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Introduzione - Giovanni Fioriti Editore

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Introduzione - Giovanni Fioriti Editore
Psichiatria e Psicoterapia Analitica (2002), 21, 3: 217-228
Psicoterapia Analitica
OLTRE LA SFIDA TERAPEUTICA. SULLE PROBLEMATICHE CONTROTRANSFERENZIALI
CON IL PAZIENTE A RISCHIO DI SUICIDIO
Maurizio Pompili, Iginia Mancinelli, Roberto Tatarelli
Introduzione
Il riconoscimento del suicidio come un problema serio nell’ambito della sanità pubblica e
tra coloro che hanno perduto una persona cara a causa di tale gesto, pone una crescente enfasi
sulle nuove strategie preventive e sulla migliore organizzazione delle terapie rivolte ad un fenomeno multifattoriale. Se il numero sempre più cospicuo di lavori nella letteratura mondiale apporta un significativo approfondimento del fenomeno, il ruolo del terapeuta come elemento chiave nello stabilire l’esito della terapia con un paziente a rischio di suicidio, ha ricevuto solo poche
attenzioni. È opinione diffusa che i pazienti a rischio di suicidio suscitino una forte ansia nello
psicoterapeuta e il loro trattamento assume gli aspetti di una sfida che il terapeuta intraprende
accettando il confronto con i fantasmi della morte e con le proprie abilità professionali. Si tratta di
due elementi fortemente connessi in quanto in certi momenti della psicoterapia risulta evidente
quanto la vita del paziente è subordinata alle capacità terapeutiche del suo curante. Sperimentare
la perdita di un paziente a causa del suicidio intacca notevolmente l’equilibrio personale e professionale. (Pompili et al. 2002). Inoltre il temere che questo evento possa realizzarsi non è privo di
conseguenze per il paziente e per il terapeuta. La maggior parte degli psichiatri infatti teme che
un paziente possa suicidarsi prima o poi nel corso della pratica clinica; si stima infatti che il 51%
degli psichiatri perde almeno un paziente a causa del suicidio nel corso della propria carriera
(Chemtob et al. 1988).
Le difficoltà emotive di fronte al suicidio, che è una forma della morte, sono maggiori rispetto a quelle di fronte ad altre forme della morte. In questa quasi sempre c’è un’offesa alla capacità
di comprendere, capire e aiutare l’altro; c’è l’insopportabilità dell’imprevedibile, dell’inconoscibile
e dell’incontrollabile. L’esperienza del terapeuta è senza dubbio di primaria importanza nella
gestione del paziente a rischio di suicidio. Tuttavia sia i terapeuti giovani sia quelli con più lunga
attività reagiscono in modo non dissimile nel confrontarsi con il rischio di suicidio del paziente
manifestando reazioni di ansia e sentimenti di incapacità (Kirchberg e Neimeyer 1991). Inoltre
coloro che si sono confrontati con un’ideazione suicidaria sono senza dubbio più vulnerabili nella
gestione del paziente a rischio di suicidio, così come nel caso in cui il terapeuta dimostri caratteristiche quali l’evitamento di forti sentimenti, la difensività e la passività (Neimeyer et al. 2001).
Da considerasi di estrema importanza nel ridurre le abilità terapeutiche sono le perdite oggettuali
causate da un atto suicidario (Neimeyer e Pfieffer 1994).
Il terapeuta infatti, può entrare in sintonia con il proprio paziente ma ad un livello aberrante
e cioè trovarsi impotente nel contrastare l’impulso suicida, o anzi paradossalmente favorirlo. I
pazienti che mostrano comportamenti suicidari mettono in evidenza che la loro vita emotiva è
strettamente relazionata alle cure di altre persone cui viene delegato il compito di organizzare la
loro esistenza (Tatarelli 1992). La mancanza di riferimenti affettivi rende questi individui avidi
nell’investire su oggetti disponibili al soddisfacimento dei loro bisogni. Il terapeuta spesso incarna tutti i possibili oggetti d’amore del paziente e svolge il ruolo di contenimento dei bisogni
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Maurizio Pompili et al.
affettivi del paziente. Ma il suo ruolo è estremamente delicato perché può facilmente indurre nel
paziente l’identificazione con quelle componenti che caratterizzano il modo di porsi di fronte al
problema del suicidio. Si potrebbe arrivare a dire che il paziente può “agire” le componenti
autodistruttive del terapeuta considerando che quest’ultimo, posto a confronto con le idee suicide
del paziente, non solo può attuare una risposta caratterizzata da ansia e difficoltà nella gestione
della terapia in virtù del proprio vissuto, ma questa incapacità ad esplicare la sua azione terapeutica
può derivare dall’hopelessness e dall’helplessness che sperimenta nel dover contrastare i propositi suicidofili del paziente. Inoltre la paura della perdita, della separazione e del fallimento permea tutta la relazione terapeutica e impone al terapeuta un continuo sforzo di accettazione nel
curare un paziente difficile. Il paziente può arrivare a sommergere di richieste e lamentele il
terapeuta, il quale pur comprendendole empaticamente non può riuscire a soddisfare. E in questo
caso il terapeuta può identificarsi nella disperazione del paziente tanto che Litman (1970) sostiene che a questo punto della psicoterapia, ambedue, paziente e terapeuta sono potenzialmente
suicidi.
