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Nascita del Museo moderno
Corso di aggiornamento 2008/09 “TESORI D’EUROPA, PATRIMONIO DEI CITTADINI: NASCITA E SVILUPPO DEL MUSEO MODERNO” Giovedì 23 ottobre 2008 Musei d’Europa: un intreccio di culture Dott.ssa Patrizia Dragoni Università degli Studi di Macerata, Facoltà e Dipartimento di Beni Culturali. (Patrizia Dragoni è ricercatrice di Museologia presso l’università degli Studi di Macerata. La sua ricerca è da sempre finalizzata al tema dei musei, affrontando studi e ricerche inerenti all’origine, all’evoluzione, alle finalità istituzionali e alle attività storiche dei piccoli stabilimenti umbri, marchigiani e laziali e altresì occupandosi degli aspetti inerenti all’ordinamento scientifico e alla valorizzazione delle loro raccolte e dei beni culturali diffusi nei luoghi circostanti, agli standard di organizzazione e di funzionamento, ai contenuti e ai modi della comunicazione culturale e all’impianto e alla gestione dei servizi informativi e didattici. Ha collaborato con studiosi quali Bruno Toscano, Eleonora Bairati, Andrea Emiliani, Massimo Montella, Pierluigi De Vecchi, Federico Zeri). La seconda metà del secolo XVIII rappresenta un momento chiave nella storia del museo, la fase in cui esso viene proposto consapevolmente come istituzione a destinazione pubblica: è infatti in quel determinante periodo storico, introdotto dal pensiero dell’Illuminismo e attraversato dai profondi rivolgimenti portati dalla Rivoluzione francese e dalle conquiste napoleoniche, che vediamo convergere nel museo funzioni che ancora oggi ne sono proprie: la conservazione dei valori storici, la didattica a fini di conoscenza e diletto, la valenza simbolica a rappresentazione del prestigio e della gloria patria. Il museo illuminista Durante l’Illuminismo, gran parte delle potenzialità di rinnovamento promosse dai sovrani e dai principi “illuminati” si tradussero in progetti di riforma in campo culturale, tra i quali l’apertura al pubblico delle collezioni dinastiche, sistemate secondo i nuovi principi razionalisti di ordine e classificazione, assume fondamentale importanza per la storia del museo moderno. Pur rimanendo infatti la proprietà delle collezioni appannaggio dei principi, il patrimonio diventa oggettivamente patrimonio dello Stato, e conseguentemente il suo stesso significato si trasforma dalla semplice apertura al pubblico, ancorché ristretto a uomini di cultura, giovani artisti in formazione, conoscitori, appassionati d’arte e soprattutto viaggiatori, ad una complessa struttura conoscitiva che incarna nel museo una cultura originale e autonoma, non solo diversa, ma radicalmente opposta a quella del collezionismo. A partire dalla fondazione del British Museum di Londra (1753), nato dalla deliberazione del Parlamento inglese di acquistare le collezioni del dottor Sloane, offerte alla nazione “per il beneficio dell’umanità”, in tutta l’Europa, unita dalla comune appartenenza alla “République des Lettres”, si assiste all’apertura delle collezioni. Se nella maggior parte dei casi le collezioni mantennero la sede originaria, il caso di Kassel, in Germania, riveste fondamentale importanza: tra il 1769 e il 1779 il langravio Federico II d’Assia fece infatti edificare ex novo un museo cui diede il suo nome (Museum Fridericianum). Su un contenuto collezionistico tradizionale innestò tutti i temi più significativi di una nuova età: un unico edificio, di forme neoclassiche, salvaguardava l’unità della raccolta, della quale il carattere totalizzante, il caratteristico effetto di accumulo da Wunderkammer, veniva trasformato in “museo di arte e scienza” secondo i più moderni principi di classificazione; l’edificio si poneva come fulcro urbanistico della nuova piazza al cui centro era la statua del langravio; le raccolte di antichità erano state arricchite da opere acquistate appositamente in Italia. Contemporaneamente, ma in modo forse ancora più radicale, il modello illuminista di museo agì sulla ristrutturazione delle collezioni dinastiche agli Uffizi di Firenze, aperte al pubblico per volontà di Pietro Leopoldo nel 1769. Nell’arco di un decennio il multiforme complesso di raccolte eclettiche dei Medici si trasforma in un grande e sistematico museo, la cui sistemazione si deve a Luigi Lanzi, “assistente antiquario” dal 1775 del direttore Giuseppe Bencivenni Pelli. Nel pensiero del grande storico ed erudito l’impianto museale doveva disegnare un preciso modello conoscitivo, ispirato – come egli stesso afferma – “al sistema delle benintese biblioteche, ove ogni classe tiene un luogo separato e distinto da tutte le altre”. Il lavoro di Lanzi si configurò come il luogo della verifica dei criteri storiografici che trovarono compiuta formulazione nella sua opera maggiore, la Storia pittorica dell’Italia (1792-1809): nell’allestimento museale come nell’impianto della