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Restaurare il “moderno”? Difficoltà tecniche e teoriche di un tema di
L’ARGOMENTO
Maurizio Boriani
Restaurare il “moderno”?
Difficoltà tecniche e teoriche di
un tema di attualità
Il restauro del “moderno” pone
oggi nuovi problemi ma
richiede un approccio che
sappia tenere conto delle
recenti teorie della
conservazione
Da almeno una decina di anni il tema del
“restauro del moderno” è diventato di
grande attualità; dapprima le opere degli
architetti del Movimento Moderno, che
sempre hanno goduto di una storiografia
favorevole, e, successivamente rivalutate,
anche quelle coeve e rivali novecentiste,
art déco, espressioniste o addirittura ispirate ai regimi autoritari del periodo tra le
due guerre mondiali, tutta l’architettura
della prima metà del XX secolo, sono
attualmente oggetto di una attenzione che
è uscita dal ristretto campo della letteratura specialistica per confrontarsi con i concreti problemi della selezione, della tutela,
della conservazione e del recupero.
Il restauro del quartiere sperimentale
Weissenhof di Stoccarda ha costituito in
questo senso, proprio per il valore simbolico per l’architettura contemporanea che
esso ancora conserva, la pietra miliare di
un vero punto di svolta nell’attenzione
della cultura internazionale per questo
nuovo tema del restauro, attenzione via
via sviluppatasi dalla fase di denuncia
delle distruzioni a quella dei congressi
internazionali, a quella della tutela, a
quella del progetto di restauro e di recupero a nuovi usi.
Come in un film già visto si è però di
nuovo assistito, anche per il moderno, al
riproporsi dell’ormai annosa querelle
1. Thomas Deane, Benjamin Woodward, Oxford
museum, Oxford, 1855. Veduta esterna (da T.
Garnham, Oxford Museum, Londra, 1992).
2. Thomas Deane, Benjamin Woodward, Oxford
museum, Oxford, 1855. Vedute interne. Dietro
l’apparenza di un edificio tradizionale si nasconde
una moderna struttura in ferro e vetro (da T.
Garnham, op. cit.).
“restaurare o conservare” che la cultura
del settore aveva affrontato e risolto,
almeno dal punto di vista teorico, da ben
più di un secolo, quasi che quella del
ripristino fosse una sorta di malattia infantile del restauro, puntualmente insorgente
ogni volta che una nuova categoria di
opere assume la dignità di bene culturale.
Se si dovesse individuare un buon motivo per non parlare di “restauro del
moderno”, la malattia del ripristino costituirebbe da sola un’ottima motivazione:
evitando di riconoscere una specificità del
problema si eviterebbe al contempo la
tentazione di trattarlo al di fuori degli
ormai consolidati confini della disciplina
del restauro, intesa oggi come scienza
della conservazione e del riuso dei manufatti di interesse storico- documentario.
Esistono però delle specificità del problema, che meritano di essere affrontate
anche proprio per capire per quali motivi
il “restauro del moderno” tenda a sfuggire
ai canoni del restauro tout court.
In primo luogo è necessario mettere in
chiaro cosa si debba intendere per
“moderno”, termine quanto mai ambiguo
in quanto usato dalle discipline storiche in
modo molto diverso che nel linguaggio
comune.
Il termine “moderno”, in effetti, si rapporta obbligatoriamente al suo contrario
“antico”: un fatto è moderno in quanto
riconoscibile come diverso da quanto lo
ha preceduto. Così, ad esempio, gli artisti
rinascimentali hanno parlato di una
“maniera moderna” rispetto a quella gotica. In questo stesso senso, gli architetti
funzionalisti si sono definiti moderni e
non contemporanei per sottolineare la
radicale diversità del loro fare architettura
rispetto a quello del passato, che essi
ancora riconoscevano essere presente
nella contemporaneità. Questa presa di
posizione (il Movimento Moderno) induce
oggi numerosi equivoci: da un lato c’è chi
sostiene la dignità ad essere salvate delle
sole architetture del Movimento Moderno
(con acrobazie storiografiche per cercare
di far rientrare in esso opere che non ne
facevano affatto parte), dall’altro si trova
invece chi tende ad affrontare la questione per categorie stilistiche (il liberty, l’art
déco, il Novecento, il Razionalismo, l’Espressionismo, ecc.), assegnando via via a
ciascuna di esse, talvolta in modo concorrenziale, una dignità culturale che giustifichi la necessità di una loro tutela. Questo
modo di operare non porta molto lontano, almeno rispetto al problema di individuare metodi e tecniche corretti per la salvaguardia di tale patrimonio.
