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Paure che mangiano l`anima

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Paure che mangiano l`anima
i quaderni del cineforum
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INTOLERANCE
PAURE CHE MANGIANO L’ANIMA
Sette film per ragionare sull’intolleranza e la paura del diverso
di M ARCELLO P ERUCCA
CIRCOLO FAMILIARE
DI UNITA’ PROLETARIA
INTOLERANCE
PAURE CHE MANGIANO L’ANIMA
Sette film sull’intolleranza e la paura del diverso
A cura di Marcello Perucca
I Quaderni del Cineforum
Cineforum del Circolo
Circolo familiare di Unità proletaria
Marzo - aprile 2009
ATTENTI AGLI
ZINGARI
C
’era un tempo in cui, per spaventare i bambini un po’ monelli e capricciosi, oltre che prospettargli l’arrivo dell’uomo nero, li si minacciava dicendogli “Ti faccio portar via dagli zingari”.
E noi di una certa generazione, chi più chi meno, siamo cresciuti con la convinzione e il terrore che i rom, cioè gli zingari, rapissero i bambini. Per farne cosa, non si sa. Si ipotizzava per mandarli a rubare o chiedere l’elemosina, o per chissà quali altri loro turpi scopi.
Invece, è notizia piuttosto recente, “gli zingari non hanno mai rapito un bambino in Italia”. Ma la
cosa ancora più sconvolgente è che ad affermare che questo popolo, fra i tanti difetti che può, come
tutti, avere, non possiede certo quello di rapire persone in tenera età è stato un gruppo di ricercatori
dell’Università di Verona che ha svolto una ricerca per conto della Fondazione Migrantes della
Conferenza Episcopale Italiana. I risultati del lavoro sono poi stati illustrati lo scorso mese di novembre dai microfoni di Radio Vaticana.
Eppure, nonostante questo, la convinzione di molti è ancora che, lasciando il bimbo incustodito
anche per un solo attimo, ci siano torme di zingari pronte ad impossessarsene.
PAURE
P
CHE MANGIANO L’ANIMA
erché tutto questo? Probabilmente perché, nella nostra società, si sta instillando un profondo
senso di paura. Paura degli zingari, dei rumeni, degli arabi. Paura di chi ha la pelle di un colore diverso dalla nostra. Paura di doverci raffrontare con il transessuale o con l’omosessuale,
con chi è considerato “diverso”, semplicemente perché non soddisfa alcuni criteri che qualcuno ha
deciso debbano rappresentare la normalità. Quindi ecco che si scatenano paure che, per dirla come
Rainer W. Fassbinder, l’indimenticato regista tedesco, “mangiano l’anima”. E ottenebrano le menti,
potremmo aggiungere, impedendo un confronto sereno e costruttivo con altre culture o stili di vita.
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Ivan, poeta di strada: sui muri di Milano
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La lettura dei quotidiani ci “regala” quasi ogni giorno notizie di atti di violenza, intolleranza e
sopraffazione verso donne e uomini, indifferentemente vecchi, giovani, ragazzi, anche bambini, che,
provenendo da zone povere del mondo, appaiono agli occhi di molti come esseri inferiori, o perché
portatori di qualche forma di handicap fisico o mentale che facciamo fatica ad accettare, oppure perché hanno uno stile di vita non omologabile a quello caratterizzante la nostra società, come testimoniano i numerosi atti dolosi verso i campi rom cui abbiamo assistito negli ultimi tempi.
Ne deriva che, in una grossa fetta della popolazione, monta un crescente senso di insicurezza legato alla presenza di esseri umani, per lo più migranti dal sud del mondo, additati come pericolosi.
Tale senso del pericolo, legato alla presenza di tali soggetti, rappresenta d’altro canto un fuoco ben
alimentato da quelle forze politiche che fanno dell’insicurezza del cittadino il loro scopo di esistere:
l’arma mediante la quale imporre politiche segregazioniste, non manifestamente dichiarate ma che
sono in contrasto con qualsiasi azione che possa andare nella direzione di una vera integrazione
sociale. La sciagurata proposta delle cosiddette “classi ponte” per i bimbi stranieri che non
conoscono l’italiano ne è un esempio lampante.
D’altra parte l’instillare nella cittadinanza un senso di insicurezza diffuso, porta inesorabilmente a
diffidare di chiunque, dando la
stura a fenomeni di intolleranza verso i soggetti più deboli
che, se incontrollati, possono
sfociare in veri e propri atti di
razzismo.
È molto labile il confine tra
“intolleranza” e “razzismo”.
Esaminando i vari casi specifici è difficile tracciare una linea
netta fra queste due definizioni.
Spesso i due ambiti si intrecciano. Sicuramente c’è, da
parte di molti, la paura di
definire razzista un determinato atto discriminatorio verso
qualcuno. È molto più semplice mettere le mani avanti
premettendo a una critica verso
chi non è come noi, che “io
non sono razzista, però…”. Sta di fatto che, secondo una ricerca condotta qualche tempo fa
dall’Università La Sapienza di Roma per conto della Comunità ebraica della capitale, su 2000 adolescenti fra i 14 e i 18 anni intervistati, un quinto si considera e sente di essere razzista. È sicuramente un dato inquietante che deriva, forse, dal cattivo esempio ricevuto in famiglia. Da pregiudizi
che gli adulti trasmettono ai minori rendendoli intolleranti verso coetanei di diversa provenienza.
Certo è che i casi di intolleranza/razzismo verso soggetti “diversi”, qui da noi stanno crescendo a
dismisura. Come detto basta aprire il giornale per leggere di
casi più o meno eclatanti di violenza fisica o psicologica
Discriminazione: distinzione
verso coloro i quali si trovano in una condizione di inferiooperata in seguito a un giudirità.
zio o ad una classificazione Leggiamo, in ordine sparso, alcuni titoli tratti dai quotidiani
part. D. razziale, la politica
degli ultimi mesi.
attuata in paesi con popolazione mista nei confronti delle
“NEGRO, STASERA TI AMMAZZIAMO –GENOVA,
persone di colore (che talvolta
ANGOLANO ACCUSA: AGGREDITO DA UN BRANCO
rappresentano la maggioranFUORI DA UNA DISCOTECA”
za) o che hanno una particolare origine etnica, negando loro
“SEI NERO? DAMMI IL DOCUMENTO SE VUOI
alcuni diritti e imponendo talENTRARE IN PISCINA”
volta la segregazione in ghetti
~ estens. Posizione o attività
“TRANSESSUALE STUPRATO E MASSACRATO,
ORRORE A MILANO”
politica, sociale e culturale,
tendente a ghettizzare gruppi
“UCCISO A SPRANGATE PER UN BISCOTTO –
o individui per la loro diversità
SPORCO NEGRO, HAI RUBATO E ORA TI AMMAZZIrispetto a determinati modelli
AMO”
considerati normali.
Intolleranza: atteggiamento
improntato a un rigido rifiuto
delle opinioni o convinzioni
altrui.
Razzismo: ogni tendenza, psicologica o politica, suscettibile
di assurgere a teoria o di essere legittimata dalla legge, che,
fondandosi sulla presunta
superiorità di una razza sulle
altre o su di un'altra, favorisca
o determini discriminazioni
sociali o addirittura genocidio.
Xenofobia: avversione indiscriminata nei confronti degli
stranieri e di tutto ciò che proviene dall'estero.
da: DEVOTO-OLI 2008
“ALESSANDRIA: RAGAZZINO ROM SALVATO DAL
LINCIAGGIO”
“È UN POSTO PER BIANCHI: LA PICCHIANO –
VARESE, 15ENNE MAROCCHINA PRESA A PUGNI
DAI COETANEI SUL BUS”
“PICCHIATO E MARCHIATO – ARRESTATO PER
SBAGLIO IN UN PARCO DI PARMA, UN GIOVANE
GHANESE VIENE INSULTATO E PESTATO DALLA
POLIZIA, CHE SULLA BUSTA SCRIVE <<EMMANUEL
NEGRO>>”
“CASSANO
D’ADDA:
PICNIC
VIETATI
A
FERRAGOSTO. SOPRATTUTTO PER I SENEGALESI”
“SI TENEVANO PER MANO, AGGREDITA COPPIA
GAY”
“BORGHEZIO INVOCA LA PULIZIA ETNICA
–INQUIETANTE COMIZIO ANTI-ISLAMICO DEL
POLITICO LEGHISTA”
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“A RIMINI GLI DANNO
FUOCO MENTRE DORME.
CLOCHARD IN GRAVISSIME
CONDIZIONI”.
(Stessa sorte toccherà, alcuni
mesi più tardi, a un clochard di
origine indiana)
“A TURATE APERTO LO
SPORTELLO PER SPIE ANTI
CLANDESTINI”
Si potrebbe andare avanti ancora
per molto, ma probabilmente può
bastare. Al di la dello stile giornalistico che, certo, tende a sensazionalizzare la notizia, emerge
da questi titoli, presi sia da giornali dichiaratamente di sinistra, sia da giornali più moderati, un inquietante spaccato di ciò che la nostra società sta diventando. Intollerante, discriminante, xenofoba
(parola che deriva dal greco e che significa, per l’appunto, “paura del diverso”).
Discriminazione che viene applicata, come abbiamo letto, ai neri, agli ebrei, agli omosessuali, ai
transessuali, agli zingari, ecc. ecc.
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Ovviamente tali forme di intolleranza e razzismo non sono nuove. Da sempre le società le hanno
manifestate permettendo, in alcuni casi, che sfociassero in vere e proprie persecuzioni etniche o
verso ben determinati gruppi sociali. Sotto questo punto di vista il decreto legge sulla sicurezza
recentemente licenziato dal governo che, fra le altre cose, prevede la possibilità di istituire ronde di
cittadini (ex-poliziotti?) va decisamene verso il rischio di un facile giustizialismo che legittima tutti
coloro che, in nome di una sbandierata sicurezza, hanno solo voglia di “menare le mani”, contribuendo, oltre tutto, a una ulteriore delegittimazione delle istituzioni.
Il cinema, da sempre profondo osservatore della società, ha spesso denunciato tali manifestazioni,
realizzando pellicole di forte denuncia e impatto emotivo.
Questa rassegna vuole essere un modo, ovviamente parziale, per mostrare come, attraverso i film,
sia possibile denunciare tali manifestazioni di intolleranza verso chi è più debole o, semplicemente,
“diverso”.
Vedremo quindi, attraverso sette pellicole di varia natura e genere, epoca e ambientazione, storie di
intolleranza di uomini o donne verso altri uomini o donne oggetto di discriminazioni e abusi.
Violenze che tendono a escludere, a isolare chi, semplicemente, non è omologabile alla massa.
IL RAGAZZO DAI CAPELLI VERDI
(The Boy With Green Hair)
Regia: Joseph Losey
Interpreti: Dean Stockwell, Pat O'Brien, Robert
Ryan, Barbara Hale
Usa, 1948, 82'
Peter, ragazzino di dieci anni, rimasto orfano di
entrambi i genitori morti durante la guerra, vive da
solo con il nonno. Una mattina, svegliatosi, si
accorge che, improvvisamente, i suoi capelli sono
diventati verdi. Già tenuto in disparte dagli altri
ragazzi in quanto orfano, viene definitivamente
emarginato per via del colore della sua chioma.
Isolato, disperato, decide di fuggire ma viene ripreso dalla polizia. In commissariato un medico sensibile e comprensivo gli farà
capire che la sua diversità può essere vista anche in maniera positiva verso
di se e verso gli altri.
IL REGISTA
Joseph Losey: La Crosse (Winsconsin, Usa) 1909 - Londra 1984
Un commento di GOFFREDO FOFI su Joseph Losey (da Quaderni piacentini,
n. 21, 1964)
I
l destino di Losey è stato dei più difficili. Obbligato in America, a fare film tra varie limitazioni
costretto piu tardi a trasferirsi in Europa, nel più nero periodo maccartista, per aver fatto parte
del Marx Study’s Group negli anni di guerra, vi deve lavorare con peudonimi vari o nomi prestati, prima di poter dirigere, più tardi, i “suoi” film; e infine bloccato in vari modi dai produttori (italiani francesi o inglesi) che gli tagliano e rimontano a modo loro il materiale girato, fino (nel caso di
Eva) a metterne in circolazione a seconda dei paesi ben quattro copie diverse e di diversa lunghezza. Anche la critica gli è “mancata” in modo singolare. Dopo l’attenzione con cui venne seguita la
sua opera americana per il contenuto progressista e democratico, il Losey dei film inglesi trova in
Italia la massima incomprensione, fino al nuovo recente interesse per King and Country e The
Damned, basato su un’interpretazione assai restrittiva del regista. In Inghilterra d’altronde Losey è
stato “scoperto” solo dopo l’intervento della critica francese e dopo il successo del Servo, dunque
appena un anno fa. Ma la situazione non è migliore in Francia, dove – se pure di Losey si parla da
tempo, e con la massima attenzione – vi sono gruppi (i “Cahiers”, ma specialmente “Présence du
cinéma” e i “macmahoniani”) che lo esaltano entusiasticamente badando però bene di non parlare
mai del contenuto dei suoi film del loro reale significato (il che si spiega se si considera che un gruppo come quello di “Présence” ha tra i suoi dèi Preminger e Fuller con i loro film non di rado fasci-
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stizzanti). Anche tra i critici più
seri l’accordo non è facilmente
raggiunto. Il Servo ad esempio è
piaciuto ad alcuni per i suoi aspetti “sadiani”, ad altri per il presunto tono “brechtiano”, ed è stato
parzialmente rifiutato da altri che
gli preferiscono I dannati, film a
parer loro di contenuto impegnato
e di sinistra. Con Venezia ‘63 le
cose sono cambiate: il successo
internazionale del Servo ha mosso
le acque, e Venezia ‘64 ha confermato agli occhi di tutti un valore
ormai definitivamente acquisito.
