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jazzColours -- email-zine di musica jazz
editoriale Chi, fra gli appassionati di jazz in Italia, almeno una volta nella vita non ha sfogliato Musica Jazz, il mensile fondato nel 1945 da Gian Carlo Testoni, o non ha dato una sbirciata al programma di Umbria Jazz, vagheggiando di poter organizzare le proprie vacanze e gli impegni familiari per assistere magari ad uno soltanto dei suoi concerti? Due storiche realtà — oggi comunque non le sole — che, combinazione, quest’anno tagliano entrambe un importante traguardo: Umbria Jazz si appresta a celebrare, il prossimo luglio, l’edizione numero 40, mentre Musica Jazz ha pubblicato, lo scorso maggio, il 750° numero della sua carriera. Nel nostro piccolo, questo mese di giugno dedichiamo la copertina a Leszek Możdżer, pianista polacco fra i pochi in Europa in grado di far convivere perfettamente musica classica ed improvvisazione. Si prosegue con una sassofonista esile ma di grande spessore, la baritonista francese Céline Bonacina, che ha da poco pubblicato un atteso album alla testa del suo consueto trio, questa volta allargato a nuove sonorità. Quindi, ancora per le interviste musicali, un’interessante chiacchierata con Nate Wooley, uno dei trombettisti più creativi e di talento della scena improvvisativa americana, in occasione della recente uscita in duo con il batterista Paul Lytton. Le pagine del Jazz&Arts sono questo mese colorate dalle tinte brasiliane di Lindonês Silveira, pittore che ama molto mischiare tecniche e stili. Highlights Per quanto riguarda le recensioni cover discografiche, si segnalano, in leszek możdżer stati irriflessivi della mente apertura, l’ultimo disco del Ma-Do Antonio Terzo della pianista nipponica Satoko Spotlight/1 Fujii, quartetto colpito dalla diparcéline Bonacina jazz a cuore aperto tita del contrabbassista Norikatsu Marco Maimeri Koreyasu, e, in evidenza, Ben Goldberg, con un inedito ed articolato Spotlight/2 quintetto, e Samuel Blaser in un nate Wooley logopedia della tromba free quartetto con Marc Ducret, chiuAlain Drouot dendo in bellezza con il ritorno su jazz & arts disco di Barry Altschul, in trio con lindonês Silveira incanto brasileiro Joe Fonda e Jon Irabagon. E nel Marco Maimeri mezzo ancora tanto da scoprire. recensioni Cd In chiusura di editoriale, desidero Focus on Satoko Fujii ma-do TImE STAndS STIll ricordare Mulgrew Miller, un pianiI 5 dischi imprescindibili di médéric collignon sta del quale ci sarebbe piaciuto occuparci, prima o poi, ma non ce Black & White n’è stato il tempo perché, come diBarry Altschul ThE 3dom FAcTor ceva John Lennon, la vita è quello Enzo Boddi e Antonio Terzo che ci capita mentre siamo impeEventuali gnati a fare altri piani. sommario giugno ’13 4 8 14 19 23 26 33 34 Antonio Terzo JazzColo[u]rs | giugno ’13 3 highlights united states canada japan britain europe The Bridge, un ponte fra jazz americano e francese di Alain Drouot Ci hanno messo tempo i Francesi a capire come creare delle opportunità negli Stati Uniti per i loro musicisti. Si era venuto a determinare un ghetto a causa dei diversi meccanismi di finanziamento governativo che ignoravano la necessità, imprescindibile per gli artisti, di avere una piattaforma che consentisse loro degli scambi con le rispettive controparti di altri paesi. Negli ultimi dieci anni, sono stati fatti parecchi sforzi per correggere la situazione. C’è adesso un programma, il FrenchAmerican Jazz Exchange (FAJE), che fornisce modesti finanziamenti per progetti che includano musicisti sia americani che francesi. Più ambizioso era il festival Minnesota-sur-Seine, creazione di Jean Rochard, produttore outsider che aveva provato ad alimentare delle relazioni fra jazzisti francesi e musicisti provenienti dall’area di Minneapolis-St. Paul. I musicisti avevano l’opportunità di restare per gran parte della durata del festival in modo da stringere i legami appena instaurati ed immergersi nella cultura e nell’ambiente del luogo. Chiamato The Bridge, il nuovo progetto lanciato dall’etnomusicologo e scrittore Alexandre Pierrepont è in qualche misura modellato sul concetto di Rochard. Come per il Minnesota-sur-Seine, i musicisti francesi provenienti da ogni parte del paese possono socializzare con gli artisti di una specifica città americana — in questo caso Chicago — e hanno l’opportunità di soggiornarvi per alcuni giorni in modo da portare avanti la propria esperienza. Per altro verso, i musicisti cominciano a viaggiare in entrambe le direzioni. Fino ad adesso è stato completato un primo programma di scambi. All’inizio di quest’anno, la band Tortoise è andata a Parigi per suonare con il trombettista Aymeric Avice, il chitarrista Julien Desprez 4 JazzColo[u]rs | giugno ’13 foto Edward Perraud e l’ancista Antonin-Tri Hoang. Il 23 febbraio si sono esibiti per la chiusura del Sons d’Hiver Festival. Alla fine di aprile il batterista Edward Perraud ed il sassofonista Stéphane Payen hanno ricambiato la visita andando a Chicago per incontrare il contraltista Fred Jackson ed il batterista Frank Rosaly. Fra i festeggiamenti che Pierrepont aveva programmato per loro, una masterclass, delle jam session ed un concerto ufficiale di apertura al Chicago Cultural Center, che ha raccolto il doppio di finanziamenti. Il primo esperimento americano inaspettatamente ha gettato una luce su una questione che da tempo affligge la scena jazz di Chicago. Oltre a mettere insieme musicisti dei due paesi, il progetto potrebbe anche aiutare a fare da ponte sulle divisioni esistenti a Chicago fra musicisti bianchi e neri. Infatti, Jackson e Rosaly non avevano mai suonato insieme prima della masterclass alla Roosevelt University. Avendo scritto la propria tesi di dottorato sull’Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM), non sorprende che PIerre- pont abbia richiesto ad una congrua flottiglia di musicisti neri, soprattutto membri dell’AACM, di voler far parte della sua iniziativa. L’obiettivo di The Bridge è quello di realizzare due scambi all’anno con due gruppi di musicisti americani che vadano in Francia e due team di omologhi francesi che si spostino in direzione opposta — tutti presi da due pool di circa 30 artisti ciascuno. I prossimi insediamenti sono programmati in Francia per ottobre, con Joëlle Léandre, Jean-Luc Cappozzo, Bernard Santacruz, Michael Zerang e Douglas Ewart, e a Chicago in novembre, in coincidenza con l’Umbrella Music Festival, dove saranno coinvolti Benjamin Sanz, Aymeric Avice, Joshua Abrams, Jason Adasiewicz e Avreeayl Ra. Se tutto andrà secondo i piani, il progetto si svilupperà in 7 anni e possibilmente verrà condotto di nuovo nel 2020. Se avrà successo, sarà interessante vedere se il modello saprà ispirare altri paesi a seguirne l’esempio con analoghi esperimenti. Potrebbe essere l’Italia, la prossima? highlightsss Ottawa, addio alle Jazz Series di John Geggie di Marc Jessiteil Gli Ottawani amanti del jazz hanno dovuto organizzarsi per tempo per poter assistere, l’ultimo sabato di maggio, al concerto di Tara Davidson, William Carn, Tim Bedner e Jim Doxas ospitato dal contrabbassista John Geggie per la sua Jazz Series al National Arts Centre (NAC): la concomitanza dell’Ottawa Race Marathon, infatti, ha reso praticamente impossibile non solo raggiungere il centro cittadino ma perfino trovare un parcheggio a distanza praticabile. Ancora più difficile, però, è stato trovare i biglietti per lo spettacolo, l’ultimo in programma. E non soltanto per questa stagione. È infatti palpabile una certa irritazione nella comunità jazzistica di Ottawa alla notizia che il NAC ha deciso di terminare la programmazione del John Geggie Jazz Series at the NAC’s Fourth Stage, il ciclo di concerti jazz che da oltre dodici anni si sono tenuti al Fourth Stage del centro sotto la supervisione di John Geggie. Creato negli anni ’60 dal Parlamento canadese, il National Arts Centre è divenuto l’unico centro d’arte multidisciplinare e bilingue del Nordamerica, nonché uno dei più grandi del mondo: un’importante vetrina per tutte le arti dal vivo, in cui vengono proposte opere teatrali, balletti, spettacoli di arte visiva e mediale, ed altre live performance. E naturalmente la musica live è fra i settori di maggiore interesse del NAC, occupando una posizione di assoluto rilievo anche nello sviluppo culturale delle nuove generazioni. Fra i tanti appuntamenti musicali, nella comunità jazz di Ottawa molto successo hanno riscosso proprio quelli delle Geggie Jazz Series. Oltre ad essere infatti un contrabbassista molto richiesto, John Geggie si è occupato a lungo delle jam session affiancate all’Ottawa Jazz Festival, attività che gli ha consentito di sviluppare una fitta serie di contatti e relazioni con numerosi musicisti, rendendolo senz’altro particolarmente qualificato per la direzione artistica di quella serie jazz. Il suo programma ha portato in scena la vera essenza del jazz, invitando jazzisti canadesi, statunitensi o europei non necessariamente per promuovere il loro ultimo disco ma solo per improvvisare L’ingresso del Fourth Stage, sede delle John Geggie Jazz Series insieme a Geggie delle estemporanee jam session. Impressionante l’elenco dei musicisti che in questi dodici anni Geggie è stato in grado di coinvolgere: Donny McCaslin, Edward Simon, Jon Christensen, Rez Abbasi, Craig Taborn, Gary Versace, Ron Miles, Ted Nash, David Occhipinti, Billy Hart, Matt Wilson, Ben Monder, Vic Juris, Marc Copland, John Taylor, John Fraboni, Nancy Walker, Nick Fraser, Jim Doxas e tantissimi altri ancora. Qualunque grande città a vocazione culturale ed aspirazioni internazionali farebbe di tutto per avere un ciclo jazz di questo livello e per di più curato da un jazzista di vaglia come John Geggie: proprio questo è il motivo della forte delusione dei jazzofili ottawani. Oltretutto, ancora non è ben chiaro cosa andrà a rimpiazzarlo. Per la verità, già nell’ultimo anno gli appuntamenti delle Geggie Series erano stati ridotti in modo significativo. La NAC, infatti, si è fatta carico di ospitare solo tre concerti ed ha anche convenuto che il programma dovesse accogliere soltanto musicisti canadesi. Di contro, lo spazio dedicato al jazz è perfino aumentato, ma anziché la musica strumentale ed improvvisata proposta dal contrabbassista, ha posto maggiore attenzione al jazz vocale, certamente più orecchiabile. Tuttavia, nulla trapela sui dettagli. Secondo quanto affermato dalla portavoce del NAC, Marie-Chantale Labbe-Jacques, la stessa produttrice Simone Deneau si sta occupando di scritturare gli artisti per la nuova stagione, puntando su tre criteri di base: i musicisti dovranno essere canadesi, attuali e di rilievo. Probabilmente sono proprio questi nuovi criteri ad aver decretato la chiusura del programma di Geggie. Ed in mancanza di ulteriori informazioni, gli appassionati di jazz iniziano a gridare al boicottaggio. Perché, poi, eliminare una serie di successo — ogni concerto curato da John Geggie era infatti molto seguito — resta un mistero. In una recente intervista, lo stesso contrabbassista ringrazia la NAC nelle persone Peter Hernndorf, Michel Dozois e Simone Deneau per avergli consentito di occuparsi del programma per 12 anni. E leggendo fra le righe, il suo unico rammarico sembra riguardare il fatto che una serie realizzata con passione per così tanto tempo, portata ad un ottimo livello sotto ogni punto di vista e che ha saputo creare anche un pubblico fidelizzato, alla fine non raccolga i frutti di quanto seminato, magari sotto una nuova direzione artistica, e venga semplicemente chiusa. Come dargli torto? JazzColo[u]rs | giugno ’13 5 highlights La BuJazzO compie 25 anni di Andrew Rigmore Tutto è cominciato 25 anni fa, nel gennaio del 1988, allorquando l’appena costituita BundesJazzOrchester, l’Orchestra Jazz Giovanile della Repubblica Federale Tedesca, dava il suo primissimo concerto pubblico all’auditorium dell’Ernst-Moritz-Arndt-Gymnasium di Bonn. Il giorno successivo, il 6 gennaio, avrebbe suonato, guidata dal suo fondatore e primo direttore, il trombonista Peter Herbolzheimer, alla Cancelleria federale, alla presenza di Helmut Kohl. Da allora l’Orchestra ha formato 750 musicisti, ha tenuto 440 concerti, svolto 50 stage e più di 20 tournée in ogni parte del mondo, dando prova di essere un progetto unico, sostenibile e di successo. Fortemente voluta dal cancelliere Kohl, la BundesJazzOrchester oggi è supportata dal Ministero federale per la famiglia, gli anziani, le donne ed i giovani, dalla Westdeutscher Rundfun, ossia la celebre radio WDR della Germania Occidentale, dalla GVL — società per la tutela del diritto d’autore corrispondente grosso modo alla SIAE italiana — e dalla multinazionale automobilistica Daimler AG. Tra i suoi fondatori, dall’alto della sua esperienza di jazzista ma pure come figura di spicco della scena jazzistica tedesca, Herbolzheimer fu fondamentale anche nella selezione, nell’arrangiamento e nella produzione del repertorio, costituito principalmente da jazz standards — Charlie Parker, Clifford Brown, Dave Brubeck, Benny Goodman, Miles Davis, Duke Ellington, Thad Jones, Michael Brecker, Thelonious Monk — nonché da composizioni originali di Herbolzheimer e da pezzi scritti dagli stessi membri della big band. Herbolzheimer diresse l’Orchester, familiarmente soprannominata BuJazzO, dai suoi inizi fino al 2006, prima di venire chiamato alla direzione artistica e musicale della European Jazz Band. Successivamente, e fino a metà del 2011, i direttori artistici si sono avvicendati ogni 6 mesi, coinvolgendo figure di spicco come Marko Lackner, Bill Dobbins, Ed Partyka, Mike Herting, Steffen Schorn, Marko Lackner e Mary Baptist. Dal 2011 la BuJazzO ha due direttori artistici, ossia Niels Klein ed il direttore della BBC Big Band, Jiggs Whigham. 