Il nostro lavoro si propone di presentare elementi di riflessione sulle difficoltà di gestione
del controtransfert con il paziente a rischio di suicidio e il suo possibile ruolo nel facilitare l’atto
letale nei casi in cui venga meno l’abilità del terpaeuta di gestirlo efficacemente. L’analisi dei dati
della letteratura è affiancata da diversi esempi clinici ottenuti dalla nostra esperienza clinica,
sfruttando il metodo dell’autopsia psicologica (Beskow et al. 1990). Tale metodo è stato applicato
oltre al materiale clinico del paziente e al colloquio con informatori attendibili circa la storia del
paziente, anche al terapeuta e alle sue scelte durante la terapia in occasione di conferenze cliniche
sui pazienti morti suicidi.
Alcuni esempi di paziente a rischio di suicidio e la difficoltà di esplicare l’azione
terapeutica
Davanti ad eventi negativi o stressanti vengono messi in atto una serie di sforzi, sia a livello
comportamentale che cognitivo, tesi a gestire, nella maniera meno traumatizzante possibile, le
richieste esterne e interne che questi eventi originano: tali comportamenti si definiscono globalmente strategie di coping (Folkmann et al. 1986). Generalmente si assegnano al coping due funzioni principali: quella di minimizzare le conseguenze dannose dell’evento stressante (coping
focalizzato sul problema) e quella di gestire le forti emozioni che possono nascere da esso (Stroebe
e Stroebe 1995).
Plutchick (1980) afferma che le modalità di coping siano la trasformazione di difese inconsce in elementi coscienti per interagire con gli altri, per affrontare i problemi e gli stressors; sono
cioè metodi comuni per affrontare situazioni difficili.. Più in particolare, è possibile affermare
che le difficoltà che il terapeuta affronta nel curare il paziente riguardano da vicino i meccanismi
di coping di quest’ultimo che sono generalmente utilizzati in modo tipico quando esiste un rischio di suicidio. Infatti il paziente sperimenta maggiori difficoltà nella gestione degli stressors
rispetto ad individui non a rischio di suicidio, possedendo minori risorse per affrontare i problemi
quotidiani in modo attivo ed efficiente (Plutchik 1980, Cohen e Lazarur 1979). È stato osservato
che il paziente sperimenta un rischio suicidario maggiore quando non è in grado di minimizzare,
rimpiazzare e gestire i sentimenti di colpa. L’inadeguato utilizzo del meccanismo di minimizzazione
è prova della tendenza a reagire in modo esagerato a situazioni quotidiane che possono spingere
al suicidio. Il meccanismo di rimpiazzamento fa riferimento all’incapacità del paziente a confrontarsi con le perdite provocando sentimenti di hopelessness e helplessness. Il sentimento di
colpa è considerato un correlato negativo per il suicidio (e positivo per gli atti di violenza) a
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Oltre la sfida terapeutica
supporto del concetto psicoanalitico per il quale i comportamenti suicidari e violenti sono manifestazioni dello stesso impulso aggressivo rivolto verso se stessi (suicidio) e verso gli altri (violenza) (Botsis et al. 1994).
Nella complessa relazione controtrasferenziale il terapeuta può far propri questi patterns
inadeguati ad affrontare un evento difficile, sperimentandoli all’interno della relazione terapeutica.