É il caso di sottolineare che il
Servo trovò tra gli italiani solo
pochissimi sostenitori e un coro
invece di accuse al limite dell’assurdo? (La stessa sorte toccò a
Muriel di Resnais, uno dei film
più importanti degli ultimi anni,
che si lascia indietro di molte
miglia i tentativi più o meno riuJoseph Losey
sciti dei nostri Antonioni e
Fellini, e che l’indifferenza della
nostra critica, pronta a scrivere volumi su Mani sulla città o il Vangelo secondo Matteo ha fatto sì
che in Italia esso sia ancora inedito e che probabilmente lo resti per sempre). La formazione di Losey
è tipica di tutta una generazione americana. Nato nel 1909, l’esperienza della crisi del’29 (non s’era
mai accostato prima alla politica) lo costringe a rivedere – o meglio a farsi – le sue idee.
Critico letterario e teatrale, la sua prima regia risale al ‘31 nel corso di un viaggio in Europa.
Ritornato in America mette in scena diversi lavori importanti (tra i quali un dramma di Maxwell
Anderson sull’affare Sacco e Vanzetti). É l’epoca del New Deal ed è in atto un rinnovamento intellettuale e sociale di vaste proporzioni. Nel ‘35, durante un nuovo viaggio in Europa, partecipa ai
corsi di regia di Ejzenstejn a Mosca e conosce Brecht e la Weigel. Nel ‘36 dà vita con altri al “Living
Newspaper”, il giornale vivente, un esperimento teatrale di grande risonanza influenzato soprattutto
dalle teorie di Piscator, di cui in quel periodo Losey traduce in inglese Il teatro politico. Fra gli spettacoli più noti: Injuction Granted, sui rapporti tra i sindacati e la giustizia, ed Ethiopia sulla avventura coloniale mussoliniana. L’esperimento verrà continuato più tardi dal “ Social Circus”, che mette
in scena tra l’altro un lavoro sulla guerra di Spagna; dal “Political Cabaret”, da lui fondato; dagli
spettacoli realizzati per lo United Nations and Russian War Relief Funds; e dal “Lunch Hour
Follies”, programmi di propaganda e di svago presentati agli operai all’interno di varie grandi fabbriche. Dal ‘43 al ‘45 Losey è militare. Al ritorno, inizia il suo lavoro hollywoodiano con un documentario poliziesco per la MGM. Fa parte in questo periodo del Marx Study’s Group di Hollywood,
ciò che gli varrà nel ‘51 la denuncia della Commissione per le attività antiamericane e l’esilio.
Dei tanti con cui è stato in contatto nelle esperienze citate vale la pena di ricordare, oltre a Brecht e
alla Weigel: Eisler, Laughton (da cui lo dividerà definitivamente la posizione da questi assunta verso
Brecht quando lo scrittore è messo sotto accusa ed è costretto a lasciare gli Stati Uniti), Arthur Miller,
Nicholas Ray, Sidney Lumet, Strasberg, Sinclair Lewis Paul Muni, Peter Lorre, John Houseman,
Howard Da Silva (grande attore comunista recentemente ricomparso in David e Lisa dopo anni di
ostracismo ) ecc. Nel 1946 e 1947 Losey mette in scena a New York e a Hollywood il Galileo di
Brecht, alla sua prima presentazione, interprete Laughton, musiche di Eisler, e alla presenza dello
stesso Brecht che ne segue e indirizza la regia. Tutta l’opera più matura di Losey è influenzata da
Brecht e si muove intorno a un centro d’interesse essenziale: adattare e ricreare per il cinema – nei
limiti e nelle caratteristiche di quest’arte così vicina e diversa dal teatro – il principio di straniamento.
Sarà necessaria una lunga incubazione e una progressiva maturazione di Losey e delle sue idee,
prima che questo principio venga applicato con coerenza e che esso trovi una sua precisazione teorica in rapporto (e spesso in contrasto) con le teorie brechtiane. Losey dovrà prima superare un lungo
periodo di entusiasmi ancora “rooseveltiani”, dovrà fare anche i conti con i produttori e con le
vicende politiche del suo tempo, dovrà dirigere film in cui non crede e che gli interessano poco.
DICONO
DEL FILM
Leonard Maltin, Guida ai film 2009
Piccola parabola che vede protagonista l’orfano di guerra Stockwell, i cui capelli
cambiano improvvisamente colore, rendendolo un emarginato. Scatenò diverse
polemiche ai tempi della sua prima uscita a causa del suo punto di vista radicalmente pacifista. Piccole apparizioni per Dale Robertson e Russ Tamblyn, non
accreditati.
11
Laura, Luisa e Morando Morandini, Il dizionario del cinema
Accortosi una mattina di avere i capelli verdi, orfano di guerra dapprima si ribella
poi decide di superare le beffe del prossimo. Esordio nel lungometraggio di Losey.
Nella contaminazione tra sogno e realtà c’è una scoperta simbologia, un limpido,
volutamente ingenuo, didascalismo pacifista, un elogio della diversità. Scritto da
Ben Barzman e Alfred Lewis Levitt.
Paolo Mereghetti Il Mereghetti 2008
(…) Losey esordisce alla regia con una favola contro la discriminazione razziale
(tratta da un racconto di Betsy Beaton e sceneggiata da Ben Barman e Alfred Lewis
Levitt) che, a tre anni dalla tragedia di Hiroshima, diventa inevitabilmente anche
un film per la pace (il verde dei capelli è al tempo stesso un possibile effetto radioattivo e un messaggio di speranza). Un’opera prima molto interessante, anche se le
incertezze narrative e stilistiche (i rapporti tra il registro fiabesco e la tendenza al realismo, tra il
punto di vista infantile e la maturità del piccolo protagonista) talvolta sembrano far scorrere il film
su due binari paralleli. Nonostante l’uso del technicolor, si tratta di un film povero, realizzato in
poco più di un mese.
IL VENTO FA IL SUO GIRO
(E l’aira fai son vir)
Regia di Giorgio Diritti
Interpreti: Thierry Toscan, Alessandra Agosti, Dario
Anghilante, Giorgio Foresti, Caterina Damiano,
Giacomo Allais
Italia, 2005, 110'
Un pastore di capre originario dei Pirenei francesi,
spaventato dall'imminente costruzione di una centrale nucleare vicino a casa sua, trasferisce famiglia e gregge in una paesino occitano della Val
Maira, in Piemonte. Dopo una iniziale diffidenza i
nuovi venuti sono accolti con festeggiamenti da
tutti gli abitanti del paese, che vedono un segnale
positivo al progressivo spopolamento delle montagne. Ben presto, tuttavia, le
diverse abitudini di vita, le gelosie e le invidie, portano a un progressivo deterioramento dei rapporti, sino a veri e propri atti di intolleranza nei confronti
della famiglia francese, vista sempre come forestiera - e per tanto diversa e
nemica - e mai realmente integrata nel tessuto sociale della piccola comunità
di montagna. Il film è interpretato per buona parte da attori non professionisti
e parlato in italiano, francese e occitano e sottotitolato in italiano .
IL REGISTA
Giorgio Diritti
G
iorgio Diritti, prima di approdare a dirigere un film , ha collaborato a vario titolo con registi
quali Pupi Avati, Federico Fellini (per il suo ultimo film La voce della luna) e, soprattutto,
Ermanno Olmi.
Come autore e regista ha realizzato numerosi documentari, produzioni editoriali e televisive.
Cappello da marinaio è il suo primo cortometraggio, selezionato in concorso a numerosi festival in
giro per l’Europa.
Nel 1993 realizza Quasi un anno, film per la Tv e nel 2005, Il vento fa il suo giro, presentato al
London Film Festival e alla prima edizione della Festa del Cinema di Roma.
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DICONO
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DEL FILM
Stefania Ulivi (Il Corriere della Sera Magazine 05.06. 2008).
Fanno fatica a crederci anche loro: Giorgio Diritti, che il suo film di debutto lo ha
girato e autoprodotto, e Antonio Sancassani, che lo ha letteralmente adottato, mettendolo in programmazione nel suo cinema d’essai e non smontandolo più. E sabato prossimo festeggeranno insieme, al Mexico di Milano, il primo anno in sala de
Il vento fa il suo giro. Un caso cinematografico, un piccolo miracolo frutto di un passaparola che ha svicolato le dure leggi del mercato secondo cui se un film non sfonda al
primo weekend di programmazione, difficilmente reggerà fino al secondo. Invece il film di Diritti costruito intorno alla figura di un ex professore francese, che vuole reinventarsi pastore in un borgo
spopolato, dove i figli dei vecchi abitanti tornano per il weekend-, ha una storia che sembra una
sceneggiatura.
Tutto è cominciato grazie a un amico occitano, racconta il regista, già allievo di Ermanno Olmi e
collaboratore di Franco Piavoli: «Frodo Valla mi aveva parlato della Val Maira, bellissima, integra,
che ha subito come altre un progressivo spopolamento. Mi ci ha portato e li è nata l’idea del film che
abbiamo scritto insieme, sul tema del rapporto tra cultura e identità diverse. Interamente autoprodotto con l’Aranciafilm e Imago Orbis, il film non sarebbe stato realizzato senza la partecipazione diretta della troupe e l’aiuto delle persone della Val Maira». Praticamente, volontariato.
Nessun sostegno pubblico. Girato in undici settimane in digitale, poi portato in pellicola, è costato
400 mila euro, che ormai ha recuperato grazie ai 100 mila spettatori. «Ovvero», commenta Diritti,
«un rapporto copia/incasso fantastico: 40 mila euro». Le copie stampate erano solo sei, poi diventate dieci grazie a chi ci ha creduto come, tra gli altri, la Cineteca di Bologna e la Film Commission
Piemonte.
Girato nel 2005, ha rischiato di rimanere nella “riserva indiana” dei film da festival (Londra,
Roma,Vancouver, Nizza: collezionando premi). In sala è arrivato praticamente portato di peso dal
suo autore. È qui che entra in scena Sancassani, esercente con lo spirito del vecchio libraio, che lo
programma per due settimane, che poi diventano quattro, poi otto, poi 100 giorni, poi 200, nel suo
Mexico (celebre a Milano perché da 27 anni ogni venerdì sera proietta Rocky Horrorr Picture Show).
Ora arriva la prima candelina con una vera festa di compleanno: ci saranno tutti in via Savona, regista, attori, pubblico e anche “ricchi premi e cotillons” come ogni festa che si rispetti. Poi il film
uscirà in dvd e Diritti si darà anima e corpo alla sua opera seconda, dedicata alla strage di
Marzabotto. intanto, al Mexico, il vento gira ancora.
Maurizio Porro (Il Corriere della Sera, 6 luglio 2007).
Questo film italiano di Giorgio Diritti, allievo di Olmi, è arrivato faticosamente ma
è ora il «caso» della stagione perché ha conquistato il pubblico. A Torino è in programmazione da 9 settimane, a Milano da cinque. A dispetto di Tarantino è un
debutto da non dimenticare, un film raccontato in tre lingue diverse (italiano, occitano e francese sottotitolato) che parla del difficile trasloco, morale e materiale, di
un pastore francese in un villaggio montano piemontese. Prima accettato e poi messo in
disparte, egli mette in moto una serie di reazioni a catena che deturpano la bellezza naturale del paesaggio mettendo in discussione il romantico contadino con un resoconto antropologico anche
crudele, che impedisce ogni deriva poetico-retorica. Come da titolo, il vento gira, sembra di aus-
cultare un mutamento biologico della gente. Olmi e Piavoli battono un colpo, Diritti fa cinema nella
fiduciosa ripresa di un utile, invisibile senso del Tempo.
Massimo Lastrucci (Ciak, luglio 2007). Nel cuore di una valle che porta al Monviso,
resiste, a Chersogno, una piccola comunità di cultura occitana che va progressivamente perdendo i suoi abitanti. Tanti emigrano e un po’ di vita la recano solo i villeggianti estivi. Almeno fin quando non arriva un francese (è in fuga dai Pirenei
dove stanno costruendo una centrale nucleare) che si propone di trasferirsi con la
famiglia, di pascolare capre e produrre formaggi. Inizialmente è accolto con titubanza
e cordialità; per i più aperti, vicesindaco in testa, potrebbe essere una occasione di rinnovamento. Col tempo esplodono i contrasti su problemi spiccioli (le capre non conoscono confini demaniali e fanno la cacca ovunque) e incomprensioni comportamentali: il paese si divide e Philippe
Héraud (che non mitiga il carattere poco diplomatico) affronterà perfidie ed emarginazione. Una storia concreta per temi generali ineludibili. Cosa deve fare una comunità per non scomparire? A cosa
deve rinunciare? Sul concetto un po’ anti-egualitario di “tolleranza” c’è da discutere (e la sceneggiatura lo fa in maniera chiara e profonda). Siamo di fronte a un film di notevole lucidità ideativa e
realizzativa. Senza indecisioni o digressioni superflue, Giorgio Diritti (viene dai corti e dai documentari) con l’aiuto appassionato e sorvegliato della comunità occitana ci parla di individui e collettività senza didascalismi o giudizi calati dall’alto. Una impeccabile professione di etica cinematografica e di narrativa.