6 JazzColo[u]rs | giugno ’13 La Bundes Jazz Orchester diretta da Niels Klein - foto Sophie Krische Per accedere a quest’orchestra giovanile si segue un programma analogo a quelli previsti per le orchestre giovanili di musica classica: i candidati, che di solito provengono già da istituti musicali, tedeschi o internazionali, devono avere un’età non superiore ai 22 anni e possono restare a suonare nella BuJazzO fino a quando non ne abbiano compiuto 25. Si lavora in formazioni variabili che possono andare da 17 a 24 elementi, con classi di insegnamento strumentale, individuali o di gruppo, oppure in seno all’ensemble vocale. Anche le stesse rette annuali provenienti dalle iscrizioni sono destinate a finanziare la BuJazzO, la quale, infatti, come orchestra di formazione, assieme ad un vero e proprio programma di studi articolato per fasi, prevede il rilascio di un attestato finale. Dal canto loro, Niels Klein e Jiggs Whigham non si limitano alla sola direzione orchestrale, ma sono ampiamente coinvolti nei corsi di insegnamento, insieme ai direttori ospiti designati per taluni progetti particolari, fra i quali Ansgar Striepens, che ha condotto la collaborazione della BuJazzO con la WDR Big Band, John Ruocco e, attualmente, Florian Ross. Tutto ciò garantisce un elevato livello nella qualità dell’insegnamento ma anche dell’esperienza pratica, con direttori di vaglia. Particolare significato ha rivestito il concerto che l’Orchestra ha tenuto lo scorso maggio, nel corso del Bonn Jazz Festival, presso la Art and Exhibition Hall, sotto la direzione di Klein, per festeggiare le prime 25 candeline. Nel corso di questi 25 anni, davanti ai leggii della BundesJazzOrchester sono passati musicisti di talento, oggi vere affermazioni del jazz tedesco, come Till Bronner, Roger Cicero, Tom Gaebel, Julia Hülsmann, Fredrik Koester, Robert Landfermann, Matthias Schriefl, Sebastian Sternal, Peter Weniger, Nils Wogram, Michael Wollny e Nils Wülker. Attualmente la BuJazzO è impegnata in un tour in Africa occidentale, mentre al suo rientro sono già state pianificate delle sessioni di registrazione, in programma nel Baden-Wüttemberg e nella North Rhine Westfalia, da cui dovrebbero scaturire due nuove uscite discografiche. E si proseguirà ancora con le esibizioni programmate a Trossingen, Klagenfurt e ovviamente Bonn e Berlino. La BuJazzO rappresenta l’eccellenza dell’attuale scena jazzistica tedesca e continuerà a determinare quella dei prossimi vent’anni, i cui futuri talenti oggi certamente suonano nella BuJazzO. highlightsss Nuovo direttore per l’ONJ di Marc Jessiteil Sarà una bella “sfida” quella che il 44enne chitarrista Olivier Benoît si appresta a sostenere, a distanza, con Daniel Yvinec. Com’è nel suo DNA, infatti, l’Orchestre National de Jazz (ONJ) cambia direzione artistica affidando un mandato pluriennale a musicisti che si siano distinti per le loro capacità alla guida di organici orchestrali. Così, l’Association pour le Jazz en Orchestre National (AJON), preposta a decidere delle sorti dell’ONJ, ha designato Benoît alla successione di Yvinec con un mandato di 4 anni a partire dal prossimo gennaio. Il bilancio dei 6 anni di direzione di Yvinec è senz’altro positivo: tre album — “Around Robert Wyatt”, “Shut Up and Dance” e, l’ultimo, “Piazzolla!”, arrangiati rispettivamente da Vincent Artaud, John Hollenbeck e Gil Goldstein — basati sulla musica di importanti esponenti della scena contemporanea e del jazz, ma anche su musiche originali, come quelle appositamente scritte dai musici- sti dell’ONJ, tutti dotati compositori, come colonna sonora del film muto “Carmen” di Cecil B. DeMille. Senza dimenticare l’idea, tutta yvinechiana, di Dixcover(s) che, disarticolando un’Orchestre National de Jazz ormai matura in combinazioni più ridotte, dal duo al quartetto, ha voluto puntare a far emergere le varie personalità presenti in organico, le quali si sono così potute sbizzarrire su rivisitazioni di Duke Ellington e Carla Bley, ma anche Bach, György Ligeti e perfino Pink Floyd e Prince. Tutto questo solo negli anni più recenti e parallelamente ad un’intensa attività concertistica che ha portato l’ONJ ad esibirsi dentro e fuori i confini nazionali, fino in Marocco. Il mandato di Benoît affida al chitarrista una nuova e ambiziosa missione: “ONJ Europa”, un progetto squisitamente europeo incentrato attorno alle capitali europee, per il quale Benoît avrà la possibilità di rivolgersi ad artisti della scena jazzistica ed improvvisata, con l’obiet- Olivier Benoît tivo di creare un ponte fra Parigi e gli Stati Uniti, puntando alle origini del jazz, segnatamente alla volta di New Orleans. Scelto per la sua quasi quindicennale esperienza orchestrale alla guida di Pievre e Circum Grand Orchestra, due ensemble con base a Lille e nella Regione Nord Pas-de-Calais le cui attività si sono proiettate oltre i confini nazionali, Olivier Benoît saprà certamente condurre in porto con successo la missione affidatagli: la sfida è cominciata. I BBC Awards aprono al jazz di Andrew Rigmore È vero che la buona musica non ha bisogno di etichette. Ma è anche vero che non tutti riconoscono la buona musica, e sono poi in tanti quelli ad avere dei preconcetti nei confronti di questo o quel genere, ad un punto tale da non riconoscergli diritto di cittadinanza neppure nel regno delle sette note. Non è questo il caso del BBC Young Musician of the Year, competizione musicale curata dall’emittente nazionale britannica e trasmessa sul canale radio BBC 3 e su quelli televisivi BBC 2 e 4: il vincitore della prima edizione in assoluto fu Mike Hext, un trombonista all’epoca diciassettenne, che frequentava anche il jazz e che da allora ha suonato con Guy Barker, Mark Lockheart, John Parricelli, Gwilym Simcock, Alan Barnes, Steve Waterman, James Watson, Richard Edwards, Mark Nightingale e tanti altri. Forse proprio sulla base del recente rilancio del jazz britannico, uno dei diret- tori operativi della BBC, Jan Younghusband, ha annunciato che nel 2014 al seguìto BBC Young Musician si affiancherà anche un premio per giovani jazzisti. Una scelta che la BBC ha pensato con l’obiettivo di far conoscere e lanciare i giovani talenti del jazz allo stesso modo in cui avviene per quelli della musica classica con il BBC Young Musician, coinvolgendo in tal modo un pubblico più giovane e attento anche ad altri generi, di cui le emittenti BBC pure si occupano. Creato nel 1978 da Humphrey Burton e Walter Todd, ex componenti del BBC Television Music Department, il BBC Young Musician è riservato soltanto agli strumentisti — segnatamente percussioni, tastiere, archi, ottoni e strumenti a fiato — e, a dispetto del suo nome, viene assegnato ogni due anni, laureando talenti britannici davvero giovanissimi, che abbiano al massimo 18 anni all’1 gennaio dell’anno di riferimento, ai quali viene riconosciuto un premio in denaro (in origine di 1000 sterline e oggi raddoppiato). Per quanto riguarda il BBC Young Jazz Musician, si tratterà di un concorso a sé stante, con una sua fase eliminatoria — sono previste due audizioni — ed una finale programmata per marzo 2014. Il periodo di invio per le candidature è già stato fissato dall’1 agosto al 18 ottobre. JazzColo[u]rs | giugno ’13 7 Leszek Możdżer stati irriflessivi della mente di Antonio Terzo foto di Alessandra Freguja Tanto ricercato nell’eseguire Chopin, tanto spontaneo nel suonare jazz, il pianista polacco ha trovato la sua chiave di lettura per coniugare la struttura ed il caos insiti nel rigore della musica classica e nell’improvvisazione. Ispirato dalla lezione di Komeda e guidato dall’esperienza con Tomasz Stańko, oltre a scrivere per il cinema, il suo tocco anima tanto il duo con Zohar Fresco che il loro trio con Lars Danielsson: insieme, si apprestano a pubblicare un nuovo album di cui dà qualche anticipazione. Provieni da una formazione clas- raggiungere quello stato irrifles- rienza non inquinata dai pensieri sica: quale chiave hai trovato sivo della mente e tuttavia re- elaborati attraverso le parole. Il per conciliare il rigore di questa stare consapevole di tutto ciò che sistema delle parole, infatti, ha con la libertà della musica jazz? succede. La musica è un ottimo impiantato dentro di sé il potenLa musica classica opera nel con- strumento per esperire la realtà, ziale della menzogna, ma dal motesto di una realtà ben mento che invece la dettagliata in ogni singola musica è un linguaggio Questo vuol dire nota, ciascuna delle quali astratto, qui nella sua è scritta, riconosciuta ed entrare dentro la realtà temporale: sfera non è assolutamente identificata in termini di possibile mentire. forza espressiva, di arti- meno tempo ti occorre per reagire, colazione, di tempo e La differenza più impormigliore sei come musicista. contestualità. Io cerco di tante fra questi due uniadattare questa filosofia versi musicali? I migliori jazzisti riescono a allo spazio del jazz, dove L’esecuzione nella musica modificare la performance invece molto spesso l’inclassica è attentamente tensità dell’emozione pianificata, mentre la operando nell’ordine consente all’artista di non musica jazz è una materia stare a preoccuparsi di soggetta a cambiamenti dei millisecondi. ogni singola nota. Aumenin corso di svolgimento. tare la temperatura emozionale in quanto è basata sulle vibra- Sto imparando ad utilizzare questi durante la performance mentre zioni. Noi musicisti facciamo vi- due strumenti, il caos e la costrucontemporaneamente si mantiene brare l’aria e crescere la zione. Il jazz ha elaborato una nola capacità di riconoscere ogni risonanza nel corpo umano. La vi- tazione che consente a due o tre singolo dettaglio della costruzione brazione ci restituisce una vera musicisti di improvvisare e nello costituisce il mio obiettivo finale: esperienza della realtà, un’espe- stesso tempo di evitare di gene- “ ” JazzColo[u]rs | giugno ’13 9 rare caos. È un sistema davvero intelligente. Qual è l’aspetto del jazz che consideri più importante? Entrare nella realtà del jazz mi offre la possibilità di coinvolgere la sensibilità di chi sta suonando con me sul palco. Poiché non ci è dato sapere cosa avverrà un secondo dopo, ci ascoltiamo con attenzione l’un l’altro e reagiamo istantaneamente. Questo vuol dire entrare dentro la realtà temporale: meno tempo ti occorre per reagire, migliore sei come musicista. I migliori jazzisti riescono a modificare la performance operando nell’ordine dei millisecondi. E mentre si costruisce il groove, trenta millisecondi fanno una significativa differenza, talvolta perfino un millisecondo fa la differenza. È tutta una questione di consapevolezza. È questa la cosa che ti ha affascinato, inducendoti a passare dal mondo della classica a quello del jazz? La ragione principale per la quale sono diventato un musicista jazz è stata il riconoscimento del jazz come musica effettivamente dei nostri tempi. Ho come l’impressione che i compositori più celebri della storia per metà oggi sarebbero dei jazzisti. Comporre è un processo basato sull’improvvisazione, e nel jazz è possibile fare esperienza diretta della composizione istantanea: adesso la componi ed immediatamente la suoni. Sotto quest’aspetto, l’improvvisazione jazz non raggiungerà mai la complessità ed il livello di sofisticatezza della musica classica, che invece è attentamente pianificata. A volte ci vogliono mesi o anche anni per comporre un pezzo. Ma per quanto riguarda ciò che è successo a me, si è trattato di usare le tecniche classiche della composizione lasciando che determi10 JazzColo[u]rs | giugno ’13 nati margini di caos fossero controllati attraverso il sistema di notazione del jazz. In tutti i casi, nel tuo approccio al jazz riesci a mantenere un pronunciato aspetto melodico: cosa è per te la melodia? La melodia è la corona sulla testa di un re. O piuttosto dovrei dire di una regina, dal momento che sicuramente la musica è una donna. “ Komeda non era soluto, non sapevamo cosa aspettarci. Walter Norris era un artista puro e vero, ed è diventato uno dei miei idoli. Non si è mai curato della fama, non ha mai fatto qualcosa che fosse basato semplicemente sull’aspetto commerciale. La musica, oggi, viene trattata come un prodotto, quando invece è un’espressione dell’unicità del sé. Norris riusciva a riportare tutto sotto la giusta prospettiva. L’albero non dà mele perché vuole mettersi in affari. Allo stesso modo, il vero artista non fa musica per concludere degli affari, ma in quanto per lui è un bisogno naturale. Walter ha creato un suo proprio modo di suonare, uno stile unico, ed in questa maniera ha fatto sì che quell’album suonasse così, nel modo in cui suona. soltanto un musicista, ma anche un filosofo. Gli insegnamenti che ha lasciato sono molto importanti per me. Stava cercando di individuare e sfidare la posizione dell’artista nella società moderna ed è pervenuto a molte conclusioni cruciali, come ad esempio “Non vivere della Musica, vivi per la Musica”. Nulla a che vedere con la tua precedente esperienza in doppio piano insieme ad Adam Makowicz, “At the Carnegie Hall” (2004), dunque? La musica che abbiamo suonato con Adam era diversa, ma questi incontri sono stati tutti e due importanti per me. Ho imparato tanto da Makowicz, mi ha mostrato che la tastiera è l’ultimo territorio su cui si muove il pianista. Questa è un’importante verità che ogni pianista dovrebbe sempre tenere a mente. Il tuo recente lavoro “The Last Set”, l’album in doppio piano, è un omaggio al grande pianista Walter Norris, che forse è stato sottovalutato: vi si nota un marchio jazz anche più forte del tuo solito, una sorta di combinazione in equilibrio fra il tuo lato melodico ed il suo istinto improvvisativo. Come vi siete trovati, tu e Norris? Direi che si è trattato di un test per entrambi. Quella è stata la nostra prima performance in as- “Komeda” è l’album che invece hai dedicato ad una delle più importanti figure del jazz polacco, Krzysztof Komeda: quali novità e che taglio innovativo ritieni abbia apportato al jazz europeo? Ha apportato il suo sound unico, ricco di una certa malinconia e profondità. La sua musica è pura espressione di un essere umano sensibile ed eccezionale. Intelligente ma puro. Era in grado di raggiungere regioni emozionali veramente profonde usando strumenti davvero semplici. Alcuni ” dei suoi pezzi sono fatti con un semplice motivo musicale, ma ricevono dal pubblico un [grande] rispetto a causa dei livelli emozionali che affiorano mentre li si esegue. masz. Con Stańko ho suonato la musica di Komeda anni fa, per me è stato un accesso diretto alla fonte, dato che loro avevano collaborato molto prima che io nascessi. E cosa hai voluto evidenziare della sua musica con il tuo tributo discografico? Come musicista polacco per me è importante riconoscere quali siano le mie radici. Komeda è stato il padrino del jazz polacco, tutti i migliori performer hanno imparato da lui: Jan Ptaszyn Wróblewski, Janusz Muniak, Bronislaw Suchanek, Zbigniew Namysłowski, Tomasz Stańko. Io desidero essere parte di quella famiglia. C’è un’altra gloria nazionale in Polonia, con la quale hai un