Egli allora può iniziare a gestire le difficoltà della terapia con meccanismi di coping fallaci che
limitano l’azione della terapia. L’incapacità del terapeuta di minimizzare può condurlo oltre che
ad una eccessiva preoccupazione circa il rischio di suicidio del paziente anche ad investigare la
suicidalità del proprio paziente in modo ossessivo, ingrandendo qualsiasi elemento (alcune volte
senza un reale fondamento) che a suo parere possa indicare un rischio di suicidio maggiore. In
alcuni casi questo è il risultato di una precedente esperienza di perdita a causa del suicidio di un
familiare o più frequentemente di un paziente. Gli eventi che normalmente si succedono nel
lavoro terapeutico possono essere segnati da accresciuta ansia, come quando il paziente non si
presenta alla seduta, arriva in ritardo oppure utilizza affermazioni che il terapeuta ricollega erroneamente al desiderio di suicidio. Non dissimile è l’incapacità di rimpiazzamento del terapeuta
che può essere il risultato di antichi conflitti irrisolti che lo inducono a considerare il paziente
come un oggetto insostituibile, dal quale riceve gratificazione e affetto, e che non può permettersi
di perdere. Assistere al miglioramento del paziente e al suo avviarsi verso l’indipendenza e la
libertà dai sintomi che lo opprimevano può essere per alcuni terapeuti estremamente doloroso. La
loro incapacità di rimpiazzare l’oggetto, al quale possono comprensibilmente essere legati, li
porta ad assumere un comportamento atto a far sentire il paziente sempre più bisognoso della
terapia, nel tentativo di assicurarsi per un tempo sempre più lungo il legame con lui. Questo
meccanismo perverso, oltre a limitare il monitoraggio della suicidalità del paziente, può persino
aggravarla quando il terapeuta finisce per convincere il paziente che se il loro legame si interrompe, il rischio di suicidio aumenta. Per ciò che concerne i sentimenti di colpa del terapeuta bisogna
premettere che sono facilmente osservabili dal paziente e quindi il loro impatto nella terapia è il
più delle volte ben riconoscibile. Il paziente può persino arrivare a domandare il perché del senso
di colpa del terpauta e attribuirsene la responsabilità. In certe fasi della terapia, assistere
all’hopelessness e all’helplessness del paziente, conduce il terapeuta a ritenersi colpevole del
mancato miglioramento. Ciò può aggravare la condizione del paziente che percepisce che il suo
stato può essere la fonte della colpa del terapeuta. Inoltre i sentimenti di colpa del terapeuta
possono subire una forte negazione, distogliendo dunque l’attenzione del terapeuta dalla giusta
collocazione di queste componenti affettive e imponendo al paziente l’onere di subirle nell’ambito del setting. In altri casi sentimenti di colpa estranei alla relazione terapeutica, possono farsi
strada in virtù di esperienze del terapeuta con altri pazienti, con i familiari o nell’ambiente di
lavoro, inducendolo ad una incapacità di gestire i sentimenti di colpa de paziente.
Passeremo ora a descrivere alcuni tipi di pazienti a rischio di suicidio che costringono il
terapeuta ad una difficile gestione delle reazioni controtransferenziali.
Alcuni di questi individui non si presentano con un rischio di suicidio imminente o con il
ricatto “fai questo, altrimenti...” affrontando apertamente la reazione del terapeuta e il suo tentativo di ostacolare questa ideazione, bensì legano il loro intento a qualche evento futuro o ad una
particolare situazione della vita. In questi casi il paziente giunge a sottomettere la decisione di
suicidarsi al verificarsi o meno di un certo evento. Può arrivare ad affermare, ad esempio, che se
non trova un lavoro per la fine dell’anno si suiciderà. È comprensibile immaginare come questo
tipo di paziente sottoponga il terapeuta ad un continuo logorio evocando forti reazioni
controtrasferenziali di helplessness e rabbia. Lo sperimentare l’helplessness può condurre all’identificazione con l’istinto suicida del paziente. Il questo caso il terapeuta può sviluppare, in
gran parte inconsciamente, la stessa ideazione suicida del paziente ed arrivare a condividere la
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Maurizio Pompili et al.
stessa visione che alcuni pazienti hanno circa il suicidio. Farber (1962) descrive questo tipo di
paziente così: “c’è un certo tipo di persona per la quale l’idea del suicidio è un rimedio per ogni
difficoltà della vita. Il suicidio è un rimedio segreto che plasma ogni risposta a qualsiasi problema”.
Non meno difficile da gestire è il paziente che presenta il rischio di suicido connesso agli
anniversari (Cavenar al. 1977). Esistono delle reazioni specifiche sia psicologiche che fisiologiche connesse a specifici anniversari soprattutto quando un determinato trauma non è stato efficacemente superato. Alcuni pazienti con tratti ossessivi tendono ad accumulare anniversari, per cui
ogni giorno può assumere un significato particolare e quindi aumentare teoricamente il rischio di
suicidio. È anche in questo caso facilmente comprensibile quanto arduo possa divenire il compito
del terapeuta dovendosi egli cimentare con un nemico che appare invincibile, con il quale la lotta
può durare anni e che non smette mai di rammentargli quanto la possibilià del gesto letale debba
essere considerata la priorità della terapia. In questi pazienti, come del resto in altri a rischio di
suicidio, la morte assume le qualità di relazione oggettuale che paradossalmente permette di
continuare la vita e fornisce elementi di supporto. I pazienti descrivono chiaramente come la
morte diventi personificata intrapsichicamente assumendo le vesti di un guaritore che promette di
portare via il dolore, la sofferenza e di garantire sollievo. Il terapeuta dunque, non solo deve saper
reagire al blocco emotivo indotto dal paziente suicidofilo ma anche sfidare e rimuovere la relazione aberrante che questo ha intrapreso con l’oggetto morte. Ciò non è privo di rischio se si
considera che una siffatta relazione può essere l’unica in cui il paziente crede e il terapeuta può
trovarsi impossibilitato a prospettare un’alternativa migliore. È necessario rispettare il valore del
legame instauratosi al fine di evitare di imporre al paziente una dissoluzione precipitosa di esso.