Si ritiene, invece, che un primo passo
possa essere fatto ragionando sulla speci-
ficità della produzione architettonica (ma
non solo architettonica) del nostro secolo
e, in buona parte, anche del secolo precedente. In questo senso, le questioni in
gioco possono essere individuate intorno
a quattro punti fondamentali: i materiali
costruttivi e le relative modalità di assemblaggio, i tipi edilizi, le quantità in gioco,
la velocità di trasformazione dei bisogni
sociali e dei mezzi per soddisfarli.
Materiali costruttivi
Si può definire “moderna” tutta l’architettura che impiega materiali costruttivi
innovativi rispetto a quelli tradizionali o
che impiega in modo innovativo i materiali tradizionali.
Questa definizione offre il vantaggio di
permettere di individuare in modo chiaro
una delle specificità dell’architettura
moderna, almeno dal punto di vista delle
tecniche costruttive, e, per quanto ci
riguarda, dei problemi di restauro e conservazione connessi ad esse. Consente
inoltre di non dover distinguere tra “stili”,
“correnti”, “epoche”.
Nel caso dell’impiego di materiali innovativi appare chiaro che essi pongono
oggi, rispetto a quelli tradizionali, nuove
questioni dal punto di vista della loro
conservazione: molti materiali sperimenta-
2
1
392 COSTRUIRE IN LATERIZIO 60/97
li non hanno dato buona prova; altri sono
stati sostituiti da nuovi prodotti di migliore
resa tecnica; altri ancora sono stati abbandonati in favore di materiali semplicemente più economici. Con la rivoluzione industriale (e quindi ben prima che nel nostro
secolo), il processo di sostituzione dei
materiali tradizionali con nuovi materiali è
stato uno dei dati salienti dell’innovazione
della produzione edilizia: basti pensare al
cemento armato, all’acciaio, al vetro, alle
materie plastiche ma anche alle nuove
modalità di realizzazione di componenti
edilizi tradizionali come i laterizi, le pietre
artificiali, il legno. Contemporaneamente,
l’abbattimento dei costi di trasporto su
lunga distanza ha determinato una diffusione dei prodotti industriali su tutto il territorio,con una conseguente tendenziale
sostituzione dei materiali tradizionali, in
genere più costosi da ottenere e più difficili da mettere in opera. L’enorme innovazione nel campo degli impianti tecnici,
sempre più complessi e sofisticati, ha contribuito ulteriormente a modificare il prodotto edilizio: basti pensare all’impatto
degli impianti di riscaldamento o di condizionamento sulla forma stessa degli edifici
o sull’impiego di materiali e soluzioni di
tamponamento ad eccessiva dispersione
termica. Tutte queste innovazioni sono
state realizzate al prezzo di molti tentativi
393 COSTRUIRE IN LATERIZIO 60/97
3
4
394 COSTRUIRE IN LATERIZIO 60/97
3. Milano, Stabilimento Fratelli Livellara (seconda
metà degli anni ’30). Un esempio di architettura
industriale recentemente rivalutata (da AAVV, Il
sogno del moderno. Architettura e produzione a
Milano tra le due guerre, Milano, 1994).
4. Stoccarda, Weissenhof. Walter Gropius, casa
n. 17. La struttura portante dell’edificio è realizzata
con ferri laminati con un profilo a Z che sostengono
i pannelli delle pareti esterne in sughero pressato.