forte legame, che sicuramente ha contribuito alla tua popolarità: Fryderyk Chopin. Quando ti capita di ricevere richieste per suonarlo, inserisci adesso qualche nota jazz? Ogni tanto ricevo richieste per suonare i pezzi di “Chopin Impressions” e, anche se non è il mio repertorio preferito, a volte acconsento. Credo che la sua musica dovrebbe essere suonata nel modo in cui l’ha scritta, l’ho riarrangiata quand’ero giovane ma oggi non lo rifarei. E a proposito, prendere qualche tasto sbagliato sembra essere parte del mio stile: una cosa che ho imparato ad accettare. A proposito, hai anche suonato con Tomasz Stańko, trombettista che è proprio una sorta di testimone diretto del lavoro di Komeda: com’è stata quell’esperienza? Stańko ha una sua propria visione della musica. Rispettando la sua stessa forza, utilizzando l’esperienza e la conoscenza che ha ed accettando le sue debolezze ha creato uno stile unico. Non c’è un altro trombettista come lui. Quando ascolti i suoi dischi non hai dubbi, deve essere Tomasz Stańko, nessuno suonerebbe mai in quel modo. Si può dire che oggi sia uno dei musicisti più potenti che esistono sulla Terra. Alcuni degli spartiti che ho usato per realizzare l’album “Komeda” li ho avuti da To- Com’è il panorama jazz in Polonia, attualmente? Siamo pieni di straordinari giovani musicisti, pertanto posso personalmente constatare l’enorme sviluppo del jazz in Polonia, a tutti i livelli. A livello di produzione, a livello manageriale, tecnologico e di conoscenza. I giovani suonano cose che noi potevamo soltanto sognarci quando avevamo la loro stessa età. Ma l’obiettivo primario del fare musica è quello di diventare un puro esempio di personalità unica e questo aspetto non può essere risolto dalla JazzColo[u]rs | giugno ’13 11 tecnologia o dal saperci fare dal punto di vista manageriale. Si tratta di un lavoro spirituale che ciascun musicista ha bisogno di fare. Fra i tuoi progetti di maggior successo c’è il duo con il violoncellista svedese Lars Danielsson: come vi siete incontrati e cosa vi ha portato a formare un duo insieme? Ci siamo incontrati sulla scena, eravamo stati ingaggiati per lavorare nella sezione ritmica di David Liebman e Piotr Wojtasik, in Polonia. E così ci siamo conosciuti. Da allora suoniamo molto insieme, abbiamo avuto fin dal primo momento una capacità comunicativa ed una forma di [mutua] comprensione straordinarie. Con Danielsson lavori anche nel Możdżer-Danielsson-Fresco trio, una compagine di lungo corso. Come avete deciso di trasformare il duo in qualcosa di totalmente differente, includendo il tocco mediterraneo delle percussioni e della voce di Zohar Fresco? In realtà il trio esisteva già da prima, poi ci siamo disseminati in duetti, considerato che collaboro anche separatamente tanto con Lars che con Zohar. Noi tutti rappresentiamo lo stesso tipo di sensibilità e andiamo alla ricerca della bellezza negli stessi luo12 JazzColo[u]rs | giugno ’13 ghi: è questo il motivo per cui abbiamo registrato così tanti album insieme. Adesso state registrando un nuovo disco: cosa ci si troverà dentro e quando uscirà? Quest’album sarà più speziato di quelli precedenti. E dato che questa volta non abbiamo avuto un produttore esterno, tutte le decisioni sono state prese da noi stessi, quindi è un lavoro che proviene dalle scelte di musicisti e perciò c’è da aspettarsi delle cose nuove. Cosa puoi dire dei tuoi progetti per grande ensemble orchestrale quali “Metalla Pretiosa” o “Pub 700”, fino alla recente “Missa Gratiatoria”? Continuerò a procedere in questo settore, infatti ho appena terminato di scrivere della musica per una big band ed in una delle tracce del nuovo album del trio Możdżer-Danielsson-Fresco useremo un’orchestra sinfonica. Adoro la musica e desidero possederla in ogni modo possibile. Hai suonato nelle colonne sonore di Jan Kaczmarek e Zbigniew Preisner e tu stesso scrivi per il cinema: hai dato qualche contributo alla loro musica? Scrivo per il cinema quando mi viene richiesto, ma non lavoro come arrangiatore per altri compositori. Il cinema mi ha sempre interessato, lavorare sulle colonne sonore mi costringe a guardare la musica da un punto di vista differente. Non è un lavoro facile, perché devo spesso semplificare il mio linguaggio musicale per raggiungere il giusto feeling, ma è affascinante vedere come funziona bene il risultato finale della musica e delle immagini insieme. Fra le musiche da film che hai interpretato, quale è la tua preferita? Ce ne sono molte. L’altra volta ho visto “Hachiko” [diretto da Lasse Hallström, musica di Jan Kaczmarek, ndr]: mi piace molto quella colonna sonora. E per quanto riguarda la musica per il teatro, il processo di scrittura è lo stesso o la cosa ti coinvolge ancora di più? Sia per il cinema, sia per il teatro scrivere ha un unico elemento cruciale: stare a contatto con il regista. Il regista ha un certo concetto del film o del pezzo e a volte è difficile capirsi. Comprendere la sua visione è la parte più importante di tutto il gioco. Mi è capitato di dover scrivere della musica anche tre volte per lo stesso film. Un’altra volta il regista non ha usato affatto la mia musica ma ha mantenuto il mio nome nei crediti. Se si vuol essere un compositore per il cinema o il teatro allora si deve lasciare da parte il proprio ego. Questo fa male. Tornando a Komeda, quanto del suo approccio metti nelle tue partiture per colonne sonore? Komeda non era soltanto un musicista, ma anche un filosofo. Gli insegnamenti che ha lasciato sono molto importanti per me. Stava cercando di individuare e sfidare la posizione dell’artista nella società moderna ed è pervenuto a molte conclusioni cruciali, come per esempio “Non vivere della Musica, vivi per la Musica”, o ancora “Il pubblico paga per la musica con i propri soldi, l’artista paga con la propria vita”. E allora quanta parte della tua vita prende la musica, e quanto personalmente vivi per la musica? La musica è la strada della mia vita, mi alzo per fare musica, faccio la doccia per fare musica e mi alleno in palestra per apparire in forma sul palco. Quello che guadagno con la musica lo spendo per la musica. Casa mia è un grande studio di registrazione. La musica mi tiene lontano da alcool e droga, perché suono al meglio con la mente pulita. Suonare rende il mio corpo caldo e porta la mia energia vitale al giusto livello. La musica mi dà amici e amore e mi fa vedere posti che non avrei mai potuto vedere se non fossi stato un musicista. Infine, la musica è uno spazio in cui posso nascondermi e sentirmi al sicuro. La musica è il mio posto. foto Markus Lackinger / www.jazzfoto.at Céline Bonacina jazz a cuore aperto di Marco Maimeri Specializzata in tre tipi di sassofono ha scelto soprattutto il baritono per esprimersi al meglio. Nata in Francia, un po’ per lavoro un po’ per curiosità ha vissuto a lungo sull’isola di Réunion, dove, oltre ad insegnare, ha suonato insieme a vari musicisti locali ed al pianista cubano Omar Sosa. Tornata in Francia, ha avuto l’opportunità di collaborare con il chitarrista franco-vietnamita Nguyên Lê, continuando a sperimentare tanto sul recentissimo “Open Heart” che dal vivo. Suoni quasi tutta la famiglia dei sassofoni, ma cosa ti ha spinto verso il baritono e il soprano? Ho iniziato a otto anni con il sassofono contralto, che ho suonato in prevalenza fino al 1995, quando poi sono passata a fare pratica con il sax baritono. Dal momento che una parte importante dei miei studi era costituita dalla musica classica e da quella contemporanea, prima di tutto ho studiato il baritono per eseguire alcune trascrizioni delle Suite per violoncello di Johann Sebastian Bach. Allo stesso tempo, suonavo quel tipo di sax in diverse big band, a Parigi. È stato allora che ho realizzato che il baritono sarebbe stato per me ben più che uno strumento da big band, e così ho cominciato ad esplorarlo anche come strumento solistico. È stato soltanto alcuni anni dopo che ho incominciato a suonare anche il sax soprano. Cosa puoi dire del contributo dato da sassofonisti baritoni, quali Gerry Mulligan, Pepper Adams, Serge Chaloff ed altri, alla storia della musica jazz nonché alla tua personale? Sono stata influenzata da tutti questi meravigliosi baritonisti, Mulligan, Chaloff, Adams, ma anche Nick Brignola, Gary Smulyan e John Surman. Ritengo che il loro contributo alla storia del jazz sia stato molto importante e, ovviamente, lo è stato anche per quanto concerne la mia storia personale: ciascuno di loro mi ha ispirato in tanti momenti della mia evoluzione allo strumento. Chi sono stati i tuoi maestri, quelli che ti hanno influenzato nello sviluppo di un tuo personale stile strumentistico, per ciascuno di quei sassofoni? Per quanto riguarda il sax contralto, i miei primi maestri sono stati Charlie Parker, Cannonball Adderley, Art Pepper e così via. Sin dal primo momento in cui ho scoperto le sonorità di quegli strumentisti, sono letteralmente impazzita per il linguaggio bebop Una volta diplomata, ti sei trasferita sull’isola di Réunion, nell’Oceano Indiano, fra Madagascar e Mauritius: perché una simile “scelta di vita” e cosa t’è rimasto di quel periodo? Mi sono trasferita a Réunion per tenere dei corsi di sassofono presso il conservatorio dell’isola. All’epoca non avrei mai lasciato Parigi per andare a vivere in campagna, ma mi sono sentita euforica 14 JazzColo[u]rs | giugno ’13 e desideravo suonare proprio come facevano loro! In seguito, ho ascoltato pure sassofonisti più attuali e contemporanei del tipo di Kenny Garrett, Bob Mintzer o John Surman. foto Paul Emmanuel Roy all’idea di provare un’esperienza di vita in un posto a 10mila chilometri da Parigi! Ero davvero entusiasta di scoprire le musiche ed in modo particolare i ritmi dell’Oceano Indiano, come per esempio il maloya. Ma quello che è fantastico di Réunion è l’ibridazione: lì sono presenti tantissime persone differenti e molte culture diverse, sia nell’ambito della musica che nella vita! In quegli anni hai suonato in vari festival locali con il Céline B Group e con il pianista cubano Omar Sosa: in che modo tutto ciò ti ha aiutato a sviluppare il tuo stile? È stato allora che ho cominciato a suonare con numerosi e differenti musicisti locali. Ho costruito le fondamenta di una mia band personale ed ho iniziato a scrivere le mie prime composizioni. Ho suonato tanto e spesso per tutta l’isola, come pure in molti altri festival della regione dell’Oceano Indiano. Tutto questo è stato parecchio importante per la mia ispirazione e mi ha anche aiutato a sviluppare il mio stile personale. Tornata in Francia, hai realizzato il tuo primo Cd, “Vue d’en Haut”, con il tastierista Didier Makaga, il bassista Lionel Guillemin e il batterista Hary Ratsimbazafy: come si lega a Réunion? È stato proprio prima di lasciare l’isola che ho registrato quello che è il mio primo progetto discografico, “Vue d’en Haut” appunto: si tratta di un disco collegato in maniera diretta a quei miei sette anni di esperienza a Réunion. célInE BonAcInA TrIo oPEn hEArT (AcT - 2013) céline Bonacina (s.br, sa, ss), Kevin reveyrand (bs.el), hary ratsimbazafy (bt), himiko Paganotti (vc), Pascal Schumacher (vb, glockenspiel), mino cinelu (prc) michael Wollny (pn), lars danielsson (cb) Souffle d’un Songe circle dance Wild World Bayrum So close So Far Watch Your Step out of Everywhere Pierrot desert open heart Snap the Slap lonely dancer (bonus track) Cosa puoi raccontare di “Way of Life”, il tuo debutto con la ACT in trio con il bassista francese Nicolas Garnier ed il batterista malgascio Hary Il nuovo Cd di Céline Bonacina è una sorta di summa delle sue esperienze pregresse e delle probabili vie che la sua musica prenderà negli anni a venire — vedi traccia eponima. Ci sono retaggi classici che rimandano all’impressionismo di Satie (Souffle d’un Songe) e robusti pezzi hardbop-rock alla Hancock-Davis (Circle Dance), supportati da basso e batteria, con cori femminili — frutto di sovra-incisioni della titolare o di scambi fra lei e la cantante Himiko Paganotti, come avverrà poi su Snap the Slap, duo sax baritono/voce dal sapore funky-soul — e leggiadri, sognanti interventi di Pascal Schumacher (Bayrum, Out of Everywhere). Deliziosa So Close So Far, in cui i due ospiti mettono a disposizione il loro talento per un’interpretazione raffinata ed avvolgente (la Paganotti pure la penna, visto che il brano è suo e della Bonacina). Ci sono derive etno-world, guidate dalle frullanti e dialettiche percussioni di Mino Cinelu (Wild World, Desert), che rimandano ai trascorsi della leader sull’isola di Réunion, insieme a pezzi scritti da Kevin Reveyrand (Watch Your Step, Pierrot), vibranti ed intensi, dove il jazz si mescola al rock più sofisticato, il basso dell’autore suona arpeggia e riempie la scena come una chitarra, e la musica si fa grumosa e vivida. Ma a colpire è soprattutto la compattezza del trio che all’occorrenza si trasforma, con leggerezza ed originalità, in quintetto/sestetto, grazie all’ingresso di special guests come quelli convocati in studio — ma si può immaginare accada lo stesso dal vivo nel Céline Bonacina Réunion, con Romain Labaye al basso e Leila Martial, Illya Amar e Stéphane Edouard come ospiti. E ciò senza perdere né identità né forza espressiva. Ma anzi inglobando quelle voci nella comune e corale “vox musici” del gruppo. Su tutto svetta poi il talento strumentistico della leader, che passa dal baritono all’alto, al soprano, con agilità e spessore artistico invidiabili. In sostanza, è un gran bel progetto. Discorso a parte per Lonely Dancer, tratto da “ACT Jubilee Concert”: questo brano mostra un altro trio, quello con Michael Wollny, suo autore, al piano e Lars Danielsson al basso, ed un’altra atmosfera, molto nordica e molto cameristica, fra classica contemporanea e jazz, comunque bella._Ma.Ma. JazzColo[u]rs | giugno ’13 15 foto Markus Lackinger / www.jazzfoto.at Ratsimbazafy, più il chitarrista Nguyên Lê? Quando sono tornata in Francia, ho deciso di smetterla con i quartetti, i quintetti o i sestetti, per suonare invece solamente in trio. Nel 2009, ho ricevuto un premio francese chiamato “Tremplin Rezzo Jazz à Vienne”, una parte del quale consisteva nella registrazione di un progetto discografico. Per me si è trattato dell’opportunità di realizzare un sogno: suonare con il chitarrista Nguyên Lê. In seguito, ho spedito quella registrazione alla ACT e... beh, si è visto poi quello che è successo! Il contributo di Nguyên non