Un altro tipo di paziente particolarmente difficile da gestire è quello con caratteristiche
manipolative che si presenta con ricatti che dimostrano come questo comportamento sia espressione della loro incapacità di controllare qualsivoglia situazione. Il ricatto è l’arma con la quale
esercitano un qualche controllo sul mondo esterno. Tuttavia questo aspetto può permettere al
terapeuta di stabilire un contatto empatico e quindi poter penetrare nei meccanismi che producono l’intento suicidario, fornendo interpretazioni che facilitino l’insight e dimostrando che l’alleanza terapeutica non viene meno nonostante il tentativo di manipolazione. Inoltre il suicidio può
essere il modo del paziente di comunicare un dolore psichico insostenibile e il clinico deve essere
pronto nel riconoscere questo messaggio. Il terapeuta, a causa dei conflitti controtrasferenziali
può sentirsi ricattato anche quando non è intento del paziente. La condizione del paziente a rischio di suicidio è particolare e intensissima al punto che l’impatto sugli altri di ciò che egli dice
e di ciò che egli fa si fa può essere ai loro occhi totalmente trascurato (Gutheil e Schetky 1998). Il
terapeuta invece non trascura nulla, anzi attua un’ipervigilanza su tutto quanto concerne il comportamento suicidario del paziente che si accompagna alla strutturazione di quella che in termini
generali può essere definita la “sindrome del suicidio senza rimedio” per indicare con riferimento
a quanto affermato da Kernberg (1987) che il terapeuta può inconsciamente ritenersi già fallito di
fronte ad un paziente a rischio di suicidio e quindi creare uno stato in cui il suicidio non è prevenuto ma anzi facilitato. Kernberg afferma che il terapeuta che reagisce solo con dolore e sollecitudine di fronte al paziente che ha tentato il suicidio, spesso sembra voler negare la propria
controaggressività che invece abbonda generalmente. Al terapeuta è richiesto un continuo sforzo
di accettazione del rischio di perdita e di fallimento terapeutico e qualora tale sforzo risulti ostacolato il rischio di incorrere nell’atto letale del paziente è indubbiamente amplificato. Spesso la
razionalizzazione di eventuali misure di emergenza, proposte come necessarie per prevenire il
suicidio riflette l’ansia del terapeuta. L’eccessiva preoccupazione può addirittura divenire un mezzo
di scambio coercitivo e manipolativo usato dal paziente per il controllo della relazione (Tatarelli
1992). È necessario non dimenticare in questo contesto il fatto che il terapeuta è in costante
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Oltre la sfida terapeutica
contatto con gli intimi intenti suicidofili del paziente. Nell’ambito della terapia al paziente viene
richiesto di tentare metaforicamente il suicidio e potendo essere soccorso, e quindi poter ricondurre il comportamento suicida nell’ambito della stanza del terapeuta. Ma questo ovviamente è
un gioco pericoloso in quanto il paziente potrebbe trasformare il pensiero in azione (Tatarelli e
Girardi 1995). Ed è proprio in questo frangente che avviene la sfida terapeutica, che se accettata
empaticamente può offrire al paziente il sostegno alla profonda disperazione che soggiace al suo
intento autolesivo e può aprire un varco alla speranza.
Alcune reazioni controtransferenziali nella terapia con il paziente suicidario
Una premurosa e affidabile relazione terapeutica caratterizzata da una buona alleanza tra
terapeuta e paziente è considerata elemento fondamentale nella gestione di qualsiasi paziente
suicidario (Maddison e Mackey 1966, Mintz 1971, Andriola 1973). Ciononostante molti pazienti
sono incapaci di realizzare un’affidabile relazione terapeutica e non si identificano nel ruolo di
paziente (Vlasak 1975). Essi mettono a dura prova il terapeuta nel dover gestire il loro modo
distorto di percepire l’ambiente circostante. Per fronteggiare i sentimenti negativi e di ansia che si
fanno strada durante il trattamento il terapeuta adotta meccanismi di difesa come la soppressione,
il rivolgimento verso se stessi, la formazione reattiva, la proiezione e la distorsione della realtà
(Maltsberger e Buie 1974), nonché la negazione del potenziale suicidogeno del paziente (Goldstein
e Buongiorno 1984). Dal momento che il paziente suicidario è in grado di suscitare forti reazioni
emozionali e in particolare forti reazioni controtrasferenziali devono essere sempre messe in
evidenza le possibili ripercussioni sulla terapia. Tali reazioni non dovrebbero portare ad assumere
una posizione terapeutica benevolente e neutrale (Shein e Stone 1969) nè ad apparire come una
figura indecisa, debole o aggressiva e nichilista (Rotov 1970). La giusta collocazione delle reazioni trasferenziali può essere un valido metodo per evitare la iatrogenicità del suicidio del paziente dovuto al fallimento terapeutico (Andriola 1973). Tale fallimento infatti può non essere
dovuto alle abilità cliniche del terapeuta o all’uso razionale di una tecnica terapeutica ma all’impossibilità di controllare le reazioni controtransferenziali (Modestin 1987). Ad esempio il terapeuta
può assumere il ruolo di Super-Io del paziente ed arrivare a pretendere un cambiamento dello
stile di vita. Se il paziente è incapace di far fronte a queste richieste, può reagire con un profondo
senso di colpa (Kahne 1968), al tempo stesso il terapeuta può far convergere sul paziente il suo
scoraggiamento e il suo pessimismo circa la prognosi mettendo così a repentaglio la riuscita
della terapia stessa (Wheat 1960). Sotto la pressione del paziente, il terapeuta può divenire incerto, perdere l’autostima e quindi perdere la sintonia con il mondo interiore e le reazioni emotive
del paziente. Si tratta di un aspetto estremamente importante dal momento che per definizione i
sentimenti controtrasferenziali sono in parte inconsci e quindi solo parzialmente riconoscibili
dal terapeuta.