15
Antonio Bibbò (Il Mucchio Selvaggio, luglio/agosto 2007). Il nuovo sguardo del
cinema italiano guarda all’indietro, ai moduli che ne hanno fatto la fortuna e a
nuove aree rurali da colonizzare. Guardando Il vento fa il suo giro di Giorgio
Diritti viene immediatamente da pensare a Il dono (2003) di Michelangelo
Frammartino. Entrambi tornano in una provincia senza (quasi) telefonini per proporre sguardi nuovi e temi eterni. Ma la somiglianza è (solo) superficiale: ché se Il
dono era retto da un meccanismo a orologeria perfetto e brutale che sospinge una storia apparentemente insulsa fino alla conclusione dirompente, questo esordio di Diritti ha toni più naturalistici, un
ritmo più blando e una sceneggiatura meno ferrea, che permette al regista di indugiare sulle strade
del paese più che nella casa di Philippe. Philippe Héraud è un ex-professore, ora pastore e formaggiaio dei Pirenei che decide di fuggire dalla centrale nucleare che il governo francese ha intenzione
di costruire nei pressi dei suoi pascoli. Si troverà a Chersogno, un paese alle pendici del Monviso
nel quale si parla ancora la lingua d’oc, quella dei trovatori, e cercherà di integrarsi nella comunità
locale. I grigi e i verdi sono quasi onnipresenti, con i molti bianchi invernali alternati ai rossi poco
tarati dei maglioni di lana e a qualche rara e ariosa esplosione cromatica estiva. Questi colori, nel
malinconico digitale che li fotografa, raccontano una storia di tradizionali diffidenze e sfide continue, in cui la lingua dei vecchi abitanti del paese e quella del volitivo Philippe si annodano in
maniere sempre diverse. Solo in qualche momento Diritti rinuncia all’arte dell’implicito che lo
sostiene per l’intero film, proprio nelle sequenze più favorevoli a Philippe, quelle in cui alla sua testardaggine si oppone la stolidezza di alcuni influenti abitanti del paese, ma è comunque bravo a non
raccontare di un nuovo Giobbe, di una vittima designata e del tutto incolpevole. Il film è soprattutto un piccolo miracolo produttivo, sostenuto economicamente dall’intera troupe, tecnica e artistica:
la direzione degli attori non professionisti è poi, nella maggior parte dei casi, stupefacente. Per tutta
la pellicola le cose non scorrono mai lisce ed è in quei momenti che Diritti chiarisce di non voler
cedere al facile lirismo rurale e porta alla luce incongruenze irrisolvibili senza darsi la pena (e perché poi?) di risolverle.
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Dario Zonta (L’Unità 8 giugno 2007). Il cinema italiano non mette mai in scena il
contrasto, lo scontro, il conflitto, qualsiasi sia la modalità in cui si presenta. La nostra produzione è molto attenta ad evitare questo nodo. Basti pensare a come, nei
fatti e non solo nominalmente, il «conflitto» venga evitato nell’opera di due dei
nostri maggiori sceneggiatori, Rulli e Petraglia.
Ora, viene un piccolo film autoprodotto a bestemmiare in chiesa e a raccontare, senza
infingimenti e inutili artefici, le ragioni del «conflitto» e dello scontro. Il vento fa il suo giro parla
anche, e non solo, di questo. Ambientato in un paesino di montagna nella valle del Monviso, laddove ancora si parla l’occitano (e il film lo fa spesso sentire), racconta di un ex insegnante francese
che ha mollato tutto e si è dato alla pastorizia sulle pendici dei Pirenei. L’avvento di una centrale
nucleare lo convince a trasferirsi e trovare in un paesino nelle valli occitane del Piemonte il luogo
adatto per la sua attività di pastorizia. Il film è tutto sulla relazione tra lo «straniero» e la comunità,
tra chi, come il sindaco, vede in lui l’esempio di un possibile futuro (il pastore ha una giovane
famiglia con tre bambini) e alcuni autoctoni che mal sopportano la presenza attiva di un altro. Tratto
da una storia di Fredo Valla, Il vento fa il suo giro raccoglie in sé ed esalta i suoi temi e loro importanza: ambiente e natura, modernità e tradizione, intolleranza e condivisione, paura e amore. Senza
prosopopee programmatiche, senza fare la morale, senza aggiustare le cose con la forza della
«penna» contro il senso della realtà, riesce a dire, nello studio del «suo» particolare, qualcosa di
veramente universale.
Un evento finale sembra riconciliare la comunità, tutta presa dall’espulsione dello straniero (beninteso francese, e non immigrato), ma invero tutto rimane sospeso e non riconciliato perché “Il
vento fa il suo giro (e l’aura fai son vir)” ... e prima o poi torna.
Fotografato meravigliosamente da Roberto Cimatti, sostenuto dalla sceneggiatura sapiente e ben
ritmata di Diritti e Fredo Valla, interpretato dall’amichevole partecipazione dei locali e da quella
più consapevole di alcuni attori (Alessandra Agosti e Thierry Toscan), l’esordio di Diritti commuove e incanta.
Il vento fa il suo giro ha fatto diversi giri di vento, di festival e di mondo per potersi finalmente
posare sullo schermo di qualche sparuta sala italiana. Ed è con la forza del suo dettato e della sua
magia che questo «vento» si sta affermando, lentamente e tramite quel fondamentale esercizio di
critica e democrazia che è il passa parola. Da oggi lo si può trovare a Roma all’Azzurro Scipioni,
a Milano al Mexico, a Torino al Centrale (già dai sei settimane), a Mantova al Savignon, a
Savignano all’Aurora.
Federico Pedroni (Film Tv, 29 maggio 2007). Un pastore francese sceglie di vivere
con la famiglia in una piccola comunità montana dei Monviso, dove ancora si
parla occitano. In un primo momento viene accolto con interesse e partecipazione
dagli abitanti del paese, poi la normale diffidenza si trasforma in palese ostilità. In
nome della difesa della roba si rivendicano antiche proprietà sulla montagna, e si
sfodera una ferocia che allontana presto dall’idillio del piccolo mondo antico”. In parte
recitato in occitano con sottotitoli italiani, Il vento fa il suo giro è un esordio molto interessante,
premiato in parecchi festival internazionali ma poco considerato dalla distribuzione italiana (e ti
pareva), Sul sito della produzione - www.ilventofailsuogiro.com - potete rintracciare le sale che
attualmente lo programmano. Quella del bolognese Giorgio Diritti è una regia di notevole respiro
che sa valorizzare bene gli spazi, a volte inquietanti e claustrofobici benché ampi e solari. E l’acerba recitazione dei protagonisti, alcuni dei quali, come si suol dire, presi dalla strada (nel nostro caso
dai sentieri), ha un pathos inedito per operazioni del genere. Si perdonano quindi un certo schematismo nella progressione del racconto e l’eccessiva simbolicità della figura del matto, perché il film
è autentico e coinvolgente.
Paolo D’Agostino (La Repubblica, 15 giugno 2007)
Questa settimana segnaliamo un piccolo film italiano. Tanto piccolo che non ha
una vera distribuzione commerciale e che solo con un po’ di pazienza troverete in
qualche sala d’essai di alcune città. Merita di essere visto e conosciuto e il passaparola può aiutarlo. S’intitola Il vento fa il suo giro e il suo regista si chiama
Giorgio Diritti. È un ex allievo di Ermanno Olmi e nel suo film aleggia uno spirito che senza tradursi in imitazione del maestro è molto olmiano.
Siamo in una piccola comunità montana piemontese. Nella zona di minoranza linguistica occitana.
È un paese praticamente spopolato dall’emigrazione verso i centri maggiori e le città, che vive quasi
soltanto di seconde case e vacanze estive. Ma i pochi residenti stanziali e quelli pendolari, a partire
dal sindaco, proteggono le tradizioni, preservano e custodiscono la specificità come un gioiello.
Classico deus ex machina, compare un uomo venuto da lontano. È un francese. Il look sembra quello di un uomo di sinistra con un passato di delusioni. Certamente un passato metropolitano e intellettuale. Ha già scelto di vivere in montagna e di allevare capre. Ma ha anche deciso di lasciare la
località francese dove si era ritirato con la famiglia, raggiunta da una centrale nucleare, e di cercare
un’alternativa. Si ferma a Chersogno, gli piace, vuole installarsi qui.
Da questo momento inizia un percorso di reciproco studio, di confronto-scontro, risolto in una
maniera davvero notevole. Con una ricchezza di sfumature e sottigliezze davvero preziosa. Il primo
stadio è quello della sorpresa venata di diffidenza. Il secondo è quello dell’accoglienza e della collaborazione: tutto il paese si dà da fare per aiutare i nuovi venuti a trovare una sistemazione, a
inserirsi. Il terzo stadio è quello del crescere sordo e poi dell’esplodere violento di tutte le pulsioni
negative. Delle gelosie, della xenofobia, fino all’espulsione dell’intruso.
La cosa speciale di questo racconto è che non propone mai in modo semplicistico la dinamica tra
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conformismo e diversità. Non sventola facili slogan ecologisti o di ritorno alla natura. Della
relazione dialettica tra il pastore francese e i suoi interlocutori/antagonisti indaga ogni piega:
entrambi sono portatori di un’ideologia critica verso il modello di vita delle società ricche contemporanee. Ma il punto è che mentre gli uni hanno congelato quei valori in una difesa chiusa e conservatrice, l’altro li misura concretamente e faticosamente in una scelta di vita.
Fabio Ferzetti da Il Messaggero, 15 giugno 2007). Ecco un film che si prende tutto
il tempo necessario per dire due-tre cose importanti con la forza, l’onestà, il gusto
per la verità del buon cinema. E’ girato nelle valli occitane del Piemonte, uno dei
tanti angoli dimenticati del nostro paese che non si vuole bene, ed è parlato in italiano, francese e lingua d’oc. Racconta l’arrivo di uno strano pastore francese, exinsegnante di buone letture e solido coraggio, che si stabilisce con moglie, figli e capre
in quel paesino abitato quasi solo da vecchi, per fare ottimi formaggi. Una piccola rivoluzione: ma
le rivoluzioni raramente riescono e anche stavolta, esauriti gli entusiasmi iniziali, scattano diffidenze, invidie, rancori. A senso unico: perché saranno i valligiani a prendere l’opportunità per una
minaccia, fino a costringerlo a ripartire. Il tutto scritto, recitato, ambientato con stile piano ma
sapientissimo, sulla linea Olmi - Brenta - Piavoli, da un gruppo di non professionisti che lavorano
in partecipazione (ognuno possiede una piccola quota del film). Il risultato è stupefacente per durezza (ed esattezza), ambientale e psicologica. Infatti è stato nei festival di mezzo mondo, ma in Italia
esce dopo due anni. E non vincerà mai un premio “ufficiale”. Che dire? Peggio per noi.
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Roberta Ronconi (Liberazione, 1° giugno 2007). Chi è l’altro? Che vuole da me?
In che modo cambierà la mia vita? Sono le domande primordiali dell’incontro, del
singolo che si apre al plurale. Sono le domande alla base de Il vento fa il suo giro,
primo lungometraggio di un regista non più giovanissimo (con passato di tv e documentari) di nome Giorgio Diritti.
Nella comunità montana degli occitani, sulle alpi piemontesi, il paese di Chersogno
sta morendo. Una decina gli abitanti rimasti, età
media intorno ai settanta. Potrebbe essere quindi una
botta di vita l’arrivo in zona del pastore di capre (ex
professore, stanco delle burocrazie) Philippe con la
moglie e i tre bambini. La comunità (che parla ancora
in lingua d’oc) all’inizio assai diffidente, decide sotto
la spinta del sindaco progressista di azzardare e
accogliere “lo straniero”, nella speranza anche di
vedere un po’ di ripresa economica per Chersogno.
L’uomo (Thierry Toscan) e la sua donna (Alessandra
Agosti) sono due spiriti liberi, due persone che hanno
deciso di vivere seguendo i tempi della natura e dei
propri desideri. Una libertà a cui il paese non è abituato, che mette in crisi, che pone domande a cui la
comunità disgregata (i giovani sono tutti fuggiti da
tempo, poco è rimasto a fare da collante. Solo la
memoria, dei tempi della guerra quando tutti i pastori
unirono le proprie forze contro i tedeschi) non è più in
grado di rispondere. Con il passare del tempo, la
“diversità” dei nuovi arrivati diventa distanza insanabile, le porte dell’accettazione si chiudono, il paese
sceglie la morte.
Con un ripresa da documentarista poetico (stretto il
rapporto con Ermanno Olmi, ma anche con Pupi Avati), Giorgio Diritti sa dove guardare, sa cosa
raccontare. Non eventi astratti, non enunciazioni di principio, ma piccole storie umane, invidie,
sospetti, gelosie, pulsioni sessuali. Perché, come dice in modo illuminante ad un certo punto
Philippe: «la violenza è figlia della repressione sessuale e della frustrazione che da questa deriva.
E un uomo represso prima o poi vorrà vendicarsi». Bellissima illuminazione che poi il film abbandona, lasciandocene solo qualche accenno nelle storie sentimentali dei protagonisti.
Ma è uno spunto vivo, che va ad aggiungersi a mille altri, occasioni messe su schermo per pensare
a cosa siamo, noi che magari non viviamo sulla Alpi occitante ma siamo preda delle stesse diffidenze. L’isolamento di Chersogno è teatro ideale di una messinscena universale, quella dell’essere
umano che guarda con diffidenza a ciò che non conosce.
Di film così limpidi, in Italia, non se ne vedono da tempo. E non si sarebbe visto neanche questo se
Il vento fa il suo giro non avesse trovato un gruppo di uomini e donne (in gran parte gli abitanti di
quelle valli, protagonisti della storia) decisi ad appoggiare il film a tutti i costi.
Pronto già a metà del 2005, finito sui tavoli di tutti i festival italiani, di tutte le rassegne, di tutti i
distributori, Il vento fa il suo giro non ha trovato nessuno che gli aprisse le porte. Almeno, in Italia.
Il Festival di Londra invece lo invita, premiandolo con il secondo riconoscimento del festival.
Quindi, si fa avanti il Bergamo Film Meeting, ed è primo premio con la Rosa camuna d’oro. Da
allora, il film è stato invitato in decine di festival stranieri, ha ricevuto ogni tipo di premio, ha entusiasmato migliaia di persone. Ma in Italia continua il silenzio, e soprattutto l’indifferenza dei distributori. Le loro sale hanno ben altro da programmare...
A questo punto si creano dei gruppi di autofinanziamento che, a loro spese, fanno duplicare copie della
L'OCCITANIA
pellicola e affittano sale di proiezione. E’ così che, da
Vasta regione storica comprendente
cinque settimane al Fratelli Marx di Torino la gente
la maggior parte del sud della
fa a spintoni per entrare a vedere il film, e lo stesso
Francia, alcune zone della Spagna
succede in tante altre province, non solo del
(la Val d'Aran in Catalogna), alcune
Piemonte.
valli alpine piemontesi (dall'Alta Valle
(...)
di Susa a nord, sino alla Val Pesio a
Non ci sono altre scelte, non ci sono altri impegni.
sud). Questa ampia zona è caratteC’è da correre a vederlo e c’è da far girare la voce
rizzate dall'avere un'unica lingua: la
per sostenerlo. Perché è un film bellissimo, perché ci
langue d'oc, lingua romanza derivanriporta all’essenza delle cose e del cinema.
te dal latino volgare.
