LA CHIESA DI FRONTE ALLE PERSONE DIVORZIATE E RISPOSATE
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LA CHIESA DI FRONTE ALLE PERSONE DIVORZIATE E RISPOSATE
LA CHIESA DI FRONTE ALLE PERSONE DIVORZIATE E RISPOSATE 2. UNA MEDICINA AMARA E UNA PRASSI PROBLEMATICA E' noto che alle persone divorziate e risposate civilmente la Chiesa impedisce di accostarsi ai sacramenti1. Si tratta di un provvedimento molto duro da sopportare, soprattutto per chi sta facendo un cammino di fede. Infatti, molte volte, il fallimento del primo matrimonio, celebrato con una certa immaturità, senza molta consapevolezza della sua natura e dei suoi impegni, porta l'uomo a riflettere, a prender coscienza, spesso dolorosa, del proprio limite, a vivere con umiltà e trepidazione il nuovo rapporto, ad aprirsi al pensiero di Dio e alla richiesta del suo aiuto. In queste persone cresce, giustamente, il desiderio dei sacramenti, sia della riconciliazione, sia soprattutto della comunione al corpo e al sangue del Signore. Le loro disposizioni, di fede e di umiltà, appaiono spesso più profonde e consapevoli di quelle di altri che si trovano in situazioni "regolari". Qual è dunque il senso di questo provvedimento della Chiesa? La risposta è complessa, perchè complesse e varie sono le situazioni alle quali esso si applica. Prendiamo, ad esempio, la situazione di una coppia che vive la vita della parrocchia, che ha una vita di preghiera e di impegno cristiano. Purtroppo, le crisi possono capitare anche in questi casi. A queste persone, si applica bene ciò che dice S. Paolo: "Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito - e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito - e il marito non ripudi la moglie" (l Cor 7,10-11). La posizione severa della Chiesa intende far sì che la persona si fermi, rientri in se stessa, rifletta. Purtroppo, tante volte, l'anima diventa sorda, prigioniera dei propri tentativi di giustificarsi, non disponibile a un confronto. Ricordare la santità del matrimonio e la serietà degli impegni presi è, in questi casi, un dovere della Chiesa. Un altro caso doloroso è quello di chi viene abbandonato e si trova di fronte a una vita di solitudine, magari con la responsabilità di figli ancora piccoli. Può essere (questa possibilità non va esclusa) che il Signore chiami a una fedeltà eroica, a una testimonianza straordinaria, a rimanere fedele anche se l'altro non lo è, a credere, oltre ogni evidenza, a quel legame che l'altro rifiuta. Ci sono persone che danno questa testimonianza e sono davvero un' immagine di Dio, secondo quanto leggiamo nel profeta Osea (cap.1-3): a loro deve andare la gratitudine e la prossimità affettuosa della comunità cristiana. 1 Questa norma generale della Chiesa vale per i divorziati risposati, non per i coniugi separati e neppure per coloro che hanno subito il divorzio e non si sono risposati. La maggior parte delle situazioni è però diversa. Si tratta di percorsi che avvengono fuori della vita di una comunità ecclesiale; l'aspetto più penoso è la solitudine, nella quale vengono prese decisioni così importanti. C'è un paradosso nel fatto che ci si sposi in chiesa, chiedendo quindi al Signore di essere Lui il fondamento della nostra unione e chiedendo la preghiera e l'accompagnamento della Chiesa; ma, celebrato il matrimonio, non si frequenta più la chiesa, non ci si accosta ai sacramenti, non si prega ... Come è possibile resistere, nel mondo attuale, senza un aiuto, con le sole proprie forze? Ancora: pur frequentando più o meno saltuariamente la chiesa, non ci si confessa mai. La vita comune richiede una grande capacità di mettersi in discussione, di vedere la trave che è nel proprio occhio anzichè la pagliuzza nell'occhio altrui. Anche la capacità di perdonare o, più semplicemente, di rinunciare a puntigli e rivendicazioni, nasce dall' esperienza del perdono ricevuto, dall' incontro con la passione di Gesù, che riconosciamo avvenuta per noi. Se non ci si confessa mai, si prende facilmente l'abitudine di accusare gli altri, senza mai accusare se stessi. Per tutti i cristiani, ma soprattutto per gli sposi, vale quello che S. Paolo dice con tanta concretezza: "Rivestitevi come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza;sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi "(Col 3,12-13). Senza questa disponibilità a ''portare i pesi gli uni degli altri" (GaI6,2), non c'è da sorprendersi se un matrimonio fallisce. In questa condizione, che cosa vorrebbe dire accostarsi ai sacramenti, dopo aver contratto un nuovo legame? Non sarebbe soltanto l'espressione di quell'atteggiamento "fai da te", sul quale anche recentemente il Papa ha richiamato l'attenzione. Credo che vorrebbe dire ancora una volta fuggire da un onesto esame di se stessi, da una rivisitazione della propria vita, che non possono essere fatti se non confrontando si con