Il paziente suicidario è spesso ostile, sadico e alcune volte aggressivo (Farberow et al. 1966,
Myers e Neal 1978, Hagnelle e Rorsman 1980, Tardiff e Sweillman 1980, Modestin e Boeker
1985). L’aggressività del paziente può indurre nel terapeuta un livello di ansia tanto intenso da
impedirgli di prendere le corrette decisioni nell’ambito della terapia.
Esempio clinico 1.
Un paziente di circa 20 anni inizia un trattamento di psicoterapia a causa di ricorrenti episodi
di depressione. Nei primi tre mesi di terapia con sedute settimanali il paziente sembra mostrarsi
docile e accondiscendente nell’ambito della relazione terapeutica. Il susseguirsi di due sedute in
cui il terapeuta cerca di far luce su alcuni episodi infantili significativi fa scattare sentimenti
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Maurizio Pompili et al.
aggressivi ed ostili nei confronti del terapeuta che a dire del paziente è un “sadico, menefreghista,
incapace di comprendere la sofferenza altrui”. La tensione continua per circa sei sedute nelle
quali il paziente minaccia il suicidio affermando ripetutamente che è inutile vivere senza la comprensione di qualcuno. Il terapeuta, notando la crescente aggressività del paziente decide, approfittando di un motivo plausibile, di rincontrare il paziente dopo due settimane, ripromettendosi
che farà insieme al paziente il punto della situazione, eventualmente affidando il paziente ad un
altro terapeuta. Due giorni dopo questo incontro il terapeuta apprende la notizia del suicidio del
proprio paziente. In questo caso, il terapeuta sentendosi sempre più limitato dall’aggressività del
paziente, sperava di ottenere un beneficio posticipanado la seduta ed eventualmente liberandosi
del tutto del paziente.
Un altro elemento controtrasferenziale che può pregiudicare la terapia di un paziente a rischio di suicidio è l’intolleranza del terapeuta alla passività e alla dipendenza del paziente soprattutto quando il clinico nutre aspettative circa un comportamento maturo del paziente o comunque
al di là delle sue capacità (Wheat 1960, Stone 1971). L’imposizione di compiti che superano le
risorse del paziente può in alcuni casi essere motivata dall’aggressività del terapeuta provocata
dal comportamento di dipendenza del paziente.
Esempio clinico 2.
Una paziente di 35 anni giunge all’attenzione del terapeuta lamentando l’incapacità di mantenere un lavoro stabile. A suo dire questo è il motivo fondamentale del suo stato d’ansia e dei suoi
episodi depressivi occorsi negli ultimi dieci mesi. Ammette di aver avuto varie volte un’ideazione
suicidaria, interrotta ogni volta con l’assunzione presso un nuovo impiego. Dalla discussione clinica emerge che la perdita del lavoro è la conseguenza del suo forte bisogno di sentirsi accettata e
accudita dalle persone che la circondano fin dai primi momenti in cui si instaura la relazione. La
paziente dopo circa due mesi di terapia inizia a pretendere che il terapeuta la chiami il giorno
prima della seduta affinché non si dimentichi dell’incontro; il terapeuta asseconda questa richiesta
nel tentativo di far sentire la paziente accettata e accudita e quindi creare una relazione terapeutica
stabile. Inoltre le telefonate al cellulare del terapeuta divengono sempre più frequenti, fino ad
arrivare ad un numero estremamente elevato. Durante queste chiamate la paziente esprime numerosi dubbi circa le normali attività quotidiane e sembra essere ignara della frustrazione del terapeuta
nel doversi confrontare con la sua forte dipendenza. Dopo il consulto con un collega, il terapeuta
decide di interrompere questa dipendenza della paziente promuovendo un comportamento più
adulto. Per far ciò informa la paziente che non la chiamerà più prima di ogni seduta e che le
chiamate al cellulare non potranno più essere fatte. La paziente sembra reagire positivamente a
questo cambiamento anche grazie al fatto che contemporaneamente viene assunta presso un nuovo impiego. Tuttavia dopo pochi giorni è di nuovo alle prese con il licenziamento e tenta il suicidio
ingerendo una dose tossica di benzodiazepine e antidepressivi. Il rifiuto del terapeuta unito a quello dell’ambiente lavorativo può essere a buon diritto ritenuto il motivo scatenante del tentato
suicidio. In questo caso il terapeuta aveva mostrato una difficoltà nel gestire la dipendenza del
paziente fin dall’inizio, ed inoltre la drastica decisione presa drastica per interrompere i comportamenti divenuti insopportabili lo aveva allontanato da una soluzione che invece poteva attuarsi con
un migliore e più empatico confronto con la paziente.