L'Occitania è una delle cosiddette
Laura, Luisa e Morando Morandini, Il dizionario
"Nazioni Proibite" d'Europa. Non ha
del cinema
mai costituito, nella sua interezza,
È un film italiano anomalo per molti motivi: 1) non ha
uno stato unitario, ed è pertanto
usufruito di finanziamenti statali né televisivi; 2) è
identificabile solamente con criteri
prodotto in cooperativa: la troupe e gli interpreti sono
socio-linguistici.
entrati in coproduzione, garantendosi una quota dei
Curiosità:
guadagni; 3) è girato nell’alta valle Maira (Cuneo) al
l'occitano è parlato anche nel
confine con la Francia durante 3 stagioni e sottotitolacomune di Guardia Piemontese in
to perché parlato in 3 lingue: francese,
Calabria per l'arrivo di una comuoccitano, italiano; 4) oltre a coprire i
nità valdese dopo la scomunica del
ruoli comprimari, gli abitanti delle
IV Concilio Lateranense del 1215.
valli hanno messo a disposizione
Nel 1904 il poeta di lingua occitana
mezzi, animali, oggetti di scena,
Frédéric Mistral vinse il Nobel per
ambiente, persino cibo; 5) tutti gli
la letteraura. La sua opera più
interpreti compreso il protagonista (che
famosa è Miréio (1859), poema in
nella vita fa lo scenografo) sono non-attori; 6) girato
versi suddiviso in dodici canti.
nel 2004, pronto nel 2005, ha fatto nel 2006 il giro di
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una ventina di festival italiani e stranieri con una mezza dozzina di premi, ma all’inizio del 2007 non
aveva ancora una distribuzione. A Chersogno, paesino la cui sopravvivenza è legata a pochi anziani
e a un fugace turismo estivo, arriva dai Pirenei un pastore francese in compagnia della moglie, tre
figli, un gregge di capre e una piccola attività di formaggiaio. Prima è ben accolto, ma poi emergono
incomprensioni e ostilità. Scritta dal regista con Fredo Valla, è la storia di una sconfitta, ma non pessimista. Grazie anche alla mobile fotografia in digitale di Roberto Cimatti, è un raro esempio di film
di montagna senza concessioni all’oleografia. Semplice in apparenza, è un film complesso per ricchezza tematica e psicologica. Raramente al cinema la descrizione di un ambiente rurale fu condotta con una fisicità così tattile, così calata nella realtà. Oltre a quelli della diversità e della diffidenza
verso lo straniero, s’impone il tema della memoria storica, quella che molti valligiani hanno dimenticato. L’avversione per il cambiamento s’intreccia col rispetto delle tradizioni di solidarietà. (****)
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LA PAURA MANGIA L’ANIMA
(Angst essen Seele auf)
Regia di Rainer W. Fassbinder
Interpreti: El Hedi Ben Salem, Brigitte Mira, Irm
Herrmann, Barbara Valentin, Karl Scheydt, Rainer
Werner Fassbinder.
Rft, 1974, 93'
In una città della Germania ovest Emmi, una vedova sessantenne che di lavoro fa la donna delle pulizie presso una ditta, conosce Alì, un giovane
immigrato marocchino. Tra i due, entrambi soli,
nasce un'attrazione che li condurrà al matrimonio.
Tuttavia, la loro unione farà sorgere pregiudizi e
intolleranza nei familiari e nei colleghi di lavoro
della donna.
Il film è conosciuto in Italia anche con il titolo Tutti gli altri si chiamano Alì.
IL REGISTA
Rainer Werner Fassbinder: (Bad Wörishofen, 1945 - Monaco di Baviera,
1982)
Un commento di ENRICO MAGRELLI
FilmTv, n. 22, 2005)
«
SU
RAINER WERNER FASSBINDER (da
Rainer Werner Fassbinder è morto... oggi ho perduto un buon amico e la Germania un genio.
Non avrei mai immaginato che sarebbe giunto il giorno in cui io, tanto più vecchio, mi sarei
trovato a scrivere parole di lutto per un uomo di soli trentasei anni. La sua energia creativa, la
sua vitalità parevano indistruttibili». Con queste affettuose parole, piene di stima, comincia il ricordo di Douglas Sirk, il regista che Fassbinder avrebbe voluto essere e al quale si è ispirato per comporre i suoi lividi, angosciosi, cupi melodrammi in cui le passioni e le emozioni sono strozzate dalle
parole e dalle regole sociali, dai flash-back e dalla verità degli attori, dalla luce e dai tagli del montaggio. Da un cinema che continua a proporsi come specchio rotto della vita. Il 10 giugno del 1982
il regista muore nel suo appartamento di Monaco e con il wunderkind, il bambino prodigio del cinema tedesco del secondo dopoguerra, scompare uno dei protagonisti di quell’ultima onda del cinema europeo che perderà, rapidamente, la sua spinta, la sua originalità, la sua forza esplosiva.
Fassbinder se ne va troppo presto, trascinato da una corrente impetuosa, da quelle rapide esistenziali
che non lasciano scampo. Qualche mese prima della sua tragica fine aveva vinto il Festival di
Berlino con uno dei suoi capolavori Veronika Voss e, con la velocità che aveva contrassegnato e connotato tutto il suo arco creativo, era riuscito a girare la sua ultima pellicola, il lancinante e bellissimo Querelle de Brest. Senza contare i testi teatrali, l’attività radiofonica e discografica o le interpretazioni in film diretti da altri, Fasbbinder lascia, in 13 anni (nel 1969 debutta, dopo due cortometraggi, con la sua opera prima L’amore è più freddo della morte), più di quaranta regie tra pellicole,
video, sceneggiati, film per la televisione. Una filmografia ipertrofica, espansa, originale in cui ci-
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nema e Tv si intrecciano in maniera fertile
(una coabitazione e una collaborazione tra i
due media che hanno influenzato la nascita e
lo sviluppo di tutto il cosiddetto “nuovo cinema tedesco”). Racconta in una delle molte e
generose interviste: «Nei miei film ho lavorato secondo un’estetica del pessimismo, mentre in televisione secondo un’estetica della
speranza». Naturalmente, analizzando trame e
racconti scritti e diretti per la Tv, la chiave di
lettura offerta da Fassbinder non è del tutto
veritiera. Il futuro cineasta nasce il 31 maggio
del 1945 a Bad Wörishofen in Baviera. Il
padre è un medico e la madre una traduttrice,
la quale apparirà in numerosi film con gli
pseudonimi Lilo Pempeit e Liselotte Eder. Lasciata la scuola senza conseguire la maturità liceale,
Fassbinder studia recitazione, lavora nell’archivio di un quotidiano, cerca di iscriversi alla scuola di
cinema di Berlino, ma non viene ammesso, entra a far parte dell’action-theater, fonda con un gruppo di attori tra i quali una delle sue muse, Hanna Schygulla, l’Antiteater. A cavallo tra gli anni 60 e
gli anni 70 dirige Dèi della peste Attenzione alla puttana santa!, Il mercante delle quattro stagioni,
Le lacrime amare di Petra von Kant rivelando un talento, una rabbia, una disperazione, un uso del
linguaggio cinematografico che bruciano gli occhi degli spettatori. Il successo internazionale arriva
nel 1978 con Il matrimonio di Maria Braun, dopo aver intrapreso con film come Tutti gli altri si
chiamano Alì, Effi Briest, Il diritto del più forte, Despair la sua esplorazione del melodramma, la sua
personalissima interpretazione del cinema di Douglas Sirk, che è considerato superiore a quello di
Godard, Fuller e Fellini: «Ha girato i film più teneri che io conosca: sono i film di un uomo che ama
la gente invece di disprezzarla». Anche Fassbinder ama nei suoi film gli uomini, le donne, i personaggi condannati all’infelicità, alla gelosia, alla delusione, al disincanto, a non essere mai corrisposti, all’intollerabile legge del potere e dell’oppressione. Il successo del Matrimonio di Maria
Braun lo aiuta ad affrontare una riduzione televisiva (un modello di riferimento eccezionale) del
romanzo Berlin Alexanderplatz e a continuare, con Lili Marleen, Lola e Veronika Voss, il suo dolente
viaggio in un lunghissimo autunno in Germania. Purtroppo la morte lo ha afferrato proprio mentre
egli stava dimostrando a se stesso che i film possono liberare la testa.
DICONO
DEL FILM
Laura, Luisa e Morando Morandini, Il dizionario dei film.
(…) Non è soltanto un film sul razzismo quotidiano e sulla normalità, ma anche
sull’amore e la felicità. Il personaggio che più interessa non è Alì, trasparente e
monolitico nella sua araba semplicità di cuore e di comportamento, ma Emmi cui
l’amore non basta a farle superare i pregiudizi, l’educazione piccolo borghese, l’innata tedescheria. L’impasto di melodramma e di critica sociale funziona perché il
primo è al servizio della seconda come la circolazione del sangue alimenta un organismo. Tenero,
asciutto, un po’ schematico. Noto anche come Tutti gli altri si chiamano Alì. Premiato a Cannes 1974
da FIPRESCI e OCIC, a Chicago e in Germania (Brigitte Mira).
Paolo Mereghetti, da Il Mereghetti 2008.
Variante di Secondo amore di Sirk, dove una ricca vedova (Jane Wyman) si
innamorava di un giardiniere (Rock Hudson). Fassbinder divide rigidamente i personaggi tra buoni e cattivi, e si concede (come Sirk) una nota finale di moderato
ottimismo con un approccio solidale ma non retorico alla vicenda umana di due
diversi, in rivolta contro il mondo prima e contro i propri egoismi poi: ma, dietro le strutture del melodramma, è l’analisi sociale a interessarlo. In sordina ma spesso toccante, uno dei film
tutto sommato meno cattivi dell’autore, che compare nella parte di Eugen. Noto anche come Tutti gli
altri si chiamano Alì. (**½)
Ludovico Stefanoni, da Cineforum n. 211, 1982.
(...) Nell'intento di abbandonare lo strumentalismo delle occasioni narrative e la
predeterminazione della messa in scena, Fassbinder è aiutato dalla rilettura di
alcuni film di Douglas Sirk, grande costruttore di melodrammi immigrato a
Hollywood dalla Germania. A lui il regista dedica un saggio dal titolo significativo
Imitation of Life, che si richiama a un'opera di Sirk del '59 (in Italia: Lo specchio della
vita). Lo stesso La paura mangia l'anima è un dichiarato "omaggio a...", rifacendosi per il contenuto a All That Heaven Allows (Secondo amore, 1956). Fassbinder pare imporsi in questo caso soprattutto la filosofia di un motto sirkiano: "Non si può far dei film sulle cose. Si possono soltanto fare
film con delle cose, delle persone, della luce, dei fiori, degli specchi, del sangue...". Come dire che
l'attenzione deve spostarsi da un approccio "esterno" alla messa in scena, resa funzionale rispetto a
un certo "dire" (questo l'effetto prodotto dai raggelati kammerspiel del primo Fassbinder) a un lavoro
dentro di essa, teso a sviluppare tutte le possibilità dell'"esprimere", a creare certi diapason che risuonano da un episodio all'altro, certe focalizzazioni del personaggio, che debordano rispetto all'intenzionalità narrativa: la messa in scena è strutturata dalle connessioni interne, è luogo di interazioni
più che di azioni.
Tale acquisizione diventerà definitiva per Fassbinder; verrà anzi estremizzata al punto che i suoi ultimi film si possono ritenere di pura messa in scena, costruiti a partire da stereotipi d'epoca con un'ironia che si esercita sul gioco, reso consapevole, dell' orchestrazione. Ne La paura mangia l'anima
siamo ancora nel territorio di mezzo del melodramma, fra accentuazioni di struttura e modi di rap-
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presentazione naturalistici. Il dato nuovo è comunque l'eliminazione di ogni esteriorità drammatica
o gesto esemplare - al limite brechtiano - e un turgore diffuso in tutto il racconto, quasi che la morte
di Emmi, che già era stata esclusa come atto concluso nel progetto del film, si riverberasse ora,
echeggiata e struggente, in tanti scorci del quotidiano e del sociale: nell'arredamento kitch della casa
di lei che vorrebbe simulare un decoro borghese, nella sua adesione ingenua e atrocemente incosciente agli stereotipi di una sottocultura ("In questo ristorante ci veniva Hitler. Sai chi è Hitler?",
chiede ad Alì con una punta di orgoglio), nel suo sforzo di darsi un piglio giovanile, subito raggelato dallo sguardo di compatimento di qualcuno, nel breve gesto di ribellione all'accerchiamento della
gente, soffocato nel pianto della vittima impotente.
L'intensità di Brigitte Mira, che Fassbinder reimpiegherà nel ruolo principale di Mamma Küster e,
per una breve apparizione, ne Il diritto del più forte, sta tutta nella sua impossibilità fisica di figurare come protagonista di una storia romantica; ciò che le fa incarnare la poesia della goffaggine nei
timorosi abbandoni al sentimento e negli slanci sempre a metà fra il disarmato e il protettivo-materno.