Altri pannelli interni sono in fibra di canna da
zucchero o in cellulosa legata con silicati. Per gli
ambienti umidi sono stati usati pannelli di amiantoardesia (da AAVV, Bau un Vohnung, Stoccarda,
1927).
non sempre pienamente riusciti (da cui
fenomeni accentuati e imprevisti di degrado) o comunque sono attualmente condizionate da specifici problemi di obsolescenza: si pensi al degrado del cemento
armato, dei pannelli prefabbricati, delle
materie plastiche, del ferro-finestra, degli
impianti tecnici, oppure ai problemi di
carattere sanitario che oggi pongono alcuni materiali un tempo entusiasticamente
impiegati come quelli a base di amianto.
Anche i materiali tradizionali sono stati
influenzati dai nuovi modi costruttivi e
dalle nuove condizioni ambientali indotte
dalla rivoluzione industriale: mutate le
dimensioni e le caratteristiche tecniche dei
diversi componenti (si pensi ai laterizi o
alle pietre naturali da rivestimento); mutate le condizioni di impiego (intonaci a
calce che non reggono all’inquinamento
atmosferico sostituiti con intonci cementizi, rivestimenti esterni sottoposti a dilavamento per mancanza di cornicioni, coperture piane con difficoltà di una efficiente
impermeabilizzazione, ecc.).
L’insieme di questi problemi è stato per
lungo tempo trascurato dalla storiografia
architettonica, in particolare da quella del
Movimento Moderno, che ha teso a privilegiare gli aspetti morfologici e tipologici
della nuova architettura rispetto a quelli
tecnico-costruttivi. Sappiamo, d’altra parte,
che molte delle costruzioni formalmente
più innovative dell’architettura del nostro
secolo furono realizzate in buona parte
con tecniche costruttive tradizionali, sottovalutando in molti casi i problemi di
manutenzione che le nuove forme avrebbero imposto ai vecchi e sperimentati
materiali così come ai nuovi ed ancora
non collaudati prodotti edilizi.
Se ci si pone di fronte a questi problemi
nell’ottica del restauro, le cose si fanno
alquanto complesse. Da un lato appare
chiaro che non ha senso riproporre tecniche costruttive o materiali che hanno in
passato dato cattiva prova: anche il ripristinatore più accanito non può pensare di
reinstallare certi materiali autarchici dell’Italia delle Sanzioni o certi materiali sperimentali usciti di produzione per inadeguatezza o per essere stati sostituiti da nuovi
e più efficienti prodotti. È inoltre pur vero
che non avrebbe alcun senso accanirsi a
conservare materiali irrecuperabili, palesemente inadeguati o addirittura riconosciuti
come pericolosi (i componenti a base di
amianto, ad esempio). Ma è anche vero
che, dal punto di vista della storia della
tecnologia costruttiva, certe soluzioni
adottate in passato presentano oggi un
interesse documentario che suggerirebbe
l’opportunità di una particolare attenzione
ad esse, almeno in occasione di interventi
su casi esemplari. Giovanni Carbonara ha
ben messo in evidenza quanto si è perso
della storia della tecnologia edilizia del
Movimento Moderno in occasione dei
restauri eseguiti al Weissenhof di Stoccarda nel quale, proprio in quanto quartiere
sperimentale e manifesto della nuova
architettura che si veniva propagandando,
furono innovativi non solo i caratteri
morfologici e tipologici ma anche quelli
tecnico-costruttivi.(1)
È possibile a questo punto trarre una
prima conclusione: una specificità del
“restauro del moderno” è data dalla novità
dei problemi di manutenzione e conservazione che si pongono per tutti gli edifici le
cui modalità costruttive sono state influenzate in modo significativo dagli effetti della
rivoluzione industriale sul cantiere edilizio,
senza distinzione di epoca, di stili architettonici o di luoghi. All’interno di questa
categoria si può trovare una più significativa prevalenza di tali problemi per quelle
opere che programmaticamente si ponevano come innovative rispetto alla tradizione
costruttiva consolidata, tra cui si può riconoscere gli edifici del Movimento Moderno, ma non solo essi.