Nelle reazioni controtrasferenziali che possono compromettere la terapia con il paziente a
rischio di suicidio vanno attentamente analizzate le componenti erotiche. Queste possono essere
solo parzialmente rivelate dal paziente e l’incapacità del terapeuta di gestirle può aumentare il
rischio di suicidio nel paziente. Infatti il terapeuta può disapprovare o respingere troppo energica222
Oltre la sfida terapeutica
mente i sentimenti erotici del paziente e dunque apportare una ferita alla sua autostima. Inoltre in
riferimento al controtransfert e ai propri conflitti libidici il terapeuta può completamente ignorare
i sentimenti erotici del paziente, che può così sentirsi rifiutato o non adeguatamente considerato
(Modestin 1987).
Esempio clinico 3.
Una paziente di 26 anni giunge all’osservazione del terapeuta sostenendo che una infiammazione non ben localizzata all’apparato genitale è il risultato del suo travagliato rapporto con la
sessualità. L’esordio della patologia infiammatoria viene fatto risalire al momento in cui era corteggiata da un suo coetaneo. Convinta che il corteggiamento possa sfociare in avances sessuali
che lei ritiene non essere in grado di gestire, la paziente decide di interrompere i rapporti con
questa persona. Durante la terapia la paziente apprende che risolvendo la conflittualità con la
propria sessualità ella sarà in grado di stabilire una relazione adulta con i suoi corteggiatori. Dopo
alcune sedute la paziente presenta evidenti sintomi depressivi che sembrano connessi al materiale
che sta emergendo durante la terapia. La paziente è chiaramente alle prese con sentimenti di
hopelessness e helplessness e al riguardo il terapeuta cerca di spiegarle che presto la situazione
angosciosa che sta vivendo potrà lasciare il posto allo sbocciare di nuovi sentimenti alleggeriti
della carica angosciosa. Un giorno la paziente si presenta alla seduta portando come regalo al
terapeuta una pianta con fiori ben visibili di colore rosso. Il terapeuta ritiene di non poter accettare il regalo, intuendo che i fiori rossi simboleggiano l’organo genitale femminile e tal rigurdo
ritiene che “l’accettare” la sessualità della paziente possa incoraggiare un “acting in” ed ostacolare la riuscita della terapia. Lo stesso giorno della seduta la paziente viene trovata morta suicida.
La presentazione della pianta era stato un gesto che epilogava una lunga serie di accenni al transfert
erotico della paziente. In questo caso il terapeuta in certa misura condivideva le inibizioni della
paziente elicitando un comportamento che frustrava quella sessualità che egli stesso aveva
profeticamente indicato in procinto di sbocciare.
L’alleanza terapeutica con il paziente non deve mai venir meno. Il paziente deve rimanere in
ogni caso il centro del lavoro terapeutico. Questo è di particolare importanza quando vengono
chiamate in causa nel corso della terapia altre persone significative per il paziente. Nel caso del
paziente ad alto rischio di suicidio questa è un’eventualità che spesso si verifica. Sulla base delle
reazioni controtrasferenziali instauratesi precedentemente, il terapeuta può trovarsi a sostenere in
modo esplicito le terze persone inserite nella terapia, piuttosto che il paziente, facendo sfumare
l’alleanza terapeutica. Infatti il trovarsi in sintonia con una persona diversa dal paziente, magari
subirne anche il fascino, può condurre il terapeuta ad enfatizzare le soluzioni o i punti di vista
proposti da questa persona, ignorando la realtà del paziente (Modestin 1987).
Esempio clinico 4.
Un paziente di 20 anni inizia una psicoterapia descrivendo un quadro sintomatologico che il
terapeuta riconosce appartenere ad un disturbo di personalità borderline. Tale disturbo ha subito
un netto peggioramento a seguito del conseguimento del diploma di maturità; inoltre il paziente
riferisce di aver avuto vari altri disturbi psichici in cui predominavano i sintomi depressivi e di
ansia. La sua principale preoccupazione al momento della terapia concerne il suo isolamento
sociale. Il paziente descrive l’incapacità di stabilire e mantenere le amicizie. A suo dire la famiglia da cui proviene è in gran parte colpevole di questo problema per il fatto che periodicamente
gli impartisce istruzioni sul tipo di amicizie che deve instaurare. Il terapeuta ritiene che stabilire
un contatto con la famiglia possa essere un utile modalità per allentare questa condizione in cui
prevale l’hopelessness del paziente. La madre del paziente è l’unico membro della famiglia di223
Maurizio Pompili et al.