Il regista, come altre volte, gioca sulla spudoratezza della passione per spingere il personaggio a
brancolare alla cieca, oltre la definizione voluta dall'habitus sociale (cfr.: la ricca e sofisticata disegnatrice di moda de Le lacrime amare di Petra Von Kant che si consuma e si degrada nel legame
tormentato per una donna; l'omosessuale proletario de Il diritto del più forte che, per compiacere
all'amico elegante, tenta di contrarre abitudini che non sono le sue; la cantante Lili Marleen, portavoce del Reich, che si presta per amore di un uomo ad aiutare la Resistenza). Il momento più forte de
La paura mangia l'anima è forse quello in cui Emmi, momentaneamente abbandonata da Alì, si lascia andare a un'accorata dichiarazione d'amore al giovane marocchino nello sporco di un'autorimessa davanti ai suoi compagni di lavoro tedeschi. In questo caso però la "scopertura" riguarda entrambi i personaggi, ritagliati nella loro duplice emarginazione su uno sfondo che vieta qualsiasi intimità. La situazione non è più quella dello sbilanciamento nel vuoto del singolo, di un andar sopra le
righe che è spesso sottolineato grottescamente da Fassbinder; siamo qui nel pieno di uno svolgimento melodrammatico, che sottrae i personaggi al mondo e li isola nel viluppo della loro vicenda
privata. L'episodio insomma rientra in un'articolata tessitura narrativa: il punto di partenza è che i
due protagonisti "abbiano un'occasione di vivere insieme", il che vieta al regista la scorciatoia del
finale dimostrativo o la comodità dell'apologo, e lo costringe a misurarsi con una storia fatta di risonanze interne e di continui sfalsamenti rispetto a una possibile conclusione. Il melodramma si regge
Una scena de La paura
mangia l’anima. In primo
piano il regista Fassbinder,
che interpreta una piccola
parte nel suo film.
appunto su uno scarto rispetto alla normalità e al mondo e sulla seduzione del pubblico attraverso
ripetuti accenni, regolarmente frustrati, a una ristabilizzazione nella norma e nella società. (...)
"I film di Douglas Sirk - scrive Fassbinder nel suo saggio - sono descrittivi. Molto pochi primi piani.
Perfino nei campi-controcampi l'interlocutore non appare per intero nell'inquadratura. Il sentimento
profondo dello spettatore non è il risultato di un'identificazione, ma viene dal montaggio e dalla
musica. È per questo che noi proviamo alla fine di questi film un senso d'insoddisfazione. Ciò che
abbiamo visto è capitato ad altre persone. E se qualcosa là dentro vi riguarda personalmente, vi resta
la piena facoltà di ammetterne il significato o di riderne".
Fassbinder coglie qui, nella disponibilità a opposte reazioni, il senso della simulazione del melodramma, la marginalità in esso del racconto rispetto ai meccanismi di captazione dell'emotività dello
spettatore. Il voyeurismo del quale è premiato dalla sicurezza che il fatto "è capitato ad altre persone", in modo che l'immedesimazione avviene sugli effetti (musica, montaggio), non sul narrato.
La paura mangia l'anima, pur con le sue riprese geometriche e funzionali, rovescia in qualche punto
questo procedimento: gli attori guardano in macchina, incorniciati da stipiti di porte o di finestre che
rimarcano il loro ruolo di osservatori/giudici verso il pubblico. Gli episodi in cui ciò accade (la scena
al ristorante; quella di Emmi colpevolizzata dalle compagne di lavoro) segnano il punto di massima
vittimizzazione dei personaggi e quindi di maggior voyeurismo dello spettatore, ed è appunto lì che
il regista rovescia il rapporto guardante/guardato.
Il melodramma fassbinderiano non vuole riconciliare nessuno; serve, in quanto struttura artificiale,
a far risaltare un'implosione, a stimolare attese per frustrarle secondo un'arbitraria legge del contrappasso: Emmi si innamora di Alì, tutti gli altri sono contro; la gente accetta il matrimonio dei due,
Emmi ed Alì si distaccano; la coppia ritrova un'intesa, un'improvvisa malattia (che, sebbene di origine sociale, funziona come colpo del destino) rende impossibile la risoluzione del rapporto.
La struttura del melodramma non viene però irrisa da Fassbinder in una banale parodia. il regista
anzi la assume col massimo rispetto per renderla funzionale alla propria "cattiveria"; esalta così il
feticismo di un'organizzazione a porte chiuse, fatta di continui echeggiamenti, con elementi di dettaglio che ritornano ossessivi a condannare i personaggi a una situazione claustrofobica. Facciamo
un esempio: nel primo incontro tra i due, Emmi consiglia ad Alì di "indossare vestiti chiari". La frase
sarebbe gratuita se non si inserisse in una catena di associazioni: il bianco è opposto al nero della
pelle, è simbolo di reintegrazione sociale; candido, ma inesorabilmente ridicolo, è l'accappatoio
indossato dal marocchino una volta stabilitosi nella casa di lei; dello stesso colore è il camice bianco che lo soffoca in un letto d'ospedale. Le buone intenzioni producono esiti perversi. Rispetto al
progetto del film e al suo larvato ottimismo c'è un ulteriore cambiamento: niente liberazione.
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EDWARD MANI DI FORBICE
(Edward Scissorhands)
Regia di Tim Burton
Con Johnny Depp, Winona Ryder, Dianne Wiest,
Vincent Price, Alan Arkin, Anthony Michael Hall,
Caroline Aaron, Kathy Baker
Usa, 1990, 100'
Edward è stato costruito da un vecchio scienziato,
morto prima di essere riuscito a completare la sua
opera, sostituire cioè le forbici che il giovane ha
con delle mani vere e proprie. È per questo che
Edward se ne sta rinchiuso nel vecchio castello
dove è "nato", almeno sino al giorno in cui viene
adottato da una donna della vicina cittadina, nella
profonda provincia americana. Dapprima adorato e coccolato dalla comunità,
Edward sarà, ben presto, oggetto dell'odio della comunità non intenzionata ad
accettare la sua diversità.
IL REGISTA
Tim Burton:Burbank (California, Usa) 1958
Un commento di LIETTA TORNABUONI su Tim Burton (da Specchio, 1° ottobre 2005)
T
im Burton (…) é il regista americano più stravagante e insieme il più costante nel successo
commerciale, l’unico ricco di tenerezza gentile verso i personaggi infelici, i reietti, le vittime,
il solo capace di far ridere con il macabro e di fare soldi con il cuore. Mai adulto e mai bambino, ha cinquant’anni, è nato a Burbank in California, ha avuto un’infanzia triste evocata nel suo
patetico film Edward mani di forbice da piccolo cercava sempre di scappare; i genitori (un ex giocatore di baseball, una negoziante di souvenir) lo chiudevano in casa a chiave; a 11 anni andò ad
abitare con la nonna, a 15 viveva già da solo. A scuola, per evitare di scrivere una biografia sul mago
Houdini, ne fece un film in Super8 in cui lui stesso eseguiva trucchi e magie di Houdini. Il suo primo
lavoro fu alla Disney. Il suo primo cortometraggio, Vincent era la storia di un bambino che sogna di
essere Vincent Price, l’attore che a tutt’oggi Burton più rispetta e ama. Detesta gli scoiattoli («sembrano topi sotto anfetamina»), i clown («molto deprimenti»), il mondo dei vivi («moralmente
decomposto mentre i morti, se non vivi, sono almeno vivaci»). Gli piacciono i vestiti neri, le lenti
nere, le scarpe nere, Johnny Depp che è il suo interprete prediletto, la spiritualità (non la religiosità).
Vive a Londra con l’attrice Helena Bonham Carter che gli ha dato due anni fa l’unico figlio Bobby
e alla quale ha fatto interpretare la scimmia (nel remake del Pianeta delle scimmie), la strega, la
madre, la voce del cadavere nuziale. Ha fatto film strani, bellissimi. Due ammmirevoli Batman,
Mars Attacks! tratto da un album di figurine, Ed Wood, biografia del peggior regista mai esistito, Il
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mistero di SleepyHolIow, Big Fish. Chi non l’ama lo trova insopportabile, ma La fabbrica di cioccolato è un film sgargiante, travolgente, un poco tedioso: tratto da un racconto di Roald Dahl che per
la letteratura infantile anglosassone è popolare come era il nostro Pinocchio, è la storia di un bambino che possiede solo il biglietto con cui visitare la fabbrica di cioccolato dentro cui vive autorecluso il proprietario Willy Wonka. La sposa cadavere è un film d’animazione in stop-motion costato
dieci anni di lavoro, popolato di allegri scheletri, sarcastico, romantico, dove Burton esprime il suo
massimo desiderio: «Spero di rimanere un interrogativo sino al giorno della mia morte».
DICONO
DEL FILM
Laura, Luisa, Morando Morandini (Il dizionario dei film).
(…) Pur con qualche ingorgo verso la fine, è la favola più originale uscita da
Hollywood da molti anni, nella sua miscela di tenerezza e crudeltà. Il talento grafico di Burton (il quartiere residenziale di pistacchio e caramello, l’assurdo e minaccioso castello, Edward che con le sue cesoie tosa i cani e modella cespugli) è al
servizio di un universo intensamente “poetico”. Sceneggiato da Caroline Thompson da
un racconto di T. Burton, anche produttore per la Fox.
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Leonard Maltin (Guida ai film). (…)
Un misto di elementi fiabeschi e di satira sociale che perde un po’ il filo verso la
fine, ma che non cancella il suo fascino o il suo umorismo gentile. Depp è perfetto
nei panni del fragile ragazzo dalle mani di forbici, ed è davvero divertente Price che
interpreta il suo padrone.
Paolo Mereghetti (Il Mereghetti).
(…) Favola gentile ma anche crudele (scritta dal regista con Caroline Thompson)
sull’impossibilità a essere normale e sul dramma di diventare adulti, narrata da
Burton con un talento visivo e scenografico stupefacente. Memorabili le performance di Edward, che con le sue mani tosa cani, crea acconciature pop e sagoma
cespugli. Molto azzeccato il cast nel quale spicca l’ottantenne Vincent Price. Scontata
insipienza grammaticale dei distributori nazionali che ignorano le regole dell’italiano perché lo strumento per tagliare si usa solo al plurale: forbici. Musiche di Danny Elfman e fotografia di Stefan
Czapsky.
Giovanni Grazzini, da L’Indipendente, 26 aprile 1991. Apologo sull’impossibilità
di essere diversi in una società tutta di uguali, e favola malinconica raccontata alla
nipotina da una nonna che forse da giovane la visse. Ne è protagonista il ventenne
Edward, creato da un inventore che al posto delle mani gli mise forbici e coltelli, e
morì d’improvviso prima di sostituirli con arti normali.
Vissuto in solitudine dentro un castello gotico che sovrasta una cittadina, il ragazzo conosce il
mondo quando Peg, un’intrepida venditrice di cosmetici, se lo porta in famiglia e lo presenta alle
amiche. Nel vicinato si spettegola molto sul nuovo venuto, che ha la capacità di trasformare le siepi
in sculture, di tritare la lattuga a velocità vertiginosa e di fare statue di ghiaccio. E se ne mettono a
frutto le virtù per ottenere fantasiose acconciature femminili e per tosare i cagnolini con esiti bizzarri
(c’è anche, però, chi la considera una creatura infernale venuta a eccitare le signore...). Tutto bene,
insomma, finché Edward s’innamora, ricambiato, di Kim, la figlia di Peg. Allora, mentre il ragazzo
non può accarezzarla temendo di ferirla, e molto ne soffre, il boyfriend di Kim si serve di lui per un
furto e il poverino finisce in prigione. Poi succede di peggio: che viene cacciato, è costretto a
uccidere per difendere il suo amore, e inseguito dalla popolazione intenzionata a linciarlo torna a
vivere nel suo castello in mesta solitudine. Tutto questo per dire il destino di chi possiede gli strumenti per distruggere e per creare, a suo modo un artista, condannato all’emarginazione e all’infelicità quando è stretto nella logica dei sentimenti.
Ma anche, tutto questo, per dare spago a un cinema fantastico che rovesciando il mito di Re
Mida vuole versare qualche goccia di satira
sociale in un divertimento insolito. Con esiti
francamente modesti. Benché sia spiritosa la
rappresentazione di quella cittadina di provincia dove tutti fanno le stesse cose in case color
pastello tutte uguali (contrapposte al castello
alla Frankenstein), e quindi sembri d’essere in
un cartoon, non diremmo infatti che la sceneggiatrice Caroline Thompson e il regista Tim
Burton, anche coproduttore, abbiano ricavato
tutto quello che c’era di comico e patetico nell’idea iniziale. Combinata al ritrattino d’un
Edward vestito da punk, innocente e mansueto
nonostante le mani affilate come rasoi, l’ironia
sulle giovín signore che cadono in estasi facendosi tagliare i capelli lascia segni brevi: si sorride un pochino, e alla fine ci si avvede d’avere
raccolto meno di quanto, reduce da Beetlejuice
e Batman, Burton aveva seminato.
Accanto a Johnny Depp, caro agli adolescenti,
che fa lo scarruffato e pallido Edward con
un’aria sempre molto stupita, c’è la graziosa
Winona Ryder. E alle loro spalle sono la sempre brava Dianne Wiest e il venerabile Vincent Price nei panni dell’inventore al quale si deve fra l’altro una macchina per rompere le uova. Alan Arkin, in una particina di fianco, è il perfetto uomo
qualunque americano, succubo della moglie ma campione di bowling.
Irene Bignardi, da Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996.
Le fiabe sono sempre crudeli (pare che facciano bene così): vogliamo per un attimo pensare a quanto è cattivo un classico per l’infanzia come la Sirenetta di
Andersen, con i suoi risvolti teratologici e la sua conclusione senza speranza?
Le fiabe pensate e nate per gli adulti sono ancor più crudeli, perché nutrite anche
dalla consapevolezza che gli adulti hanno della durezza della vita. Così, non si troverà
nulla di consolante, di consolatorio, di edificante nella favola inventata per Edward mani di forbice
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da Tim Burton insieme a Caroline Thompson. Ma si potrà trovare in compenso molta poesia, una
malinconia autentica, una storia profondamente “morale”, che forse proprio per questo non ha un
lieto fine se non nel riscatto della memoria e nella coscienza di non aver agito male.
La fiaba atemporale di Edward mani di forbice (raccontata da una vecchina tipo Cacao Talmone a
una nipotina piccola piccola sprofondata in un letto che sembra quello della storia dei tre orsi) parte
dall’ennesimo “mad doctor”, Vincent Price - oggetto di culto da parte di Tim Burton -‘nei panni di
un vecchio scienziato che crea una macchina affetta-verdure in forma umana. E sbaglia in due cose:
muore prima di averle dato le mani, frettolosamente sostituite con un fantasioso intrico di lame, ed
eccede nell’anima. Così che quando Edward, abbandonato a vivere da solo in un castello gotico in
rovina, viene salvato da una gentile signora e portato da lei a vivere nella sua casetta suburbana, sono
i turbamenti della sua anima a rendergli dura la vita.