Storia, principio unificante della volontà didattica è l’ordinamento dell’arte italiana per “scuole” locali. Non certo a caso i nuovi Uffizi appaiono strettamente relazionati a quanto contemporaneamente (1776-78) avveniva a Vienna, dove il fratello dell’arciduca Leopoldo, Giuseppe II, fece trasferire la quadreria imperiale al Belvedere, in vista dell’apertura al pubblico: l’ordinamento per epoche e per scuole, nonché il catalogo delle collezioni (1781) sono opera di Christian von Mechel. Negli intenti dello studioso l’ordinamento della nuova galleria doveva “diventare una storia dell’arte visibile” e la grande raccolta pubblica, “destinata più allo studio che al diletto passeggero” veniva ad “assomigliare a una ricca biblioteca, in cui chi è desideroso di sapere è felice di incontrare opere di tutti i tipi e di tutti i tempi”. Sempre negli stessi anni a Roma, dove una politica di mecenatismo papale agisce in base a principi analoghi a quelli dei governi “illuminati” d’Europa, si inaugura la maggiore creazione museale di fine secolo, il Museo Pio-Clementino in Vaticano (1771-93). Potrebbe apparire strano che proprio la Francia, culla dell’Illuminismo, non abbia partecipato a questo vasto processo di musealizzazione. In realtà, l’esigenza di aprire al pubblico le collezioni dinastiche era stata avvertita anche a Parigi dalla metà del Settecento e nel 1753, su sollecitazione dell’Accademia Reale, un centinaio di opere scelte dalle collezioni reali erano state esposte al Palais du Luxembourg, che già ospitava la magnifica serie di dipinti di Rubens nella Galleria di Maria de’ Medici. Solo sei anni più tardi, tuttavia, il palazzo venne destinato al fratello del re e le collezioni furono smantellate. Un progetto più ampio venne allora elaborato dal conte D’Angivillier, ultimo “sovrintendente alle fabbriche del re”: prevedeva di riunire le collezioni, divise tra le diverse residenze reali, e di esporle secondo principi razionali e coerenti nella Grand Galerie del Louvre. Dopo un iter molto travagliato, il progetto fu approvato dal re nel 1788, alla vigilia della Rivoluzione. Il museo rivoluzionario Non bisogna tuttavia credere che il museo inaugurato al Louvre il 10 agosto 1793, nel primo anniversario della caduta della monarchia, sia una diretta continuità del progetto di D’Angiviller: non si trattò infatti dell’apertura al pubblico delle collezioni reali, ma di un progetto totalmente diverso sul piano ideologico: il Musée Français, il museo della Repubblica, era il primo museo nazionale. Se nel pensiero di D’Angiviller la collezione reale si era andata configurando come nucleo fondante di un vero museo di Stato, costruito attraverso una politica di acquisti e di commissioni pubbliche, nel caso del Musée Français l’apertura del museo è preceduta dalla formazione del patrimonio nazionale, attraverso la confisca dei beni ecclesiastici, delle proprietà degli aristocratici fuorisciti e la statalizzazione dei beni della corona. L’apertura del museo si configura dunque come “restituzione” del patrimonio nazionale al legittimo proprietario, il popolo francese. Anche le opere d’arte sono “liberate” dall’arroganza del potere; lo Stato ne assume la responsabilità, facendosi garante della loro conservazione (tutela) e della loro conoscenza (pubblicizzazione). Il museo avrebbe dovuto configurarsi come una grande scuola, un luogo di formazione non solo per gli artisti ma per tutti i nuovi cittadini, e diventare il simbolo rappresentativo della grandezza della Repubblica. Questo insieme di intenti distingue il Louvre da ogni altro modello di museo apparso fino ad allora in Europa e ne fa il prototipo del museo moderno. Il Musée Français adottò fin dal momento della sua apertura soluzioni organizzative e gestionali innovative, che diventeranno poi comuni a tutti i musei pubblici. In primo luogo conferì sostanza effettiva all’istanza di pubblico servizio, rivolgendosi a tutti e non soltanto, come nella stagione precedente, a pochi visitatori di elevata cultura e garantendo tempi di apertura dilatati come mai prima: negli ultimi tre giorni di ogni decade, dalle nove del mattino alle quattro del pomeriggio, tutti potevano accedervi liberamente, i giorni restanti erano riservati agli artisti. Inoltre fu subito stampato un catalogo a basso prezzo con la sintetica descrizione di oltre seicento tra dipinti e oggetti d’arte; per la prima volta le opere vennero corredate da cartellini con l’indicazione dell’autore e della scuola; si offrì la possibilità di effettuare visite guidate da un esperto. Nello stesso 1793, sulla riva opposta della Senna, nell’antico convento dei PetitsAugustins, veniva inaugurata un’esposizione di oggetti, frammenti architettonici, monumenti, vetrate, scampati alla furia del vandalismo rivoluzionario. Nel momento cruciale della svolta repubblicana, infatti, il fenomeno del vandalismo aveva