il Signore, con l'aiuto della Chiesa. Questa è, a mio parere, la ragione della norma generale che impedisce ai divorziati risposati di accostarsi ai sacramenti. E' anzitutto l'invito a fermarsi, a guardare dentro di sè, a essere sinceri con se stessi e con Dio. In altre parole, è l'invito a intraprendere un cammino di conversione, prendendo atto di una storia dolorosa, dove l'errore capitale è stato quello di non chiedere l'aiuto della Chiesa e dei fratelli nella fede. E' invece escluso il giudizio. Dicono bene i vescovi italiani: I discepoli del Signore, nel qualificare la situazione dei divorziati risposati come disordinata, non giudicano l'intimo delle coscienze, dove solo Dio vede e giudica: i credenti, sentendo viva la responsabilità per i tanti doni ricevuti da Dio, lascino volentieri alla saggezza e all'amore del Signore il giudizio sulla responsabilità personale di quanti sono travolti da non facili e disordinate situazioni matrimoniali, pur non potendo riconoscere come legittima la loro posizione"2. Dunque, il fermo, imposto alla partecipazione ai sacramenti, vorrebbe essere l'invito a un cammino comune, alla ricerca della volontà di Dio, a chiedere una cura materna e attenta da parte della Chiesa. Purtroppo, oggi non è così. I divorziati risposati sentono, a torto o a ragione, un giudizio pesante su di loro; l'esclusione dai sacramenti viene vissuta come pena e difficilmente essi trovano il modo di essere accolti e di sentirsi dentro alla Chiesa, oggetto di una cura maggiore, proprio perchè maggiore è il bisogno. Questa sensazione è aggravata da un altro fatto. Si sente parlare sempre più spesso delle cause di nullità matrimoniale. Il fascino della parola strana porta a parlare di "Sacra Rota". Ma questa, che è il tribunale supremo della Chiesa Romana, una specie di corte di cassazione, non sempre interviene nelle cause matrimoniali, che, il più delle volte, si esauriscono tra il Tribunale Ecclesiastico di Modena (in prima istanza) e quello di Bologna (in istanza d'appello). La nullità matrimoniale è cosa ben diversa dal divorzio. Il divorzio è lo scioglimento di un vincolo valido; la nullità matrimoniale è il riconoscimento che il vincolo non esiste e non è mai esistito, per un difetto originario. Le cause di nullità sono fondamentalmente tre: la mancanza di consapevolezza o di libertà nel consenso; l'esclusione del carattere permanente del vincolo; la volontà di non generare figli. Il difetto, che rende invalido il matrimonio anche se è presente in uno solo dei coniugi, deve essere accertato con un vero e proprio processo, che garantisca ambedue le parti e difenda il vincolo matrimoniale da bugie o accordi truffaldini. Si tratta, in sè, di un istituto utile e necessario. Certi matrimoni non sarebbero dovuti essere celebrati: penso ai matrimoni dei tossicodipendenti, che non hanno la maturità per compiere questo passo. Penso ad altre situazioni che ho conosciuto e per alcune delle quali ho testimoniato. E' importante riconoscere che un legame non è mai esistito e che non ha senso rimanervi vincolati. Di fatto, però, oggi stiamo assistendo a degli abusi. Il tribunale ecclesiastico è messo di fronte a dichiarazioni fasulle, a veri tentativi di inganno. I "libelli", cioè le motivazioni, presentati dagli avvocati, sono spesso un insieme di cattiverie, di veleni gettati sull'altra parte. 2 Commissioni episcopali per la famiglia e per la Dottrina della fede: La pastorale dei divorziati risposati...., (26 aprile 1979) n.18. Quello che dovrebbe essere un momento importante, l'occasione per fare il punto sulla propria vita, il riconoscimento dei propri errori e del dolore proprio e altrui, diventa invece l'occasione per aggredire e talvolta per privare dei suoi diritti una persona che dovrebbe comunque essere rispettata. E' dunque urgente riportare tutta questa materia, comprese le cause di nullità matrimoniale, nella prospettiva pastorale. La Chiesa ha il compito di accompagnare le persone all'incontro con il Signore, come Giovanni Battista, che indica l'Agnello di Dio. Quando una persona soffre per il fallimento del proprio matrimonio, non ha bisogno di giudici, ma di accoglienza e di accompagnamento. Ciascuno dei due deve sottomettersi al giudizio di Dio, certamente. Accompagnare una persona vuoI dire anche aiutarla a dare un giudizio onesto e sincero dei propri comportamenti. Ma il giudizio di Dio è un giudizio di misericordia, che non vuole la morte, ma la conversione e la vita del peccatore. Se dunque il Signore vuole che noi riconosciamo i nostri sbagli e mancanze, lo vuole perchè possiamo vedere meglio la via che Egli sempre ci apre davanti. La prossima riflessione sarà appunto su come si possa immaginare un percorso di accompagnamento pastorale, nel quale la Chiesa si metta a fianco di coloro che si vogliono mettere sotto il misericordioso giudizio di Dio.