riguardava solo il suo ruolo di chitarrista: da allora è divenuto sia il tuo ingegnere del suono che il tuo co-produttore. Come si è evoluta questa collaborazione? A dire il vero, dal momento stesso in cui abbiamo registrato insieme, Nguyên è diventato un amico, sicché il suo contributo come ingegnere del suono e come co-produttore è venuto del tutto naturale. Mi posso fidare ciecamente di lui, inoltre ho una sincera ammirazione nei confronti del suo lavoro. Come ti sei trovata a far parte della ACT Family Band, diretta dal trombonista Nils Landgren e nata per festeggiare i 20 anni dell’etichetta, culminata 16 JazzColo[u]rs | giugno ’13 nel doppio Cd “The ACT Jubilee Concert”? Suonare con la ACT Family Band è stata un’esperienza fantastica! Trovarsi sullo stesso palco con musicisti ed amici così straordinari è stata davvero una preziosa opportunità. Inoltre, sono molto felice di aver potuto dare il mio contributo all’album celebrativo della label. Suoni spesso con Ratsimbazafy alla batteria e vari bassisti francesi, da Remy Chaudagne a Romain Labaye, un’evoluzione del tuo progetto Alefa: cosa ti piace della formazione sax-basso-batteria? In effetti mi piace moltissimo anche il trio senza la chitarra oppure senza il piano. Mi fornisce l’opportunità di esplorare un modo di fare musica nel quale l’armonia viene appena suggerita, invece di essere direttamente suonata. Inoltre, quella formazione consente uno spazio speciale per la libertà. Cosa ti affascina, invece, del quintetto/sestetto Céline Bonacina Réunion, completato dalla cantante Leila Martial, dal vibrafonista Illya Amar e dal percussionista Stephane Edouard? Suonare in quintetto o in sestetto allo stesso tempo mi consente di sviluppare altri elementi cromatici. Inoltre, è un modo per introdurre il mio nuovo foto Johan Van Moorhem album, “Open Heart”, con strumenti che appaiono in quella registrazione come ospiti, ovvero il vibrafono, il canto e le percussioni, appunto. È stata questa l’idea che, in “Open Heart”, al trio con Kevin Reveyrand al basso e Ratsimbazafy alla batteria ti ha portato ad aggiungere la voce di Himiko Paganotti, il vibrafono di Pascal Schumacher e le percussioni di Mino Cinelu? Quando ho registrato quest’album ho voluto che il contesto in trio venisse mantenuto, introducendo però anche delle nuove esperienze. Questa è la ragione per la quale ho messo insieme ospiti provenienti da paesi diversi e con spiriti [musicali e culturali] differenti, come la cantante “rock” Himiko Paganotti, il vibrafonista lussemburghese Pascal Schumacher e il celebre percussionista Mino Cinelu, il quale con le sue percussioni ha apportato una coloritura tribale al disco. Come sono nate le composizioni di quel disco e come mai hai inserito anche Lonely Dancer di Michael Wollny come bonus track dal vivo, tratta dal concerto del giubileo ACT? Per me la musica non è mai separata dalla vita, perciò le composizioni di questo mio nuovo progetto sono ispirate dalla musica che ho avuto modo di ascoltare, dalle persone che ho conosciuto, dai viaggi che ho fatto, e così via. È stato Siggi Loch, invece, a suggerirmi di terminare il disco con Lonely Dancer: penso che quel brano dia un senso di coesione fra l’inizio e la fine dell’album, grazie anche ad una spiccata dolcezza. Inoltre, costituisce un bellissimo ricordo dell’ACT Jubilee Concert! Sei reduce da un exploit all’Opéra di Lione con il pianista inglese Gwilym Simcock e il bassista francese Michel Benita: cosa puoi dire di quell’esperienza e uscirà mai un Cd di quel concerto? In effetti, forse la fine di quell’album [si riferisce a Lonely Dancer con Michael Wollny al piano e Lars Danielsson al basso, ndr] può essere interpretata come una “transizione” verso questo recente concerto in trio insieme a Gwilym Simcock e Michel Benita. Non so, però, che cosa accadrà con questa musica: per saperne di più al riguardo, occorrerà essere molto ma molto pazienti! Alcuni anni fa, al festival Woma Jazz di Salsomaggiore, hai suonato nel Lotus Blossom 4et, formato da Simona Premazzi al piano, Caterina Palazzi al basso e Julie Saury alla batteria: com’è stato? Conservo davvero un bellissimo ricordo di quell’esibizione a Salsomaggiore Terme. Ognuna di noi aveva spedito in anticipo alcune composizioni alle altre. Dal momento, poi, che stavamo molto distanti — chi negli Stati Uniti, chi in Francia, chi in Italia e così via — abbiamo fatto solamente una prova il giorno stesso del concerto. Ad ogni modo, devo dire che abbiamo subito trovato e condiviso all’istante un feeling genuino. A volte accade proprio così: è questa, in fondo, la magia della musica! Sempre sull’album “Way of Life”, hai registrato un pezzo di solo sax, dal titolo Tôty Come Bach: che rapporto hai con quel tipo di performance e quando organizzerai qualcosa in sax baritono solo? Onestamente preferisco di gran lunga suonare con altri musicisti piuttosto che da sola. Quando nel corso di un concerto suono “a cappella”, la maggior parte delle volte lo faccio esclusivamente per introdurre un brano, per esempio. Ma la coincidenza più curiosa è che proprio di recente mi hanno contattato da un festival jazz in Francia [il Luberon Jazz Festival, ndr] per invitarmi a fare un concerto in solo il prossimo 6 giugno, ed io alla fine ho accettato di lavorarci sopra. Suonerò alcuni arrangiamenti della mia musica insieme ad alcune improvvisazioni con o senza la mia loop station. E può darsi che proseguirò esibendomi in altre performance in solo, dopo quel concerto. JazzColo[u]rs | giugno ’13 17 Nate Wooley logopedia della tromba free di Alain Drouot foto di Maurizio Zorzi Originario dell’Oregon, il giovane trombettista non ha dimenticato le sue radici, ma la sua musica, lontana dall’essere bucolica o pastorale, continua a spingersi oltre e non conosce limiti. Insieme a Peter Evans, con il quale collabora regolarmente, oggi è fra i talenti più promettenti e creativi del suo strumento, animato da un insopprimibile desidero di espandere i propri orizzonti, che trasferisce nel lavoro con musicisti provenienti da varie parti degli Usa e del mondo. Al jazz ti ha iniziato tuo padre, portandoti fin da piccolo a vedere musicisti come il sassofonista Jim Pepper. Quanti anni avevi e che impatto questo ha avuto su di te? Mio padre è stato grande in questo. Andavamo a vedere un mucchio di musicisti, da Jim ed il World Sax Quartet e Steve Lacy fino a Mel Torme e Ray Charles e i Tower of Power. Non sono sicuro di quanto mio padre fosse addentro alle cose più free, ma per lui andava sempre bene quando si trattava di voler sperimentare. Dove sono cresciuto, una piccola città dell’Oregon che si chiama Clatskanie, il più vicino centro seriamente culturale in quel senso era Portland, e Jim Pepper occupava, per quel che potevo capirne io, una sorta di strana posizione nella scena musicale di Portland. Per molti versi il mondo del jazz era, ed è ancora, estremamente conservatore, ma all’epoca sembrava come se Jim fosse accolto come un eroe del luogo. Penso di averlo visto una o due volte proprio quando iniziavo ad interessarmi al jazz, avevo forse 10 o 11 anni, e non credo che lo capissi, ma amavo l’intensità e la qualità vocale del suo stile. È quasi come se lo strumento fosse un appendice e potevi sentire la musica direttamente dal musicista con un minimo di filtro da parte della tecnica strumentale. In questo senso, vedere Jim quan- d’ero giovane ha avuto senz’altro un forte impatto sul modo in cui adesso cerco di suonare la tromba o anche sull’estetica della mia musica. Hai imparato la musica con tuo padre? Ho imparato da mio padre da un paio di punti di vista diversi. Era il direttore di banda della mia scuola, quindi è certo che da questo punto di vista ho imparato da lui, godendo della stessa attenzione che avevano tutti i suoi allievi, e lo rispetto immensamente come insegnante — come pure rispetto mia madre. Inoltre, quando avevo 12 o 13 anni, con lui ho iniziato a suonare in big band e questo è un tipo diverso di insegnamento. Il miglior consiglio che ti ha dato? Mio padre non è un tipo eccessivamente espansivo, per cui non ricordo un particolare consiglio che mi abbia dato. Però, mettermi in condizione di poter fare delle serate è stato istruttivo in sé. Inoltre, ho visto mio padre suonare sera dopo sera come elemento di una sezione trombe insieme ad ex membri delle orchestre di [Stan] Kenton o Woody Herman, e ho colto molto da quell’esperienza. Parli spesso di quanto il periodo in cui stavi in OreJazzColo[u]rs | giugno ’13 19 gon abbia plasmato il tuo modo di suonare: puoi essere più specifico? Sono piuttosto fanatico riguardo all’Oregon. C’è qualcosa di indefinibile nel crescere là, specie in una cittadina in cui sostengono molto i loro giovani e ne vanno molto fieri, a prescindere da quello che fanno. Ero un ragazzino in una città di meno di duemila abitanti e ascoltavo Ornette e Dolphy o “Om” [di Coltrane] cercando di capirci qualcosa e la popolazione, che in prevalenza è nel settore del legname o nella pesca, sembrava sostenermi tanto quanto sosteneva i ragazzi che facevano atletica, il che mi rendo conto fosse una situazione abbastanza speciale. Sono per lo più una persona molto tranquilla, ma crescere in un posto senza i suoni o le luci della [grande] città infonde un certo attaccamento al silenzio e al buio, al loro potere e al suo calore: cose alle quali ritengo d’essere riuscito ad attingere per la mia musica. Usi molto le tecniche estese: le hai imparate da qualcuno o sono il risultato di assiduo esercizio? Suono solo secondo il modo in cui sento le cose nella mia testa. Ci sono certi elementi di quelle tecniche su cui, per un’esecuzione coerente, agevole e sicura, ho lavorato per lunghi periodi di tempo senza danneggiare il mio sound o l’imboccatura, ma sono davvero 20 JazzColo[u]rs | giugno ’13 pochi quelli che ho appreso effettivamente lavorandoci su. Credo di aver provato con un paio di cose e non mi sono rimaste perché non sembravano naturali per me o per il modo in cui le mie orecchie sentono la musica. Perciò, le cose che faccio sono quelle che risultano organiche alla mia tecnica, in quanto le sento come parte del mio linguaggio personale. Puoi descrivere il tuo progetto da solo basato sulle sillabe? Ho iniziato quel progetto come metodo per provare a sbarazzarmi del mio attaccamento al modo in cui la tromba doveva secondo me suonare. Mi sentivo come se stessi sbattendo al muro e quel muro dipendeva da quanto lontano potessi andare con quello che sentivo dentro la testa. Dato che ho un profondo interesse per la linguistica, ho cominciato a guardare ai meccanismi in cui la bocca, i denti, la lingua, la cavità nasale e la gola creano fonemi, che sono i mattoncini delle sillabe. Così mi sembrava che avesse senso poter isolare quelle posizioni differenti, regolare l’imboccatura, la cavità orale e il resto su quella base, come una macchina fisica, per poi semplicemente emettere l’aria e vedere cosa succedeva al suono dello strumento. Il primo pezzo che ho fatto, [8] Syllables, fu parte di una residenza all’Is- sue Project Room di Brooklyn e fu davvero un esperimento. Da allora ho fatto soltanto un altro pezzo, [9] Syllables, che ho pubblicato quest’anno per la Mnoad Records. Continuo a sentirmi bene con questa musica come mezzo per spingermi oltre i confini del mio linguaggio musicale, ma mi guardo bene dal lasciarlo diventare un’altra tecnica o un altro concept fine a sé stesso. Quali obiettivi musicali Peter Evans e tu state cercando di raggiungere con il vostro progetto in duo? Non abbiamo proprio alcun obiettivo con il duo, in tutta onestà. Suoniamo e basta. Credo di poter tranquillamente parlare anche per Peter su questo, ma al di là del godere semplicemente della compagnia l’uno dell’altro e suonare insieme della musica, questo è davvero tutto. Come hai conosciuto Paul Lytton? E come avete deciso di invitare Ikue Mori e Ken Vandermark ad unirsi a voi? Ho incontrato Paul grazie ad una serie di concerti fatti dal tubista tedesco Carl Ludwig Huebsch. Aveva richiesto me, Paul ed il clarinettista Michael Thieke per fare un paio di concerti nel periodo del suo compleanno, ma Michael non poté fare il primo, così suonammo in trio. Paul ed io andammo immediatamente d’accordo in quanto entrambi sentiamo un vero amore per il jazz e la storia che gli ruota attorno ed i dischi ed un sacco di altri argomenti e discussioni intellettuali e non strettamente musicali. Non pensavo affatto che avremmo suonato così tanto dopo, ma al secondo concerto stavamo suo- PAul lYTTon - nATE WoolEY + IKuE morI & KEn VAndErmArK ThE noWS (clean Feed - 2012) Paul lytton (bt, prc), nate Wooley (tr, ampli), Ikue mori (computer), Ken Vandermark (cl.bs, cl, st, s.br) cd1 Free Will, Free Won't Abstractions and replications Berlyne's law cd2 men caught Staring The Information Bomb Automatic destructive to our Proper Business The ripple Effect nando in modo molto calmo e spazioso — cosa nella quale all’epoca ero particolarmente coinvolto ma che stava cominciando a non darmi più soddisfazione — quando ad un certo punto Paul rovesciò una scarica di tutto il suo armamentario di percussioni sul pavimento, il che ci indusse a suonare in modo molto aggressivo. A quel punto pensai che dovevo avere in qualche modo quell’individuo nella mia vita, semmai ci riuscivo: e fortunatamente 6 o 7 anni dopo il duo sta ancora andando forte. Per quanto riguarda Ken e Ikue, è successo in modo naturale. Una delle poche cose consapevoli che Paul ed io facciamo con il duo è di cercare di includere il più possibile degli ospiti ad ogni tour. Ci piace l’idea di essere una “sezione ritmica viaggiante” per varie personalità musicali divergenti. Quando stavamo mettendo insieme il tour da cui è venuto fuori “The Nows”, basandoci sulle nostre rispettive storie musicali con Ken e Ikue sapevamo solo che sarebbe stato divertente e avrebbe funzionato: e penso che sia così! Questo fa vedere due lati diversi del duo e credo che Ken ed Ikue suonino da dio in quel disco. Il duo tromba-chitarra è piuttosto insolito: come mai tu e Joe Morris avete deciso di fare una prova? Ho incontrato Joe ad un concerto in Connecticut quando suonavo con il grande gruppo di fiati di Stephen Haynes. Ero suo fan da molto tempo. All’epoca, lui mi presentò a Daniel Levin, con il quale si avviò una collaborazione. Credo che il duo inizialmente fosse pensato per essere una sessione con Daniel, ma lui si fece male alle dita