I tipi edilizi
Nel corso degli ultimi due secoli l’architettura è stata chiamata alla sperimentazione di una gamma di tipi edilizi ben superiore rispetto a quella dei secoli precedenti. La sempre maggiore complessità delle
attività sociali e produttive del mondo contemporaneo ha richiesto, per ciascuna
delle nuove funzioni che si venivano sviluppando, l’adattamento e il perfezionamento dei tipi edilizi storici e la creazione
di nuove soluzioni architettoniche: basti
pensare alla vasta gamma dei servizi oggi
erogati da enti pubblici o privati, alla notevole varietà delle attività produttive e lavorative in genere, all’articolazione delle funzioni residenziali, ai nuovi spazi per la cultura, lo sport e il tempo libero. Una ulteriore articolazione della gamma di soluzioni architettoniche adottate è dovuta inoltre
alla sempre maggiore importanza acquisita
dagli impianti tecnici e dallo sviluppo
delle opere di infrastrutturazione del territorio, in particolare di quelle di trasporto,
sia di persone che di merci, e di informazioni. Mentre gli antichi edifici, anche per
via di una scarsa specializzazione delle
funzioni loro richieste, offrivano un grado
di flessibilità d’utilizzo alquanto elevato,
che ne garantiva una certa permanenza
del valore d’uso al trascorrere del tempo,
le architetture realizzate a partire dagli
5. Un nuovo materiale da rivestimento: il linoleum
(dalla rivista “Edilizia Moderna”, settembre 1934).
anni della rivoluzione industriale, dimensionate e strutturate in modo specifico per
una specifica funzione, soffrono di una
intrinseca difficoltà di adattamento quando
questa funzione, o il modo di espletarla,
tende a variare o diventa obsoleta.
Una caratteristica del “moderno” è,
come noto, quella della tendenziale corrispondenza forma-funzione, mutuata dalla
razionalità economica del modo di produzione industriale, assunto a elemento di
valore espressivo nelle teorizzazioni funzionaliste, ma riscontrabile in ogni costruzione utilitaria del nostro tempo. Quanto
più è stretto il rapporto tra funzione e
architettura che la soddisfa, tanto maggiore appare l’inadeguatezza di questa al
variare dei bisogni che essa deve soddisfare o delle tecniche per soddisfarli. Per
certi tipi edilizi l’obsolescenza della funzione determina la condanna all’inutilità
dell’edificio, a meno di un difficile riutilizzo per una nuova funzione che, inevitabilmente, richiederà una radicale riorganizzazione degli spazi e degli impianti tecnici
ad essi connessi: si pensi alla quantità di
colonie estive, sanatori, fabbricati industriali, sale cinematografiche, grandi alberghi, ecc., che oggi giace inutilizzata e in
via di accelerato degrado. Si pensi anche
al grande problema degli adeguamenti
normativi dei vecchi edifici, in particolare
di quelli sulla sicurezza.
Un discorso tutto particolare deve essere poi fatto per l’edilizia residenziale, in
particolare quella pubblica.
Pur essendo quella del risiedere una
funzione relativamente semplice da soddisfare, non si può non mettere in evidenza
l’attuale inadeguatezza di molte delle sperimentazioni distributive adottate negli
anni tra le due guerre, in particolare di
quelle ispiratre alle teorie dell’existenzminimum: nel corso degli anni ‘70 non era
difficile trovare, tra le immondizie accatastate lungo le vie dei mitici quartieri di
edilizia pubblica realizzati a Francoforte
nel periodo tra le due guerre, pezzi della
celebre cucina standardizzata, ormai inutilizzabile a fronte dello sviluppo degli elettrodomestici e, soprattutto, pateticamente
demodée.(2) Casi analoghi di insofferenza
degli abitanti nei confronti dei vecchi
quartieri di edilizia pubblica si sono avuti
in passato al Kiefhoek di Rotterdam, salvato solo grazie ad una radicale modernizzazione e riorganizzazione distributiva, o per
le “Case minime” milanesi, demolite quasi
a furor di popolo nel corso degli anni ‘70.