sposto ad intervenire e lo stesso paziente ritiene che la madre sarà di gran lunga più utile rispetto
agli altri familiari. La donna fornisce valide motivazioni a sostegno della sua abitudine di consigliare il figlio circa le sue amicizie e il suo stile di vita. Il terapeuta impressionato dalla fermezza
e dal carisma della donna giunge a condividerne i principi e invita il paziente a non entrare in
conflitto con la madre, e anzi a darle una possibilità e seguendo entro certi limiti i suoi dettami,
astenendosi dal frequentare luoghi e persone che possono non rispondere alle aspettative materne. Solo dopo il suicidio del paziente, avvenuto il giorno dopo l’incontro, il terapeuta apprende
che subito dopo essere usciti dallo studio, madre e figlio furono vittime di un acceso litigio durante il quale la madre sosteneva di avere senza dubbio ragione in quanto anche il terapeuta aveva
poco prima condiviso le sue ragioni.
Il paziente ad alto rischio suicidario tende ad aggrapparsi tenacemente al suo terapeuta oppure a manifestare ostilità, odio e aggressività nella relazione terapeutica. Queste manifestazioni
emotive sono espressioni di paura oppure sono motivate dal timore dell’abbandono e della perdita degli altri con i quali il paziente tenta di compensare il suo sè inadeguato (Kohut 1971); oppure
sono motivate dalla ricerca di oggetti buoni e arcaici per compensare la mancanza di un sè
internalizzato (Kernberg 1975, 1976). L’abbandono è vissuto da questi pazienti come un disastro
per il loro sè. Il terapeuta può penetrare in profondità i problemi del paziente proprio esplorando
questa vulnerabilità enfatizzata dalle reazioni controtrasferenziali dello stesso terapeuta.
La revisione periodica delle componenti emotive emerse nel corso della terapia, anche con
l’ausilio di un collega può aiutare ad evitare l’istaurarsi di situazioni difficili da gestire e improntate
sul controtransfert. Questo può essere un lavoro arduo nel caso ci siano molti pazienti a rischio di
suicidio contemporaneamente; per questo motivo è auspicabile limitarne il numero per una più
efficace gestione (Mintz 1971). Il miglior modo di monitorare la terapia rimane la costante presa
di coscienza da parte del terapeuta delle reazioni controtrasferenziali che progressivamente si
sviluppano nel setting, accettandole senza colpa o vergogna; un efficace lavoro in questo ambito
può facilitare notevolmente il lavoro terapeutico con il paziente a rischio di suicidio. Non si
dovrebbe mai dimenticare lo straordinario potere del controtransfert nell’ambito del trattamento
psicoterapeutico. Il coraggio del terapeuta di lasciare la sua posizione privilegiata e di porsi sullo
stesso piano del paziente costituisce uno degli elementi più interessanti dell’effetto curativo della
psicoterapia (Maroda 1991). Se da un lato la rivelazione al paziente del proprio controtransfert è
stata da sempre bandita, dall’altro vi sono eccellenti testimonianze (Searles 1959, 1979; Maroda
1991; Mann 1997) di psicoterapie conclusesi con successo solo grazie all’abilità del terapeuta di
rilevare quanto in un particolare momento fosse adeguato al proprio controstansfert, facendosi
per questo apprezzare dal paziente come una persona capace di amare e di odiare, di provare
sentimenti di compassione oppure sadici verso la sua sofferenza. Il non voler fuggire davanti ai
propri sentimenti rappresenta un esempio di grande valore per il paziente ed un invito a fare lo
stesso. La trattazione della rivelazione del controtransfert va oltre lo scopo di questo lavoro, ma
dovrebbe costituire un importante motivo di ulteriore ricerca.
Conclusioni
Occuparsi di un paziente a rischio di suicidio è uno dei compiti più ardui che il terapeuta
deve affrontare in qualsiasi forma di psicoterapia, da quella prettamente psichiatrica a quella
orientata ad un approccio specifico. Doversi confrontare con la morte e i fantasmi ad essa connessi e rischiare di perdere il paziente sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano questo tipo
di terapia. Se per un verso il paziente presenta il suo vissuto carico di pensieri suicidofili di contro
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Oltre la sfida terapeutica
il terapeuta risponde emotivamente con una vasta gamma di reazioni controtrasferenziali che
possono costituire la base per la riuscita della terapia. Ma il terapeuta può soggiacere al gioco del
paziente perdendo il controllo della cura, oppure può fare scelte deleterie o semplicemente può
illudersi senza fondamento di aver diminuito il potenziale suicidofilo del paziente. Non esiste un
prototipo di paziente a rischio di suicidio che possa essere preso ad esempio per eseguire una
terapia corretta. Le difficoltà possono essere rappresentate dal tipo di meccanismi di coping adottati dal paziente e dal terapeuta, dal ricatto del paziente o dalla tenacia del potenziale suicidofilo.