e non riuscì a farlo. Joe suonava in acustico e mi piaceva molto il modo in cui ci Ex dentista, il batterista Paul Lytton non si affida ad effetti d’artiglieria pesante ma intesse con estrema precisione fitte trame e fondali elaborati, seppur leggeri, all’occasione infranti dal suono della cassa. Ed anche quando aumenta il livello di intensità, ha sempre cura di non sommergere i compagni. Un approccio che ben si attaglia al trombettista Nate Wooley, il quale non è il più rumoroso dei musicisti neppure quando ricorre all’amplificazione. La mancanza di variazione nel drumming di Lytton implica che sia Wooley a farsene carico, ruolo cui è in grado di assolvere grazie ad un ampio range di tecniche estese, estremamente espressive. Wooley è da ammirare: non scende mai a compromessi e mostra un’accanita determinazione a superare la proprie idee e a portare il proprio approccio il più lontano possibile. Il primo disco è registrato allo Stone di New York e su un paio di tracce si avvale dell’elettronica della giapponese Ikue Mori, i cui contributi rendono gli sviluppi meno volubili e più densi. Abstractions and Replications mostra come le sue elettroniche scintillanti si aggiungono alla tavolozza sonora: capace di assumere un ruolo centrale, sostituendo Wooley e divenendo voce principale, altrove il suo contributo al duo si fa quasi certosino. Il secondo disco è registrato qualche giorno dopo allo Hideaout di Chicago. In diverse improvvisazioni Lytton e Wooley invitano l’idolo locale Ken Vandermark ad unirsi a loro con le sue varie ance. Il Chicagoano per lo più impegna Wooley in un eloquente dialogo. Unica eccezione, The Ripple Effect, dove Vandermark passa al baritono, strumento meno agile, per fornire supporto semplicemente con un motivo reiterato. Ma, ancora, la principale debolezza di questo set — altrimenti affascinante — è l’ostinazione di Lytton ad affidarsi ad un repertorio di giochini piuttosto vecchio. Due esempi: l’epica Free Will, Free Won’t, registrata a New York, e Men Caught Staring, suonata a Chicago. A metà di ognuna il drummer sistema un toy sopra uno dei suoi tom per produrre un rumore continuo mentre lavora su altri elementi della batteria. La somiglianza fra i due passaggi fa sorgere la domanda su cosa davvero sia l’improvvisazione._Al.Dr. JazzColo[u]rs | giugno ’13 21 combinavamo dal punto di vista sonoro. Non sarò mai il trombettista che si sente maggiormente nella sala. Il mio sound mi piace di più quando è calmo, qualcosa riguardo alla purezza di quel tipo di rilassamento lo rende davvero ricco ai miei occhi. Adoro suonare in duo con Joe. Riesco ad ottenerne le stesse cose di quando suono con Lytton: la capacità ed il bisogno di spingerti assolutamente a suonare qualcosa di diverso ed il desiderio di sorprendere. In duo facciamo uno o due concerti all’anno, e sto lentamente iniziando a pensare ad un altro disco con questa formazione, dato che la musica che stiamo facendo [ora] è diventata molto distante da “Tooth and Nail”. Come vedi la connessione fra le tue attività di musicista e le altre tue iniziative come il giornale online, la distribuzione musicale, il database? Fa tutto parte della stessa cosa, per me, in un certo qual modo. Per un altro verso è un lavoro quotidiano — entrare in ufficio, sedersi davanti al computer — ma si tratta di un lavoro quotidiano che mi consente di coinvolgere muscoli diversi e di lavorare a quest’utopica idea che, nel bene e nel male, sembra sia stata impiantata nella mia testa quando ero molto piccolo. Sono convinto che non ci sia cosa reale complicata quanto la musica. Penso che ogni singola registrazione e interpretazione, se presenta un filo di sincerità da parte del compositore o dell’interprete, abbia un minimo di senso se ogni essere umano può trarne vantaggio e arricchimento. Sono preoccupato dall’elitarismo nel pubblico della musica sperimentale, specialmente in quanto musicista che vede venire sempre meno gente ai concerti o nota come l’età di chi viene aumenti lentamente. Credo, forse ingenuamente, che se posso approfittare di Internet per rendere le informazioni disponibili, allora forse un po’ più di gente si innamorerà di quella musica e lo dirà ai propri amici. Con Peter Evans o anche Shane Endsley sei stato annunciato come una delle nuove voci più interessanti fra i trombettisti: senti pressione nel fatto di mantenerti all’altezza di questa reputazione o la prendi con filosofia? È bello, sempre, sentirlo e mentirei se dicessi di essere indifferente a frasi come questa o di non esserne orgoglioso. Ma mi interesso di musica in modo serio da 25 dei miei 38 anni, adesso. Ho guardato gente andare e venire e so bene che ognuno un attimo prima è considerato interessante da colleghi, dai media, dal pubblico e l’attimo dopo non lo è più. Per quanto mi piacerebbe essere sempre considerato nel modo in cui mi hai appena descritto, sono abbastanza realistico per sapere che non a tutti piacerà per sempre tutto quello che faccio e che l’unica cosa reale a cui devo restare aggrappato a questo mondo è la mia personalità, simpatie e antipatie, capacità ed incapacità. ss jazz & arts Lindonês Silveira incanto brasileiro di Marco Maimeri È un artista brasiliano che sembra più pan-sudamericano, ha una visione multiculturale del suo paese e della sua arte, è autodidatta e questo gli ha permesso di creare uno stile unico e personalissimo, fatto di colori vivaci e tratti danzanti. La passione per l’arte si intreccia spesso a quella per il jazz e le sue opere testimoniano appieno l’amore per tali atmosfere. Quale formazione hai avuto e chi sono stati i tuoi maestri? L’amore per l’arte è sbocciato al contrario: non ho avuto stimoli da bambino, ho passato un’infanzia molto povera e in famiglia non c’erano artisti né amanti d’arte. Sin da piccolo però mi piaceva disegnare: a 6 anni, mio padre mostrava i miei disegni e commentava la ricchezza di dettagli di quegli schizzi che erano per me solo storie del mio vissuto. A 10, feci la prima opera in argilla, presa da un torrente vicino casa. L’istruzione artistica nelle scuole pubbliche brasiliane è fiacca: una volta portai un lavoro da casa al mio maestro ed egli dubitò che avessi fatto io quella scultura. Continuai a disegnare ma non feci più vedere nulla a nessuno. Adolescente, mi imbattei nel lavoro di Dalí e mi identificai con lui: i miei disegni erano surreali, dipingevo su scatole d’imballaggio per la carta usando vecchia vernice e mischiando materiali. A 16, andai a lavorare in un laboratorio d’intaglio legno per mobili facendo arabeschi: dopo il lavoro, con i materiali eccedenti, trasformavo vecchi disegni in sculture. A 19, feci la prima mostra di sculture. Ebbi un premio d’eccellenza per le arti visive nel 1991 e decisi di prendere l’arte più seriamente: iniziai a leggere libri, riviste, e scambiare informazioni con altri artisti, ma frequentavo botteghe e laboratori d’arte, solo 10 anni dopo feci dei corsi in disegno anatomico. Come sei riuscito a trasformare tale educazione nel tuo peculiare stile? Non avendo la direzione dell’accademia, ho studiato da solo e grazie ad esperienze e miscugli di diversi materiali e tinte d’ogni genere, ho sviluppato questo stile particolare. Quando iniziai ad acquistare materiali, scelsi pigmenti in polvere e liquidi con JazzColo[u]rs | giugno ’13 23 giorno, più tardi cominciai a suonare chitarra e percussioni: suonavamo alle feste scolastiche ed aprivamo i concerti delle band maggiori, ho lavorato pure come impresario per vari artisti. Ho fatto manifesti, dipinto costumi e scenografie per spettacoli nostri e di altri musicisti e ho mescolato così arte e musica. Quando ho smesso effettivamente di lavorare con la musica, ho cambiato anche la mia arte, attraversando varie fasi: motociclette, donne, scene urbane. I dipinti musicali nel mio lavoro sono arrivati nel 2010, quasi per caso. Avevo deciso di entrare nel 2010 pitturando, di isolarmi in studio senza sapere cosa fare, e ho passato la notte dipingendo “Street Blues”. Dopo quel giorno le cose sono accadute quasi magicamente, in modo naturale: quell’anno ho realizzato 93 tele dipinte con motivi musicali. Crei i tuoi lavori durante concerti o in altri modi? Faccio solo qualche pezzo l’anno per i concerti del Mississippi Delta Blues Festival, che si tiene a Caxias do Sul, la città dove vivo: lavoro nell’ambito della produzione eventi e dell’editing che lo scorso anno ha creato “Blues Art Ville”, in cui diversi artisti mostrano lavori connessi alla musica e hanno un palco dove creare opere durante le esibizioni. Ho molti amici ed artisti legati alla musica: pur non lavorando tutto il tempo con la musica, non mi sono mai staccato dal palco, guardo gli spettacoli settimanali, le prove di chi andrà in tour con orchestre e gruppi per concerti in altre città, fotografo, scarabocchio e così creo scene musicali da trasferire poi su tela a studio. vernici ed altri leganti per creare i miei colori. Comprai molto più tardi quelli pronti e tuttora ne uso alcuni di mia fattura. Con lo studio di fotografia e disegno digitale definisco e traccio figure frammentate e sature di luce. Molte opere sono ispirate alla musica, che ruolo svolge nel tuo processo creativo? La musica è sempre stata nella mia vita: mio padre era un musicista dilettante, aveva tanti dischi e suonava a casa, ma non mi ha mai insegnato a suonare chitarra ed armonica, strumenti con cui faceva musica folk in festival rurali regionali che non frequentavo perché non mi piaceva lo stile. Quando andai a lavorare nell’atelier di sculture, iniziai a cantare in una rock band, conobbi molti musicisti di cui avevo parecchi dischi che ascoltavamo e suonavamo ogni 24 JazzColo[u]rs | giugno ’13 Quando hai scoperto il jazz e che importanza ha assunto nella tua vita? Avevo circa 18 anni ed ero in quella fase in cui tutto il giorno si ascolta musica, ho conosciuto il padre di un mio amico, un annunciatore in pensione passato poi al cinema, che a casa aveva una vasta collezione di dischi: prendevo delle musicassette e trascorrevo i pomeriggi registrando ed ascoltando quegli album, a lui piaceva spiegare gli stili, il bebop, le grandi orchestre, John Coltrane, Miles Davis, Bird, quei momenti sono stati decisivi per la mia conoscenza musicale. Chi sono i tuoi jazzisti preferiti e perché? Di recente ho ascoltato tanto neo-bop ma mi sono fermato ai nomi nuovi, citerò i vecchi che mi hanno fatto amare lo stile: Baden Powell, Hermeto Pascoal per le stupende percussioni, Egberto Gismonti, Charlie Parker, Miles Davis, Chet Baker, ho sempre preferito il jazz strumentale, però anche le cantanti Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Etta James vanno ricordate. Alcune opere sono ispirate più da artisti locali che da cosiddetti big, perché questa scelta? Forse per il mio stile di vita, sempre circondato da musicisti, e così è per i laboratori dove creo i miei lavori scegliendo fra artisti locali, è naturale, quando scelgo un grande musicista lo faccio più per l’emozione e l’energia che mi dà sul momento che per l’importanza sulla scena musicale. Sembri, infatti, interessato più all’atmosfera che agli artisti, in che modo la rappresenti? Ciò che voglio è registrare “quel” momento, la luce che satura in un punto nella totale oscurità, mentre, dall’altra parte, c’è la posizione delle mani sullo strumento, l’emozione e il movimento dei musicisti, tutto come se si cercasse un quadro e si potesse quasi sentire la musica suonata lì. Inoltre, sembra che ti piaccia usare due tipi di rappresentazione, una con colori vividi e l’altra con toni più scuri, tale scelta nasce dal tuo stato emotivo mentre dipingi o da altro? Penso non ci sia modo di separare il mio stato d’animo al momento del dipingere con ciò che sto dipingendo, finisce sempre per esserne influenzato, c’è da notare però che pure nei toni scuri cerco di rappresentare l’atmosfera della scena, a volte si tratta di una musica più intima, altre di una più malinconica. Non pianifico mai l’esito finale: talvolta è il mio stato emotivo ad agire. Quando usi il colore lo fai in modo molto vivido e personale, rispecchia la tua idea di vita? Certo, riflette indubbiamente la mia visione esi- stenziale: sono un tipo positivo, una faccia allegra che sprizza vita, cerco di vedere il buono in ogni cosa, persino nei momenti tristi, ritengo che l'arte abbia la funzione di elevare lo spirito di coloro che l’apprezzano ed anche usare istintivamente colori vividi credo acquisti questa valenza. Illustrazioni Nella prima pagina, in alto: l’artista (foto di Eduarda Silsan); in basso: “Jazz Festival 3” (2010), tecnica mista su cotone grezzo. Nella pagina precedente: “Sax Star” (2012), tecnica mista su tela. In questa pagina, in alto: “Recital 2” (2011), acrilico su tela; qui a fianco: “Red Blue Jazz” (2012), acrilico su cotone grezzo. Tutte le opere riprodotte sono protette da copyright Per ulteriori informazioni: www.flickr.com/lindoness JazzColo[u]rs | giugno ’13 25 recensioni CD SATOKO FUJII MA-DO TIME STANDS STILL (NotTwo Rec. - 2013) Registrato alla fine di un tour estivo in Nordamerica nel 2011, questo “Time Stands Still” trova il quartetto Ma-Do della pianista Satoko Fujii in piena maturità artistica. “Ma-Do” significa in giapponese “finestra”, e allo stesso tempo “ma” indica anche il silenzio fra le note: una finestra attraverso cui la musica si proietta all’esterno, ma con una particolare attenzione ai colori espressivi, e dunque ai pianissimo, agli spazi che circondano le note e le valorizzano. Come sempre, è una musica scritta nelle sue linee tematiche, che poi vive dell’apporto personale dei musicisti. L’avvincente avvio sul contrabbasso strapazzato di Koreyasu, l’arresto sulla tromba di Tamura ed il flusso dei volumi d’insieme in Fortitude, l’incedere solenne, le cigolanti vibrazioni di tromba e contrabbasso, le frange romantiche o avventurose, quasi prog-rock di North Wind fra blues e arabian feeling, con l’improvviso cambio di scenario per il tayloriano assolo del piano montato sul pedale di basso, così come il tempo sfuggente di Time Flies a volare rapido sui volteggi di tromba, per poi assestarsi sul disegno reiterato da basso e piano e perdersi con l’esplosivo break di Horikoshi, la breve Rolling Around che sembra accompagnare la lenta rotazione terrestre, la forma quasi a canone di Set the Clock back che si articola fra tromba, piano e contrabbasso, e ancora gli echi estremo-orientali nelle scale enarmoniche del contrabbasso per Broken Time, con i potenti bassi del piano aggravati dalla tellurica batteria, la danza ondivaga e passionale dell’unisono tromba-piano, il vamp su cui si sviluppa il lucido discorso solistico della Fujii: tutto questo racconta di pause drammaturgiche, di silenzi magnificamente funzionali fra cui incastonare le note, che si impreziosiscono accrescendo il pathos, in un folgorante trait-d’union fra improvvisazione jazz e d’avanguardia, sull’idea che la pianista nipponica ha sempre dichiarato di voler sottendere per la musica di questo quartetto. E dal momento che i tempi interni poco hanno a che spartire con l’inarrestabile movimento delle lancette, si tratta, purtroppo, anche di un lavoro d’addio, dopo foto Davide Susa quasi sei anni di intensa attività del Ma-Do, testimoniata da altri due dischi. Poco dopo il tour, infatti, il contrabbassista Norikatsu Koreyasu viene stroncato da un attacco cardiaco. Certamente il cinquantaseienne musicista avrebbe avuto ancora molto da dire dal punto di vista musicale, come mostra il sentito assolo in Set the Clock back o il controcanto archettato nella malinconica Time Stands Still, a rendere tutta l’inesorabilità del tempo. E seppure potrà sembrare che queste ultime righe siano scritte sotto una certa spinta emotiva, nessun timore ad affermare che “Time Stands Still” è senz’altro il lavoro più compiuto del Ma-Do._An.Te. L’album che ha segnato la svolta musicale nella tua vita? Count Basie “The Atomic Mr. Basie - E=Mc2”. Quello che consideri cruciale per la musica jazz? “In a Silent Way”, Miles Davis. Il disco con la tromba che ami di più? Miles Davis, “Live in Paris” (1960). La colonna sonora cinematografica che ritieni un capolavoro? Ennio Morricone, “Il Etait une Fois la Revolution” (“Giù la Testa”). L’album più ricorrente nella tua playlist? “Antologia”, Egberto Gismonti. 