Non solo dunque a causa di materiali
costruttivi facilmente deperibili: anche per
via delle soluzioni tipologiche adottate,
l’architettura “moderna” invecchia male.
395 COSTRUIRE IN LATERIZIO 60/97
Mentre una vecchia casa medievale o settecentesca, per quanto povera fosse la sua
origine e per quanti siano su di essa i
segni del tempo, assume ai nostri occhi
un che di nobile e di decoroso, un vecchio edificio “moderno” ci appare semplicemente come degradato o inadeguato
alle nostre attuali esigenze.
Una ragione di ciò può anche essere
trovata nel fatto che, spesso e per diversi
motivi, la produzione edilizia del nostro
secolo è stata realizzata tenendo conto di
una certa forma di programmazione della
sua obsolescenza. Non è solo il caso di
alcune avanguardie artistiche del Novecento, che teorizzavano la limitata durata
delle loro opere:(3) dure necessità economiche hanno imposto per molti anni di
privilegiare, nella produzione di edifici
pubblici, le quantità edilizie piuttosto che
la loro qualità (e quindi durata); altri fattori, in particolare il lievitare della rendita
fondiaria nelle aree centrali delle grandi
città dell’occidente, hanno imposto un’idea del prodotto edilizio come prodotto
di consumo, per il quale anche la variabile temporale della durata deve essere progettata nell’ottica della massimizzazione
dei profitti.
Appare chiaro che l’obbiettivo di conservare edifici così precari dal punto di
vista della loro durata, programmata o
meno che essa fosse, si scontra con le
quasi insormontabili difficoltà della convenienza economica, del consenso sociale,
dell’opportunità architettonico-urbanistica.
Le quantità in gioco
Le architetture antiche, per quanto
numerose esse possano apparire, ad
5
8. Stoccarda, Weissenhof. L’edidicio di Le Corbusier
(1927) fa da sfondo ad una Daimler-Benz coeva. È
evidente il diverso grado di invecchiamento, non solo
tecnologio ma anche formale, delle due opere.
9. B. Bijvoet, J. Duiker. Sanatorio “Zonnenstraal”,
Hilversum, 1928 (da Moderne Bouwkunst in
Nederland, Rotterdam, 1934).
6. Francoforte. La Frankfurter Küche in
un’immagine d’epoca (da R. Weston, Modernism,
Londra, 1966).
7. Francoforte. Frankfurter Küche, i nuovi
elettrodomestici riducono lo spazio e ne alterano i
rapporti funzionali (da L. Burckhardt, Werkbund.
Germania Austria Svizzera, Milano, 1977).
esempio in Italia, sono comunque relativamente poche. Prodotte in quantità non
rilevantissime, esse sono state selezionate
nel corso del tempo dal loro progressivo
degrado, dalle distruzioni per cause naturali o belliche, dalle demolizioni e sostituzioni programmate dai loro propietari. Per
il semplice fatto di essere antica, una
costruzione appare, anche agli occhi di un
non specialista, come degna di essere
conservata, proprio per via della sua
rarità, a maggior ragione se associata in
insiemi unitari per epoca o stile architettonico o caratteri tipologici e materici, essi
stessi rari se pur costituiti da un numero
consistente di edifici. Le costruzioni
“moderne” sono invece tante, sia perchè
tante ne sono state realizzate, sia perchè
esse non sono ancora state distrutte dal
passare del tempo.
Questo fatto comporta due questioni
che meritano di essere discusse: il problema della dimensione degli interventi di
manutenzione necessari e il problema dell’opportunità di una selezione finalizzata
alla tutela.