pericolosamente confinato con quello dell’asportazione e della statalizzazione delle opere. Non tanto manifestazione di cieca violenza, quanto anche operazione attentamente guidata, il vandalismo dimostrava come esistesse una precisa consapevolezza del valore storico e simbolico di certi beni, come ad esempio le tombe reali dell’abbazia di Saint-Denis. L’esigenza di non perdere documenti della storia, ma anche la possibilità di trasformare un bene simbolico in oggetto di piacere estetico, privandolo di tutta la “pericolosità” che l’originaria funzione simbolico-rappresentativa continuava ad esprimere, costituiscono la risposta del museo al vandalismo e sono alla base del secondo museo rivoluzionario: il Musée des monuments français. Nel 1791 fu creato a Parigi nel convento espropriato dei Petits Augustins il Depôt des monuments des Arts, per ricoverarvi opere provenienti soprattutto dai beni ecclesiastici alienati. Conservatore dell’ingente deposito venne chiamato un uomo di cultura e di genio, Alexandre Lenoir che, nello svolgere il suo compito di tutela e di studio, concepì il progetto di un grande museo che delineasse la storia della scultura in Francia dalle più lontane origini fino al secolo XVIII, con una introduzione costituita da opere di scultura antica. Aperto temporaneamente come esposizione nel 1793, ebbe un tale successo di pubblico che il progetto fu approvato dal Comitato d’Istruzione Pubblica e il museo fondato ufficialmente nel 1795, con sede ancora ai Petits Augustins. L’antico convento, luogo simbolico dell’oscurantismo clericale, diventava così tempio laico della cultura, ma Lenoir al tempo stesso coniugò la laicizzazione delle opere d’arte, quasi tutte di provenienza ecclesiastica, con una nuova funzione sacralizzante che le rendeva testimonianze della storia di Francia. Il museo di Lenoir, forse anche al di là delle intenzioni stesse del suo creatore, era così divenuto il primo museo di storia nazionale, ricostruita secolo dopo secolo a partire dalle origini medievali fino all’anno primo della Rivoluzione; nonché museo di recupero, asilo per opere che avevano rischiato la distruzione. Aperto due giorni alla settimana, il museo possedeva un catalogo che fu più volte stampato, corredato da incisioni; dal 1799 si arricchì del giardino Eliseo dove, tra cipressi e altra vegetazione, con sensibilità preromantica veniva reso omaggio alle personalità illustri che avevano contribuito a rendere grande la Francia. Il successo dei due grandi musei rivoluzionari fu immediato, e la frequentazione così alta che nel 1796 si dovette chiudere temporaneamente la Grand Galerie per restauri e opere di consolidamento. Alla riapertura il Louvre aveva cambiato nome, diventando il Musée Central des Arts. Al cambiamento del nome corrisponde una delle vicende più complesse dell’intera storia del museo: le requisizioni di opere d’arte dai paesi occupati dagli eserciti rivoluzionari, a cominciare dalla campagna dei Paesi Bassi (1794). Ma nessuno dei bottini di guerra in opere d’arte ebbe tanta risonanza quanto quello della campagna d’Italia, il trampolino di lancio della carriera del giovane Napoleone Bonaparte: le più celebri sculture antiche del mondo, i capolavori dell’età d’oro del Rinascimento, sfilarono a Parigi nel grande corteo della Festa delle arti e delle scienze, l’ultima festa repubblicana. La fama delle sculture antiche, modelli della cultura del nuovo classicismo, unita a una particolare congiuntura politica, portarono alla creazione di un nuovo museo: la Galerie des Antiques, allestita negli ambienti della cosiddetta “piccola galleria” al piano terreno del Louvre e inaugurata a tempo di record il 7 novembre 1800 (primo anniversario della presa del potere da parte di Napoleone). Il gusto e la competenza di Ennio Quirino Visconti, già conservatore del Museo Pio-Clementino in Vaticano, che aveva seguito Napoleone a Parigi spinto dalla fede rivoluzionaria, fecero del nuovo museo la gemma del Louvre: la successione delle sale si concludeva con la scenografica collocazione del Laocoonte in una nicchia, che lucidamente rispecchiava l’originaria ambientazione della scultura al PioClementino. Bibliografia: E. Pommier (a cura di), Les musées en Europe à la veille de l’ouverture du Louvre, Paris, Musée du Louvre, 1995 E. Bairati, Alle origini del museo moderno : l’eredità della Rivoluzione nella crescita dei musei dell’Ottocento, in Ideologie e patrimonio storico-culturale nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Atti del convegno, Tolentino 18-21 settembre 1997, Roma, 2000 E. Castelnuovo, Arti e rivoluzione, in Arte, industria, rivoluzioni. Temi di storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino, 1985 E. Pommier, L’art de la liberté: doctrine et debats de la Revolution française, Paris, Gallimard, 1991 D. Poulot, Musée, nation, patrimoine: 1789 -1815, Paris, Gallimard, 1997