26 JazzColo[u]rs | giugno ’13 foto Juan-Carlos Hernández I 5 dischi imprescindibili di Médéric Collignon Musicisti Satoko Fujii (pn), Natsuki Tamura (tr), Norikatsu Koreyasu (cb), Akira Horikoshi (bt) Brani Fortitude North Wind and the Sun Time Flies Rolling Around Set the Clock back Broken Time Time Stands Still domAncIch/cYrIllE/hElIAS Sophia domancich (pn), Andrew cyrille (bt), mark helias (cb) En el Barrio de Triana how to dr. licks Vestiges courtepointe Aubade En el Barrio de Triana (take 2) Un disco che stava quasi per sfuggirci ma che s’è voluto non sfuggisse anche a chi segue i suggerimenti di ascolto di questa rivista. Uscito nell’agosto del 2012, si tratta di un live al Sunside, celebre jazz club parigino, registrato a luglio dell’anno precedente. Protagonista, un trio paritario continuamente in bilico fra avanguardia e jazz libero, formato dalla pianista parigina Sophia Domancich, il contrabbassista Mark Helias ed il batterista Andrew Cyrille: eleganza, misura ed essenzialità. Alla fine degli anni ’70 sono Steve Lacy, Bernard Lubat e Jean-Louis Chautemps che la Domancich deve ringraziare per averla introdotta al mondo del jazz e dell’improvvisazione, lei che proveniva da una formazione classicistica. Ne deriva una verve melodica che molto ricorda il caro Michel Petrucciani, come da En el Barrio de Triana, speziata però dalla curiosità per le tecniche estese, di cui è cosparsa How to. Dr. Licks sarebbe da portare ad esempio di come è possibile — anche con il piano — riuscire a suonare un intero brano affidandosi ad una manciata di note soltanto, frammentando e ricostruendo continuamente i fraseggi che ne scaturiscono. Vestiges ha tutto lo charme di un jazz-blues addoldIcE FAcTorY Tom challenger (st), george Fogel (pn), Tom Farmer (cb), Jon Scott (bt) heyu nantucket gooch Saribund You’re lucky Eternal Sleep Zout Eternal moment Pipes T.n.g. Saribund (coda) courTEPoInTE - lIVE AT ThE SunSIdE lE cuBE cito da accenti francesi che viaggiano su un movimento a tratti vagamente valzeristico, ma sempre con splendidi innesti che vanno oltre il jazz più convenzionale: basta ascoltare lo scorcio crepuscolare in cui viene inserito l’intervento solitario di Helias, per rendersene conto. Ancora più sfuggente il clima dell’eponima Courtepointe, Helias a contornare con l’archetto le circospette note della Domancich e Cyrille a pennellare al tratto con le sue bacchette, assecondando con venature cromatiche ogni trovata dei compagni: 10 minuti in cui la simbiosi fra i tre raggiunge livelli apicali. Da non trascurare neppure Aubade, composizione dedicata all’alba dove, fra l’archetto, il tapping sulle pelli e gli svolazzi di pianoforte, l’intensità è altrettanto elevata, pure grazie ad inflessioni pentatoniche proiettate dai primi raggi timidi provenienti dal Sol Levante. La seconda take di En el Barrio de Triana con cui il disco si chiude è meno temeraria e più intima di quella con cui s’era aperto, come se, filtrata attraverso i vari brani dell’album, fosse stata ridotta alla sua essenza più free ed immediata, genuina ed estemporanea. Davvero un peccato lasciarselo scappare._An.Te. dIcE FAcTorY Molto dice sul concept del gruppo il fatto che Dice Factory, nome sia del quartetto che del suo album d’esordio, si riferisca al romanzo “The Dice Man” di Luke Rhinehart (alias George Cockcroft), il cui protagonista prende le decisioni semplicemente al lancio dei dadi: il caso che regola la musica è un aspetto affascinante, specie se l’improvvisazione è elemento principe. Se è vero che molte discussioni e molte prove hanno preceduto la musica vera e propria, e che la sfida è stata quella di scuotere armonia, melodia e ritmo attraverso la casualità, allora i quattro devono aver avuto il loro bel da fare a tirar dadi per dar vita, infine, ad un progetto così coerente. Quattro fra le più brillanti promesse del jazz d’Oltremanica: Tom Challenger al tenore, George Fogel al piano, Tom Farmer al contrabbasso e Jon Scott alla batteria, ognuno già membro di una nota band della scena britannica. E dato che sono in tre a contribuire al repertorio del gruppo, il sistema sembra funzionare a prescindere dalla firma dei brani. Così per Heyu Nantucket, di Fogel, caratterizzato da una certa complessità ritmica, con Challenger a dare profondità e fantasia, mentre il pianista spadro- (Babel label – 2012) neggia con interventi, ora lineari ora più refrattari, lungo tutto il brano. In Gooch, di Challenger, l’inizio è sul piano preparato, ma il groove si scioglie sulla ritmica e sull’unisono tenore-contrabbasso. Saribund (Fogel) mostra un lato più europeo e melodico, You’re Lucky (Challenger) è più asciutta e funky, turbata dai tempi obliqui di Scott. Proprio il batterista, l’unico a non figurare come autore, diviene un jolly che agita le acque, per altro mai del tutto calme: batteria e contrabbasso si muovono quasi su un altro binario in Eternal Sleep (Farmer). Antitetica rispetto a questa è Eternal Moment (Fogel), struttura di basso e batteria con piano e sax su continue linee trasversali. Zout (Challenger) si riavvolge sulla frase iniziale, esposta dal tenore e poi tenuta dal piano, che si parlano a distanza sul pedale basso-batteria. Unico pezzo riflessivo e uniforme è Pipes (Challenger), mentre T.N.G. (Farmer), dopo un avvio piuttosto rilassato, torna a incresparsi sui colpi del piano per cambiare ancora umore sul tenore rotondo di Challenger e il crescendo pianistico di Fogel. Capaci di sorprendere ad ogni passo, i Dice Factory meritano un ascolto attento._An.Rig. FrElon rougE A distanza di un decennio il sassofonista francese Alban Darche rilancia il suo Le Cube. E a differenza delle due precedenti uscite, “Autorité Culinaire” (2001) e “Le Thé” (2003), nelle quali faceva ricorso a musicisti d’appoggio, questa volta si presenta nel formato del trio insieme con i fidi Sébastien Boisseau al contrabbasso e Christophe Lavergne alla batteria. In realtà tutti e tre fanno anche parte del Gros Cube, formazione Alban darche (st, sa, ss), Sébastien Boisseau (cb), christo- orchestrale di una quindicina di elementi, gui- (marge – 2012) (Yolk - 2013) data sempre dal sassofonista di Nantes e di cui il trio sax-contrabbasso-batteria può considerarsi lo zoccolo duro. Ciò non toglie che, sia presi singolarmente sia nelle due versioni del Cube, i tre jazzisti sono fra i musicisti più attivi del collettivo Yolk — di cui Darche e Lavergne sono anche fondatori, insieme al trombonista Jean-Louis Pommier — che animano con svariati progetti. Autore di tutti i brani, molti dei quali presentano un carattere sottilmente funky, come l’eponimo JazzColo[u]rs | giugno ’13 27 phe lavergne (bt) la Pornicaise le café du change caminhada Frelon rouge l’homme rigolo la Bille la Pascoalaise Seriatim mon Tribut à Tim Burton Spirale du Phraseur la mort d’Archimède Frelon Rouge, Darche non ha timore di mostrare il carattere più melodico della propria musicalità, ma anche qui non vuole rinunciare ad esplicare la visione orchestrale maturata in questi anni, attraverso le sovraincisioni dei suoi strumenti su alcuni pezzi, come La Pornicaise, le sezioni de Le Café du Change o anche la stan-getziana Caminhada. Lo stesso avviene pure ne L’Homme Rigolo, dove Darche mette in evidenza il proprio lato umoristico, sicuro del walking di Boisseau e degli interventi rilassati e puntuali di Lavergne. Con La Pascoalaise, invece, il trio si spinge verso elementi più folk, dove non mAchA ghArIBIAn macha gharibian (vc, pn, Fr), david Potaux-razel (ch), Théo girard (cb), Fabrice moreau (bt) ritual Prayer Byzance night la douceur Kélé Kélé Parmani Passage des Princes Affect Stories (to ralph Alessi) Sei Kei mArS Un progetto interessante, profondo, d’appeal. Che ammalia e colpisce, soprattutto perché è un’opera prima. Un album intrigante, che coniuga folk armeno, pop, world e jazz ed è quest’ultimo a tenere legati fra loro, amalgamare ed esaltare il sapore di tutti gli ingredienti dell’impasto sonoro. Una pietanza ben condita, lontana, nella sostanza come nella forma, dall’apparente insipidezza, seppur a tratti piacevole e leggera, di una Norah Jones. Forse più vicina a certe ricette, elaborate, speziate e cosmopolite, di una Cassandra Wilson, specie se la si pensa, come Macha Gharibian, alle prese con un ricettario di cucina franco-armena. E meno male che gli aiuto-cuochi sono fedeli, competenti e pronti ad agire all’istante. Ad ogni modo, la voce calda della Gharibian è come miele di castagno, forte e persistente nel suo retrogusto amaro. I brani strumentali poi, gli originali a propria firma Byzance, La Douceur, Passage des Princes, Sei Kei, nonché l’arrangiamento di un pezzo autoctono della sua terra d’origine, Parmani, scritto da Khatchadour Avedissian, vivono di un fraseggio pianistico — raro, per una “semplice” cantante — TIno TrAcAnnA JazzColo[u]rs | giugno ’13 (Bee Jazz – 2013) e di un’atmosfera tout court, d’impronta decisamente jazz-tzigano-francese (suo padre è Dan Gharibian, fondatore del gruppo Bratsch). Più particolare e sperimentale, invece, Affect Stories, omaggio a Ralph Alessi, musicista che lei stima molto e che l’ha iniziata, in un certo qual modo, al jazz contemporaneo di stampo newyorchese, insieme a quel Jason Moran che, con Alessi, viene ringraziato nel libretto interno, e la cui influenza si fa sentire in vari risvolti musicali del Cd. A rendere ancora più fascinoso e particolare il tutto, il fatto che, a parte due pezzi tradizionali armeni arrangiati per l’occasione, quali Kélé Kélé di Komitas Vardapet e il già citato Parmani di Avedissian, il disco contiene pure due brani dai testi insoliti: Ritual Prayer su liriche del contrabbassista free-jazz, poeta e compositore americano William Parker, e Night ad opera del poeta, incisore e pittore inglese William Blake. Da un certo punto di vista una chicca, dall’altro l’ennesimo ingrediente azzeccato e stuzzicante di un piatto, che premia e fa esultare il palato dell’ascoltatore assaggio dopo assaggio, traccia dopo traccia._Ma.Ma. AcroBATS Nuovo progetto discografico per Tino Tracanna, sassofonista livornese purtroppo poco considerato dai più, ma con un curriculum di grandissimo rilievo: collaborazioni pluriennali nelle formazioni di Franco D’Andrea e Paolo Fresu, progetti con innumerevoli musicisti italiani e stranieri, una intensa attività da leader e più di un centinaio d’incisioni realizzate come solista. Docente affermato, dal 1995 insegna in diversi Tino Tracanna (st, ss), mauro ottolini (tbn, euph, launed), conservatori, e dal 2001 è di ruolo e coordinaroberto cecchetto (ch), Paolino tore dei corsi di jazz presso il Conservatorio di dalla Porta (cb), Antonio Fusco Milano. Dopo due anni di attesa dal precedente (bt, prc) “Un’Ora”, Tracanna presenta “Acrobats” un album strepitoso, pensato e studiato fin nei miIgor Sneezes nimi dettagli: dagli interessanti temi, agli armr. d.P. Introduces dundun rangiamenti realizzati per mettere in luce dundun l’originalità della formazione; dagli spazi imPagan deity new mind lines provvisativi calibrati per evidenziare l’espressiScie vità e la personalità dei singoli musicisti, alla cartomante ricchezza ritmica non comune della coppia Dalla Free links Porta-Fusco, contrabbasso e batteria. Tutti i brani sono composti dal sassofonista e presentano un bop moderno, mai banale, carico di interplay e senza cali di tensione. Ognuna delle 28 mancano momenti più nervosi, che vengono marcati con maggiore enfasi in Spirale du Phraseur e nella sua crescente accelerazione. A dare movimento e organicità a tutte e undici le esecuzioni è la batteria di Lavergne, che abbiamo imparato ad apprezzare nel trio di Sylvain Cathala, ma che qui sembra ancora più rilassata, come per un vero ritorno a casa. E di questo si tratta, infatti. Considerando poi che Darche non aveva che 28 anni ai tempi della prima uscita di Cube, questo “Frelon Rouge”, festeggiando i dieci anni del trio, appare come il meglio riuscito, finora, ed anche il più maturo._Ma.Je. (Abeat rec. - 2012) otto tracce merita un ascolto attento, e nell’imbarazzo della scelta emergono: Igor Sneezes, forse il pezzo più rappresentativo dell’album, un ritmo tiratissimo, quasi funky, su cui si innesta il tema, suonato all'unisono dai fiati, con un assolo tagliente di Cecchetto, seguito dall’improvvisazione blues di Ottolini che lascia spazio ad un bellissimo solo del leader, per concludere con un brillante scambio di idee musicali tra trombone e sassofono. Oppure la bellissima introduzione in solitudine di Paolino Dalla Porta, Mr. D.P. Introduces Dundun, di grande