Nella piccola città, che Burton dipinge con i colori dei gelati - giardinetti tutti uguali, vialetti inappuntabili, macchinone parcheggiate in bell’ordine - Edward, extraterrestre timidissimo e pallidissimo vestito di nero, segnato sul volto dalle sottili cicatrici che le sue stesse forbici gli hanno prodotto, ma dotato del dono prodigioso di tagliare virtuosisticamente qualsiasi cosa (capelli femminili,
cespugli, pellicce canine), riscuote all’inizio un successo strepitoso che sarebbe anche un successo
erotico, nella comunità piena di signore e signorine sole, se non fosse che le sue lame sono pur sempre un rischio e che lui è già bell’innamorato della figlia della sua ospite, a sua volta fidanzata con
un orribile teddy-boy violento e razzista.
Pur inserendo i suoi personaggi nei contorni di una favola, Burton tiene d’occhio la realtà per farne
una satira dai deliziosi toni poetici. La buona Dianne Wiest è una venditrice di prodotti Avon e, nella
sua personale interpretazione del sogno americano, pensa sia molto importante truccare le cicatrici
di Edward. E la piccola città è un concentrato di conformismo. Tanto che al primo equivoco la sorte
di Edward, troppo diverso - anche perché troppo gentile d’animo - è segnata.
Unico regista capace di inventare un mondo totalmente fantastico seppure popolato da esseri umani,
Tim Burton, in questo malinconico apologo sulla fatica di essere diverso, dispiega anche una dolente
sensibilità. E nonostante la nascente love story tra la bionda fatina Winona Ryder e Edward il diverso fallisca per la cattiveria del mondo, Burton afferma in maniera convincente il potere della memoria, che resta ai buoni come estrema consolazione.
SCENE DI CACCIA IN BASSA
BAVIERA
(Jagdszenen aus Niederbayern)
Regia di Peter Fleischmann
Interpreti: Martin Sperr, Angela Winkler, Else
Obnecke, Michael Strixner, Maria Stadler, Gunja
Seiser, Hanna Schygulla
RFT, 1968, 85'
In un villaggio della Baviera fa ritorno il giovane
meccanico Abram, dopo un periodo trascorso in
prigione. Ben presto, fra gli abitanti del borgo, si
sparge la voce che il ragazzo sia un omosessuale.
Dapprima deriso, poi denunciato alla polizia con
l'accusa di insidiare i ragazzini, Abram, nel tentativo di sfuggire alla caccia
all'uomo che si è scatenata contro di lui, ucciderà Hannelore, una giovane
donna malvista anch'essa per la sua dubbia moralità sessuale, l'unica che gli
abbia dimostrato amicizia e affetto. Abram non sfuggirà alla cieca rabbia dei
suoi compaesani.
IL REGISTA
Peter Fleischmann: Zweibrücken (Germania), 1937
Un profilo di Peter Fleischman (da La Garzantina del Cinema)
R
egista tedesco. Dopo gli studi universitari in Germania e i corsi all’IDHEC di Parigi, inizia a
girare documentari per la tv tedesca, per la quale realizza anche il primo lungometraggio,
Herbst der Garimler (L’autunno del barbone, 1967), che gli procura una certa notorietà. Nel
1969 fonda, insieme a V. Schlöndorff, la casa di produzione indipendente Hallelujah Film, che contribuisce in maniera decisiva alla diffusione del Nuovo cinema tedesco, la «nuova ondata tedesca»
degli anni ’60, generazione di cineasti influenzata ideologicamente dalla scuola di Francoforte (T.W.
Adorno, M. Horkheimer) e stilisticamente dalla Nouvelle vague francese, con tematiche inerenti ai
conflitti generazionali, ai rapporti tra i sessi, alla condizione della donna. Nel 1969 gira Scene di caccia in Bassa Baviera, adattamento di un dramma di M. Sperr, che ne è anche cosceneggiatore e interprete principale, dove, attraverso la tragedia di un presunto omosessuale in una comunità contadina
bavarese, offre un quadro dell’intolleranza e dell’ostilità verso il diverso, stigmatizzati quale possibile humus di un rinascente nazismo. La pellicola, per i temi trattati e le piaghe ancora aperte nella
coscienza tedesca, non riscuote grande successo di pubblico. Analogo esito attende il meno riuscito
La smagliatura (1975), coproduzione italo-franco-tedesca con U. Tognazzi, M. Piccoli, M. Adorf e
musiche di E. Morricone: ambientata nella Grecia dei colonnelli, è una parabola sui meccanismi perversi del potere e sulla sua sempre possibile deriva autoritaria. In seguito F. si dedica soprattutto a
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documentari, tra i quali si ricorda Deutschland, Deustchland (Germania, Germania, 1991), sulle
conseguenze della caduta del muro di Berlino e dell’unificazione tedesca.
DICONO
DEL FILM
Luisa, Laura, Morando Morandini (Il dizionario dei film)
(…) Dal dramma di Martin Sperr, collaboratore alla sceneggiatura e interprete principale, un duro, asciutto Heimatfilm di taglio naturalistico che diventa apologo sul
"fascismo ordinario", il farisaismo, l'intolleranza, l'ignoranza della gente di campagna.
Girato in dialetto bavarese, contribuì alla nascita del Nuovo Cinema Tedesco. Fu
visto e apprezzato all'estero più che in patria. In Baviera ebbe precaria distribuzione.
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BLADE RUNNER (Director’s Cut)
(Blade Runner The Director’s Cut)
Regia di Ridley Scott
Con Harrison Ford, Sean Young, Daryl Hannah,
Rutger Hauer, Edward James Olmos, Joanna
Cassidy.
Usa, 1982 (1991), 118’
Los Angeles, 2019: un ex poliziotto torna in
servizio con il compito di ritirare dalla circolazione
quattro Nexus 6, due uomini e due donne “replicanti”, androidi così perfetti da risultare indistinguibili dai normali esseri umani ma “deperibili”,
con solo quattro anni di vita. Liberamente tratto
dal romanzo Cacciatore di androidi, nell’edizione
originale Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968), dello scrittore di
fantascienza Philip K. Dick.
IL REGISTA
Ridley Scott (South Shields, Gran Bretagna, 1937)
Un commento di IRENE BIGNARDI su Ridley Scott (da Il declino dell’impero
americano, Feltrinelli, Milano, 1996)
R
idley Scott è l’autore di uno dei film più belli degli ultimi vent’anni - Blade Runner (1982),
da un romanzo del grande eccentrico e infelice Philip K. Dick, che ha stabilito le coordinate
e il paesaggio della megalopoli del futuro. E con Thelma & Louise (1991) - al di là dei meriti del film, meno travolgente della leggenda che ne è nata - ha dato una sorta di eversivo manifesto
di liberazione femminile.
Non sarebbe poco. In più con I duellanti, da Conrad - un film che a Cannes 1977 entusiasmò Roberto
Rossellini e che vinse come miglior opera prima - ha anche realizzato una delle più intelligenti e
inventive trascrizioni da un’opera letteraria, e con Alien (1979) un capolavoro della fantascienza
metafisica, dove per la prima volta a una donna (Sigourney Weaver) tocca il ruolo dell’eroe in lotta
contro l’ignoto: in questo caso l’orribile creatura che si sta impadronendo dell’astronave.
Quattro film che bastano a fare di Ridley Scott un autore di primo piano. Che tuttavia nella sua carriera - preceduta e costeggiata da una fortunata attività di regista e produttore di pubblicità insieme
al fratello Tony, e sempre attestata su un altissimo livello formale - ha registrato alti e bassi di stile
e di qualità: il punto più basso della quale è costituito dal (...) goffissimo 1492 - La scoperta del
Paradiso (1992), tutto sbagliato (a partire da Depardieu sovrappeso nel ruolo dell’austero Colombo)
meno forse che in quel tanto di follia alla Herzog che percorre le parti sudamericane.
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DICONO
DEL FILM
Marìa José Garcia Salgado, da Gli immigrati: replicanti o cittadini. Recensione del
libro di Javier de Lucas Blade Runner. El Derecho, guardian de la diferencia, pubblicata in Anuario de Filosofia de Derecho, XX, 2003.
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(…) Una storia che mette a confronto un umano, il Blade Runner, con un gruppo di
macchine intelligenti – replicanti Nexus 6 – che abbandonano le colonie dove sono
manodopera schiavizzata e si infiltrano sulla Terra, in cerca di risposte sul tempo che rimane loro,
dal momento che hanno un programma di scadenza di quattro anni.
Il film è fondamentalmente un invito a riflettere intorno alla “indifferenziazione tra umano e replicante”, riflessione che Javier de Lucas estende a scenari del nostro mondo attuale, riempito di differenziazioni indefinibili che servono per giustificare discriminazioni aberranti, dal momento che al
differente non necessariamente corrisponde la stessa considerazione tributata all’io. L’autore si
chiede dunque che cosa conferisce agli esseri umani l’enorme privilegio di essere gli unici titolari
della dignità, della condizione umana, che cos’è ciò che ci rende umani e ci concede così, apparentemente, la titolarità del Diritto, dei diritti.
(…) Uno dei risultati migliori del libro di
Javier de Lucas è il parallelismo, che si scopre veritiero, tra i replicanti e i cittadini subordinati, ciò in cui abbiamo convertito gli
immigrati servendoci di questo modello fornito e gelosamente conservato dal Diritto:
“Roy, Zhora, Leon, Pris sono illegali, senza
documenti. Sono lavoratori che sono partiti
dal loro spazio, che sono venuti qui e sono tra
noi senza aver espletato alcuna formalità […]
E precisamente per questo non sono
riconosciuti come immigrati legali. Hanno
attraversato le frontiere per lavorare là dove
noi non vogliamo (possono essere solamente
riconosciuti come lavoratori nel mondo esterno e possono vivere solamente quattro anni),
non accettano di rimanere nel loro luogo di
lavoro e solamente per il tempo che è loro
assegnato. Per questo non li riconosciamo
neanche come immigrati.
(…) Ciò che Blade Runner mostra, dice
Lucas, è che “dobbiamo guardare più in là
dell’attuale frontiera dell’umano […],
dobbiamo essere disposti a fare passi in avanti nell’estensione del riconoscimento giuridico proprio dell’umano”, dobbiamo vincere
“la paura della diversità, dell’incertezza che
provoca la differenza” e riconoscere a chi è
diverso – perché tutti lo siamo – l’uguaglianza dei diritti “ a parEsistono numerose versiotire dalla sua diversità” e non limitarci a offrirgli, casualmente,
ni del film, uscito nelle sale
tolleranza.
nel 1982: versioni per la
Costruiamo l’altro a partire dai pregiudizi, dai sospetti ereditati e
televisione o per l'home
autoalimentati e fabbrichiamo così un modello che ci permette di
video. Tuttavia le principali
escluderli dai nostri territori, dai nostri beni, dai nostri diritti, e
sono, oltre alla versione
che ci fornisce, inoltre, la falsa illusione di credere che tali escluuscita al cinema nel 1982,
sioni si giustificano in quella costruita alterità, in quella costruila Director's cut (1991),
ta differenza (…). Costruiamo le categorie che stigmatizzano,
versione del regista con
che discriminano, che classificano gli immigrati in buoni e catalcuni cambiamenti signifitivi, veri e falsi, a seconda che servano o meno ai nostri interessi
cativi della trama, soprateconomici, alle nostre necessità di mercato, a seconda che siano
tutto per quanto riguarda il
o meno docili e culturalmente assimilabili. Come abbiamo visto
finale e la Final Cut (2007),
in Blade Runner, è necessario oltrepassare i limiti che ci conrestaurata digitalmente,
vertono in privilegiati, è necessaria una nuova prospettiva, dal
rimasterizzata e contenenmomento che “l’umano, il proprio degli individui, dei popoli,
te variazioni minime rispetnon è la memoria del tempo ma […] quello che il tempo permetto alla Director's Cut.
te di costruire, attraverso l’esperienza vissuta, le emozioni, i sentimenti e concretamente tra quelli la compassione verso gli altri,
quelli che non sono come lui, le altre specie […].
Siamo disposti ad accettarlo? Ci prepariamo a ciò? Si chiede Javier de Lucas. La sua risposta è negativa, in quanto continuiamo a pensare che l’immigrazione sia “una questione di manodopera e
ordine pubblico”. È necessario, prosegue l’autore, che lo Stato si impegni e non deleghi l’esercizio
della solidarietà agli impagabili volontari sociali, che non possono, tuttavia, supplirvi (…)
Alla fine e all’inizio anche Deckard finisce per domandarsi dov’è la differenza che gli hanno incaricato di sorvegliare e che converte in pensioni le sue esecuzioni di replicanti.
Laura, Luisa e Morando Morandini, da Il Morandini 2009. (…) Sceneggiato da
Hampton Fancher e David Peoples, è il miglior film di SF degli anni ‘80 e di R.
Scott. Dopo Metropolis (1926) di F. Lang nessun film, forse, aveva proposto
un’immagine così suggestiva e terribile del futuro come la metropoli multirazziale, modernissima e decadente, ideata dall’artista concettuale Syd Mead e dallo
scenografo L.G. Paull (con la fotografia di J. Cronenweth, gli effetti speciali di D.