Le dimensioni in gioco sono impressionanti. Per la sola Italia e per i soli edifici
d’abitazione occupati i dati sono i seguenti: nel 1991, 5,4 milioni di abitazioni risultavano essere state realizzate anteriormente al 1946 e ben 14,3 erano di epoca successiva. Dei 5,4 milioni di abitazioni anteriori al 1946, 3,4 risultavano costruite
prima del 1919 (di queste molte risalgono
al XIX secolo). Se si stima in 50 anni la
durata media di un edificio senza che
questo abbia bisogno di consistenti opere
di manutenzione straordinaria, appare
chiaro che, non tenendo conto delle
opere di manutenzione già eseguite, a
partire dagli anni ‘90, è possibile calcolare
che una media di circa 300.000 abitazioni
all’anno (per 1,4 milioni di stanze) entrano nel novero di quelle che necessitano
di interventi di una certa consistenza. Si
tratta di un conto molto approssimativo,
che dà tuttavia con una certa evidenza l’idea delle dimensioni dei fenomeni in
corso, soprattutto se ai dati sopra citati si
aggiungono quelli relativi agli edifici non
residenziali e quelli relativi alle necessità
attuali di manutenzione delle opere di
manutenzione già eseguite nel corso dell’ultimo secolo. Lo spostamento della
domanda del mercato dalla produzione
del nuovo alla manutenzione/restauro dell’esistente è già oggi molto evidente e, per
quanto si può prevedere, si accentuerà
ancor più in futuro, ponendo prioritariamente, alle attuali e future generazioni di
architetti, il problema del costruire nel
costruito e dell’operare le necessarie innovazioni in primo luogo conservando e
recuperando le preesistenze.
La questione di una “selezione” finalizzata alla tutela pone, d’altra parte, alcune
difficoltà di carattere teorico: in base a
quali criteri decidere cosa tutelare e conservare e cosa invece lasciare al destino
del libero mercato. In un certo modo, per
il patrimonio edilizio più antico, il problema è risolto a monte, come si è visto, dal
ridotto numero di opere giunte integre
sino ai giorni nostri. Nel caso del “moderno”, o una selezione avviene sulla base di
6
un giudizio critico (ma si è visto che questo giudizio evolve rapidamente nel
tempo: si pensi alla rivalutazione recentemente operata per l’architettura di regime
del periodo tra le due guerre, per gli edifici industriali o per certe declinazioni un
tempo considerate “devianti” del Movimento Moderno), oppure si rinuncia ad
una selezione (il che equivale a rinunciare
ad una tutela attiva).
Le cose sono complicate dalla breve
distanza temporale che separa queste
opere dalla contemporaneità, ponendo sia
questioni normative (ad esempio l’impossibilità, per la legislazione italiana sulla
tutela, di vincolare opere con meno di 50
anni di età o con il progettista ancora
vivente), sia questioni, più generali, di
consenso sociale: mentre è ormai condivisa, presso l’opinione pubblica, l’opportunità di salvaguardare edifici medioevali,
rinascimentali, barocchi, persino ottocenteschi, minore sensibilità viene esercitata
per costruzioni, soprattutto quelle a carattere utilitario, che sono ancora lette come
facenti parte della contemporaneità, che
appaiono ampiamente diffuse, di cui si
conoscono i difetti e che magari si è visto
personalmente costruire.
lizia residenziale, soprattutto di quella
economica-popolare. Paradossalmente,
tanto più un edificio era stato pensato per
soddisfare in modo preciso ad una determinata funzione, tanto più inadeguato
esso apparirà al variare di questa.
Ancora più paradossalmente si è sostenuto che il corretto modo di utilizzo di un
edificio funzionalista dovrebbe essere
quello della sua demolizione al venir
meno o al modificarsi delle ragioni funzionali che ne erano state la causa.(4)
È opportuno ricordare che questa osservazione vale in particolare per tutti gli edifici a carattere sperimentale, spesso proprio per questo motivo annoverati tra i
più celebrati esempi di architettura del
“moderno” e, pertanto, tra i primi a dover
essere tutelati.
Se questo è vero per la destinazione
d’uso, lo è ancor più per i materiali
costruttivi: molti di questi, come si è visto,
cambiano velocemente caratteristiche
(dimensioni, forme, elementi componenti)
con l’evolversi delle tecnologie produttive.