atmosfera, unita ad un rumoreggiare delle dita su corde e legno. Segue Dundun, dove su un ritmo quasi africano troviamo due spettacolari assolo, rispettivamente di Tracanna e Cecchetto, con una chitarra acidula. New Mind Lines, invece, il brano più mainstream del progetto, vede un mirabolante Ottolini con il suo trombone sordinato, uno swingante intervento di Tracanna che va a concludere su un break di batteria. Un disco di un grande musicista, da ascoltare, sperando in un maggiore interesse di pubblico e critica._Da.Su. SAmuEl BlASEr QuArTET Samuel Blaser (tbn), marc ducret (ch), Bänz oester (bs), gerald cleaver (bt) As the Sea Part I As the Sea Part II As the Sea Part III As the Sea Part IV AS ThE SEA Dalle note di copertina si apprende che la session di questo Cd non è stata preceduta da prove preliminari, trasformando in vantaggio quello che potrebbe a tutta prima apparire invece come uno svantaggio. Ma è di jazz e musica improvvisata che si sta parlando, quindi niente di più facile che Blaser ed i suoi siano saliti sul palco dello Hnita-Jazz Club di Heist-op-denBerg, in Belgio, disarmati di ogni preparazione se non quella dell’esperienza derivante dall’aver già suonato insieme, sia in studio che dal vivo. Preso atto di questo, non si può non considerare che, a differenza di quanto era avvenuto per il precedente “Boundless” (2011), dove i componenti erano tutti diversi rispetto ai due primi dischi, e dove era una suite a guidare la compagine, in questo “As the Sea” il Samuel Blaser Quartet ha mantenuto esattamente la stessa configurazione dell’ultima uscita, puntando ancora sulla particolare combinazione sonora che si genera fra chitarra e trombone. Soprattutto quando la chitarra a fianco del titolare è quella del piroclastico autodidatta Marc Ducret. Dunque, fatta salva l’assenza di notazioni di riferimento, non si tratta certamente di una seduta affrontata completamente allo sbaraglio. Molto indovinata l’idea dell’ambientazione “marina”, che permette di liberare la fantasia sulle ali della musica di Blaser e soci, immaginando gli strumenti a riprodurre le sonorità ovattate del BEn goldBErg mondo sommerso sotto il pelo dell’acqua. Su questi presupposti, suggeriti dal titolo dell’album, Part I sembra restare sospesa a mezz’acqua, immersa in un’atmosfera ottusa, attutita, con molli rimescolii, qualche gorgoglio del trombone e profondità misurate dai pizzicati arpeggi di Ducret. Part II, al contrario, presenta un caustico groove di partenza, fertile terreno di pesca per la polisemica chitarra di Ducret, ma anche per il trombone, i cui profili melodici sembrano quasi tridimensionali, opportunamente ingrossati dal riverbero e dal campionario di tecniche estese del trombonista, nonché dai reticoli imbastiti dalle batterie di Cleaver — fondamentali sia nel portamento del ritmo che nelle rutilanti figurazioni solistiche — e dalle trame filamentose della chitarra. È il contrabbasso di Oester a dare l’abbrivio a Part III, mantenendosi a filo d’acqua, con lievissime increspature fomentate da Blaser e Ducret, che sfociano sulle onde degli spumeggianti cimbali di Cleaver. Part IV è l’unico pezzo ad avere un tracciato ben definito fin dall’inizio, con tema enunciato dal trombone, ed è anche il brano più muscolare, chitarra a portata piena, sia per la dinamicità di Ducret sia per il timbro corposo del distorsore, solcando un mare in tempesta le cui scariche elettrostatiche sono evocate dalla tuonante batteria e dai bollori del contrabbasso. Un disco da ascoltare in apnea._An.Te. SuBATomIc PArTIclE homESIcK BluES Il clarinetto di Goldberg ha mille sfaccettature: può suonare cool alla Jimmy Giuffre, bebop alla Buddy DeFranco, andare indietro alle sonorità di New Orleans o avanti verso lo swing di Artie Shaw o Benny Goodman. Si pone, insomma, come alter-ego moderno di Ken Peplowski e come ispiratore di Anat Cohen, rimanendo sempre peculiare. E ciò grazie anche al fatto di essere in grado — giacché lo sente come un modo per Ben goldberg (cl.Bb, cl.a), Joesprimere e portare avanti la sua idea di musica shua redman (st), ron miles (tr), devin hoff (bs), ches — di fondere questi riferimenti in uno stile che Smith e Scott Amendola (bt) abbraccia persino il free-jazz di stampo colemaniano, proseguendo così il discorso abbozzato e Evolution purtroppo mai sviluppato appieno da Eric Dolphy. Ethan’s Song Tutto questo si palesa, nel progetto in esame, sin Study of the Blues dalla prima traccia non a caso intitolata Evoludoom tion, dove si intrecciano elementi classici, a The Because of tratti ieratici, divagazioni dixieland, stop-and-go Possible Asterisk neworleansiani e uno spiccato incedere swing, Satisfied mind con pause cariche di tensione emotiva che deWho died and Where I moved to viano spesso il corso dell’evoluzione musicale. lopse Ogni elemento del quintetto dialoga con l’altro how to do Things with Tears con dinamismo e apparente semplicità. Sembra di ascoltare una partitura classica o di cool-jazz cameristico ma, come detto, tutto viene poi squarciato da devastanti inframmettenze pluristilistiche. Pure Ethan’s Song è un brano vibrante e frastagliato, c’è un gran dialogo strumentistico, e si percepisce pienamente il controllo della batteria: Smith è una sorta di allenatore in campo, prodigo di consigli, stimoli e verticaliz- (hathut rec. - 2012) (Bag Prod. - 2013) zazioni. Ascoltare Redman duettare con i compagni in modo così disinvolto — specie su Study of the Blues, spigoloso duo sax-clarinetto, e Lopse, acuminato trio sax-tromba-clarinetto — stupisce positivamente, sebbene solo fino ad un certo punto: le sue qualità (un esempio per tutti, il suo “Spirit of the Moment” del 1995) sono infatti ben note, ed è un peccato che lui stesso ed i suoi discografici puntino su band elastiche altalenanti e progetti “leggerini” con orchestre improbabili. Qui è in perfetta sintonia con Goldberg e Miles: i dialoghi sono ficcanti ed espansivi, un discorso a tre voci ciarliero e mirato. Le batterie di Smith si mostrano continuamente cangianti e colorate, ben supportate dal robusto e coriaceo basso di Hoff. Il clima non cambia in Doom, anzi si fa più euforico e divertito, con scambi continui fra solisti ed accompagnatori in un bel mix di dixieland, swing, bop, cool e free. Su The Because of e Possible la batteria passa a Scott Amendola e tutto scivola verso lidi più rilassati, quasi esotico-latini nel primo caso, e nostalgici, da funerale di New Orleans nel secondo. Suadenti e malinconici Asterisk e Who Died and Where I Moved to, quest’ultimo con sfavillanti reticolati R&B-soul-jazz fra i fiati. Di dylaniana memoria Satisfied Mind, che coniuga blues della Louisiana e free, mentre la ballad neworleansiana How to Do Things with Tears, condita sempre da interventi d’impronta free, giunge come degna conclusione di un album meraviglioso._Ma.Ma. JazzColo[u]rs | giugno ’13 29 CITTÀ DI STRESA John hollEnBEcK SongS I lIKE A loT Ultima fatica del talentuoso e — fortunatamente — non-categorizzabile fondatore del Claudia Quintet, che risponde alla richiesta di collaborazione della Frankfurt Radio Big Band, qui anche committente e produttrice. L’estesa cultura musicale, la grande curiosità intellettuale e uditiva, la raffinatezza di scrittura, permettono ad Hollenbeck di giocare a mischiare i generi con alto e basso, in costante e sovente proficuo dialogo. Tra “le canJohn hollenbeck (arr, dir, prc), zoni che piacciono molto a John” — titolo indoviTheo Bleckmann (vc), Kate mcgarry (vc), gary Versace (pn, natissimo — si trova di tutto: due temi del org), Frankfurt radio Big Bang pluripremiato songwriter pop Jimmy Webb, Canvas di Imogen Heap, il “fantascientifico” Ornette di All My Life, uno hit dei Queen, il tradizionale Wichita lineman canvas Man of Constant Sorrow e a chiudere una propria The moon’s a harsh mistress composizione. L’elenco delle scelte era assai più man of constant Sorrow lungo, ma quelle alla fine selezionate devono esAll my life sergli parse una degna rappresentazione dei proBicycle race pri gusti ed interessi musicali. La concezione Falls lake orchestrale di Hollenbeck ha radici profonde in Gil chapel Flies Evans, Ives e nel minimalismo americano, ma da qui muove per cercare un proprio modo espressivo. Il Glen Campbell interprete dei motivi di Webb è stato uno degli idoli paterni: in questa cArlo cATTAno TrIo carlo cattano (s.br, fl.a), Alberto Amato (cb), Antonio moncada (bt, prc) uno logic Impromptu monky danza Blacksmith downy Skin leva la lava rhythm mem horSElESS hEAdmEn g d Painting (ch), nick cash (bt, prc), Ivor Kallin (bs.fretless), Paul Taylor (tbn), scelta psicologico-affettiva e nella profonda consuetudine con i suoi brani si rintraccia una delle chiavi di lettura del lavoro. Il Webb di Whichita Lineman è parimenti emblematico: pop song americana, con influssi vagamente country-folk, orchestrata con abilità e gusto superiori ma senza la volontà di intervenire sul materiale di partenza. Anche i bravissimi McGarry e Bleckmann ne risentono e, troppo fedeli al dettato Webb-Campbell, risultano alfine stucchevoli. Le cose vanno decisamente meglio nel resto del disco, sia perché la scrittura ha il sopravvento, sia perché All My Life rimane un gran tema, — ma la brava McGarry non vale Asha Puthli. Alla fine i titoli migliori rimangono il lungo The Moon’s a Harsh Mistress, l’ipnotico Man of Constant Sorrow con una lunga cavalcata di Arguelles, e i due finali in cui la straordinaria vocalità di Bleckmann è impiegata in modo congruente: Falls Lake, che sarebbe perfetto per il Claudia Quintet, e Chapel Flies, liquido e fluttuante, basato su un semplicissimo arpeggio timbricamente iridescente di flauti, corni inglesi e con continue lievi sospensioni che lasciano da solo il pianoforte di Gary Versace._An.Ga. ImPromPTu Vanto dell’entroterra siculo e la Sicilia tutta, Carlo Cattano è un jazzista, sassofonista e flautista, che se vivesse in Germania, in Belgio o anche in Francia finirebbe a suonare insieme a Brötzman, Emler ed infine pure Zorn. Mente aperta e schietta, animo profondo, il suo flauto ha un suono che proviene da lontano, soffiato come un omologo peruviano ed arcuato come quelli orientali o del folk russo: su questo registro si muove Uno, mollemente accompagnata dal contrabbasso di Amato e le spazzole di Moncada. Molto concettuale la progressione di Logic, dove invece è il suo baritono a risaltare, multisfaccettato come i polinomi che formano il brano. Impromptu si svolge su di un canovaccio in gran parte improvvisato con contributi ricercati: Cattano ancora al flauto assume la seminale lezione incompiuta di Dolphy più che quella futuristica — o futurista — di Threadgill. Un blues approntato sul basso marciante dell’impeccabile Amato e che di monkiano, come il titolo Monky suggerisce, oltre alla scarna architettura tematica, ha la spigolosità delle linee improvvisative percorse dal baritono su vari denominatori temporali. La cavata poderosa del (Anaglyphos - 2012) contrabbassista svolge un fraseggio articolato ed avvincente, tanto quanto il gioco di charleston e spazzole sfarfallanti al centro del turno di Moncada. A metà fra tribale e folk siciliano — percussivi contrabbasso e batteria — Danza è tutta ballata sugli armonici del flauto, una tecnica davvero mirabile. Blacksmith sgrana un funk snodato su più piani, splendide le nervature del baritono, pimpante il contrabbasso, ellittiche le batterie, con due strepitosi monologhi della ritmica, ed una cavalcata solitaria di Cattano fra note abrasive ed ance scoppiettanti. Seguono tre pezzi parimenti rocciosi, Downy Skin, un blues degno degli organici mingusiani di piccolo taglio, la galvanizzante Leva la Lava, percorsa per elettrocuzione dall’unisono baritono-contrabbasso sul flusso di corrente rilasciato dalle fibrillanti percussioni di Moncada, e Rhythm, sincopato rhythm change apparentemente schizoide, montato sul pulsante walking di Amato. Infine Mem, di Moncada, che sembra annodare un legame invisibile con il subconscio, un po’ per il disegno tematico mesmerizzante, un po’ per l’ancestrale blues minore che lo pervade._An.Te. ThE WholE nInE YArdS C’è chi li definisce un collettivo “cosmico industriale”, chi li considera rock-progressive, chi li avvicina ad un combo indie rock, mentre loro descrivono la loro musica come “skronk psichedelico”, dove skronk sta per dissonante avanguardia. Dinanzi a questo putiferio — inutile — di definizioni, l’unica soluzione è ascoltarli. Loro sono gli Horseless Headmen, un quartetto messo insieme dall’enigmatico chitarrista e violoncellista G D Painting, con Paul Taylor al trombone, Ivor Kallin al basso fretless e Nick Cash alla (Sunnyside - 2012) (north circular rec. - 2012) batteria e alle percussioni. Tutti musicisti di lunga esperienza, con militanze nelle più svariate formazioni, dal duo alle orchestre di improvvisazione. Data di nascita l’autunno 2011 a Londra, spesso in concerto chiamano altri strumentisti per contribuire al sound complessivo. Come in questo loro debut-album, “The Whole Nine Yard”, registrazione di tre live londinesi in cui al quartetto si uniscono Roland H Bates alle tastiere, Karl Blake alla chitarra basso, Alex Gray al piano e Julia Doyle al contrabbasso. A Year JazzColo[u]rs | giugno ’13 31 roland h Bates (pn, sint, campane), Karl Blake (ch.bs), Alex gray (pn), Julia doyle (cb) A Year late and a hundred dollars Short dread Fluid Voltaire Stands Watch Pacific and Black Five Scratched Beyond help Late and a Hundred Dollars Short parte con profilo basso, un’atmosfera sonora quasi impalpabile, per assestarsi su una combinazione di accordi di chitarra e piano, con assoli che giungono a percorrere territori astratti. Dread Fluid vede l’aggiunta di Blake, sul groove di Cash si sviluppano gli scambi fra trombone e chitarra, incisivi e quadrati. Voltaire Stands Watch offre spunti di improvvisazione free combinata ai ritmi pestanti di Cash. Pacific and Black Five varia la geometria del gruppo sommando al trio PaintingThomAS Enhco Thomas Enhco (pn), chris Jennings (cb), nicolas charlier (bt) The outlaw You’re Just a ghost Träumerei Train de nuit Awakening - intro Wadi rum Soulmate morning Blues la Fenetre et la Pluie Ballade pour un Esprit nocturne BoumBoumBoum - intro open Your door choral christophe monniot (sa, s.br, ssp), didier Ithursarry (fs), guillaume roy (vl), Atsushi Sakaï (vlo) Amazing grace Spanish, ouiz et money hot heureux l’épingle du Jeu mécanique Samovar le Sommeil