Trumbull, le musiche di Vangelis). A livello narrativo si può sospettare che anche il cacciatore di aneroidi Rick Deckard sia un aneroide, suggerimento che nel 2007 diede anche Goffredo
Fofi, che come antecedente cita un testo teatrale di M. Bontempelli, Minnie la candida (1927). Sul
versante tematico può insospettire il lato filosofeggiante, residuo del romanzo (scritto nel 1966). Il
finale imposto dalla produzione a Scott, è smaccatamente consolatorio, ma il fascino figurativo e la
sagace commistione di thriller nero e fantastico sono fuori discussione. Ovviamente i soci
dell’Academy che dà gli Oscar non se ne accorsero. Nel 1991 fu rimesso in circolazione in una
nuova edizione curata dal regista, eliminando la narrazione fuori campo, con qualche ritocco e un
finale diverso. Nel 2007 fu presentata a Venezia una versione definitiva, sostanzialmente molto simile a quella del 1991, dal titolo Blade Runner – The Final Cut. (****)
Goffredo Fofi da Il Sole-24 Ore, 19 Agosto 2007
Il regista inglese Ridley Scott, oggi settantenne, sembrò a tutti un autore nuovo e di
talento sulla base di tre film, l’esordio I duellanti da Conrad, che a Cannes entusiasmò Rossellini, e poi subito a Hollywood Alien (1979) e Blade Runner (1982), due
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film di fantascienza originali e possenti, visionari e ossessivi. Ma Scott preferì farsi americano e mettere la sua sapienza tecnica a servizio dei nuovi “ producers”, sempre meno coraggiosi “di destra”.
Escludendo Thelma & Louise (1991), il suo cinema ha incassato quasi sempre molto e ha avuto
premi nella risibile cerimonia degli Oscar, ma vale davvero poco: favole new age ( Legend), revisioni storiche magniloquenti e imbecilli ( 1492, Il gladiatore, Hannibal, Le crociate), filmacci bellicisti ( Soldato Jane, Black Hawk Down), sempre con grande abbondanza di effetti speciali e quelle
ridondanze che gli ottimisti chiamano post- moderne. La sua trasformazione ce la spieghiamo oggi
pensando a quegli anni: alla fine degli anni Settanta il mondo cambiava, e cambiava il cinema, o
meglio, iniziava la sua agonia.
Scott ha esordito troppo tardi, a quarant’anni, e se il suo passato di pubblicitario è stato una riserva
alla quale ha continuato ad attingere anche spudoratamente, l’epoca non lo ha favorito; dopo l’incredibile libertà degli anni Sessanta e Settanta – anni d’oro per la creatività hollywoodiana – sono
arrivati gli anni oscuri del conformismo: la sconfitta dei movimenti, la fine delle utopie, il “pensiero
unico”, la massificazione di ogni mercato e per cominciare di quello mediatico, fondamentale per la
solidità di un sistema economico ormai senza alternative. I tardi anni Settanta sono a Hollywood
quelli della paranoia e della “cospirazione” ( Eraserhead, La conversazione, I tre giorni del condor...), i successivi sono quelli della restaurazione. Lo spazio per l’invenzione si restringe, e i film,
da sempre merce privilegiata perché produttrice di consenso, accentuano il loro carattere di intrattenimento che cede al non-pensiero. La pubblicità è eterna, in Blade Runner una specie di dirigibile
propaganda prodotti e messaggi politici (l’invito all’emigrazione nell’extra-mondo, cioè su altri
pianeti), e sulle pareti dei grattacieli giganteggia la pubblicità della Coca- Cola. Il mondo di Blade
Runner, “è questo mondo”, il nostro, è la Terra nel 2019 del film (girato nel 1982; mentre il romanzo di Dick era uscito nel 1968 ed è ambientato nel 1992).
Il disastro ecologico ha cambiato il clima, piove sempre e sembra sempre notte. La città (Los
Angeles, nel romanzo San Francisco) sembra quella di Metropolis di Lang ma privata di razionalità:
di un’urbanistica decomposta, fradicia e sporca, multietnica ma a dominante orientale, la natura vi è
del tutto assente (vedremo la natura solo nello stupido finale ottimista voluto dai produttori, con la
fuga degli amanti, ma abolito da Scott nella versione dvd). Sono mutati cibo e ambiente e usi e costumi ma la gestione del potere è sempre la stessa, e la polizia è quasi dovunque. Lo scienziato Tyrell
ha brevettato forme di
replicanti, uomini e
donne artificiali adatti
alla vita e alla guerra
sugli altri pianeti, i cui
modelli più perfetti sono
i Nexus 6, che hanno una
memoria
(artificiale,
indotta) e possono non
sapere di essere tali,
gratificati di un passato
per poterli controllare
meglio. Perfino il protagonista, il “cacciatore
di
androidi”
Rick
Deckard – nel romanzo
era un ometto con problemi di coppia, nel film è
Harrison Ford, con in
volto un’unica espressione di stolida inter-
rogazione –, è probabilmente un androide, ma ne abbiamo e ne ha solo un sospetto (il sogno del liocorno). Il suo compito di super-killer è di stanare un piccolo gruppo di ribelli tornati sulla Terra per
scoprire la verità su di sé e bloccare la propria “deperibilità” (sono programmati per quattro anni e
non più). Egli si innamora di una androide, e quando anche Roy, l’androide più forte (Rutger Hauer),
sarà morto, dopo aver ucciso lo scienziato suo creatore in un incontro di sapore miltoniano («io
voglio più vita, padre»), Deckard fugge con lei, ben sapendo che lei (e anche lui?) ha poco da vivere.
La parola androide non è che una variante – tipicamente dickiana – della vecchia parola robot inventata dal ceco Karel Capek nel 1920 nel lavoro teatrale R.U.R. Né nuovo è il tema dell’uomo artificiale, Scott si ricorda di Frankenstein nell’incontro tra Roy e Tyrell. Ma è nuovo il contesto, sia quello di Dick – l’America degli anni Cinquanta e Sessanta, tra alienazione e ribellione, Dick fa subito
pensare ai dibattiti dell’epoca, alla sociologia americana e al marxismo europeo, al Marcuse di
L’uomo a una dimensione – sia quello di Scott, a rivolta sconfitta o rientrata, nella chiusura di nuovi
tempi senza speranze che non siano manipolate, addormentanti. L’autentico dov’è più? Nell’anelito
dei replicanti a «una vita che sia una vita» (come dice Roy) possiamo riconoscere l’insoddisfazione
dei più, che apre alle nuove previsioni di J.G. Ballard (la rivoluzione del ceto medio) o a quelle più
libere e nonostante tutto positive di Vonnegut (c’è ancora modo di lottare, e in ogni caso la vita continuerà anche dopo la«finedel mondo»,con l’uomoo senza, tra altre esistenze...).
La sofferenza di chi si rende conto di non avere «una vita che sia una vita» non è certo nuova, nella
storia della letteratura e del cinema. La sofferenza di chi scopre o sospetta di essere un replicante lo
è, nonostante le sue affinità con le normali sofferenze delle vite non pienamente godute. L’androide
di Dick e Scott non è solo una metafora, è una novità, è un fatto del futuro, e forse di un futuro non
molto lontano dal nostro presente. A metà strada troviamo una variante che fa delle due sofferenze
una sola, in un testo teatrale di Bontempelli, Minnie la candida ( 1927). A Minnie vien fatto credere
da amici burloni che tra di noi ci sono uomini-macchina in tutto simili a noi, e nel dubbio di essere
anche lei un essere artificiale, Minnie si uccide. La forza visionaria di Blade Runner sta nella compattezza del suo immaginario – visivo, narrativo, teorico – che esclude dal film tante suggestioni del
romanzo come la morte degli animali, la filosofia-beffa di un nuovo Cristo nelle cui sofferenze identificarsi, il robot come una sorta di elettrodomestico, la vita dell’uomo medio mediamente (cioè
grandemente) crudele eccetera. Ma bisogna esser grati a Ridley Scott della sua capacità di concentrare, di essenzializzare. E di aver tradotto in un barocco paesaggio di rovine tecnologiche ed ecologiche lo spazio del nostro vivere. Gli androidi sono tra noi, e la domanda che deve inquietarci deve
essere quella dei due innamorati del film, o di Minnie: lo siamo forse anche noi?
Giovanni Grazzini da Il Corriere della Sera, 15 ottobre 1982
Uno dei più clamorosi film di fantascienza che si siano visti negli ultimi anni, una
delle più sgomentevoli profezie sull’imminente medioevo, uno dei frutti più
maturi del cinema spettacolare. Insomma un film “ più ”, come direbbero i trombettieri patentati, un’ottima sintesi tra fumetto, narrativa popolare, tecnologia
audio-visiva su cui c’è da fare pochissime riserve perché i punti deboli (l’epidermica
psicologia, i rintocchi filosofeggianti) sono inerenti al genere quale è ormai codificato sul versante
moralistico della letteratura avveniristica.
Prendendo spunto dal romanzo Il cacciatore di androidi di Philip Dick - ma il titolo originale suonava curiosamente “ Gli androidi sognano pecore elettriche? ” - gli sceneggiatori Hampton Fancher
e David Peoples immaginano che nell’anno 2019 l’umanità abbia portato alle estreme conseguenze
le pratiche sperimentate nel nostro secolo: le grandi città hanno formato delle megalopoli in cui i ricchi, nei piani alti dei grattacieli, vivono separati dal fiume fangoso della plebe prodotta dalla sovrappopolazione; i potenti sfrecciano a bordo di aeromobili sulla testa dei miseri che, sotto la pioggia,
usano ancora gli ombrelli; gli edifici del Novecento, che costerebbe troppo abbattere, vanno in rovina fra cumuli d’ímmondizie. Chi se la gode sono i tecnocrati, simbolizzati dal magnate Tyrell, i
quali dispongono di creature, i “ replicanti ”, prodotte dall’ingegneria genetica e adibite come schia-
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vi ai servizi spaziali più rischiosi. Che cosa succede quando alcuni “ replicanti ”, programmati per
vivere quattro anni, si ribellano ai loro padroni perché vogliono campare più a lungo, e sbarcano
clandestini a Los Angeles? Succede che la polizia, paladina dell’Ordine, incarica l’ex detective
Deckard di individuarli e toglierli di mezzo. Impresa da superfumetto, perché i “ replicanti ” sono di
carne e ossa, in tutto uguali all’uomo e alla donna seppure privi di memoria e di sentimenti, ma in
più forniti d’una forza terrificante. E perché Deckard, mentre indaga sui ribaldi, s’innamora d’una
Rachael che è anch’essa certamente una creatura artificiale ma forse costruita con un metodo talmente perfezionato da possedere persino la virtù di provare affetti umani. Come non bastasse, interviene il sospetto che qualcuno dei “ replicanti ” si sia fabbricato dei falsi ricordi, e c’è chi si camuffa da barbona o da donnaserpente per farsi accompagnare dal genetista che potrebbe forse modificarle le cellule. Il più temibile fra i “ replicanti ”, e l’unico superstite dopo che Deckard (con l’aiuto di Rachael) ha eliminato gli altri, è comunque Roy, un biondo Mister Muscolo il quale ha ucciso
Tyrell e, ululando come un lupo, finirebbe col far precipitare il suo inseguitore dall’alto d’un grattacielo. Se lo risparmia è perché Roy non ha ottenuto di prolungare la propria vita, e amaramente si
chiede a che cosa ormai valga uccidere Deckard. Quest’ultimo dunque l’ha vinta, e l’amore di
Rachael lo premia: ma chissà se la donna è stata programmata per sopravvivere quanto basta a invecchiare con lui nel mondo della Luce...
Il fascino di Blade Runner (il titolo definisce la professione di Deckard con un termine preso in
prestito da William Burroughs: si potrebbe tradurre “ il corriere della lama ”) sta nell’apparato decorativo in cui si celebrano le sue cupe nozze fra science-fiction e film a nero, nel rincorrersi di episodi mozzafiato, ambientati fra quinte tecnologicamente sofisticatissime e putrescenti, nell’adombrare
una storia d’amore in luoghi agghiaccianti. Reduce dal successo di Alien , il regista inglese Ridley
Scott lascia che stavolta l’orrore emerga da un’ipotesi pessimistica sul nostro futuro, e riallacciandosi ai classici del thriller e del western con fantasia tetra e barocca accomuna uomini veri e “ replicanti ” nella paura della morte. Per eccellenza film d’avventura, Blade Runner è tuttavia uno spettacolo coi fiocchi, nel quale gli effetti speciali dell’équipe di Douglas Trumbull, la musica di Vangelis,
l’inventiva scenografica di Lawrence Paull, la fotografia di Jordan Cronenweth esaltano fino al
delirio la drammaticità di eventi rappresentati da Ridley Scott con uno stile visionario in cui le memorie del cinema degli anni Quaranta si accoppiano ad angosciose premonizioni sul destino dell’umanità. La speranza che in un futuro terribile resti spazio alla vita dei sentimenti è uno scotto pagato dal film alla retorica. Conta molto di più l’ímmagine sordida di questa società degradata, restituita da Scott, nel tragico e nel magico, con una ricerca formale (cui non sono estranei echi del fumettista Mobius) di grande efficacia emotiva. E molto gli giova l’interpretazione di Harrison Ford, che
prestando la propria faccia ordinaria a un eroe modellato sulle stanchezze e le perplessità di Bogart
versa una goccia di verosimile nel confronto fra Deckard e i punk “ replicanti ”.
Dopo aver fatto le lodi di Sean Young, che conferisce a Rachael la debita carica d’ambiguità, ripetiamo quanto dicemmo dall’ultima Mostra di Venezia, dove il film fu presentato fuori concorso. Che
quanti diffidano dei colossi hollywoodiani dovrebbero ogni tanto ricredersi. Si danno casi, e questo
lo è, in cui il genio di un regista reinventa l’antico racconto poliziesco con una fantasia figurativa
che lo fa sembrare tutto nuovo, e ti incolla gli occhi allo schermo.
Walter Veltroni da Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale dei film, Sperling
& Kupfer Editori, Milano, 1994.
Piove, nel nostro futuro. Piove una pioggia acida, cattiva, che non finisce mai.
Piove sulle città distrutte, piove sui grandi schermi appesi ai palazzi. Piove su una
umanità di replicanti, incapaci di ricordare, incapaci di provare commozione.
