al contrario, nel caso del Deserto dei Tartari, l’attesa è lenta e sembra rendere l’atmosfera
rarefatta, quasi irreale, creando un senso di torpore in coloro che attendono: «“Mi sembra ieri che
sono arrivato alla Fortezza” diceva Drogo, ed era proprio così. Sembrava ieri, eppure il tempo si era
consumato lo stesso con il suo immobile ritmo, identico per tutti gli uomini, né più lento per chi è
più felice né più veloce per gli sventurati» 54. Riguardo la percezione temporale nel Deserto dei
Tartari, è illuminante l’analisi di Ilaria Gallinaro: «il tempo, sembra affermare Buzzati, passa solo
quando noi lo percepiamo, quando eventi importanti ne scuotono la monotonia»55.
Come Drogo, anche Dorigo sul finale di Un amore è sdraiato sul letto e mentre Laide dorme si
sente pervaso da un senso di tranquillità dopo i numerosi affanni:
Ecco la spiegazione, sono finiti l’affanno la gelosia la disperazione ma insieme si è esaurita la tempesta. Furore
rabbia frenesia galoppo fiammeggia mento vita era, giovinezza era anche, e adesso esattamente questa notte nel preciso
momento che lei ha parlato, che lei è uscita un attimo dal sonno per parlare, nel momento preciso la giovinezza è
terminata l’ultimo lembo l’ultima striscia della giovinezza stranamente prolungatasi senza volerlo fino ai
cinquant’anni56.
D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 202.
J. Lacroix interpreta il sorriso di Drogo come manifestazione del suo segreto: «Molti, per non dir tutti, si portano via
nella tomba un segreto, il loro segreto, illustrato dal loro sorriso (Drogo, Gaspari, Leonzio), perché le loro sono morti
utopistiche, al di là della rigidità cadaverica: occhi aperti sul vuoto di Drogo, fissi nell’attesa, corpo irrigidito dal gelo
dell’alta montagna di Angustina, ma in sintonia con l’immobilità perenne, imperterrita della montagna». Cfr. J. Lacroix,
Il racconto dell’altrove in Il pianeta Buzzati: atti del Convegno internazionale Feltre e Belluno, 12-15 ottobre 1989, a
cura di Nella Giannetto, Mondadori, Milano, 1992, p. 210.
52
D. Buzzati, Un amore, Mondadori, Milano, 2016, p. 92.
53
ivi, p. 193.
54
D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 55.
55
I. Gallinaro, «Ho idea di andarmene prima»: la percezione del tempo nella Montagna incantata e nel Deserto dei
Tartari, cit., p. 25.
56
D. Buzzati, Un amore, cit., p. 257.
50
51
Dorigo ha scoperto le bugie e i tradimenti di Laide, ma, osservandola, la coglie in una semplicità
che scioglie le difficoltà del rapporto. Drogo sta per finire i suoi giorni in un albergo qualunque, ma
senza il senso di smarrimento vissuto alla Fortezza. Entrambi i protagonisti, dunque, senza tornare
indietro nel tempo, sembrano comunque “tornare”, sono nuovamente presenti a se stessi. Torna –
sorridendo – persino Planetta ucciso durante l’assalto al convoglio, ricongiungendosi agli antichi
compagni in un aldilà che in realtà è di qua: «Planetta si toccò la falda del cappello, con un gesto
molto confidenziale ma pieno di bonomia, increspando le labbra a un sorriso» 57; e il brigante se ne
andò con «un’andatura da festa quale hanno solo gli uomini sui vent’anni quando sono felici»58.
Soprattutto nei Miracoli di Val Morel il ritorno può dirsi compiuto poiché, come ha rilevato
Cristiana Lardo, qui il ruolo della memoria è centrale ed è proprio la memoria a rendere possibile un
ricongiungimento, un ritorno altrimenti impossibile:
I Miracoli di Val Morel appaiono allora come la trascrizione in immagini e poesia di «posti da salutare». Luoghi
della vita e luoghi dell’anima, mostri, animali, apparizioni, incubi, situazioni di sessant’anni di vita e di lavoro
trasfigurati dalla fantasia e da quello «spirito del tempo» «scherzoso» che riveste di favola e di letizia le istanze di una
vita59.
Buzzati nella Balena Volante, dipingendo e descrivendo con toni lieti 60 l’intervento protettivo di
Santa Rita, salva uno dei suoi «luoghi dell’anima»: la casa nel bellunese. C’è poi Il labirinto nel
quale si è perso il conte Gualtiero Santi, anche lui salvato dalla santa che gli indica la via d’uscita.
Infine, nella Spiegazione, L’Io narrante racconta come, tornato nel paese di Valmorel, non sia
riuscito più a trovare né il sentiero verso il santuario né Toni Della Santa. Si parla dunque di sentieri
una volta percorsi eppure impossibile a ritrovarsi nel senso di una ri-presentazione. Allora non resta
che il ricordo e l’evocazione di quel lontano vissuto:
Il paese di Valmorel esisteva ancora, tale e quale. Esistevano i colli, le ripe scoscese, le vecchie casere, le modeste
rupi affioranti, il Col Visentin, esisteva ancora intatto l’incanto del tempo dei tempi.
Ma il sentiero che conduceva al “santuario” non esisteva più61.
Nonostante l’impossibilità di ritrovare il sentiero, l’Io narrante sembra consapevole della forza
evocativa di parole e immagini che, per il solo fatto di esistere, rendono, se non certo, almeno
D. Buzzati, L’assalto al grande convoglio in I sette messaggeri, cit., p. 22.
Ibidem.
59
C. Lardo, «Ci vorrà naturalmente una guida». Memoria e dialoghi nell’opera di Dino Buzzati, Roma, Edizioni
Studium, 2014, p. 21.
60
È stato già notato come «I Miracoli di Val Morel è anche un’opera allegra, ironica, che ha come orizzonte ultimo un
senso di letizia: passando attraverso l’incubo, attraverso immagini crude e volutamente stranianti»; ivi, p. 13. Si
rimanda anche a C. Lardo, Comico, parodia, ironia: i toni lieti di Dino Buzzati in «Mosaico italiano», pp. 4-9.
61
D. Buzzati, I miracoli di Val Morel, Mondadori, Milano, 2012, p. 11.
57
58
possibile qualsiasi ritorno: «Dove sei, vecchio Toni Della Santa? Sei mai esistito? La mia pittura è
quello che è. Però sta un fatto. Nessun altro al mondo avrebbe potuto raccontarvi queste cose»62.
62
ivi, p. 12.
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