de l’Ange lettre à marie W Valse pour Alex Avant Back Back Train les Amoureux des Bancs Publics 32 JazzColo[u]rs | giugno ’13 FIrEFlIES Terzo disco per il ventitreenne parigino Thomas Enhco che, nonostante la giovane età, si è già fatto notare nel mondo della musica: sia per i numerosi premi, tra i quali il Django d’Or 2010 ed il FIPA d’Or 2012, sia per essere compositore di colonne sonore, sia, inoltre, per una fittissima agenda di concerti che lo hanno portato a visitare 14 paesi e quattro continenti. Trasferitosi a New York nel 2012, ha pure inciso con grandi nomi del jazz, da Jack De Johnette a John Patitucci, esibendosi con diverse formazioni, dal duo al quartetto. In questo disco, Encho si è circondato dei musicisti con cui ha condiviso due anni di tournée. La coppia ritmica JenningsCharlier, contrabbasso e batteria, riesce a sviluppare un grande interplay con il pianista, con idee e musica che creano un flusso costante catturando l’ascoltatore. Una band empatica dove ogni membro mette a disposizione degli altri tutte le sue brillanti capacità, doti musicali, passione ed intensità senza cercare di primeggiare rispetto ai partner. “Fireflies” contiene 13 brani, composti interamente da Enhco, fatta eccezione per l’interpretazione di Träumerei, da “Kinderszenen, Op. 15” di Robert Schumann, monnIoT-IThurSArrY-roY Kallin-Cash il piano di Gray ed il contrabbasso della Doyle: i colori si arricchiscono dei toni rumoristici del primo e dell’arco della seconda, con un’interessante fusione fra la chitarra di Painting e il piano di Gray. In chiusura la band mostra in Scratched Beyond Help il suo lato più sperimentale, ricerca timbrica per Bates e tecniche estese sul trombone di Taylor, senza dimenticare i pedali di Painting ad aumentare, insieme a Kalin e Cash, il volume del finale, prima di tornare ad una serenità addirittura campestre._An.Rig. dove il pianista dimostra grande raffinatezza, lirismo e dolcezza. Le altre composizioni presentate rappresentano un’esplorazione della luce, i brani più veloci ed accattivanti, e del buio, quelli lenti e riflessivi, che evocano ampi spazi carichi di melodia, tutti conditi da un sempre presente swing. Tra i primi, tutti caratterizzati da una ricchezza ritmica non comune, risaltano: The Outlaw, probabilmente il brano migliore dell’album che, ad una introduzione dissonante, alterna un tema affascinante con un assolo di piano mai scontato, il brevissimo Morning Blues, per continuare con Wadi Rum, La Fenetre et la Pluie, e finire con Open Your Door che, al tema riflessivo, fa seguire un intenso assolo di piano. Quando le atmosfere si fanno rarefatte, Enhco fa emergere tutta la sua sensibilità ed amore per la melodia, come in You’re Just a Ghost oppure Train de Nuit, dove l’improvvisazione evoca un treno che sfreccia nella notte, o ancora Ballade pour un Esprit Nocturne, concludendo il Cd con una dolcissima Choral. Un disco che svela un giovane artista ed una formazione da seguire attentamente, magari ascoltandola dal vivo._Da.Su. STATIon mIr Terzo disco a proprio nome, dopo “Vivaldi Universel”, rivisitazione in chiave jazz delle celebri “Quattro Stagioni” del compositore italiano, e “This Is C’est la Vie”, all’insegna di una ricercata miscela di elettronica ed improvvisazione, il plurisassofonista Christophe Monniot dà ancora una sterzata diversa e particolare alla sua musica. In questo “Station MIR” — non soltanto il nome della stazione spaziale russa ma anche l’acronimo delle iniziali dei musicisti — guida un trio totalmente acustico, completato dal fisarmonicista Didier Ithursarry e dal violinista Guillaume Roy, a cui si aggiunge il violoncello di Atsushi Sokaï in alcuni brani. Si parte con Amazing Grace, probabile retaggio di un’infanzia in cui il padre cantava nei cori religiosi, interpretata in modo struggente dal violino di Roy, dove Ithursarry si incarica sia degli accordi che di trascinanti parti solistiche. Del fisarmonicista sono pure i volumi dell’intensa Back Train, con ritmo punteggiato dal violoncello e dal baritono, mentre violino e fisarmonica intrecciano un incessante dialogo. È inevitabile che alla fisarmonica spetti il compito di ampliare la base timbrica aumentando la densità dei colori del trio quando (label Bleu - 2012) (Triton – 2012) questo si trasforma in quartetto con l’inserimento del violoncello. La musica originale di Monniot è variegata, ed anche in questo contesto acustico i suoi sax sviluppano lunghi fraseggi discorsivi e coinvolgenti. Allo stesso modo, i suoi compagni vi si immergono tirando fuori il meglio delle proprie capacità grazie alla potenza evocativa dei brani, semplici e diretti. Ma anche in quei casi in cui le composizioni si presentano in apparenza permeate di una certa leggerezza, la ricchezza degli sviluppi di cui i solisti sono capaci ne rivela la complessità: una complessità a volte sofisticata, più spesso immediata, ma mai astrusa o cerebrale. La particolare musicalità del sassofonista di Caen si desume anche dal repertorio con il quale viene a confrontarsi: l'ultimo brano, Les Amoureux des Bancs Publics, è un grande successo del celebre cantautore e poeta Georges Brassens. E per chi non lo sapesse, Monniot tiene a precisare che MIR in russo vuol dire “pace” ma anche “mondo”: un mondo in cui intende far convivere pacificamente insieme il gusto per il jazz, la musica russa, la musette, e ancora swing, improvvisazione e contrappunto. E tutto questo si trova in “Station MIR”._Ma.Je. Black L’ultimo disco di Altschul come titolare risale al 1986: “That’s Nice” (Soul Note). Quindi, non si può che salutare con entusiasmo questo suo nuovo lavoro. Di Altschul si ricorda ovviamente il ruolo di protagonista dell’avanguardia degli anni Settanta: nel trio di Chick Corea e nel quartetto Circle; motore dei gruppi di Anthony Batterista di lungo corso, dei suoi 70 anni, Braxton; complemento indispensabile per BARRy ALTSCHUL compiuti lo scorso gennaio, più di 50 Barry Dave Holland; sostegno prezioso per Sam THE 3DOM FACTOR Altschul li ha suonati collaborando con Rivers e Paul Bley. Che quella formidabile (TUM Rec. — 2013) un’infinità di jazzisti e avanguardisti, da stagione abbia prodotto semi fecondi, lo Paul Bley a Steve Lacy, Chick Corea, Dave dimostra ampiamente questa incisione, in Holland, Anthony Braxton fino a Sam Ricui Altschul ritrova Fonda (membro del vers ed altri luminari dell’AACM. In questo FAB Trio con lui e Billy Bang) e prosegue la suo disco da leader, il primo dopo circa un recente collaborazione con Irabagon. Auquarto di secolo, chiama accanto a sé Joe tore di ben nove brani, il batterista opera Fonda, autorità del contrappuntismo free una riflessione critica sul suo passato in che con lui ha militato nel FAB Trio fino tre circostanze. Natal Chart proviene dal alla dipartita del mitico Billy Bang, e Jon suo primo disco “You Can’t Name Your Irabagon, esuberante tenorista dei Mostly Own Tune” (Muse, 1977). Prende le mosse Other People Do the Killing nonché scateda una sequenza seriale e sconfina in nato titolare di propri progetti. Diversi i liun’area free, dove Irabagon dà fondo ad velli di lettura. Intanto la generosa asprezze timbriche degne di Albert Ayler e condivisione della scena con un giovane Pharoah Sanders, con suoni stoppati, verampollo: una prassi tipica dei grandi, non trosi e laceranti. C’è anche un’allusione per forza legata ad un’età veneranda — al jazz delle origini, col tenore che si avMichael Brecker docet —, che è sempre ventura sui sovracuti. Irina intitolava un stata il sale del jazz d’Oltreoceano, ma disco Soul Note del 1983 con Enrico Rava, che nell’eurocentrico egocentrismo viene Musicisti: Barry Altschul (bt), Jon IrabaJohn Surman e Mark Helias. Raffinatissima spesso trascurata, salvo rari casi. Neppure gon (st), Joe Fonda (cb) ballad, dai rarefatti intervalli, che pocasuale, a tal proposito, è la scelta dei trebbe appartenere al repertorio di Paul brani, tutti tratti dalla discografia del Brani: 1. The 3dom Factor, 2. Martin’s Motian per il particolare uso dello spazio drummer newyorkese, su cui Irabagon dà Stew, 3. Irina, 4. Papa’s Funkish Dance, e gli spunti melodici. Irabagon dà prova di una convincente prova non già del suo ta- 5. Be out S’Cool, 6. Oops, 7. Just a Simnotevole controllo timbrico e dinamico lento, indiscutibile, quanto di un’innata ple Song, 8. Ictus, 9. Natal Chart, 10. A delle risorse del tenore; Fonda si profonde capacità a calarsi nei registri più vari. Pun- Drummer’s Song in un intervento di rara pregnanza nella tare sui giovani, dunque, ma non per torsua concisione. Si può tracciare un paralnare alla ribalta — ché Altschul non se n’è lelo con Just a Simple Song, benché qui la mai discostato — avvalendosi del loro apstruttura sia quella della ballad classica. peal o per riesumare vecchi successi nel Firmato da Carla Bley, Ictus si riallaccia al nome della tradizione o di qualche lascito sodalizio con Paul Bley ed è interpretato ereditario, bensì per misurarsi con loro e confermare come le de- su un up tempo vertiginoso, in una sorta di free bop. Martin’s cantate rivoluzioni di oggi altro non sono che i frutti di semi sparsi Stew è alimentato da un bordone prodotto dall’arco, da un tegià molto tempo fa. Del resto, le sue spinte propulsive sono on- nore zigzagante e dall’uso coloristico di pelli e piatti. Fonda si nipresenti — bacchette, spazzole, fischi, campanacci e giocolerie ritaglia un cospicuo spazio sempre con l’arco. Irabagon mette in varie — con energia davvero invidiabile e non c’è un brano in cui mostra un fraseggio frammentato, con venature robuste r&b, apAltschul si limiti soltanto a guardare il sassofonista. La struttura parentabile a quello di Ellery Eskelin. The 3dom Factor è un tema dei pezzi offre ampi margini di manovra ai tre: si ascolti l’equili- fortemente strutturato, di impronta nettamente ritmica; tant’è brio generale delineato, anche durante l’assolo di Fonda, nella vero che le figurazioni della batteria, tonanti e circolari, costisplendida Just a Simple Song (dal repertorio del FAB Trio), ballata tuiscono uno stimolo continuo per i partner: il pizzicato strapd’antan ma di una leggerezza e freschezza di rado riscontrabili in pato di Fonda, le frasi brucianti di Irabagon. Be out S’Cool vanta analoghi esempi dei nostri giorni. E perfino in Irina, il tempo largo caratteristiche analoghe nella conformazione del tema, con crea una lenta cadenza riempita da rilassati assolo. Natal Chart cambi metrici che poi danno luogo a frequenti sconfinamenti atopresenta un campionario di stili: il free, il bop e una ventata di nali. Oops sviluppa un poliritmo afrocubano a cui si adegua anche blues-jazz popolare molto divertente. Per nulla stantio, il bop ce- Irabagon con segmenti ritmici e spirali; nell’assolo Altschul non lato in Papa’s Funkish Dance è piuttosto vivificato dal piglio del te- solo mantiene l’impianto poliritmico ma esprime anche valenze norista e dalle sempreverdi bacchette del titolare, come pure Be melodiche. Papa’s Funkish Dance nasce da un sagace frazionaout S’Cool, con echi di Monk e Gillespie. Sul piano storico, è Ictus mento di una latente traccia funky. Anche qui emerge un certo re— composizione risalente al periodo della collaborazione con Paul troterra r&b nel suono e nel fraseggio del tenore. A Drummer’s Bley e scritta da Carla Bley, unica nel Cd non firmata da Altschul Song è tutt’altro che un assolo; piuttosto, una sequenza struttu— a mostrare con il suo bruciante rhythm changes come già negli rata di figure create con controllo assoluto di dinamiche e colori. anni ’60 l’innovazione sul solco della tradizione fosse un pallino Degna conclusione di una prova magistrale._En.Bo. di molti. Sono invece inediti l’eponimo The 3dom Factor, dai tratti ornettiani, Oops, dai colori esotico-caraibici e A Drummer’s Song, con assortite spruzzate di piatti e tamburi, in un drum solo di Altschul che suggella la qualità dell’intero album._An.Te. White eventuali RADIO Albania Boom Boom Radio 101.2 FM (Tirana) Austria Neno Point Field (Salisburgo) Belgio Crooze FM (Antwerp) Bulgaria Jazz FM Radio (Sofia) Danimarca DR Jazz (Copenhagen) Radio Jazz (Copenhagen) Francia Kanaljazz on live365.com Radio RVB Radio-G 101.5 FM (Angers) Radio Grenouille (Grenouille) Radio Albatros (Le Havre) Swing FM (Limoges) Frequence Jazz (Lione) Radio France (Parigi) TSF 89.9 (Parigi) Germania Radio 42 (Amburgo) Jazz Radio.net (Berlino) Hot Club Radio (Duisburg) Italia Radio SNJ Radio Capital “Suite Jazz” e “Battiti” su Radio 3 “AnimaJazz” su PuntoRadioCascina (Toscana) Radiopellenera (Milano/Bari) Radiovinilemania (Parma) Radio Alt (S. Teresa di Riva - ME) Radio Web Italia (Sabaudia - LT) Sorrento Radio (Sorrento - NA) Lituania Jazz FM (Vilnius) Macedonia Jazz FM 100.8 (Skopje) Malta Jazz Diaspora Norvegia Jazzonen (Bergen) Olanda Alphen Stad FM Kabelradio De Concertzender (Hilversum) Afterdinnerjazz, Radio Hoogeveen (Hoogeveen) Arrow Jazz (The Hague) Jazz Radio2 (The Hague) 34 JazzColo[u]rs | giugno ’13 Polonia Jazz Radio (Cracovia e Varsavia) Principato di Monaco Radio Monte Carlo Regno Unito Totally Radio The Hillz Radio (Coventry) Jazz FM.com (Londra) Solar Radio (Londra) The Jazz (Londra) BBC Radio3 (Londra) Jazz Syndicate Radio (Londra) Soft Jazz Expresso (Londra) Jazz Syndicate Radio (Scozia) BBC Radio Scotland (Scozia) Russia Radio Jazz (Mosca) Relax FM (Mosca) Slovenia Radio Tartini (Piran) Spagna Barcelona Jazz Radio (Barcellona) All That Jazz (Malaga) Svizzera ESpace 102.5 FM Swiss Jazz (Berna) Radio Jazz International (Crissier) RTSI - Radiotelevisione svizzera di lingua italiana Ucraina Radio Renaissance (Kiev) Ungheria Jazz Radio (Budapest) jazzColo[u]rs email-zine di musica jazz Periodico Mensile (reg. al Tribunale di Palermo n.46 del 18/12/2007) Anno VI - numero 6 (giugno 2013) direttore responsabile Antonio Terzo coordinamento redazionale Piero Rapisardi progetto grafico Antonio Terzo e Stephen Bocioaca CREDITI foto di copertina Alessandra Freguja quarta di copertina Wadada Leo Smith di Brunella Marinelli hanno collaborato per i testi Alain Drouot Andrew Rigmore Marc Jessiteil Enzo Boddi Marco Maimeri Davide Susa Andrea Gaggero hanno collaborato per le foto Juan-Carlos Hernández Giorgio Alto Daniele Molajoli Andrea Feliziani Davide Susa Alessandra Freguja Heiko Purnhagen Stefano Landi Maurizio Zorzi USA WNUR.FM (Chicago) Pacifica Radio WPFW (Washington D.C.) 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