Qualcuno li ha fabbricati così pensando di poterli controllare. E, fabbricandoli senza
sentimenti, ha dimostrato di essere peggiore di loro. Blade Runner è un film neorealistico sul nostro
futuro. È la proiezione più lucida, più pessimista delle nostre inquietudini. La nostra sensazione che
il giocattolo si sia rotto, che per la prima volta siamo costretti a pensare che il futuro non necessari-
amente sarà migliore del passato. Che la scienza non necessariamente risolverà i problemi. E che il
futuro sarà segnalato da inutili gadget, come i manici luminosi degli ombrelli. Il film è la divinazione
di una sconfitta collettiva. È un’immagine tragica del futuro che corrisponde al nostro pessimismo
di oggi. Gli anni Cinquanta, più freddi ma più fiduciosi, producevano fantascienza innocente, sogno
e illusione. Qui siamo in un brutto incubo. Raccontato in un bellissimo film.
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RESPIRO
Regia di Emanuele Crialese
Interpreti: Valeria Golino, Vincenzo Amato,
Francesco Casisa, Veronica d'Agostino, Avy
Marciano, Elio Germano.
Ita-Fra, 2002, 100'.
Grazia vive con il marito e i tre figli in un'isola del
Mediterraneo. Il suo modo di porsi, passionale,
incapace di nascondere i sentimenti e, perciò, poco
in sintonia con il modo di vivere della comunità, la
fa apparire agli occhi degli abitanti strana, diversa,
tanto da indurre il marito, imbarazzato, a decidere
di farla ricoverare in una clinica a Milano. A Grazia
non resterà che fuggire, nascondersi, farsi credere annegata in mare.
IL REGISTA
Emanuele Crialese: Roma, 1965
Un profilo di EMANUELE CRIALESE (da La Garzantina del Cinema)
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R
egista italiano. Studia cinema negli Stati Uniti, dove si diploma alla New York University e
realizza il suo primo lungometraggio in inglese (Once We Were Strangers, 1999) presentato
a vari festival fra cui il Sundance, ma mai distribuito in Italia. Tornato in Italia, gira sull’isola di Lampedusa la sua opera seconda (Respiro, 2002), che ottiene a Cannes il premio della critica,
mai assegnato in precedenza a un film italiano. Interpretato da V. Golino accanto ad attori non professionisti scelti fra gli abitanti dell’isola, il film narra con echi mitologici la storia di una donna dal
comportamento eccentrico, che decide di rifugiarsi in una grotta per sottrarsi alla volontà della famiglia che vorrebbe internarla per farla «curare». Nel 2006 realizza Nuovomondo, sull’emigrazione
italiana negli Stati Uniti, vincitore del Leone d’Argento come film rivelazione al festival di Venezia,
nonchè di 3 David di Donatello.
DICONO
DEL FILM
Aldo Fittante , FilmTv
Una donna. Una moglie. Come la Gloria di Cassavetes, Grazia (alla quale Valeria
Golino dona con estrema generosità il suo corpo dal profumo di mandorlo) non è
“normale”: se è triste è triste davvero; se è allegra è capace di tutto. Vive a
Lampedusa, tra canzoni di Patty Pravo, l’odore fortissimo del pesce, bande di
ragazzini che rispecchiano il forte contrasto della natura del luogo e uomini pronti a
imbracciare i fucili non appena lei, con la complicità del figlio tredicenne, libera decine
di cani da una brutale anticamera di morte. Grazia, dunque, è “anormale” e il marito vorrebbe che
andasse a Milano, a farsi curare da un “dottore”. Inevitabile la fuga, inevitabile tornare a mischiarsi
fra le grotte e lo scenario selvaggio che, anni prima, l’aveva regalata al mondo. Il secondo lungometraggio di Crialese lotta con l’estetica di Tornatore e di Aurelio Grimaldi e con l’incomunicabilità dell’Antonioni di L’avventura senza complessi di inferiorità. Il suo orgoglio è tutto siciliano.
Così che la forza del suo intenso, a tratti bellissimo film, pare venire proprio da quel mare dove, alla
fine, i protagonisti della sua storia vanno a tuffarsi e a rifugiarsi. Ultimo domicilio possibile per le
persone che hanno solo voglia di vivere. Libere.
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Luigi Paini, da Il Sole-24 Ore, 2 Giugno 2002
Troppo diversa per essere accettata: Grazia (Valeria Golino), protagonista di
Respiro di Emanuele Crialese, ha qualcosa di extraterrestre. Una gemma caduta
dal cielo, che turba gli abitanti della piccola isola (Lampedusa) in cui è ambientato il film. Una “testa matta”, che canta a squarciagola le canzoni di Patty Pravo,
dolcissima con i tre figli, innamorata dei suoi cani. Quasi una forza della natura,
semiselvaggia, a volte abitata da forze oscure. Intorno a lei pietre, mare, sole, scheletri
di case abusive mai terminate: un mondo insieme dolcissimo e terribile, un microcosmo annichilito
dalla luce, che vive allo stesso tempo l’esperienza della bellezza assoluta e della durezza estrema.
Grazia non può essere capita. Le sue crisi nervose vengono interpretate come segno di pazzia: va
allontanata, deve andare a Milano per curarsi. Ma lei non sente ragioni, non ubbidisce agli ordini
sempre più imperiosi del marito. Con la complicità del figlio tredicenne Pasquale si nasconde in una
grotta remota, dove nessuno la potrà mai scovare. Tutti la cercano, in ogni angolo, inutilmente. Il suo
uomo si dispera, mentre il ragazzo che sa tutto è sconvolto dai sensi di colpa.
Tristi tropici nostrani: la comunità si scopre gretta, incapace di accogliere la diversità, paurosa di
fronte a ciò che non capisce, che non corrisponde ai suoi canoni tradizionali. Crialese non racconta
né un Eden primordiale né un inferno irredimibile. Osserva, spia, lascia parlare il cielo e il mare, ci
fa sentire le parole aguzze del dialetto, dà voce ai contrasti. Quasi una piccola Isola Aran sotto il sole
d’Africa, sulla quale, inesorabilmente, la vita e la morte continuano uguali.
Roberto Escobar, da Il Sole-24 Ore, 2 Giugno 2002
Luce bianca, colori netti. In primo piano, di profilo, un giovane guerriero tende la
fionda: istantaneo, il proiettile cerca la sua preda. Così inizia Respiro Subito, altri
giovani guerrieri irrompono sullo schermo. Niente è vivo, tra pietre e cielo, se non la
violenza. Chi sono? Dove
e quando s’avventano su
tre “nemici” con la
crudeltà festosa d’una
muta in caccia?
Dice Emanuele Crialese
d’aver voluto raccontare
una leggenda ascoltata e
riascoltata a Lampedusa.
E infatti le pietre e il cielo
del film sono quelli dell’isola splendida e desolata, già terra africana.
D’altra parte, le leggende
avvengono mai e sempre,
in nessun luogo e
ovunque, nel tempo e
nello spazio di un racconto. E proprio lì, nel centro
del racconto, accadono i
fatti quotidiani e portentosi di Respiro.
Intorno, a delimitare i
confini del mondo, c’è un
mare totale, insuperabile. Qualche eco di un altrove c’è, nelle parole di Grazia (Valeria Golino),
Pietro (Vincenzo D’Amato), Pasquale (Francesco Casisa) e degli altri, personaggi o voci del coro.
Ma è un mondo improbabile, semplice negazione dell’universo in cui tutto accade.
E che cosa accade, tra pietre e cielo? Ben poco di cui si possa dire che sia storia, che abbia linearità
di storia. Il racconto di Crialese è circolare, ripetizione di situazioni elementari. Il modello è dato fin
dall’inizio, con la muta degli adolescenti in caccia, con la gioia festosa di sentirsi uniti e vivi nell’atto di umiliare, di “negare”. Pasquale e i suoi acquistano coscienza d’essere un noi quando riversano la loro gioia distruttiva su altri, quando ne degradano la dignità. Nella luce arcaica di uno
scoglio perduto nel Mediterraneo, il cinema mostra in atto una “messa in scena” che la Storia sempre s’illude d’aver superato.
La stessa messa in scena è poi narrata da Crialese per gli adulti. Ognuno vive sotto gli occhi di tutti,
esposto alla cattiva reciprocità dei
desideri (dell’invidia, della vendetta). I
rapporti sono tesi, i gesti tentano di
nascondersi nel conformismo. E tuttavia, in ogni momento la cattiva reciprocità può scattare come una fionda.
La via d’uscita? La stessa percorsa da
Pasquale e dalla sua muta in caccia:
farla pagare a qualcun altro, la tensione,
negare e degradare qualcun altro, e in
tal modo chiudersi in un noi totale,
sicuro e insuperabile.
Infatti, sull’isola c’è un luogo del tutto
altro: una costruzione abbandonata,
colma di cani randagi. Tenuti lontani
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dalle case, sono vittime sacrificali. Con loro, si esclude dal noi lo “sporco”, il pericolo che le tensioni ne facciano saltare i confini. Lo stesso vale, e a maggior ragione, per Grazia: per Grazia che è
bella, che entra in mare a seno nudo, che è folle, che si mostra al di fuori d’ogni conformismo.
Portatrice di eccesso - di hybris -, anche lei dev’essere esclusa, espulsa dai confini del mondo (dovrà
andare a Milano, per essere “curata”).
Di circolarità in circolarità, di ripetizione in ripetizione, la crisi monta come in una tragedia (e come
in una tragedia Pasquale contende la madre al padre). S’arriva così all’esplosione, che Crialese
descrive in forma indiretta, con la fuga dei randagi liberati da Grazia: idea visiva tra le più intense
di questo film colmo di idee visive. Subito, come nella caccia all’uomo che apre Respiro, la violenza di tutti e d’ognuno s’abbatte sulle vittime. A fucilate, i cani sono sterminati: nell’atto di negare la
vita, gli assassini si sentono ben vivi.
Questo è il cerchio lungo il quale corre il racconto, senza fine. E però attraverso di esso passa una
storia lineare, una vicenda che trasfigura la messa in scena, e che ne modifica il senso. Come i cani,
anche Grazia muore (così tutti pensano). Quegli stessi che l’hanno negata ed espulsa si trovano
adesso a ricordarla, a “raccontarsene” tutti insieme la storia esemplare e unica. Riuniti sulla spiaggia, la venerano come una dea: la portatrice dell’hybris, nella leggenda - nel mito - diventa la salvatrice, la madre benefica.
Nella sua morte trasfigurata, elevata a sacro, tutti e ognuno vedono dunque un nuovo centro dell’universo. Un centro che - così credono - non conosce più violenza, che è netto dalla cattiva reciprocità, e che dunque la frena, la trasforma in ordine e senso del noi (splendidamente reso, questo senso,
dall’immagine di decine di piedi che avanzano insieme sott’acqua, sollevando la sabbia bianca).
Dove e quando, appunto? Forse ieri, tra pietre e cielo, forse domani, tra noi. O forse in un tempo e
in uno spazio arcaici, prima del tempo e fuori dallo spazio. Certo, però, in un tempo e in uno spazio
che stanno nella memoria, illusori e rassicuranti come solo la memoria riesce a essere.
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Silvio Danese, da Il Giorno, 14 giugno 2003
Qui il respiro è del cinema, di tradizione alta (Visconti-Rossellini-PasoliniBellocchio) ma aperta a un’eccentrica variabilità personale, moderna e rurale, lirica e neorealista. Secondo lungometraggio di Crialese, premiato all’ultimo
Cannes, è la tranche di un pezzo d’Italia così confinato e irreale da diventare epico
e universale. Tra il mare pressante, che cuoce l’isola di Lampedusa nella siciliana
fede dei ruoli blindati, e la terra di nessuno di ruderi di case e deserti di roccia e sabbia bianca, c’è
la matta da slegare. Nel ruolo più centrato e intenso della sua irregolare carriera, Valeria Golino è la
madre eccentrica e vitale di tre ragazzini dolci e ostinati, moglie di un pescatore onesto ma incapace,
come tutta la comunità, di accettare questa spavalda e sana differenza. Tolti certi indugi paesaggistici della fotografia e qualche colorismo estetizzante dei costumi, resta un film potente, d’immagini intense: l’attesa che l’acqua restituisca un corpo, la ricerca vista dal fondo marino, la reinvenzione
del bacio sommerso dell’Atalante. Da vedere.
Maurizio Porro, da Il Corriere della Sera, 25 maggio 2003
Respiro di Emanuele Crialese, che ha studiato cinema in America, è una delle sorprese della nuova generazione di registi italiani a Cannes. Personale, originale,
terrestre e leggendario, prende spunto da un racconto popolare - la presunta morte
di una donna rifiutata dalla comunità di un piccolo paese perché creduta pazza per entrare in una zona di mitologia alla Magna Grecia: madre terra (importante sarà
il rapporto col figlio), sentimenti ancestrali, fuga, grotta, presunta morte, manca la metamorfosi, solo suggerita. Alla fine tutti si ritrovano nel gran mare siciliano, al largo di Lampedusa,
sott’acqua. Storia realistica, geograficamente da Terra trema, ma anche fortemente metaforica, in cui
il regista riesce a raccontare una specie di perdita di forza di gravità che alza il racconto di una
nevrotica con manie depressive in qualcosa di più, di antico. Merito delle luci naturali, dei pescatori
comparse, dei volti di Vincenzo Amato e Francesco Casisa; ma soprattutto di Valeria Golino, in cui
si specchiano paure antiche e ansie contemporanee. Il discorso sulla pazzia e i suoi limiti viene riletto con narrazione compatta, che sfiora la maniera ma esprime un paesaggio d’anima.
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SOMMARIO
Attenti agli zingari........................................................................................................................5
Paure che mangiano l’anima........................................................................................................5
IL RAGAZZO DAI CAPELLI VERDI........................................................................................9
IL VENTO FA IL SUO GIRO....................................................................................................13
LA PAURA MANGIA L’ANIMA...............................................................................................21
EDWARD MANI DI FORBICE................................................................................................27
SCENE DI CACCIA IN BASSA BAVIERA.............................................................................31
BLADE RUNNER (DIRECTOR’S CUT).................................................................................33
RESPIRO....................................................................................................................................41
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