Ad esempio, è oggi impossibile, a distanza di pochi decenni, trovare sul mercato
certi tipi di laterizi, certi elementi in vetrocemento, certi tipi di profilati metallici. In
questi casi, anche la più banale delle
sostituzioni di pezzi degradati con altri di
nuova produzione è gravemente ostacolata, quando non impossibile.
clusione: quella dell’irripetibilità di ogni
architettura “moderna”, così come di ogni
architettura di ogni altra epoca.
Materiali non più in produzione, tipi
edilizi obsoleti che testimoniano di particolari politiche sociali, soluzioni tecniche
sperimentali: anche il “moderno” ha tuttavia la sua storia da raccontare ed è quindi
degno di essere conservato e tramandato
ai posteri, non solo nei suoi caratteri
visuali ma anche in quelli funzionali, tecnici, materici, impiantistici, ecc., se pur
oggi obsoleti e non più riproponibili.
Per quanto possa apparire strano, risulta
evidente che, tanto maggiore è il grado di
documentazione di cui si dispone relativamente allo stato originario di un’opera (e,
ovviamente, le opere più recenti sono
quelle meglio documentate), tanto maggiore diviene la coscienza della loro irripetibilità.
Questo solo motivo dovrebbe bastare a
far considerare un travisamento dell’opera
“moderna” un restauro che si accontentasse di riprodurne o conservarne l’involucro, senza alcuna attenzione per i caratteri
intrinseci tecnico-costruttivi e materici,
accontentandosi di un avvicinamento
all’originale attraverso una approssimazione certamente inadeguata rispetto alla
complessità di tali opere e all’impatto che
esse hanno avuto per la storia dell’architettura contemporanea.
Come nel caso dell’intervento di restauro su edifici antichi, anzi, forse ancor più
Conservare o restaurare?
nel caso del restauro del “moderno”, un
Gli argomenti sopra addotti conducono, buon progetto non potrà che derivare
per quanto ci riguarda, ad un’unica con- dalla capacità di ascolto di tutto quanto il
L’accelerazione temporale
Gli edifici moderni invecchiano oggi più
rapidamente che in passato: l’evoluzione
dei bisogni sociali rende obsolete costruzioni realizzate pochi decenni prima. E’ il
caso di molti edifici per servizi pubblici,
di molti edifici produttivi, della stessa edi7
396 COSTRUIRE IN LATERIZIO 60/97
8
costruito è in grado di trasmetterci, conservandone al massimo grado non solo
l’aspetto esteriore ma anche i caratteri
materico-costruttivi, accettando al contempo la sfida che i nuovi problemi pongono
a un fare architettura che è comunque,
ineluttabilmente, piaccia o non piaccia,
anche innovare.
La complessità dei problemi in gioco si
traduce in una difficoltà del progetto che
non deve essere elusa nè dalla rinuncia
ad esso, nè dalla semplicistica applicazione di mode o regole esterne alla storia del
manufatto oggetto di intervento o, ancor
peggio, dalla superficiale accettazione di
un cantiere edilizio di routine.
;;
NOTE
(1)
Giovanni Carbonara, Il restauro del nuovo e il caso
del Weissenhof di Stoccarda, in AAVV, Costruire abitare. Gli edifici e gli arredi per la Weissenhofsiedlung
di Stoccarda. “Bau und wohnung” e “Innenräume”
(1927-28), Edizioni Kappa, Roma, 1992, pagg.49-60.
(2) Cfr.: Lucius Burckhardt, Gli anni Trenta e gli anni
Settanta: oggi vediamo le cose in modo diverso, in
L.Burckhardt (a cura di), Werkbund. Germania
Austria Svizzera, Electa, Milano, 1977, pagg. 94-101.
(3) Cfr.: Hilde Heynen, The issue of transitoriness in
modern architecture, in Do.Co.Mo.Mo. Conference
Procedings, sept, 12-15, 1990, Eindhoven, 1990,
pagg. 45-49.
(4)
Cfr.: Wessel Reinink, Controversy between functionalism and restoration: keep Zonnenstraal for eternity as a ruin, in Do.Co.Mo.Mo. Conference ..., op.
cit., pag.50.
9
397 COSTRUIRE IN LATERIZIO 60/97
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