La paura del fallimento è una costante che accompagna la terapia con questo tipo di paziente e
l’accettazione del rischio di perderlo dovrebbe essere sempre posto tra le condizioni iniziali del
trattamento. Spesso è proprio l’incapacità di accettare le difficoltà e il rischio della terapia a
pregiudicare un valido lavoro. Nonostante il terapeuta sia particolarmente vigile nel monitorare
tutto ciò che concerne il rischio di suicidio del suo paziente, potrebbe ignorare completamente le
sue reazioni controtrasferenziali in gran parte inconsce. Oltre a non riconoscere il suo atteggiamento di fronte ad un paziente molto particolare che impone la trattazione di temi emotivamente
scomodi, il terapeuta può non aver consapevolezza della sua aggressività nei confronti di un
paziente eccessivamente dipendente da lui o può respingere troppo energicamente i sentimenti
erotici che gli vengono rivolti apportando così una ferita all’autostima del paziente. Inoltre il
terapeuta può sollecitare cambiamenti nello stile di vita del paziente e l’incapacità di ottenerli
può far convergere sul paziente la propria delusione e il proprio pessimismo. A volte poi il paziente può non trovarsi al centro dell’attenzione del terapeuta, soprattutto quando altre persone vengono chiamate a partecipare alla terapia. Tutte queste reazioni controtraferenziali, in aggiunta
alla necessità di prendere le distanze da una terapia particolare, ci portano a concludere che il
suicidio del paziente può essere un evento iatrogeno, cioè basato non solo sul potenziale suicidofilo
del paziente ma in determinate circostanze sull’intervento del terapeuta. Soltanto prendendo coscienza delle reazioni che il terapeuta attua progressivamente nei confronti del suo paziente,
revisionando accuratamente ad intervalli regolari la terapia e attuando una reale stima del rischio
di suicidio, è possibile liberare la terapia da interferenze controtraferenziali che possono significativamente ostacolare la riduzione del potenziale suicidofilo del paziente. Ma il controtransfert
rimane un fenomeno controverso in psicoterapia. Lentamente si assiste al passaggio da un atteggiamento prettamente atto a negarlo o ad attribuirlo interamente al paziente, ad una più consapevole gestione da parte del terapeuta valorizzando anche l’unicità dell’esperienza soggettiva. Grande
dilemma rimane sul fatto di comunicare o meno, o meglio di quanto comunicare sul controtansfert
al paziente. La rivelazione al paziente degli elementi che compongono la reazione
controtransferenziale del terapeuta esalta notevolmente i connotati emotivi di quest’ultimo, mettendo in primo piano il contatto empatico tra i due e facilitando la conoscenza degli aspetti più
nascosti della personalità del paziente. La prospettiva futura in questo contesto è quella di offrire
una più precisa conoscenza sul potere delle reazioni emotive che il terapeuta sviluppa nella relazione con il proprio paziente. Il voler fuggire da questo approfondimento non solo può mettere a
repentaglio la riuscita della terapia ma anche la vita stessa del paziente.
Riassunto
Curare un paziente a rischio di suicidio costituisce una grande sfida terapeutica in qualsiasi tipo di
psicoterapia. Il confronto con l’idea della morte e con il rischio di perdere il paziente nel corso del processo terapeutico impone al terapeuta una particolare gestione delle emozioni che prendono vita nel setting.
L’analisi delle reazioni controtrasferenziali è estremamente importante nel determinare un valido intervento terapeutico. Il mancato riconoscimento di tali reazioni non solo rischia di precludere il buon esito
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Maurizio Pompili et al.
della terapia ma anche di indurre nel paziente un comportamento sucidario. Il delicato equilibrio che si
crea con il paziente suicidofilo necessita di un continuo monitoraggio. Infatti se è vero che ci sono un gran
numero di tipologie di pazienti a rischio di suicidio è anche vero che vari comportamenti terapeutici
possono accrescerne il rischio, potendo in alcuni casi attribuire la morte del paziente suicida ad un evento
iatrogeno.
Summary
Key Words: Suicide – Psychotherapy
Treating a patient who is at risk of suicide is a great therapeutic challenge in any kind of psychotherapy.
Dealing with the idea of death and with the risk of loosing the patient during the therapeutic process force
the therapist to meticulously organise emotions inside the setting. The countertrasference analysis supply a
valid therapeutic intervention. If not recognised, these reactions not only may undermine a good therapeutic
result, but also they may induce a suicidal behaviour in the patient. The fragile balance that is part of the
therapy with a suicidal patient need to be monitored by the therapist at any time. Indeed, various kind of
suicidal patients can be recognised; as well as various therapeutic behaviours may increase the risk of suicide, leading to connect a suicidal act to a iatrogenic event.
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Maurizio Pompili, Iginia Mancinelli, Roberto Tatarelli
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
(Direttore: Prof. Roberto Tatarelli)
Dott. Maurizio Pompili
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica
Università “La Sapienza”
Via Panama 68/70,
00198 Roma
Telefono: 06/8555497
E-mail: [email protected]
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